NOVELLE E LIRICHE
DI
FRANCESCA LUTTI.

GIOVANNI.
ROSA E STELLA.—MARIA.

LIRICHE.

FIRENZE
FELICE LE MONNIER.
1862.

NOVELLE E LIRICHE
DI
FRANCESCA LUTTI.

GIOVANNI.
ROSA E STELLA.—MARIA.

LIRICHE.

FIRENZE
FELICE LE MONNIER.
1862.

Pochi anni sono da questa tipograsia venne alla luce una novella in tre canti e in versi sciolti col titolo Maria, composta dalla signora Francesca Lutti: i savi estimatori la giudicarono bello esperimento di eletto ingegno, per la buona condotta della narrazione, per la ricchezza e vivacità delle immagini, per la verità del sentimento e degli affetti e per la eleganza dello stile: benchè fosse da qualche critico disapprovata la scelta dell' argomento. Non molto dopo comparve della medesima un' altra novella in ottave, nella quale più semplice è il racconto; ma vi spiccano i medesimi pregi, con questo di più che, rispetto alla forma esteriore, tu noti un progresso in quella cara semplicità che è la veste più gradevole degli affetti. Le due novelle tornano ora al pubblico nel presente volume unite ad alcune liriche, e precedute da un altro componimento di maggior lena, al quale l' autrice ha pure voluto dare il modesto titolo di Novella. A chi rettamente considera apparirà da tali componimenti la storia di una bella mente poetica che si educa al vero, e che studiando nel libro della natura e nei grandi esemplari aumenta il patrimonio della nazionale letteratura.

La signora Lutti, dotata di ricca fantasià, cerca nella verità i freni dell' arte, seguitando gl'insegnamenti dell' uomo insigne che ha spronato ed incoraggiato il suo ingegno, e nel quale ella stessa riconosce un venerato maestro. Certamente l' Italia, che ora si darà vanto di una nuova gemma poetica, crescerà il suo grato animo per Andrea Maffei; il quale, dopo avere colla splendida forma dei grandi scrittori resi nostri i tesori delle straniere letterature, ha sì egregiamente indirizzato a meta gloriosa la giovane sua concittadina. I consigli di lui fatti sicuri dalla esperienza, rimangono insegnamento per tutti in versi elegantissimi: studiare nella natura; rifuggire dalle stranezze incautamente pregiate all' età nostra; fare che il pensiero esca dall'interno animo chiaro, ben definito e ben rilevato; curare nella espressione delle immagini e degli affetti veri la difficile ma cara semplicità della forma, sapientemente imitando i poeti a' quali il tempo non scemerà mai nè la riverenza nè la gloria. 1 Vedi Versi editi e inediti del cav. Andrea Massei, tomo 1, pag. 29, 181, 182.

Io non ho in animo di qui dimostrare in qual modo la signora Lutti abbia seguitato i precetti: ognuno potrà farsene capace leggendo i componimenti della presente Raccolta; fra' quali a me pare soprastia il Giovanni. La novella poetica di argomento domestico è un genere nuovo per noi, mentre dal Sestini e dal Grossi abbiamo esempi bellissimi della storica. Da un fatto semplice e comune era difficile ricavare tanti episodi, ed intrecciarli per modo che tutti ben rispondessero e armonizzassero fra loro: nè facile al certo doveva essere la dipintura delle scene domestiche e degli usi de'campagnoli: eppure guardate con quale maestria sieno state vinte le difficoltà! Io quand' ho letto in queste pagine la descrizione delle cose esteriori fatte con signolare evidenza; quand' ho sentito nell' anima la parola di quell' affetto gentile e soave che più efficace parte dal cuore della donna, e quando ho veduto, quasi cogli occhi del corpo, tante belle e variate immagini, ho dovuto ammirare la fecondità dell' immaginazione e la rara forma dell' ingegno: ma quando ho notato certe sottili osservazioni che sfuggono alla maggior parte degli uomini, e veduto svelati alcuni segreti del cuore che non tutti conoscono, sono stato colpito da più alta meraviglia accresciuta poi dal pensiero che queste sono creazioni di una giovine inesperta, a cui la forza sola dell' intelletto, e direi quasi l' istinto, le ha suggerite.

Nella Maria, siccome ho accennato, la scelta dell' argomento non fu da tutti approvata, abbenchè all' autrice fosse inspirato da compassione generosa: ed in vero il sentimento delle umane infelicità si comunica stupendamente al cuore di chi legge, come sporgato dal profondo dell' anima. In Rosa e Stella si hanno due ritratti di giovenette; e i varii casi dipendenti dall' indole e dalla educazione diversa son giusto ammonimento a cercare nella costanza degli affetti e nella bontà del costume la vera soddisfazione della vita. Il Giovanni per il concetto s' innalza, e ci manifesta la immagine bella del sacerdote e del sublime suo ministero. Lo stile, massime in questo, fa testimonianza dello studio posto dalla giovane autrice nei sommi poeti italiani: se non che mentre noi vi troviamo la sapiente imitazione degli altri, ne appare una forma tutta propria e originale. Affettuose e gentili sono le Liriche: non finta la soave malinconia che le governa, perciocchè le deriva o dal dolore per domestiche sventure o dalla meditazione che le anime gentili fanno sulle vicende della vita.

Odo ripetere che questi giorni di grande commovimento corrano poco propizi alla amusa: io non credo vera la-sentenza, persuaso che la buona poesia, conforto soavissimo agl' intelletti in tutti i tempi, abbia sempre virtù di richiamare l' attenzione degli uomini. Solamente ci troviamo disgustati da un diluvio di versi poveri di concetto, e nella forma ritraenti il falso modo delle peggiori età. Quindi io non dubito che gl' Italiani faranno lieta accoglienza alle composizioni della signora Lutti, come quelle che amabilmente dilettando, inducono le menti al culto di cari e generosi sentimenti: e spero eziandio che la lode meritata non vincerà l' animo della giovane poetessa, e la spronerà maggiormente ad arricchire le patrie lettere, seguitando a coltivare in preferenza quel genere di novella da lei prescelto con tanto felici disposizioini.

Agenore Gelli.

Al tempo della battitura sogliono le montagnole delle nostre valli trentine mandare ai loro segreti amanti, raccolti nelle aje, il pegno d' amore, che consiste in un paniere pieno di piccoli doni, vuoi pezzuole ricamate d' emblemi amorosi, vuoi confetti, fiori simbolici, ed altre cose, al modo che si legge nel primo Canto. Questa ed altre usanze villerecce fornirono l' argomento alla mia novella, vera ne' suoi particolari, immaginata nel concetto generale; avendo io nello scriverla imitato il pittore che ritrae fedelmente ora un gruppo di piante, ora una rupe, ora un paesetto, e poi ne compone un dipinto di sua fantasia.

Se trovasse il lettore nelle umili persone che a lui presento, parole, sentimenti ed azioni conformi alla natura ed alla verità, e se da tutto il racconto si facesse palese l' intendimento morale che mi sono presisso, voglia cortesemente perdonarmi i non pochi difetti dell' arte.

Immortale pensier dell'alma mia Sorella! eri tu vita a questo core, E da quel dì che indarno ti desia, Mi si distrugge in tacito dolore. Se tu miri quaggiù. ben sai, Maria, Ch'io porto invidia a ciaschedun che muore; Che tutta ad un ricordo io m'abbandono, Nè mai presso ti fui quant' ora il sono. Emmi l'opra del tempo, in cui riposta Vien la fede vulgar, vôta parola; E sol perchè più sempre a te m' accosta, Mi è conforto ogni istante che s'invola. Delle terrene gioje ho già deposta La speme, nè gustarle io potrei sola: Lo sguardo sa che in ogni angolo vede Ciò che la desolata anima chiede. La breve illusïon d'umana gloria Coll'amor dello studio in me si tacque. Ma di troncar questa povera storia Mi stornava il pensier che non ti spiacque. Com' io l' offro alla tua cara memoria, Desio d'offrirla a te viva mi nacque; Ed or colle mie lagrime, o diletta. Pari a funereo fior da me l'accetta. Giorgio, antico villan, vede le spiche Già bionde, indizio di matura messe: Ond' ei le miete, e nelle parti apriche Le dispone, in manipoli commesse. E, corsi alcuni di, poi che le biche Aride ei trova, le raguna, e d'esse Carca più volte il carro, il braccio, il tergo De'famigli, e le reca al proprio albergo. La ricolta dell' anno ecco riposta. Onde la famigliuola s' alimenta, Mentre del verno la gelata crosta Copre lo stanco suol, che s' addormenta. Ma la dura stagion che già s'accosta Il provvido villan non isgomenta, Perchè sa che infallibile governo Tien del giro annuale il dito eterno. «La gleba (Giorgio in sè volgea) riposa Ora dalle fatiche; isterilita Mi appar, ma la vedrò, qual lieta sposa, Di novella bellezza rivestita, Poichè si desterà quella nascosa Prolifica virtù che a'germi è vita: Porterà nôve frutta, e di maggiori Doni darà promessa a' suoi cultori.» Questi lieti pensieri in petto accoglie; Pur lieto egli non è. Di pingue armento Piena ha Giorgio la stalla; e mai le soglie Della sua casa non toccò lo stento. Ha sigli vigorosi, ha buona moglie, E fu segno d' invidia a più di cento. Ma tale or più non è; chè d' una speme Tradita occulto affannc il cor gli preme. Onde or tace e sospira, ora la testa Reclina, in atto di dolor, sul petto; E la compagna sua d' un' aria mesta Velasi anch' essa, nè gli volge un detto. Pur s'apparecchia a casalinga festa Pel vegnente mattino il loro tetto. Chè all' ultima fatica, e più gradita, La messe adusta i falciatori invita. Sorge il colono a' mattutini albori, Nè la sola famiglia egli ha daccanto; Chè il dar cortese aita a que'lavori È de' buoni alpigiani usanza e vanto. Giocondi nell'aspetto i battitori Rallegrar l' opra sogliono del canto, Ed alle forti braccia è schermo vano La fragil buccia che racchiude il grano. Giorgio al figlio maggior, che Pier s'appella, Va gli avvisi iterando, onde sia monda E parata la casa; e la sorella (Luisa è il nome suo) pur lo seconda. Tristezza in Pietro appar, sebben di quella Che turba i suoi congiunti è men profonda; Chè ad ogni tratto gli balena in viso Di compressa letizia alcun sorriso. Ma la fanciulla, senza posa assorta Par tenga l' alma in affannosa cura. La voce del fratel non la conforta, Anzi il seren ne intorbida ed oscura. «Per colui, le dicea, che via si torta Batte, e l' orecchio ai buoni avvisi indura. Per colui che imprecò sulla mia testa. Sarai tu, mia Luisa, ognor si mesta?» «Pensa ch' egli è infelice, e che fu teco Fin dalla prima età cortese e buono.» —«Di' ch' ei s' infinse ognora, e troppo cieco Incontro all' arti d' un astuto io sono. Di tale offesa la memoria io reco, Onde mai non isperi il mio perdono.» —Oh t'inganni, fratel, non v' ebbe ei mente! Malvagio non lo dir, dillo imprudente.» Pietro, qual uom che fede altrui rifiuta, Tace, ed agita il capo, ed ella presso Alla madre si fa, che sola, e muta Palesa nei sembianti animo oppresso. All' orecchio le parla, e par renduta L'abbia alla speme quel parlar sommesso; E, per risposta all' amorosa figlia, Leva al ciel sospirando e mani e ciglia. Pietro di lor non cura, e già s' è volta Al padre suo, seduto accanto al foco. Lento a lui s' avvicina, e poi che il volto Del vecchio interrogato ebbe alcun poco, Pari a colui che s' è di dubbio sciolto, E ne stima opportuno il tempo e il loco, «Padre (così favella) a voi desio Segretamente aprir l' animo mio. «Già son maturi gli anni miei, nè taccia Di capriccioso da verun m'aspetto, Cedendo al cor, che vuole io satisfaccia Ad un antico, ben locato affetto. Infermiccia è la madre: ella di braccia. Amorose e robuste avrà difetto, Quando Luisa (nè lontana cosa V'accenno, padre mio) si farà sposa. «Esempio di saggezza è la fanciulla Ch'amo, e nell' opre femminili esperta. Benchè sin qui non ven dicessi io nulla, Che voi la indoviniate il cor m' accerta. Sotto povero tetto ebbe la culla, Ma dar non le possiam quant' ella merta: Chè porta di virtù si gran tesoro, Da non potersi pareggiar coll' oro.» E Giorgio corrugò la fronte antica: «Te pur mena l' amore a gran follia, (Diss' egli poi) se credi una mendica Possa mai vantaggiar la casa mia. S' incurva il genitore alla fatica, Ma ciò dal figlio di leggier s' obblia; E vorrebbe in un di, prodigo o stolto, Gittar quanto in vent' anni egli ha raccolto. «Se tale, che nomar potresti ancella, Padrona chiamerai nel tuo soggiorno, Come importun insetti, alla novella Sposa i parenti si faranno attorno; Ed alla casa sua, dove zittella Visse in disagio, non farà ritorno Senza che porti di nascosto a' suoi Gonna, cibo, o danar, sottratto a noi. «Erra il giudizio tuo, che vuol sia pegno La poverezza di virtù modesta. Cosa non v'ha che sia sprone o ritegno Per chi non ha sortito indole onesta. Serbò chi ti diè vita ugual contegno Sia che avessi la sorte allegra o mesta: E sai che provveduta di fortuna Più di questa è la casa ov'ebbe cuna. «Se non lo udissi dal tuo labbro, al vero Fede alcuna, t'accerto, io non darei. Ambo v'ha presi un laccio, e pur severo Giudice del fratel tu fosti, e sei. Una vaga sembianza, un lusinghiero Labbro ha torta la mente a'figli miei…» Qui Pietro alla costretta ira non pose Argine, e al padre suo cosi rispose: «Non più, non più, cessate! Io troppo intesi, Nè per consigli or sono apparecchiato. Ben diversa mercede inver m' attesi Del reverente amor che v'ho portato. Oh qual rimorso un di su voi non pesi D'entrambi i figli vostri il duro fato! Da voi la sorte lor, da voi soltanto Dipese, o padre, e li dannaste al pianto! «Ma pur v' obbedirò. Nome di nuora Voi non darete a tal che v' è sgradita. Sol della madre l' avvenir m' accora, A cui stata saria non poca aita. Così-non vedrà mai la sua dimora Di letizie domestiche abbellita, E indarno a sè d' intorno i cari aspetti Cercherà di crescenti pargoletti.» Padre e figlio ammutîr. Più d' una stilla All' afflitto garzone irrora il seno; Nè quel dolce pensiero in lui più brilla, Che parve in fosco cielo astro sereno. Qual uom, che dal proposto non vacilla, Ed a quelli d' altrui brama por freno, Fitti il rigido vecchio in esso ha gli occhi, E sembra quel dolor ben poco il tocchi. «Povera Caterina! Or di tua mano (Piero pensava) il don forse m'appresti, Rivelator di quel gentile arcano, Che mai col labbro dir non mi sapesti: Però che il vero amor ricerca invano La favella che altrui lo manifesti; Ma quanto dagli accenti io non sapea, L'occhi tuo mille volte a me dicea. «Stetti anch' io peritoso al tuo cospetto, Come far usa chi sè stesso oblia. Dal tuo perplesso verecondo aspetto Un timido riserbo in me venia. Pur se con franca voce io non t' ho detto Che proposto io m' avea di farti mia, Tu comprendesti il mio parlar coverto, Ed a piè dell' altar men festi certo.» Nè Pietro s'ingannava: amato egli era. Al par del suo, di Caterina il core Quella siamma nodria, viva, sincera, Fonte men di piacer che di dolore. Tocca degli anni avea la primavera La cara villanella; un vago siore, Un siore a cui benigno arride il sole, Benchè non figlio di superbe ajuole. Traeano in povertà dura e meschina Vita i parenti suoi, ma non dolente. L'amor che posto aveano in Caterina, Facea quelle due buone alme contente. Il parroco che in lei da fanciullina Pregi notati avea di rara mente, E sempre la vedea dell' altre in cima, Non finia di lodarla e farne stima. Giunta a matura età, furo in lei sola Raccolti i voti delle madri accorte. «Costei, dicean, che mite ha la parola, E alla bontà congiunge animo forte, Le siglie ne ammaestri, e nella scola Con efficaci modi al bene esorte. Abbian le giovinette esempio e sprone Da costei, di saggezza un paragone.» L'arduo sublime incarco ad essa imposto La fa d' un tratto e timida e pensosa; Pure il dolor di quel giogo nascosto Tien la fanciulla, e inobbedir non osa. Il contegno di giovine deposto, E dal seno e dal crin tolta la rosa, Gravità di maestra assumer tenta: Ma le allegre campagne ognor rammenta. Fatto suo nondimen l' altrui talento, La buona Caterina a sè promette Di por su retta via, da quel momento Che lor guida sarà, le fanciullette. E con fermo volere a questo intento Ogni pensiero ed ogni studio mette; A tal che di gradirle è viva gara In ciascuna di lor. Così l'han cara! Ma quasi un novo fior che pria nel velo Di sue foglie si cela, e a poco a poco, Animato dal sole, alza lo stelo, E fra lieti compagni acquista loco; Nè di turbini teme nè di gelo, Chè de'mali ignorati ei si fa gioco, Improvvido così crescea l'amore In quel giovane, ardente, ingenuo core. Occulto a tutti, e a lei medesma arcano, Nel suo petto ebbe amore il nascimento. Avvertir nol potea giudizio umano, Chè nol tradiva ancora occio od accento. Egli crebbe dappoi, tal che sovrano Fu d' ogn' altro pensier quel sentimento. Fide compagne sue, tema e speranza Nel cor della fanciulla ebbero stanza. Pier le diè cento volte aperto segno Che nudria fiamma ugual, sebbene ascosa; Pur lasciar nol vedea mai quel contegno Di chi vorrebbe, ma cercar non osa. Gli era il timor di suo padre ritegno A chiederla ai parenti, e farla sposa. Incertezza gran tempo il tenne muto, Poi quando a lui parlò, n'ebbe un rifiuto. E mentre ciò seguia fra padre e figlio, Coll' amorosa giovine ristretti Stanno i vecchi parenti ad un consiglio, E gravi, irresoluti hanno gli aspetti. Ella, infiammata il volto e china il ciglio, Parla ed avvisa, e par biasmo ne aspetti. Alla proposta sua son quegli intesi, Ambo fra il niego e l'affermar sospesi. È delle nostre valli usanza antica (Nè l'ha posta il bifolco in abbandono) Quando di batter grano alla fatica Congiunti e amici ragunati sono, Ad un di questi la segreta amica Con amabil mistero appresta un dono, E a'primi raggi che saetta il sole, Un garzoncello a lui recar lo suole. Il panierin che tal dono comprende Con festevoli grida ognuno accoglie, Il signor della casa in man lo prende, E fasciatolo pria di rosse invoglie, Al chiovo, o al trave d'un balcon lo appende, E soltanto alla sera indi lo toglie. Non tiene il villanello avventurato Tutto che vi si chiude altrui celato. Di molti oggetti, e non d' una sol cosa Si compone il presente. Ognun presume Indovinar la donatrice ascosa, E ne loda il bel viso e il bel costume. Sol l'amato garzon, fra la gioiosa Turba, un contegno taciturno assume. Dolce, chiara del dono è la favella, Ed i dubbj d' amore in lui cancella. Or l'avviso paterno ella richiede Se porre a prova tal debba il suo Piero. «Il mic core, dicea, confida e crede Ch' ei m' ami d' un amor caldo e sincero: Ma invece l' occhio mio mal certo il vede, Nè chiarirlo mi lascia un senso altero. Temo che a' suoi (non giova ch'io vel taccia) Troppo la nostra povertà dispiaccia.» E a lei la madre: «Il tuo labbro riveli Onde hai tu questa fede, o l' argomenti. Se cosa che notasti a noi tu celi, Nel partito saremmo incerti o lenti. Nè vergogna importuna il dir ti veli, Chè t' odono soltanto i tuoi parenti.» A quest il vecchio aggiunse: «Il ver consiglia La madre; orsù favella, amata figlia.» E Caterina allor: «V'è noto quanto Affetto, da' prim' anni, ei n'ha dimostro. Godea non solo, ma traeane vanto, Quando amico il chiamava il labbro nostro. Spesso l' udiva io dir:—Se il corpo infranto Non ebbi un di, lo deggio al padre vostro. Bambin, con suo periglio, egli m ha tolto Da una ruina che m' avria sepolto.— «Io d'un fraterno amor non ho concetto; E stimai quello che per lui sentia. Ma quando ad esso comparai l' affetto Della Luisa, oh quanto differia! L' uno e l' altro fratello è a lei diletto, Nè sa qual più vicino al cor le stia. Amor diviso è il suo, placido, pio; Unico, ardente, irrequïeto il mio. «Pur, mel credete, osato io non avrei Levar la speme alle sue nozze. Un giorno, Pier s' offerse improvviso agli occhi miei, Mentre io fea dalla scola a voi ritorno. Il suo caro saluto io gli rendei. —Oh felice quel di che al mio soggiorno Il tuo piè fermerai!—mi disse allora Ch' ei mi vide accostar questa dimora. «Confusa io mi tacea. Per qualche istante Anch'ei muto rimase, e poi:—Rispondi, Caterina! (ei riprese). Il mio costante Tenero voto cosi mal secondi? Fra speranza e timor tu vacillante Mi vedi, e il tuo pensier pur mi nascondi?— Dalla risposta mia mal conosciuta Pietro m' avrà. Deh stata io fossi muta! «Qual cor per me gli batta, in quella trista Sera io conobbi, che insensati accenti Giovanni osò drizzarmi. Al duol commista Spiravan gelosia quegli occhi ardenti. Nè sol contro al fratel, ma bieco in vista, Di questi ei mi feri detti pungenti: —Esser non può che tanto ardisca, io penso, Chi non n'abbia il diritto, o il muto assenso.— «Nel giorno appresso, mal frenando il pianto, Piero mi si accostò.—Che vuoi? che brami?— Io gli richiesi; ed egli a me:—Soltanto Rendimi certo che il fratel non ami. Perdona, Caterina. Oh non sai quanto Mi può far questo dubbio i giorni grami!— —Piero, soggiunsi a lui, ben altro affanno Le tue parole, i modi tuoi mi danno.— «Madre! ricordi tu quella mattina Che noi sorgemmo entrambe frettolose, Per veder Rita la nostra vicina Muovere al tempio, e porsi fra le spose? Pier s'appressava a noi.—La rosa alpina, Che più bello ha il color dell' altre rose, (Sommesso ei mi dicea, guardando Rita) Vo'che tu cinga al semprevivo unita.— «Ed io che d'un ardire inusitato Pieno il cor mi sentia, risposi tosto: —Il voler de' congiunti hai rivelato? Non ha tuo padre a questi nodi opposto? Il nostro disuguale umile stato Tenea questo pensier da me discosto. Or poi che germinarlo in me ti piacque, Non far ch'io dica un giorno: invan ci nacque.— «Turbossi a quel mio dir subitamente, E risponder parea; se non che al rito Diessi in quella principio, e dalla gente Che affollava l' altar venne impedito. Io poscia dubitai che il diffidente Linguaggio mio gli avesse il cor ferito, E d' esserne chiarita ognor bramai; Ma da quel giorno in Pier non mi scontrai.» Qui Caterina al suo parlar fe sosta E il padre favellò: «Che bene accetto Sia da lui l' amor tuo, che corrisposta Tu vegna, m' assecura ogni tuo detto. Veggo che intera fede in lui riposta Non hai, chè di promessa ei non t' è stretto. Pur inganni da Pietro io non pavento, Nè ti sconsiglio il dono, anzi il consento.» Come fanciul che timido e perplesso, Gioco o trastullo al precettor richiede, E se, fuor d' ogni speme, è a lui concesso, Senza punto indugiar dilunga il piede; Però che il dubbio, e il pentimento espresso Su quel volto accigliato egli già vede; Caterina così, poi che raccolse De'parenti l' assenso, a lor si tolse. E la madre aggiungeva: «Or mi rammenta; Sendomi coll' aurora un giorno desta, Vidi a qualche lavor la figlia intenta, Che tosto mi occultò confusa e presta. Su lei, più che solea, mi tenni attenta, Ma di quanto io notai non l'ho richiesta; E paga ne son io, poi ch' ella stessa, Senza nostra ricerca, or lo confessa.»— Le cose intanto la fanciulla aduna, Che in vigilie compia lunghe e segrete. Ma perchè nube di tristezza imbruna Quelle care sembianze, or or sì liete? Ella si duol che misera fortuna D'offrir dono migliore a Pier le viete; E con tale pensiero il cor martella, Nè cosa che apprestò le par più bella. Che ne saranno giudici i congiunti Del suo Piero ben sa, nè spera lodi. Ella candidi lini avea trapunti, Col nome dell' amato in varii modi; E due cuori feriti, insiem congiunti Teneramente d' amorosi nodi. Indi i suoi premii, immagini, corone, Null'altro possedendo, insiem vi pone. Orna il panier, che mette a piè del letto, Di simbolici fior da lei raccolti. È il veder per lo buio a lei disdetto; Pur sempre ove lo pose ha gli occhi volti. E di scegliere avvisa un fanciulletto Cauto, ed in cui più fede abbia, fra molti, Che, venuto il mattino, apportatore Vada a Piero del don, pegno d'amore. De' raggi primi la novella aurora (Purpureo vel) la terra avea coperta. Qual vergine che in volto s' incolora, Se parola d' amor le vien proferta, Quando, trilustre giovinetta, ignora Questo fervido affetto, o n' è mal certa; Pur lo presente, e desiar lo suole Più che giovane arbusto i rai del sole. Di quell' ultime stelle il lume or brilla, Che da luce maggior vinte non sono. È squallido l'aspetto della villa, Nè voce s' ode, nè campestre suono. E tace tuttavia la sacra squilla, Consueto richiamo al pio colono Che all' opra sorge, ma prima dal core Manda i prego e l' affetto al Creatore. In quel silenzio una femminea forma, Racchiusa in bruno velo, erra soletta. Il capo spesso addietro volge, e l' orma Or timida rallenta, ed or l' affretta. E benchè tutto a lei d'intorno dorma, Pur manifesto appar ch' ella sospetta. Scorre più vie. Procede alfin secura, Chè del villaggio abbandonò le mura. S' avvia per un dirotto aspro sentiero, Che da folti roveti è fiancheggiato. Al piede è un bosco, per grand' ombre nero, Che brev' ora dal sole è rischiarato. Ivi siede un garzon d' aspetto altero, Nè fra que'monti lo diresti nato. Ei sempre a quel sentier volti ha gli sguardi, Chè la vista d' alcun par che gli tardi. Subito che il garzon la donna scorge Venirne alla sua volta, il ciglio schiara; Dal loco ove sedea d' un tratto sorge, Ed allegra accoglienza a lei prepara. Le corre incontro, la mano le porge, E quei saluti, che aspettata e cara Venuta al labbro inspira, ei volge a quella, Che gli risponde con dolce favella. Chi, se costui mirasse in tale istante. Giovine innamorato nol diria? Ma l' uman senno, quante volte e quante, Per giudicio sollecito travia! Un caldo affetto si, ma non d' amante, Ivi il passo traea di quella pia. Dagli stessi parenti, e sotto un tetto, Nacque e crebbe con lei quel giovinetto. A Giorgio egli era figlio, a Pier fratello; E come albergo di pace e d' amore. Venne un tempo additato il loro ostello. Or Piero, pel fratel, mutato ha il core; E da sè lo cacciò, poi che rubello Si fece a' suoi voleri, il genitore. Sol la madre, e Luisa, ognor presente, Con doloroso affetto, hanno l' assente. Giovanni (ei tal si noma) ebbe il natale Un lustro quasi dal fratel discosto. Di senno e di beltà molto prevale, E sempre, e in ogni cosa è a lui preposto. Ma della mente il don poco gli vale, Anzi per segno a mille guai l' ha posto. Giorgio ne superbisce, e far disegna Di quel figlio al Signore offerta degna. Mosso, se altrui favella, ognor si dice Da sì lodevol zelo il vecchio accorto. Gli è con animo retto aiutatrice La moglie, e all' opra pia gli dà conforto. Ma diversa, nè santa, è la radice Onde questo pensier nel padre è sorto. Parla del Ciel, ma iniqua è la menzogna, Chè terrene dovizie ei solo agogna. Sa qual legge apparisca a note chiare D' un antico congiunto entro lo scritto; Che sol quando consacrasi all' altare Un della casa, a pingui campi ha dritto. D' onesta tempra egli è, ma pur d' avare Voglie si pasce, e fôra ei troppo afflitto Di perdita si grave. «Il mio Giovanni, Pensa, a ciò destinai fin da'prim'anni.» Or tiensi Don Luigi, un suo germano Minor, da sette lustri il pio retaggio. Ne coglie i frutti con ingorda mano, E nessun, fuor di lui, può farne saggio. «Pur troppo il tempo non sarà lontano (Egli pensa talor) del mio passaggio; E lasciar colla vita ogni terreno Bene io dovrò! Da' miei non parta almeno. Quindi del fratel suo, con grave detto, Il devoto proposito avvalora.— Bello, intanto, e gentil come angioletto Cresce Giovanni, e il suo destino ignora. Ben sa che gli è un cammin dal padre eletto, Ne potrà, se gli spiace, uscirne fuora. Vede che al fratel suo nol farà pari, Ne vuol che l' opre del colono impari. Vede che a por la mente ognor lo esorta Di parrochi e maestri alle dottrine; Che severo lo guarda, e non comporta Che ai giochi fanciulleschi ei troppo inchine, E gli ripete: «Un giorno; altrui di scorta Sarai, poi che nascesti ad alto fine.» E vuol che da' congiunti abbia i riguardi Di chi lor debbe sovrastar più tardi. Crebbe senza ripulse e senza schermi Nell' alma giovanil quel sentimento, Che gitta in ogni core infausti germi, E ingigantisce allor ch' abbia alimento; Poscia nutrendo vien gli spirti infermi Di breve gioia, e di lungo tormento: L' orgoglio intendo, che tien l' uomo oppresso, Quand' ei più crede dominar sè stesso. Vantar la mente sua, qual raro dono Del cielo, il giovinetto ognor sentia, Tal che degno è di scusa e di perdono, Se nel chiuso pensiero inorgoglia. Pur l' animo serbò sincero e buono, Nè mai volse l' ingegno ad opra ria; Però solo ai congiunti ei non fu caro, Ma compagni e maestri assai l' amaro. Giunto ai due lustri era Giovanni, quando Giorgio a lui s' avvicina, e, dolce in vista Più ch' esser non solea, gli dà comando Tal, che molto il consola, e molto attrista. «Gianni, gli dice, alla città ti mando, Ove il tesoro del saver s' acquista. Senza dolor non t' allontano, o figlio, Ma brama del tuo ben mi dà consiglio. «Or che diritto giudicar tu puoi, (Che sei di senno più che d' anni adulto) L' avvenir tuo, che darà gloria a noi, Non vo', sigliuolo mio, ti resti occulto. T' abbia il Signore fra' ministri suoi, Vigili all' opre benedette e al culto; E degno successore un di sarai Di don Luigi, ed agi, onori avrai.» Il voler di suo padre ascolta, e tace Attonito il fanciullo. Assai lo alletta L'andarne alla città, nè men gli piace Prendere un seggio che sugli altri il metta. Ma di lasciar la madre in un gli spiace, Piero, e la suora a lui tanto diletta; E sta dinanzi al padre, umile e muto, Chè loco non avria prego o rifiuto. Bagna la madre, ma rasciuga il ciglio, Chè vuol, benchè non sia, parer serena. E nel semplice cor si fa ripiglio Pur di quel senso di segreta pena; Però che vede il suo tenero figlio Per lo cammin che al Ciel diritto mena, E malvagio o demente a lei parria Chi lo stornasse dall'impresa via. Abbandonata la nativa soglia, Si avvia col padre al suo novo soggiorno. È la stagione in cui l' albero spoglia Quel verde manto che lo fece adorno. Ma ricoperto tuttavia di foglia Lo rivedra Giovanni al suo ritorno; Poichè all' alunno, per usanza, è dato Riposar qualche tempo ov' egli è nato. Bentosto ei s' accostuma alle novelle Dottrine, e in esse l'intelletto pone. Quanto pe' suoi compagni ardue son quelle, Tanto più d'arrivarvi è in lui lo sprone. Con lena ognor crescente, alle favelle Di Tullio egli si mette e di Platone. Ogni cosa che ottenga gli par poco, Se fra tutti non tiene il primo loco. Ver la terra natia rivolge il piede Sul finir di quell' anno; ed ai parenti Con aria baldanzosa offre le schede, Che ne dicon gli studi e i portamenti. Ciascun con allegrezza lo rivede, E di lode e d' amor gli drizza accenti. Due lieti interi mesi ivi soggiorna; Soletto quindi alla città ritorna. Così l' ottava volta alla paterna Casa egli viene, e poi se ne diparte. E nel loco si chiude, ove l' eterna Luce è diffusa, che illustrò le carte. Ma tôchi ha già quegli anni, in cui governa La fantasia del core uman gran parte; Talchè di gravi studi ei non s' appaga, Ma d' altre cose la sua mente è vaga. Sol brama quanto a lui non è concesso. E vietati volumi ei cerca e ottiene Da un giovinetto, già compagno ad esso, Che di frequente a visitar lo viene. Su quei libri la notte ei veglia spesso, Nè immagini vi trae miti e serenè, Chè per matura età, saggia od accorta, Non è già quella man che glieli porta. Nell' erma cameretta, al raggio fioco Che un lumicino intorno a lui dispensa, Gli si schierano innanzi a poco a poco I destini dell' uomo, e al proprio pensa. Di fortuna esser pargli amaro gioco, E rossore ne prova, e doglia intensa; E quanto prima egli ebbe in pregio, or sente Che avverso gli divenne, o indifferente. «Perchè, dicea, se può ciascun mortale Scegliere il suo cammino, a me fu imposto? Per l'inesperta età non seppi a quale Volgeami il padre, nè mi sono opposto. Ora, avvegna che può, sia bene, o male, Lascerò questo calle ad ogni costo. E grazie al ciel, che a tempo m' ha schiarato, Tal non essere il fine a cui son nato.» Perocchè, quel potente innato amore, Che s' infiamma ognor più se gli contrasti, Creder gli fa che invitto egli abbia il core, Per qualunque sventura a lui sovrasti. Dico la libertà, che può furore Farsi, nè senno, nè ragion che basti Ha l' uom per moderarlo, e fin l' istinto Dell' esistenza da tal forza è vinto. Ma la interna amarezza, altrui segreta, Con ipocrita larva, ognora ei serba. Chieder consiglio, e dir che soffre, vieta Alla sua lingua un' indole superba. Mostra la fronte baldanzosa e lieta, Mentre lo rode in sen la cura acerba; Talchè argomenta ognun ch' ei sia felice, E sacerdote egregio in lui predice. E come ritornar d' estate ei suole Ove trasse i primieri anni sereni, A' suoi congiunti aprir l' animo vuole, Pria che perpetuo voto l'incateni. Ma gli sguardi del padre alle parole Che vorrebbero uscir son duri freni, E al sol pensiero d' un contrasto ei trema, Onde avrebbe e cordoglio ed onta estrema. La madre al suo proposto egli apparecchia, Ma con tremante ed accorata voce. «O figliuolo, dicea la buona vecchia, Figliuolo mio, fa' il segno della croce: Nella virtù di qualche pio ti specchia, E tosto il tentator n' andrà veloce. Or di costanza più che mai ti giova L' animo armare, e vincerai la prova.»— S'involano frattanto i mesi e gli anni. Al benedetto asilo ancor ritorno (È l' ultimo cammin) dee far Giovanni; Ma colà sarà breve il suo soggiorno. Con segni d' allegrezza i suoi tiranni Veggono avvicinarsi alfin quel giorno, Onde certi saran che i pingui colti Più non verranno alla famiglia tolti. E Don Luigi, impronto consigliero, Sta del futuro sacerdole a fianco: Par che la dignità del ministero Delle umane dovizie ei pregi manco. Giovanni dal suo dir lunge ha il pensiero, Ma pur del cinguettio l' orecchio ha stanco. Sebben metta a sfuggirlo ognor l' intento, Daccosto ei se lo trova ogni momento. Benchè Luisa e Pier molto abbia cari, Aprirsi egli con lor non ha voluto. Chi sa come al desio sarebbe impari La forza in essi nel prestargli ajuto! Del padre ora comprende i sensi avari, Ne conosce il pensier cupo ed astuto. Prego o minaccia con tal uom non giova, Nè v' ha poter che dal suo fin lo smova. E, ciò che fanciulletto amava tanto, Gli è sorgente di noja. Or s' accompagna Spesso nell' opre e nell' allegro canto A Piero, buon cultor della campagna. Del lavoro inusato il braccio ha franto, Pur vi persevra, e mai non se ne lagna. Segno di maraviglia a chi lo vede, Chè novo esempio d' umiltà lo crede. Così, benchè nudrita abbia la mente, E forti, generosi in cor gli affetti, Usa ne' dì vestivi andar sovente In compagnia d' incolti giovanetti, Che lo schivano in pria, ma sottilmente I costumi ei ne imita, è i rozzi detti, Talchè gli danno alfin nome di duce, Nè pel cammin del saggio ei li conduce. Quel bizzarro contegno assai sconforta La madre, ed al marito ne ragiona. Quei n' ode il favellar con faccia torta, E di rigor soverchio l' accagiona. Che il figliuolo obbedisca al padre importa, Non già ch' ei batta via malvagia, o buona. «Del foco giovanil non temo i moti (Dicea); lo ammorzeranno i sacri voti.» Un di, caduto il sole, era co' suoi Compagni di piacere a desco assiso. Uno di questi prese a dir: «Da noi Sarai tu dunque in breve ora diviso? Perchè libera vita aver non puoi, Nè dee piacerti d' una bella il viso? Crudele è invero, o scemo di ragione, Chi tanto sacrifizio all' uomo impone.» D' ira avvampò Giovanni. «A chi m' appella Schiavo, o sospetta pur ch' io tal mi sia, E crede che il sorriso d' una bella Mai non debba allegrar la vita mia, Mostrerò che insensata ha la favella, O mentì per invidia o per follia. Con libero voler cinte mi sono Le sacre vesti, e stanco or le abbandono. «Convincervi potrò, se mi seguite, Che questo ch' io vi dico è cosa vera. Stanno nella mia casa, a veglia unite, Madri, spose, fanciulle, in questa sera. D' una, che le sembianze abbia gradite, Voglio a' piedi depor la vesta nera. Mi biasmino i congiunti, a suo talento Mi sia contro ciascun, non mi sgomento.» Quindi, perchè desia non gli si faccia Rifiuto «Mi seguite» egli riprese. E l' allegro drappel (messe le braccia L' uno nell' altro) sulla via discese. Giovanni cominciò, travolto in faccia, Una canzon che da' compagni apprese; E questi eco gli fan con alte grida, Mentre al tetto paterno è lor di guida. Ecco la casa. «V' indugiate un poco Qui sulla via,» lor dice; e monta, al lume D' un zolfino, le scale. Ognun del loco Nella stalla sedea, com'è costume. La sua camera egli apre, e scema il foco Che pur or lo infiammava: e men presume: Tal che nova incertezza i cor gli preme: Smetter vorrebbe, ma lo scherno teme. Questo solo timore in lui ridesta L' audacia prima, nè più dubbio pende. Indossa un giubboncin, che suol di festa Piero vestir, poi dalle scale ei scende. Un ritondo cappello adatta in testa, Che pari in tutto ad un villan lo rende. Lo applaudono gli amici; al sen lo stringe L' un dopo l' altro, e muto ei li respinge. Si ravviano al ritrovo. Il sito schiara Un lumicin, ma debole e confuso. Ivi giovani e vecchie, ad una cara Gioconda intimità raccoglie l' uso. L'una le vesti al suo bambin prepara; Sta questa all' ago intesa, e quella al fuso. Son quei del miglior sesso ad altro intenti: Chi lega insiem granate, e chi sermenti. Siede Giorgio nel mezzo. Alla memoria, Di mano in mano, rivocando ei viene Un' oblïata paurosa storia, E converso l' orecchio ognun vi tiene. D' esser buon narratore egli si gloria; Nè mai ciglia il vegliardo ha più serene, Come quando racconta a quei villani, Avidi d' ascoltarlo, eventi strani. «Visse già (cosi narra) un vecchio avaro, Che solo in arricchir ponea la mente. Il guardato tesoro egli ebbe caro Più d' una sua figliuola assai piacente. Ma l' oro ignote mani a lui rubaro: E' si fe per dolor quasi demente. Piange, freme, bestemmia il ciel, la terra, Poco si ciba, e mai ciglio non serra. «Arriva uno straniero alla sua porta, Che par dal cammin lungo afflitto e stanco. Ha cortese favella e fronte accorta, Nè molti anni palesa, ancor che bianco. —Ti darò l' oro tuo (così conforta Il signor della casa); e se ti manco, Nè dimani il rapito oro io ti rendo, Uccidermi tu puoi; non mi difendo. «Ma quando il prezzo, che ne chieggo, aperto T'avrò, di botto satisfar mi dei. Quello che ne dimando, e bene il merto Per tal favor, la mano è di costei.— E additò la fanciulla.—Io ten fo certo; Lascerai la mia casa insieme a lei. Ma se in premio la vuoi dell' oro mio, Fa' tu ch'io l' abbia, e poi vanne con Dio. «Arrossava la figlia e impallidia. —Padre! ti regge il cor che per denaro Ad un vecchio stranier venduta io sia? L' oro più del tuo sangue hai dunque caro? Perchè viva non è la madre mia, Nè mi provvede il ciel d'altro riparo!— Così piangea l' afflitta, e il suo cordoglio Mover quasi parea quel duro scoglio. «E il pellegrin:—Già troppo io m'indugiai: Da quante è il nodo che tu sprezzi ambito, Malaccorta fanciulla, un di saprai. Vecchio; se in quel forzier tu metti il dito, E vi chini lo sguardo, apprenderai Come la lingua mia non t' ha schernito.— Figge l' avaro nel forzier le ciglia, E cede al pellegrin la propria figlia. «Ma questi: Il patto nostro esser può vano, Qualor non dia nè tenga a me la fede Che su quell' arca non porrai la mano, Se prima un cenno mio non tel concede.— La notte ra già corsa. Ecco un estrano. —Che rechi tu?—I' avaro a lui richiede. —Vengo a sciorti le mani: a tuo talento Apri la cassa; è tuo quel che v'è drento.— «Ei l' apre, e che vi trova?…oh meraviglia!…» E proseguia, ma gli troncò gli accenti, E lui non pur, ma tutti ivi scompiglia, L' apparir di que' giovani impudenti. Sbigottita, confusa è la famiglia, Nè v'ha chi primo a favellar s' attenti. Giovanni intorno a sè lo sguardo gira, E mostra più dolor che sprezzo od ira. Quando un audace suo compagno il braccio Presogli, ad una bella lo avvicina Soffiandogli all orecchio: «Ha cor di ghiaccio Chi rifiuta un omaggio a Caterina.» Giovanni, come l' uom che trar d' impaccio Tosto si vuol, le parla, e le s' inchina: «Bella! così il tuo cor risponda al mio, Come al collar turchino io dico addio.» Attonita, confusa e spaventata Ne ascolta il favellar la giovinetta; Chè più meravigliosa e inaspettata Vien la vicenda a chi nulla sospetta. L' uomo da cui credea che seguitata Fosse di Cristo la scola perfetta, Con si novo linguaggio or le si accosta? Essa lo guarda, e non gli fa risposta. Ma verso lei, qual natural custode, Sollecita la madre il passo ha vôlto. Sollevarsi un bisbiglio intanto s' ode: Dipinto è lo stupore in ogni volto; E chi l' orecchio avvezzo ebbe alla lode, S'intende ora nomar reprobo e stolto. Disperato l' aspetto è della madre, E terribile appar quello del padre. Pur Giorgio al simulare ha l' alma avvezza, Ed assale il figliuol con tal rampogna: «Brutta, Giovanni, è in ciaschedun l' ebbrezza, Ma voi ricopre di maggior vergogna. Con veri e novi esempi di saggezza Far che noi l' obbliamo a voi bisogna. Possa il ciel perdonarvi, e l' opra ria Non sappia chi punirvene dovria.» «La divulghi la fama: a me che importa?» Ma lo interruppe il padre, e minaccioso «Esci tosto, gridò, da questa porta, E corcati, chè d'uopo hai di riposo. Te più la vista mia qui non sopporta; Nè quest' abbietto stuol, che fu tant' oso Stuol delle case altrui perturbator. Va'con esso, e t' invola al mio furore.» Non rispose Giovanni: a questo altero Lunga tenzon col padre ivi dispiacque. All' uscir della stalla ei cerca Piero, Chè solo de' congiunti egli si tacque. Ma con sembiante più sdegnoso e fiero Non si volse al fratel chi primo nacque Quando levò su lui mano omicida, Come Piero a Giovanni, e «Parti!» ei grida. Qual fu la rabbia e lo stupor non dico, Che Giovanni senti destarsi in petto. Ei fu prima al fratel verace amico, E Piero ne cercò sempre l' affetto. Anzi trarsi per lui da grave intrico E suo padre piegar facea concetto; Ma dato cenno non aveane ancora, Talchè dell' amor suo Giovanni ignora. Acerbe voci di dolor, di sdegno, Uscir dal labbro de' fratelli. Impreca L'un contra l' altro. Di ragion ritegno Non ha quell' ira forsennata e cieca. Di trista meraviglia entramoi segno Sono a ciascuno. Alfin la fronte bieca Del padre d' acquetarli è ancor possente. Congeda egli dappoi l' accolta gente. E Giovanni parlò, quando da tutti Sgombro il loco si fu: «Di tal natura Dovean dell' opre vostre essere i frutti, Chè a lunga tirannia l' alma non dura. So che avari disegni or son distrutti, Perchè tratta mi son la veste oscura…» Ma sollecito il padre il dir ne taglia, E così corrucciato a lui si scaglia: «O stolto cianciator, che dir mi vuoi? Quando imposi a' miei figli una catena? Chi leggere potea ne'pensier tuoi? Quai segni desti mai d' occulta pena? Franco dovevi favellar con noi, Anzichè farci altrui favola e scena. Un vile, un mentitor dunque tu sei; Scostati, e ti sottraggi agli occhi miei.» Giovanni non attese altra parola, E muto e dispettoso ei si partia. Inosservata da' congiunti, e sola, Luisa lo raggiunse in sulla via; E coll' accento che il dolor consola, L' amorosa da canto gli venia. Speme di ricondurlo in mente accolse. Ma da lei troppo ratto egli si tolse, E il paese lasciò. Nell' incertezza Ciascuno rimanea del suo cammino. Alla povera madre il cor si spezza, A funesti presagi ahi! troppo inchino. Diversa nel marito è la tristezza; E, qual nero fantasma, a lui vicino Vien Don Luigi, che la bianca testa Va scotendo talora in aria mesta. In lui pure il dolor radici ha messe, Nè speranza le sterpa o le dirada. Luisa, nel mattin che il di precesse Destinato a sgranar l' accolta biada, Esultando alla madre un foglio lesse. Giovanni le scrivea: «Se pur t' aggrada Vedermi, al vicin bosco occultamente Vieni al primo albeggiar del di seguente.» E già sopra io narrai ch' a' primitivi Raggi di quel mattino ella sorgea; E trepida alla selva i piè furtivi, Come il fratello le indicò, volgea. Ella vi giunse inavvertita; ed ivi L' infortunato giovine scorgea, Che, lieto in vista, ad incontrarla mosse; E l'anime d' entrambi eran commosse. Dopo i primi saluti: «Oh fratel mio (Con atti ella dicea d' amor ripieni) Credi, al perdono non sarà restio Il padre, se pentito a lui ne vieni; Stenderà sul passato un vel d' obblio Se tu parli al suo cor, per fermo il tieni: Nè cagion di si lungo amaro pianto Alla madre sarai che t' ama tanto.»— «Il pensier della madre assai m' accora, Ma lo sdegno del padre io non pavento; L' abitar col fratello una dimora Mi sarebbe insoffribile tormento. Mi sta confitto nella mente ognora Qual parola ei mi disse, e in qual momento; Ed io cieco dappria molto l' amai, Nè stretto a chi m' opprime il sospettai.»— «Giovanni, ignori tu com' egli offeso Da te venia? Non ti se' dunque accorto Che dell' amor di Caterina è preso? Quella buona fanciulla è il suo conforto. Oh credimi, fratel, t' avria difeso L' amorosa sua voce a dritto e a torto! Deh, perchè mai la tua stolta favella, Fra tante giovinette, hai volto a quella? «Povera è Caterina, ed un divieto Temea Piero dal padre. Intercessore…»— «Cessa, cessa; t' intendo: egli ama, e lieto, Beato egli è di corrisposto amore. E perchè mel tacea? Ma tal decreto Pel suo caro fratel formava in core: Gli siano i gaudi casalinghi ignoti, E, vecchio, pensi ad arricchir nipoti. «E per lui, viva il cielo! è buona scusa…»— E Luigia: «Deh taci, oh sciagurato! Non sai di quale ingiusta infame accusa Contro il proprio fratel ti sei macchiato? Perchè breve colloquio a lui ricusa L' animo tuo di fele abbeverato? E fuggendo da' tuoi come un codardo Malfattor, ti nascondi ad ogni sguardo.»— «Di' pur ch' ei venga, se parlar mi brama, Chè non m' ascondo io già, come tu dici. Or troppo io vi conosco: alcun non m'ama Di voi; son del mio sangue i miei nemici. Voi tutti vi legaste in una trama; Chè nè pietà nè amore hanno i felici; Ma non godrete del vedermi oppresso: È l' uomo, se lo vuol, scudo a se stesso.»— «Giovanni, ogni memoria hai tu smarrita?» Ripigliò singhiozzando la sorella; E volea proseguir, ma fu impedita, E le morì nel pianto la favella. Già la vetta de' monti appar vestita Del raggio che i coloni all' opre appella; E perchè qualche impronto a quella posta Col fratel non la trovi, ella si scosta. «Ferma, Luisa, ascolta!» ei grida invano Mentre uscir la vedea dalla foresta. Seguitarla vorria, ma colla mano Essa gli fa divieto, ond'ei s'arresta. Pur quanto l' occhio può mandar lontano, Ne seguita il cammin con faccia mesta. E già molto sull' anima gli pesa, E lo strazia il dolor d' averla offesa. «Un'ingiusta condanna a me sfuggia, Ingiusta, anzi crudele oltre misura. Angel consolatore a me venia, E risposta ella n'ebbe ingiusta e dura. Qual utile, qual pro le frutteria Se traessero a fin la lor congiura? Certo per me sofferse e soffre assai, Ed ora in guisa tal la rimertai! «Ed ancor soffrirà, se alcuno avvisto S' abbia che volse a me l' orme furtive.» Quest' ultimo pensier lo fa sì tristo, Che mente e ciglia di baldanza ha prive. Tratte carta e matita, ond' è provvisto, Siede sul tronco d' una pianta, e scrive: «Deh cruccio non serbar per quanto ho detto! Domani alla medesma ora t' aspetto.» Poscia egli s' alza, ed al vicin paese Lento si volge, e men turbato in core; Abbattersi egli spera in un cortese, Che gli sia di quel foglio apportatore. Del bronzo, nunzio del mattin, già scese Lo squillo in lui qual nota di dolore. Guarda, come straniero, i monti e l' acque Ond' è cinta la terra ov' egli nacque. Della passata vita i di ricorda, E contro il fratel suo più cresce l'ira. Non vede in esso che un' anima ingorda, Sempre e solo conversa a bassa mira. Ogni prova d' amore, o svisa, o scorda, E cagion di più forte odio ne tira. Poi rammenta l' estremo atroce insulto, Nè pace spera finchè resti inulto. Segue la giovinetta il suo cammino Per la via malagevole e deserta. Pensosa ella procede a capo chino, E teme ad ogni istante alcun l' avverta. Fitte sorgon le nebbie del mattino, Che velano ogni cosa o fanno incerta; Nè pare ancora lo splendor che l' ombre Dal sentier della giovine disgombre. Giunge al povero letto, e sulle soglie, D' udir nova del figlio impazïente, Con dimande affrettate la raccoglie La madre; ed ella per pietà le mente. Poscia, indossate più ruvide spoglie, Nell' aja romorosa, ove il frequente Battere si confonde a canti, a risa, Col pasto mattutino entra Luisa. «Non venitemi presso, o villanelle, (Così delira la superba Alina) Natura al par di me non vi fe belle, Ed a misera vita vi destina: Troppo saria se vi chiamassi ancelle, Poi che tra poco diverrò regina. Mirando la mia palma, un uom lo giura, Cui segreta non è cosa futura. «A lei più d' un garzon s' accosta invano, Chè l' avvenenza sua molti ne attira; Ma rifiuta ad ognun la bella mano; A talamo regal la vana aspira. »Ella pensa talor: «Questo villano Tanto presuntuoso, affè, delira, O molto della vita a lui non cale, Se non teme d' un re farsi rivale.»— «Alina sciagurata! Aspetti ancora? Immobile hai lo sguardo, il labbro muto; Più la rosa d' un di non ti colora, È per gli anni il tuo crin raro e canuto. Già come tal che d' intelletto è fuora, Ti guarda ognun, nè volge a te saluto: Una corona, è ver, ti si prepara, Ma deposta verrà sulla tua bara.» Il subbietto era tal della canzona Fra quell' allegra ed operosa gente; E cessò, quando la gentil persona Di Luisa v' apparve, immantinente. Ha caro ciaschedun che quella buona Visiti il lor travaglio, e sia presente; Ma più degli altri Antonio n'è giojoso, Amante, riamato, e in breve sposo. Poi che molte alternâr dolci parole, Ecco al semplice pasto ognuno assiso. Mostrar Luisa il suo dolor non vuole, E compone il bel volto ad un sorriso. L' aja intanto s' allegra al novo sole; Ma Pier cupo sospira, e imbruna il viso, Nè studia d' atteggiarsi ad aria lieta, Onde celar la sua cura segreta. «Perchè (fra sè dicea) perchè sì tarda? Oggi forse di me non le sovviene?» Volgesi ad or ad ora, e l' uscio guarda: Ogni lieve rumor sospeso il tiene. Sanno i compagni suoi siccome egli arda, Nè cercan la ragion delle sue pene. Dalle sembianze ciascheduno intende Che Piero il dono dell' amore attende. Cresce il dì; poca speme or lo conforta, E gli abbassano il viso onta e dispetto: Quando schiudersi alfin vede la porta, Ed entrar titubante un fanciulletto. Questi a Piero accostandosi, gli porta Un canestrin di grazïoso aspetto. Piero da chi ne vegna a lui non chiede; Nè parte il fanciullin senza mercede. Ei non apre il panier: dal padre aspetta Che lo raccolga, e gliene fa preghiera. Vuolsi, il costume è tal, ch' ei ne lo metta Fuor d' un balcone, e lasci infino a sera. Giorgio, qual uom che mal suo grado accetta, Fa la rigida fronte piì severa, E verso il figlio suo lento s' avanza, Osservando a mal cuor l'antica usanza. Ma il senso del timore e della pena Nell' anima di Piero è già cessato. Un pensiero l' affranca ed asserena, Che non l'ha Caterina oggi obblïato. Nè l' aspetto del padre or più raffrena L'allegria di quel core innamorato. Odio, rancore pel fratel non sente, E d'averlo oltraggiato egli si pente. Clamoroso festivo accoglimento Fan gli amici a quel don. Chi non divina (Benchè il taccia con saggio accorgimento) Che la man lo inviò di Caterina? Ma legge in lor di Giorgio il guardo attento, E più nel suo rifiuto egli si ostina. Or all' uno ei s' appressa, ed ora all' altro, E tutti illuder vuol, con labbro scaltro. «Penso (agli orecchi lor così bisbiglia) Nè certo la mia mente è mal presaga, Che di Martino la vezzosa fliglia Sia, cari amici, del mio Pier la vaga. Ricca ell' è più di noi, ma la famiglia Ogni onesta sua brama ognor fa paga; Chè figlia unica ell'è. Convinto io sono, E spera Pier, da lei ne venga il dono.» Ma fede non ottiene; e pur coi detti Non è fra lor chi al creder suo disdica. Maravigliato è ognun, ch' ei non sospetti Qual sia di Piero la segreta amica. Ma perche degl' ingenui giovinetti L'animo al diffidar s' apre a fatica, Stima ciascuno il vecchio padre illuso, E breve gli risponde, oppur cofuso. Più non avverte Pier ciò ch'ha davante, E invano coi sospiri affretta l'ore; Chè sol quando si fa l' ombra gigante, Vedrà quel dono, messangger d'amore. Oh facile sperar d'un'alma amante! Ei crede, che tal vista il genitore Più benigno gli renda, e la fallace Fede nel petto d'afforzar si piace. «Reca l'impronta ciò che vien da lei (Fra se dicea) d'un'anima amorosa. Anco il padre vedrà ch'io non potrei Tradir chi sulla mia fede riposa. Più non farà contrasto a'voti miei, Ch'altra non mi saria si buona sposa. E dove troverei miglior massaja Alla casa, alla stalla, al campo, all'aja?» A mezzo corso è il di. L'affaticato Stuolo ha breve riposo, e si ristora D'alimento frugal, chè ripigliato Esser debbe il travaglio in picciol'ora. Prende per qualche istante ognun commiato, E si porta dall' aja ov' ei dimora. Raccolti in famigliari parlamenti Sono Luisa, Antonio e i due parenti. Al gaudio abbandonar l' animo intero Pur Luisa non può, chè n'è tormento Del fratel la memoria. Il guardo altero, I detti ne rammenta, il turbamento. Le par che male adopri ove mistero Ad Antonio ne facia; ed il momento In cui si scosti il padre attende e brama: Conforti le darà chi tanto l'ama. A travaglio novel, dopo il ristoro, Lo stuol de'battitori ecco sen riede. Giorgio alla diligenza ed al lavoro Di quei buoni apparecchia una mercede; E un ballo famigliar, gradito a loro Più d'ogni altro diporto, oggi concede: Dispone a questo la sua casa, e vuole Abbia principio col cader del sole. Se n' affligge la madre: ad una festa Mal si conforma l'animo abbattuto. Pur tace, ed ogni cosa al ballo appresta Chè vano le saria prego o rifiuto. La figlia indossa la miglior sua vesta, Ed accosta un bel fiore al crin ricciuto. Piero la gioja mal reprime: ei spera Danzar colla sua vaga in quella sera. Alla danza vicina ognun rivola Col pensiero, nè v'ha chi non sorrida. Ma spesso la letizia ha la parola Di cianciatrice malaccorta, o infida. Questa dal labbro d' un compagno invola Cosa che sembra in Pier la gioja uccida. «Tuo fratello, diceagli, è a noi vicino: Un famiglio l'ha visto oggi, a mattino. «Oggi a mattin di certo, e non lontana Una figura femminil con esso. Ma qual si fosse la fanciulla umana, Che andò confortatrice a quell'oppresso, Non sa il famiglio: gliela tenne arcana D'una nebbia improvvisa il velo spesso. Oh smetta il padre tuo, smetta il pensiero Di fargli rivestir l'abito nero! Piero avvampa nel viso; e con favella Che la fronte turbata in lui mentia: «Ti fai beffa di me con tal novella; Io so che mio fratel batte altra via.» Ma il giovine imprudente un tale appella A testimon che subito venia, Ed asseriva a Pier come verace Ciò che, pur dubbio, gli togliea la pace. Incertezza crudele or lo funesta, E invan colla ragion vi fa difesa. Ei ripete fra sè: «Su quell'onesta Anima alcun sospetto, è ver, non pesa; E nutrirlo io potrei? ma chi m'attesta, Che pria non fosse di Giovanni accesa? Punta non si mostrò, non gli ha risposto Quand'ei pose ad effetto il mal proposto. «Oh, s'ella mi tradisse? Il femminile Senno è di mobil tempra. Io sono ignaro Dei sottili artifici: egli è gentile Di modi, nè in beltà gli vado a paro. Il conoscere in esso un'alma vile Contro i colpi d' amor non è riparo; Chè il peggior dalla donna è preferito, Se d'arte e d'avvenenza ei sia fornito.» Pier ragiona così. Condanna, assolve Egli ad un punto. Le passate cose Ad una ad una nel pensier rivolve, E studia del fratel le mire ascose. Di mille accolti dubbi un non risolve: Maledice il fratello, e il dì che pose L'amore in Caterina; e non lo alletta Che il pensiero di farne aspra vendetta. «Fuggisti ai sacri voti; oh ma dal laccio Ch'io tender ti saprò non fuggirai! Se m'hai tradito, giuramento io faccio, Che un dì del male oprar mercede avrai.» Così dentro ei discorre; e intanto il braccio Più di quanti là sono alza d' assai, Nè breve sosta al tempestar consente, E par dei battitori il più valente. L'ore pria numerava. Or d' improvviso Vede al termine il giorno, e cessan l'opre. Apporta al figlio con arcigno viso Giorgio il panier, che rosso lin ricopre. Ognuno con gentil discreto avviso Discosto si rattien mentre ei lo scopre. Se confetti vi trova, o fiori, o frutti, L'uso vuol che ne doni agli altri tutti. Qual d'estate talor ben culta ajola, Che april rinverde e maggio orna di fiori, Flagellata da subita gragnola Intristisce e rimuta i bei colori, E tutto in un istante a lei s' invola Quanto cara la rese a' suoi cultori; Solo immago di pianto e di sventura Nel viso universal della natura: Pier si cangia così; così s' attrista. Gli amici a sè non chiama, e basso geme. Qual cosa mai ne conturbò la vista, E voce, ed allegria gli spense insieme? La lieta comitiva alfine avvista Si fu che doglia vïolenta il preme: Con ricerche importune ognun lo accosta, E d'impaccio ei si trae con tal risposta: «Vergognando il; confesso, havvi un errore, Amici miei, nè mi pertiene il dono. Per la tenera età l'apportatore Degno è solo di scusa e di perdono. Due cuori stretti con nodi d'amore Qui da un'abile man trapunti sono, E chi sia dessa investigar non bramo, Poi che quella non è che apprezzo ed amo. «E che non sia la mia lingua mendace Prova n'abbiate. Così poco io pregio Tai doni, che serbarne un non mi piace, Benchè sian tutti di lavoro egregio. Di non poterli ritornar mi spiace (Soggiunse poscia con amaro spregio); Sospetto ben chi sia la donatrice, Ma di farla palese a me non lice. «Dite! partito alcuno a me consiglia Il senno vostro, amici? (indi seguia) A grado avrò se alcun l'incarco piglia Di tornar quel paniere onde venia.»— Colto è ciascun da molta maraviglia, Chè ben altro parlar ne presentia, Nè finto lo sospetta, nè beffardo; Così mesto e travolto ha Pier lo sguardo. Era dall'aja il vecchio Giorgio uscito, Come vide al canestro il figlio intento; Quel dono egli stimando assai gradito, Assistere non volle al suo contento. Rientra in quella, e fa pel ballo invito, Nè ravvisa di Piero il turbamento: Chè l'occhio indagator non gli ha rivolto Per non trovarvi la letizia in volto. Giorgio amistà non finta ha manifesta Sempre di Caterina ai genitori, E cortesia non vuol che dalla festa Gli escluda, ond'ei rallegra i battitori. Questo debito, è ver, forte il molesta, Ma non può da quell'uso uscirne fuori. Un tardo e freddo avviso alfin n'invia, Che però non men grato a lor venia; Poichè di quella buona e schietta gente La fè non avvelena alcun sospetto. Caterina negli occhi è sorridente, Nè mai l'animo aperse a più diletto. Chiusa in candida veste ha l'avvenente Sua persona; nè lascia il crin negletto: Quasi arrossendo, un ramoscel vi posa Di semprevivo coll'alpina rosa. Ella in tutto quel giorno ebbe il pensiero Sempre all'aja di Giorgio, e ripetea: «Sarà poi quel mio don gradito a Piero? Mandargliene un più bello io non potea.» Quel di sopra le alunne occhio severo Non tenne, anzi a'lor giochi si mescea. Sempre le amò, ma con più caldo affetto Or l'una or l'altra si stringeva al petto. Affretta col pensier la nova aurora, Chè vederlo in quel giorno omai dispera; Ma quando entrò nell'umile dimora Chi per Giorgio la invita in quella sera, Di subito vermiglio si colora, E da pensosa e tacita qual era, Tutto s'allegra, che una lunga e trista Notte non le torrà la cara vista. Ecco insiem co'parenti al loco è volta, Ove gustar confida ogni dolcezza. Discorde suono di mandòle ascolta, Cui l'orecchio educato o fugge o sprezza; Ma la nota da lei ne vien raccolta, A concento miglior non anco avvezza; Chè a'pensieri d'un'anima gioconda Tutto par s'uniformi e corrisponda. Entra festosa nell'allegra stanza, E confusa dell' altre è fra lo stuolo: Riposo in quell'istante avea la danza. Ella tutti saluta, e cerca un solo. Ma cerca invan; talchè di sua tardanza Alfin s'accora, e figge gli occhi al suolo; Ben chiedere vorria del caro nome Senza in volto arrossir, ma non sa come. Dell'agiato Martin l'unica e cara Figlia sedea di Caterina in faccia. Molti attorno le stan; ma non dichiara La giovinetta ancor chi più le piaccia. D'una fanciulla che a pregiarsi impara, L'animo agevolmente non s' allaccia. La figlia di Martino a'detti crede Di lusinga ripieni, e amor non chiede. Ecco alfin Piero. D' allegrezza il viso, E d' insoliti scherzi il labbro abbonda. Volge a ciascuna un famigliar sorriso, E l'ebbrezza n'eccita, o la seconda. Lo sguardo Caterina in lui tien fiso, E meraviglia ne ritrae profonda. Tutte al ballo egli invita; essa, sol essa Non ricerca egli mai, nè le s'appressa. Ben altri la richiede, e nel giulivo Vortice vien racchiusa incontanente. Ma per l'animo suo di pace privo Quel tripudio è tortura ognor crescente. Gira, lanciando il piè, l'occhio furtivo, E Piero osserva danzatore ardente: A tal vista vacilla, e di mal usa Danzatrice al compagno ella si scusa. Non altrimenti d'appassita foglia, Cui dal ramo natio dispicchi il vento, Raggirata così contro sua voglia Venia la giovinetta in quel momento; Ma pur (sì forte ha il cor) l'interna doglia, Che par quasi la tolga al sentimento, Per senso di vergogna in petto asconde, E colle gaie amiche si confonde. Il ballo ha nuova pausa. A lei vicino Vede ella Piero, e per nome l'appella; Ma questi s'allontana a capo chino, Senza pure avvertir hi gli favella. Ove siede la figlia di Martino Ei si volge, e s'arresta innanzi a quella, Che tosto crede ravvisare in lui Un novo ammirator de'vezzi sui: Onde compone amabilmente il volto Alle solite grazie, e mai non tace; Ed ei più le s'accosta, e par che molto Diletto prenda al cinguettio vivace. Giorgio, che spesso il lui lo sguardo ha vôlto, Gode di quel colloquio e si compiace, E mentre sorridendo ei li avvicina, Drizza un occhio di sprezzo a Caterina. Ella in muto dolor li guata ognora, Ed ira, gelosia, dispetto e sdegno (Ignoti affetti a lei sino a quell' ora) Nella sua travagliata anima han regno. Parle che dentro a sè languisca, e mora, Poi rinasca l' amor, per quell' indegno. Pensa e ripensa invan: nube, mistero È per lei sempre quel mutar di Piero. Dalla vista abborrita un breve istante Ella torce la fronte, e nova pena Novo aspetto le dà. Presso all' amante Vede Luisa più che mai serena. «Io sola, io sola dunque avrò fra tante Questa punta nel cor?» Qui più non frena L'affanno, e cade dalla sua pupilla, Inosservata altrui, più d' una stilla. Come Giorgio fu presso ai due che stretti Egli volea di nuzïali nodi, Volse cortese alla fanciulla, i detti, E Pier guardando, la colmò di lodi. «Io, Ghita, e il padre tuo, da giovinetti Siam veri amici, e il nome, onde tu godi, Godea la tua defunta genitrice, Che fe di suo marito un uom felice.» Poscia, accordando alle parole il gesto, Con molta affezïon per man li prende: Ma da quel laccio si discioglie presto Pier, che il disegno di suo padre intende; Disegno che gli fu sempre molesto, Nè, quantunque sdegnato, or vi propende, Poichè solo alla figlia di Martino Offeso amore lo traea vicino. Ripiglia il ballo, ed a'parenti suoi Tai parole converse ha Caterina: «A casa ricondurmi or piaccia a voi, Poichè la mezza notte è omai vicina. Non è già che il danzar mi stanchi o nôi, Ma vuole i dover mio che mattutina Mi levi. Trasgredendo a tale usanza, Buona ragion non mi saria la danza.» Volge ancor gli occhi a Piero, e poscia il tetto Romoroso di Giorgio ella abbandona; E mentre s'incammina, il duol, costretto A gran fatica, in lagrime sprigiona. Quel campestre concerto, onde diletto Tanto traea, lugubre ora le suona. Favellar ben vorria, ma la parola Da singhiozzi è serrata entro la gola. Or tutto al suo dolor par che risponda; Nè la voce de' suoi pur la conforta. Con Pier si sdegna, ed alla rubiconda Guancia della rivale invidia porta. Nè del dono sprecato è più gioconda, Ond' ella taccia avrà di malaccorta. Teme, e nel suo timor mal non avvisa, Dalle amiche beffarde esser derisa. Veglia intera la notte: alfin richiama Alla mente il passato, e quali e quanti Gaudj attese dall' uom ch' or la disama; E par questo pensiero il cor le schianti. Di saver la cagion paventa e brama, Perchè Piero non sia qual era innanti, Indi conchiude: «Più che bella, astuta Ghita i garzoni a suo voler trasmuta.» Ma poscia: «A torto del mio mal cagiono L'arti della fanciulla e il suo bel volto. Tanti cuori a costei soggetti sono, Che forse quel di Pier non m' avria tolto; Ma fortuna le fu larga d' un dono Che l' uom sugli altri tutti apprezza molto: La figlia di Martino (e chi lo ignora?) Sarà di lati campi un di signora. «Ma perchè fino ad or meco ei s'infinse, E tradiva così chi l' amò tanto? Forse la Ghita istessa a ciò lo spinse, E della mia vergogna or mena vanto? Che se il voler del padre suo lo strinse, Perchè si poco a lui cal del mio pianto? Sorridea quell'ingrato e mi sfuggia, Mentre il chiamava invan la voce mia. «O s'è guasto con me pel dono umile Che gli mandai? Ma se guardava al core, Di certo ei non l'avria tenuto a vile; Chè offrirgli io non potea cosa migliore. M'è noto ch'un più bello e più gentile Luisa ne inviava all' amatore; Ma ricco è Giorgio, e a Pier già non è novo, Che povera è la casa in cui mi trovo.» Tai sono della mesta i sentimenti; E il suo dolor per gli occhi ha larga uscita. Nè quell' ore più quete, o men dolenti Sono di Piero all' anima ferita. Non danno all'ira sua varco i lamenti: Alla vendetta ogni pensier l' invita; E poichè dall' amata ei fu deluso, Vuole il petto all' amor per sempre chiuso. Surto di gran mattino, all' opra usata Sollecito si mostra. Egli in tal guisa Tien l'interna amarezza a'suoi celata Che gli ha d'un tratto la letizia uccisa. Ma che l'anima ha Piero addolorata L' occhio amoroso della madre avvisa. Più volle a lui ne cerca la cagione; Ei non risponde, o al niego ognor si pone.— È la casa di Giorgio ornata a festa, Chè Luisa alle nozze è omai vicina. Non scema il gaudio suo, non lo funesta, Che il pensier di Giovanni, unica spina! Speme di rivederlo a lei non resta. Nel foglio ch' ella n' ebbe alla mattina La sconforta Giovanni, e le favella Qual uom che più non rieda alla sorella. «Luisa (ei le scrivea) buona, amorosa Sorella, accogli un ultimo saluto. M'è noto che sarai fra poco sposa, Nè l'animo per te d' augurj ho muto. Perchè ti tengo la mia mente ascosa, Perdonami, sorella: uopo d'ajuto Non ho, nè rattristarti un' ora sola Devi per me. La madre anzi consola. «Nè stimarmi infelice. A non volgare Dottrina l' intelletto a me si schiuse. Se niego esser ministro dell' altare, Già no mi stanno l'altre vie precluse. Or men oscuro l'avvenir m'appare, E il presagio del cor mai non m'illuse. La madre, Antonio mi saluta, e ingrato Non credermi all' amor che m'hai mostrato.» Non ha Luisa al padre il foglio ascosto, Chè spera di Giovanni ei corra in traccia, E lo sdegno, il rancore alfin deposto, Lo raccolga di nuovo alle sue braccia. Ma il duro genitor non v' è disposto, E ben altro disegno a lui s' affaccia; Delle dovizie la perduta speme Ben più del suo figliuolo al vecchio preme. Pur con tutti s' infinge. Egli dicea: «Son la ricchezza del colono i figli, Chè inoperosa spesso, e spesso rea Di furto è la venal man dei famigli. D'esser privo di Gianni io mi dolea: Pur soppormi del Ciel volli ai consigli; Ma l' onesta mia fede egli ha tradita, Chè sol mirava ad ozïosa vita.» Anche a Pier la sorella s' è rivolta; Ma quei con torbo, corrugato aspetto, Pregare a pro del fratel suo l' ascolta, E par che di grand' ira arda nel petto. Indi: «Luisa! sia l'ultima volta Che in favor di colui mi volgi un detto. Solo in parte è quel tristo a te palese, Ed ancor tu non sai quanto m' offese.»— Chiude un vecchio forzier le sacre spoglie Che Giovanni depose. Ivi i ginocchi Suol di Giorgio chinar la buona moglie, E fisarvi talvolta umidi gli occhi. Prega ch' ei torni alle paterne soglie, E che la grazia del Signor lo tocchi. Ella poi sorge, e par lo aspetti ogni ora, Tanto la fede il suo dolor ristora. Veste novello aspetto il monte e il colle, Chè la terra dal sonno omai s'è scossa; Pari a smeraldo son verdi le zolle, E qualche frutto primaticcio arrossa. Scioglie i geli dell' alpe un vento molle, E di quell' acque più d'un rio s'ingrossa. E, saggi pellegrini, in lunga schiera Tornan gli augelli al sol di primavera. De'lor lieti gorgheggi il campo suona, Ove corre il bifolco allor che aggiorna. Come lieto gl' ingrati ozi abbandona Or che alla gleba ed all'aratro torna! Fatica alle sue braccia ei non perdona, E colà fino a vespero soggiorna. Nè dell' opra si duol, se trae dal seme Che già mette i germogli indubbia speme! Ecco ripatroar l' allegro stuolo In traccia di lavor di là partito, Poi che all' ultimo autunno il bosco e il suolo Fu da brine e da nevi isterilito: Uno al padre si stringe, altri al figliuolo, Questi abbraccia il fratel, quella il marito; E la fanciulla in aria vergognosa Saluta l' uom cui fu promessa a sposa. Allegrezza minor non ha chi riede. Delle diverse terre a'suoi favella, Ove (ignoto a ciascun) recava il piede; Ma di tutte la sua gli par più bella. Con immenso diletto ei ne rivede I monti, i clivi, i boschi, e le castella; E se nocque alle piante il gel, la bruma, Innanzi tratto, dimandar costuma. Le due case di Giorgio e di Martino Hanno del'altre ben diverso aspetto. Avvisa il passengger che di meschino Censo non è colui che v'ha ricetto: Al fumo, che s'ingorga, apre il camino L'uscita, e strame non ne copre il tetto. L'uomo d'umil tugurio abitatore N'è d'invidia compreso e di stupore. E in lui più forte lo stupor si desta, Se per caso egli mira uno straniero Rivolgersi alla sua casa modesta, Nè curar quelle di Martino e Piero; O se presa un pittor matita e sesta, Ne ritrae, con ignoto magistero, La screpolata e sudicia muraglia, E il tetto grave di misera paglia. Al reduce drappello un pellegrino Accoppiandosi venne: era diritto Allo stesso paese il suo cammino, E da grave pensier parea trafitto. Farsegli non ardiva alcun vicino; Quel fiero sguardo non ne dava il dritto. Scomposta avea la chioma e il portamento, E seguia la brigata a grande stento. Chi di Piero il fratel ravvisa in esso? Dacchè parti più giri il tempo ha vôlto Del suo corso annual, nè par lo stesso, A ciascun ch lo vegga, oggi quel volto. Il vivo raggio di beltà, che impresso La natura gli avea, non è già tolto, Ma neri solchi ed un mortal pallore In lui dell' età fresca ombrano il fiore. Oh, di quali memorie il duolo interno Si pasce! A lungo ei ramingò, da quando Lo sdegno del fratello e quel paterno L'avean mandafo dalla casa in bando; Ma più segno non fu dell' altrui scherno Allor che per la patria ei cinse il brando; E, come l'uom che il viver suo non cura, Ebbe in ogni cimento alma sicura. Si fe l'amor di libertà fuore Nell'animo indomato. A lui palese, Ahi troppo! degli oppressi era il dolore, Nè quello della patria ei mal comprese. Degni della gran causa il braccio e il core Ei mostrò combattendo in dure imprese. Ma tanto ardire invidïò la sorte: Egli giacque ferito e presso a morte. Pietà d'ignote braccia a lui soccorse. Riprendere la spada, e sciorre il voto L'animoso volea; ma quando ei sorse La bandiera cadea, cui fu devoto. Dal tetto che lo accoglie (infermo forse Tuttavia) s'allontana, e un senso, ignoto Per lui fino a quel di, seco ne porta, Che lo attrista in un tempo e lo conforta. Oscuri dell'amore i sentimenti Eran rimasi a lui fino a quel punto; E quando a Caterina i folli accenti Drizzò, per essa amor non l'avea punto. Depor soltanto innanzi a'suoi parenti L'abito ei volle, mal suo grado assunto; Ed alla donna, cui diceasi amante, Pur non volse lo sguardo in quell'istante. Nella casa ospitale ov'ei fu accolto, E per oltre due mesi infermo giacque, Una fanciulla di leggiadro volto E di modi cortesi al giovin piacque; Ma perchè di fortune impari molto Era a lei, sempre l'amor suo le tacque, E da'begli occhi e dai cortesi accenti Suggea l' oblio de'suoi lunghi tormenti. Però della fanciulla il guardo accorto Non è tardo a scoprir quella segreta Cura, che in un pensiero il tiene assorto, E molto in core n'è superba e lieta. Di speranza vorria dargli conforto, Ma un timido riserbo ad essa il vieta: Pur quando alla partita accinto il vede, Teneri detti al labbro alsin concede. «Giovanni (ella dicea col viso tinto Di amabile rossore), hai certo pegno Di quanto possa l'amor mio, se vinto Ha la vergogna che mi fu ritegno. A troppo ingiusto diffidar t'ha spinto Delicato sentir: credi, l' ingegno Non pochi errori della sorte emenda, Allor che l'uomo a bene usarne intenda. «Se ti son cara, se ottenermi a sposa Brami, qual d'esser tua m'arde il desio, Tieni tal brama a'miei parenti ascosa, Anzi tosto abbandona il tetto mio; E quella tua domando alma sdegnosa, Supplice ti presenta al vecchio zio, Cui spedirti io disegno. È un uom potente, E sostegno ti fia securamente. «Diletta gli son io, nè suol preghiera Ch'io gli mova negarmi; ond'io son certa Che ti torrà degl'infimi alla schiera, Come la rara tua mente si merta. Farò la nostra affezïon sincera Poscia io medesma a'genitori aperta, Dacchè più non terrammi il labbro muto La tema d'un contrasto o d'un rifiuto.» Giovanni ascolta; e quanta gioja in core Gli scenda, al viso, agli atti ei manifesta. Ricordo d'amarezza e di rancore E di quanto soffri più nol molesta; Tal che potrebbe con verace amore Il nemico abbracciar che più detesta. Anzi ai mali passati ei benedice, Che l'han condotto a questa ora felice. Da'buoni ospiti suoi commiato ei piglia, Qual uom che si diparte, e più non torna; Pur, come la fanciulla gli consiglia, Nella città medesma egli soggiorna. Che amor non può? Le baldanzose ciglia China, e con arte la favella adorna, Allor che volge peritoso il piede A chi di sua fortuna arbitro crede. Ma, più volte la soglia a lui contesa, Muto le scale e dispettoso ei scende, Ad uom sembiante, cui l'incarco pesa D' opra servile, e a malincuor la imprende. L' amaro senso d'alterezza offesa Dentro al suo petto più e più s'accende, Veggendo da quel loco uscir talora Chi sconforta i suoi passi o li deplora. Imperta alfin l'ingresso: a petto a petto Sta dell' uomo possente. Ahi come spoglio Di amabili sembianze è quell' aspetto! Giovanni a lui s'inchina, e porge il foglio. Freddo ei l' apre e lo scorre; indi con detto E con atto solenne e pien d' orgoglio, Un benigno voler gli manifesta, Poi licenza gli dà, da lui non chiesta. Bieco se ne partiva, e questi accenti All' amata scrivea: «Se quella stima Che palesi per me da ver tu senti, Fa'che vergogna tal più non m' opprima. Io docile non fui co' miei parenti, E a darmi legge tu fosti la prima. A troppo dura prova or tu mi poni; Cessa, cessa da questa, ed altro imponi.» E al fanciulla a lui: «Dunque si poco Di me, dell' amor mio pregio tu fai? Che d'avversa fortuna al duro gioco Riparar ti sia forza, oh ben lo sai! Presso a' parenti miei, credimi, loco Il mio caldo pregar non avrà mai, Se non giungi a tal fin. Che dirlo ancora Debba a te, mio Giovanni, assai m' accora. «Che mi val se degli anni io sia nel fiore? La mia giovine età schiava mi rende; E dar la mano a chi già diedi il core, Dal paterno voler mi si contende. Pur del vero onor tuo cura maggiore, Che non hai tu medesmo, amor m'apprende. No, nella casa de' parenti miei Umile qual n' uscisti entrar non dei.» Queste accorte parole han tal possanza Su lui, che nulla alla donzella or niega; Anzi, rasa dal petto ogni baldanza, Qual fanciulletto al suo voler si piega. Sol d' amore, di fede e di costanza, Debito premio all'ubbidir, la prega. In dolcissimi sogni ei giace immerso, E appar da quel che fu molto diverso. Il superbo dov'è? dove il severo D' ogni mancanza altrui censor di pria? L'impeto che lo prende è passeggero: Se l' offende talun, l' offesa obblia. Rammenta or senza sdegno il padre e Piero. Chi tanto quello spirto ingentilia? L'amor: morto in Giovanni ha l'odio e l'ira; E pensando al fratel mesto ei sospira. «Se per mire infelici congiurato Pier col padre si fosse (ei così pensa), Intendere or poss'io dell' oltraggiato Mio povero fratel la doglia immensa. Sposo, padre oggi forse, avventurato D' ogni dolce sarà che il Ciel dispensa; Tal che spero perdono al mio demerto, Pur che sappia da me quant'ho sofferto.» Preda a diversi affetti, or parea morso Da pentimento, or da incertezza afflitto. Ma poi dando al pensier contrario corso, «Non sarò (proseguia) più derelitto; Libero amar potrò senza rimorso, Senza che me lo appongano a delitto. Forse in miseri giorni altrui contesa Ho questa gioia; e il dubbio al cor mi pesa.» Meschina vita e disagiata ei vive, Chè scarso è il frutto d' assidua fatica. Opre umili il bisogno a lui prescrive, E l' arte prima ai fanciulletti esplica: Pur l' ore di conforti ei non ha prive. La rimembranza della dolce amica, Che notte e giorno al suo pensier rivola. Gli addolcisce ogni stento e lo consola. Mutar l' amaro inglorïso stato Ei si confida in altro più sereno. Sovente un foglio lo ricrea, vergato Da quella man che del suo core ha il freno; E cento, e cento volte ivi giurato È quell' amor, che mai non verrà meno. Un tempio od una via gli addita spesso Ove sia di vederla a lui concesso. Così per lui si volge un anno intero. Quando ad un tratto (la cagion ne ignora) Si fan rari gli scritti, ed un mistero Pargli in essi adombrar che lo addolora. Ben con affetto, che parea sincero, La cara donna gli favella ancora; Ma pur qualche pensiero gli nasconde, Nè l'avvenir di lei col suo confonde. «Di gioconda novella annunziatrice Oggi a te vegno (gli scrivea). Tu sai Se m'è caro il ben tuo, se la felice Sorte, che già ti arride, ognor bramai: Son pieni i voti miei; così mi dice Quel buon zio, che per te molto pregai. Rallegrati, Giovanni! ufficio degno Egli trovò del tuo nobile ingegno.» Ed ei: «Non mi dà gioia, anzi la invola Da me tutta il tuo foglio. A te palese Non è, che per l'amor posto in te sola Ad opre ingrate l' alma mia discese? E di me tu favelli? Oh la parola Ben dal labbro t' uscì dura e scortese! In che t' offesi? Parla! e da' mercede Almen di franchi detti alla mia fede.» Invia lo scritto, e per più di ne aspetta Indarno la risposta. In quai pensieri Vaghi, e dal ver divisi, ora lo getta Questo silenzio, dir non è mestieri. Fame, sete, tortura avrebbe eletta Quell'amante fedel più volentieri, Che vedersi fuggir la cara spene Del guiderdon promesso alle sue pene. Per ciò sovra ogni cosa e spera e brama Che mutata d' affetto or non gli sia Quella che unicamente apprezza ed ama; E da neri sospetti il cor disvia. Sè medesmo talora in colpa chiama; E qui a soccorso vien la fantasia, Che lui di torti immaginati accusa, E la fanciulla assolve, o almen l' escusa. «Certo (fra sè volgea) di sconoscente L'apparenza mi diedi in faccia ad essa. Offendermi non volle, e, colla mente D' affrettarmi un piacer, s'è male espressa. Fu sempre il labbro mio poco eloquente, Chè male al chiuso mio sentir s' appressa. Pur mai non m'incolpò di freddo affetto Ella, e tenero sempre era il suo detto.» Innamorato cor, come t' illudi! Calma, pace tu speri in quel momento Che al tuo sguardo abbagliato un ver si snudi, Onde, o misero, avrai novo tormento! Ricoprir d' amorose ombre ti studi Quanto provien da mobile talento. Chiaro non ti mostrâr le sue parole Che scior dalla promessa ella si vuole? Non che Giovanni a lei fosse sgradito, Ch'anzi un tempo le fu molto diletto; E s'anco a poco a poco illanguidito Erasi il primo impetuoso affetto, Del suo lento languir, fin che sopito Tutto in lei fosse, non avea sospetto. Ma svolto in un istante il cor leggero Fu da labbro sagace, e non sincero. Avea pur dianzi alcun della famiglia Fatto de' loro amori il padre accorto. Egli a se chiama la turbata figlia, E le dà più che biasimo conforto. «Solo ch' io sappia (amor me lo consiglia) Se il concetto che n' hai sia dritto o torto, Che non t' è pari scorderò, le dice, Pur che farti egli possa un di felice.» E corsi pochi giorni, il padre appella Novamente la figlia: «Al tuo giudizio Tutto io soppongo (così le favella), Nè pur del piacer mio vo' darti indizio. Questo affetto alimenta, o lo cancella; Non mi avrai, figlia mia, manco propizio. Ma pria senza riserbo io vo' di lui Bene istrutta tu sia, com' io lo fui. «Da villici egli è nato: ancora intenti Sono il padre e il fratello a côrre il frutto Del sudato terren, ma dagli stenti L'hanno fin da'prim'anni escluso in tutto. Il padre che sperò doti eccellenti D'ingegno nel fanciul, lo volle istrutto, E ricco di dottrina averlo poi Vanto, sostegno, ed ornamento a' suoi. «Benchè sia grave peso alla modesta Fortuna, il padre alla città lo invia. Questi con atti e detti manifesta Ch' esser ministro dell' altar desia. Compiuti avea gli studi, e già la vesta Sacerdotale il giovine copria, Quando, senno e dover da sè rimosso, Discese ad opra che laudar non posso. «Invaghisce il garzon d' una villana, A Piero, fratel suo, giurata sposa. È per lui la ragion parola vana, Ne la fiamma egli ammorza o tiene ascosa; Anzi (il dirlo mi duol) con mente insana Involarla al fratello ei pensa ed osa. Discordia ne seguì: fu maledetto Dal padre, e dalla casa indi reietto.» Attonita la figlia i detti ascolta, Nè sol l' amore dileguar sentia, Ma quel vanto segreto, onde talvolta D' aver domo un superbo inorgoglia. Stette in qualche silenzio, e poi, disciolta La lingua, prorompea: «Pur non mentia! Räumiliò per me l' animo altero, E solo di piacermi ebbe pensiero. «Tradirlo non poss'io.»—«Pura, innocente, Mia figlia, è l' alma tua; dagli anni esperto Io sono, e il sentir mio dal tuo dissente. Misero ei venne a te. Non gli hai tu aperto Un cammin ch' altra vita or gli consente? Aver di questo ti dovrà buon merto; E forse a ciò più che all'amore ei pose La mira, e simulando a te l'ascose.» Con simili argomenti il vecchio astuto Sin l' ombra del rimorso estingue in essa. Celarle il proprio avviso egli ha voluto, Nè pur cenno le fe la madre istessa. La giovinetta alfin consiglio, aiuto Ricerca loro a scior quella promessa, Chè non men de' parenti or lo desia, Pur che lo possa per onesta via. Il padre le dettò quel primo foglio, E un altro lo segui. «Dolor profondo Sento (dicea). Tu m' eri amore, orgoglio, Fonte d' ogni pensier tristo o giocondo: E tale ancor mi sei. Ma non ti voglio Più, Giovanni, tacer che grave pondo M'è lo sdegno de'miei. Lo provocai Celando l'amor nostro, e molto errai. «Errai: calda d' affetto ed inesperta A ciò ch'io pur dovea non posi cura; Sebbene aspri ripigli, or guerra aperta Io non trovai nelle paterne mura. Solo indizi mi dier d' ira coverta (Per un'alma gentil pena più dura) Tal che l' altrui volere ho fatto mio. Tu scordati di me.—Per sempre addio!» Tal foglio a un amator vero e costante Scrive, piega, ed invia la man diletta. Chi mai potrebbe dir se al primo istante Sdegno o dolor gli diè più forte stretta? Troppo deluso e dispregiato amante Si trova, e farne agogna alta vendetta. Al tetto dell' infida andar s' appresta, Ma novello disegno il piè gli arresta. A torrente simil, dal naturale Corso sviato per umano ingegno, Se libero divien, ritorna quale Era a' bifolchi di sgomento segno: L' orgoglio, oppresso dall' amor, risale, E prende del suo cor l' antico regno. Gli affetti ed i pensieri, onde pur ora Si nodria, quasi vortice divora. «Ch'ella non sappia, nè alcun altro in terra Quanto (fra sè volgea) mi strazia il petto; E mentre infuria quest'interna guerra, Sia calma negli accenti e nell' aspetto. Felice chi all'amor non mai disserra L'animo; e il mio fidar sia maledetto. Oh sofferto avess'io la scure, il rogo, Anzi di sottopormi a questo giogo!» «Mercè (così le scrive). Alfin ritorno Libero! Troppo vil, troppo molesto Fascio impormi a te piacque, e grave scorno M' era i ceppi soffrir ch' ora calpesto. Sappilo, donna! la follia d' un giorno Ben potè mal mio grado indurmi a questo; Ma dovea tal follia venir punita Col pentimento della intera vita. «Chè preposto avrei sempre ogni tormento Al romper quella fè che ti giurai. Per ciò, quando l' amore era già spento, Parole affettuose a te drizzai. Immagina, o fanciulla, il mio contento, Che sciolto tu medesma oggi me n'hai! Ad opre più onorate or torno lieto, E mille volte a te grazie ripeto.» Allo scritto dà corso; indi non frena Il duol, che s' apre in lagrime dirotte. Il disagio lo stringe, ed ogni lena Gli tolgono d' oprar le interne lotte. Come improvviso rimutar di scena, Gli si volge il meriggio in buja notte. La dolce servitù vergogna or chiama, Ma l'abborre in un punto, e la ribrama. Pallido, macilento, e disdegnoso Pur di pietà, di sù di giù s' aggira; E, stanco pellegrino, ad un riposo, Che raggiunger non debbe, invan sospira. Del passato il ricordo è a lui penoso, E senza speme nel futuro ei mira. Crëatura or non ama, e poco pria, Per quanto ha vita e senso, amor sentia. S' incammina egli un di per via romita; Quando se gli fa presso un giovinetto, Che il noma salvator della sua vita Con voce impressa di profondo affetto. Iterando preghiere, indi lo invita A venir, qual fratello, entro al suo tetto; «Duolmi sol (gli dicea) che per l' immenso Debito mio l' offerta è vil compenso.» E Giovanni commosso il dir ne intende. Quell' amorosa cortesia lo sprona, Ma bisogno ed orgoglio in lui contende. Vince il primo, e all' amico ei s' abbandona. Con lui le scale d' un palagio ascende, E guarda con rossor la sua persona Di lacere vestita e rozze spoglie, Contrasto allo splendor di quelle soglie. Ai parenti il garzon lo rappresenta: «Quell' amico io rinvenni a me sì caro, (Più volte vel narrai, se vi rammenta) Che contro un traditor mi fu riparo. Ferito io mi giacea, quando s' avventa Per cacciarmi nel fianco il vile acciaro Un soldato nemico; ma lo afferra Questo giovine audace e stende a terra. «Così, posta l' egregio in gran periglio La propria vita, alla morte m' invola. Poi d' aita m' è largo e di consiglio, Nè vuol d' animo grato udir parola. Lui ringraziate, se l' amor d' un figlio D' ogni pena sofferta or vi consola. Unite alla mia voce i preghi vostri, Tanto che qui rimanga e sia de' nostri.» Prega il padre, la madre, e più non osa Giovanni opporsi, ed all' invito cede. Che nol dannino a vita inoperosa, Qual patto all' assentir soltanto chiede. Lo sgomenta la faccia vergognosa Dell' uom che vive dell' altrui mercede; Chè se d' utile alcuno a lor riesce, Meno all' altero cor quel pane incresce. Del Signor della casa è posto a pari, Ma l' antico suo stato ei non obblia. Pur, sebben nato fra poveri lari, Ciascun d' alti natali il crederia; Perocchè della mente ai pregi rari Bel sembiante egli accoppia e leggiadria; Nè può l' occhio svelar basso pensiero, Sia che tenero il volga, o il volga altero. Gli scorrono due mesi in que' piaceri Sconosciuti alla sua misera vita; Ma son tristi pur sempre i suoi pensieri, Ma del cor sempre schiusa è la ferita. Mestamente ei ricorda i lusinghieri Sogni d' una speranza omai fuggita, E nei beni presenti, ove la gioia Gusta ciascun, non trova altro che noia. Entro il palagio, ov' ei soggiorna, accolto Di dame e cavalieri è sempre il fiore. A quel vuoto cianciar non porge ascolto, Ch' empie la bocca, ma non giunge al core. Sovente in cupo meditar sepolto, Preso par da demenza o da stupore, Tal che ognun se ne scosta, o con deriso Gli atti ne guarda, il portamento, il viso. Con aspetto non bieco e non umile, Come l' uom che d' altrui cura non tocca, Si mesce ai grandi, e par ne tegna a vile Più d' un' usanza, o che l' estimi sciocca. Pur, gradito alle belle, a lui gentile Volgono il dir; ma rado egli apre bocca, Chè dagli altri diverso è assai quel core, Nè schiudersi potrebbe a novo amore. Il suo contegno singolar dispiace Alla donna del loco, onde la storia, A chiunque l' appressi, ella non tace Che locato ha quest' uom fra tanta boria; Iterando la viene, e par che pace Non si dia, se non l' han tutti a memoria. L' encomio del figliuol succede a questa, Che si cortese e grato animo attesta. Giovanni intende e freme. «E tanto abbietto Son io? (fra sè ragiona) e merta scusa Qui la presenza mia? Fra quest' eletto Cerchio l' entrata per favor m' è schiusa?» Tal vergogna lo infiamma e tal dispetto, Che fra lo stuol patrizio andar ricusa; E si ripara in solitaria stanza, Se convito ha la casa, o canto, o danza. Ma serenar quell' alma, in cui discese Il velen del sospetto, or che potria? Fa, se lo guarda alcun, le gote accese; Beffe ei vede ed insulti in fantasia. Pungente pargli un favellar cortese, Lo travaglia il timor che a noia ei sia. Di lasciar quella casa or volge in mente, Ma taccia non vorria di sconoscente. Fermo in tale pensier, di casa egli esce A mattutino, e un villico ritrova Che vien dalla sua terra: a lui si mesce, E de' congiunti suoi ricerca nova. Cosa egli intende, che il dolor gli accresce; Tuttavia di celarlo egli fa prova: Chè tradirsi non vuol, poichè l' estrano Vestir lo rende ignoto a quel villano. «Della casa, dicea, che sconosciuta Par non siavi, o signor, trista è la sorte. Affanno con affanno ella rimuta. Pria d' un figlio l' error l' accorò forte, Indi altra pena a questa è succeduta; Ed al mio dipartir, vicina a morte Era la madre, desiosa invano D' abbracciare il figliuol, ch' andò lontano.» Riede a casa Giovanni, e cosi scrive Al giovane signor: «La madre mia (Forse la sventurata or più non vive!) Mi piange amaramente e mi desia. Al ciel non piaccia che del figlio prive Abbia l' ore supreme, e l' agonia Non ne conforti. Se da voi mi toglio Senza un addio, mi scusi il gran cordoglio. «E turbarvi il riposo a me disdice Sul rompere dell' alba. Oh se talora In un vostro pensier viver mi lice, Rammentate che un cor v' è sacro ognora. Dolcemente commosso ei benedice A chi gli aperse l' ospital dimora. Ardua impresa non avvi a lui sgradita, Se venirvene possa utile aita.» Pria di chiuder lo scritto, egli v' aggiunse Un riferir di grazie assai cortese Pe' due vecchi signori, e quanto il punse Nella madre, al figliuol non fe palese. Poi la schiera de' villici raggiunse, Che tornava gioconda al suo paese. Ma diviso da questa ei si tenea, E tai mesti presagi in cor volgea. «Quella che m' ebbe ognor verace affetto Sarà presso alla morte, e forse spenta; E del padre il severo e freddo aspetto Farà che del tornar tosto io mi penta. Luisa non vivrà nel nostro tetto; Spïerammi il fratel con faccia attenta; Ma scolparmi con lui non vo' per certo: Si crucci ne' sospetti. Oh ben n' ha merto! «Per dimestiche gioie avrà beati Giorni. Più figli a lui faran corona; E questi dalla madre ammaestrati, Che più scaltra sarà forse che buona, Attorno mi verran. Che non gli ho grati, Che dolce il lor garrito a me non suona, Ben tosto apprenderanno. A tutti ascoso Mi terrò. Così almeno avrò riposo. «Non credan che pentito a lor ritorni, O che imporre mi lasci altre catene; Nè che a profitto loro un di poi torni Quell' aver, che per legge a me pertiene. Il decreto che a grami e soli giorni Mi danna, non da lor, da me ne viene. Stolti sarien se ne menasser vanto, Chè innanzi a tutti ho il lor volere infranto. «Pur se dal cor Luisa non m' ha tolto, Se l' amico d' Antonio io sono ancora, Spero alcun giorno consolato, accolto Dall' amor del cognato e della suora.» Gli schiara tal pensier d' un tratto il volto, E d' un conforto l' avvenir gl' infiora. Cosi gli presagisce or guerra or pace L' ardente fantasia che mai non tace. I monti già rivede, onde la bella Terra che gli fu culla, intorno è cinta, Ed a' ricordi dell' età novella Vien mal suo grado l' anima sospinta. «Felice (così pensa) io vissi in quella, Ma fu tosto per me la gioia estinta. La libertà, sublime, innato affetto, Mi si cercava soffocar nel petto.» Ed angoscia maggiore il cor gli grava Quando al loco natio si fa più presso. Come diversamente ei vi tornava Garzone, e confondea co' suoi l' amplesso! Lode porgeagli ognuno, e l' affidava Di splendido avvenir, mal noto ad esso. Tal che agli encomi, alle lusinghe avvezzo, Nudrîr l' animo incauto orgoglio e sprezzo. Ei ricco d' un saver, che non l' ha reso Felice mai, nel povero ed incolto Villaggio or che farà, sopposto al peso Del comun biasmo, e detto iniquo o stolto? Che farà se sfuggito, o non compreso Da chi mosso a pietà gli desse ascolto? Sol l' omaggio di tutti a lui gradita O men trista polea fargli la vita. Se lo coprisse ancor la sacra veste Ch' ha profanata, ognun lo inchineria. Consiglio esser potrebbe all' alme oneste, E condur le pentite a retta via; E buon rivelator della celeste Nuova ogni orecchio con piacer lo udria. Poi si corregge: «Or libero mi trovo, E la catena spezzerei di novo.» Eccolo nel villaggio. Ei fitti al suolo Tien gli occhi, chè d' altrui lo sguardo schiva, E con orme dubbiose, e mesto, e solo, Seguendo ei va l' allegra comitiva. Unico suo compagno è un negro stuolo D' immagini, onde pace ei non deriva. E quando al tetto dove nacque è giunto, Spera, teme, odia, ed ama in un sol punto. Ma la scala non sale. Intorno mira Stupido, sbigottito, e alcun non vede. Si strugge di saper se ancor respira La madre, e teme entrar, se pria nol chiede. Indarno per brev' ora ivi s' aggira; Monta un gradino e poi sospende il piede. Alfin tronca gl' indugi; e «chi potria Respingermi?» egli dice. Indi s' avvia. Il sol, quasi morente, un qualche raggio Di viva luce all' alte cime invia: L' ora più grata al meditar del saggio, Che sè medesmo in quel silenzio obblia. Ed all' eterna Mente ei reca omaggio, Onde il creato intero ebbe armonia; Mente, che d' ogni bello il fonte schiuse, Quindi il senso e l' amore all' uom ne infuse. Oh sublime natura! a te rivolto Talor l' umano spirto al Ver s' eléva. Per qualche istante ei par da' lacci sciolto, Di cui cinto venia pel fallo d' Eva. Fallo funesto! Tu per sempre hai tolto Che l' uomo all' onda del saver qui beva. Dalle cose create almen promessa Ei trae, che altrove gli sarà concessa. L' uomo semplice e pio, che indefinito Quest' innato desir sente nel petto, Agli eterni soggiorni, ove infinito È il pianto e l' allegrezza, alza l' affetto; E d' ogni grave e lieve error pentito, Ai gaudj aspira dello stuolo eletto. No! l' uom non è infelice ove Speranza, Ove Fede, ove Amore hanno la stanza. E forse nel pensier di quella pace, Che dolcezze supreme all' uomo infonde, La madre di Giovanni ora si piace, E la vista terrena a lei s' asconde. Chiuse tien le pupille e sempre tace, Nè con cenni o con moti a' suoi risponde; Tal che omai la speranza è lor fuggita D' ascoltar dal suo labbro un suon di vita. Raccolta intorno a lei sta la famiglia, E del suo fin presaga ella già sembra. Come il vecchio mutò! Basse ha le ciglia, E quasi emunte di vigor le membra. All' austero di pria più non somiglia; Ed anzi atto verun non lo rimembra. Fiaccato è in lui l' antico animo altero, Che legge era ai congiunti e duro impero. Nell' astuta sua mente alcun non vide A' felici suoi giorni. Or mire ascose Non cova, e de' suoi figli il duol divide Poi che l' antica autorità depose. Dolce ei guarda Luisa…Oimè! succide Occulto affanno al bel volto le rose! E Pier s' è fatto taciturno e mesto Dal di che gli recaro il don funesto. Era ogni sguardo nella madre intento, Quando l' uscio di subito s' apria, E Giovanni appari. Dir lo sgomento Che tal vista destò, nessun potria. Con simulata calma il turbamento E l' angoscia del core ei mal copria. Tace ognun quasi fosse a tutti estrano; Alfin Luisa a lui tende la mano. Nella madre ei s' affisa, ognor sopita In profondo letargo, e invan l' appella. «Non v' ha loco a sperar che torni in vita?» Chiede con voce rotta alla sorella. «Ahi da tre giorni è d' intelletto uscita, (Singhiozzando così risponde quella) Tardi giungi, o fratel. Per rivederti Gli occhi, che ti bramâr, non sono aperti.» Piero del padre suo l' animo scorge Turbato oltre misura, e gli s' accosta: Qualche detto bisbiglia, e il braccio sporge Ad appoggio del vecchio. A lui risposta Giorgio alcuna non fa, ma lento sorge, E sorretto dal figlio indi si scosta. Solo Luisa con Giovanni or resta, E gli favella affettuosa e mesta. «Giovanni, onde ne vieni?…Oh fratel mio, Tu soffri, il veggo, e forse hai più sofferto.»— «Non curarti di ciò. Comunque pio Ora è vano il compiangermi, e nol merto. Il passato copriam, cara, d' obblio; Solo dell' amor tuo rendimi certo. Oh qui fossi tu sempre!—E non mi dici Nulla d' Antonio? Ov' è? Siete felici?» E la fanciulla allor con doloroso Accento rispondea: «Dunque non sai Che un' ora di dolcezza e di riposo, Dopo la tua partita, io non gustai? Dura sorte il colpi. Non m' è già sposo, E, presaga ne son, nol sarà mai. Pensa, Giovanni, al dolor mio: soldato, Misera, egli è, da' suoi, da me strappato.» E piangendo seguia: «Talor mi scrive, E palesa per me lo stesso core; Ma forse mentre parlo ei più non vive, Perchè morte rapir suole il migliore. Questo ed altro dolor fa sì che prive Pur d' un raggio di speme io passo l' ore. Povera, quale or sono, avermi a nuora Suo padre non vorrà, s' ei torna ancora. «Povera or sei? Che dici?»—«A te favello, Come non fossi del passato ignaro. La fortuna per noi mutò, fratello, Nè contro l' ira sua ci fu riparo. Il tetto che abitiam non è più quello; Se qui rimani il ver ti sarà chiaro. Un di non v' apparia traccia di stento; Or d' agi v' ha penuria e d' alimento. «Non pur misera e inferma abbiam la vite, Mentre gravano il suol leggi più dure, Nè le sole ricchezze a noi rapite Son dell' industre verme, o mal sicure; Danno questo comun; ma n' han colpite, Dacchè lungi tu fosti, altre sventure. La frode d' un malvagio al padre ha tolto Quell' aver che in molt' anni avea raccolto. «Tal che fama godea d' uomo onorato, Una impresa arrischiata a lui suase; Ma poi che di molt' altri accumulato Ebbe l' oro costui, ratto s' evase. Ne fu stupito il padre e desolato; Nè la sventura sua qui si rimase; Chè di quel tristo entrò mallevadore; Tanta fede ponea nel traditore. «Così più d'un bel campo egli ha perduto, Onde cansar vergogna e prigionia. Ma qual mai da quel giorno è divenuto! Perdè mente ad un tratto e vigoria. Se Don Luigi non ci desse aiuto, Il bisogno alla madre or falliria; Nè durar molto quel soccorso pio Ancor potrà, chè d' anni è carco il zio.» Tenea Giovanni ognor la fronte china. «Presso all' inferma alcun non t' è d' aita?» Le chiese alfine. «Oh si, qualche vicina Vien qui da' nostri casi impietosita.»— «Nè in casa havvi altra donna? (ei Caterina Nomar non volle), o forse è a lei sgradita?»— «Fratel, di chi favelli? Io son qui sola.»— «Al partir mio di nozze era parola.»— «Parli di Pier?» Giovanni del rossore Si tinse che rivela un' opra rea, Sebben per quella giovine d' amore Palpitato un istante ei non avea. Ma che Luisa l' occhio indagatore Nel suo volto fisasse egli credea, Ed in lui quel sospetto apparir vera Una fiamma facea, che tal non era. «O Giovanni, seguia la giovinetta, Misero al par di noi divenne Piero. Parve obbliar la donna a lui diletta; Ma credo ei l' abbia ognor fitta in pensiero. Poi che n' ebbe il canestro, ei l' ha negletta; E perchè ciò facesse è ancor mistero. Cosa fra que' presenti egli ha raccolta Che la pace dall' anima gli ha tolta.» Non risponde Giovanni: il guardo porta Sovra la madre, tuttavia tranquilla; E la sorella, in quell' istante sorta, Versa di qualche farmaco una stilla Sul labbro dell' inferma. «È d' una morta (Sospirando dicea) la sua pupilla. Più veder non ti può! L' estrema gioia Iddio non le consente anzi che muoia.» «Fu la sorte de' figli acutag dolia Agli ultimi anni suoi. Che il nostro tetto Domestiche dolcezze non accoglia, Rimpiangea sempre con materno affetto. —La casa, o figlia, d' allegrezza è spoglia, Se vi manca un germoglio (era il suo detto) Promessa all' avvenir. Nè qui lo spero, Poichè avverso alle nozze è fatto Piero.»— «La giovinetta, a cui stretto con fede Parmi s' avesse, è dunque sposa altrui?»— «No, fanciulla restò. Miglior mercede, Credo, che si mertasse ella da lui. Povera or più non è: lei sola erede Un congiunto nomò de' beni suoi; Ma dolorosa, solitaria, e muta, Ogni offerta di nozze ella rifiuta. «Piero in questo la imita. A' dì ridenti, La ricca di Martino e vaga figlia Spesso non gli negò teneri accenti; Nè opporvisi parea la sua famiglia. N' eran beati i due nostri parenti; Ma Pier guatolla ognor con fredde ciglia. Or di questo a ragion s' allegra molto Martino, che da noi l' animo ha svolto. «Provocò forse alcun grave peccato La collera del Ciel che su noi scese, Ancor dal nostro pianto inespiato.» Forte Giovanni a questo dir s' accese. Che alludere volesse al profanato Manto sacerdotale, ei ben comprese. Ella confusa al suol volse gli sguardi, E disdirsi bramò, ma troppo tardi. In questo mezzo, Giorgio e Piero al letto Della inferma tornaro. Ella si scosse, Gli occhi dischiuse, e vide il caro aspetto Di colui che credea ben lungi fosse. La gioja oppresse quel materno petto: Parlar volea, ma invano il labbro mosse; Le tremanti sue braccia alfin gli aperse: Di baci e pianto il viso ei le coverse. L' impeto del piacer nell' egra mente Le virtù scompigliava e confondea. Ben a dir cominciò distintamente, Anzi in rapide voci prorompea; Ma il passato dolor colla presente Contentezza la misera mescea. Stavano i due fratelli ai vani detti Muti, e commossi da diversi affetti. «Don Giovanni, diceva, (ed affannoso N' era il respiro) rassegnata e forte Ora vo incontro all' eterno riposo, Benchè temuta io mai non ho la morte. Inquïeto pensiero e doloroso M' era soltanto di costei la sorte (E Luisa additò); ma paga io sono, Se alla custodia vostra or l' abbandono. «È Giorgio d' anni grave; e che lo stento E l' età lo infiacchîr, l' aspetto attesta. Ci dà coll' opra sua Pier l' alimento: Sia la vita, se grama, almanco onesta. Or se voi qui non foste, in tal momento Chi conforto saria, chi guida a questa, Finchè non torni Antonio e sua la dica? Oh Don Giovanni, il Ciel vi benedica! «Fra voi, Piero e Giovanni, era contesa, Che tante mi costò lacrime amare. Ora in pace voi siete. A voi la Chiesa, Giovanni, vieta le fraterne gare. —Se del fratel rammenti ancor l' offesa, Non voler accostarti al santo altare.— Questa dell' Evangelo è la divina Voce: a voi la insegnò quella dottrina. «Men turbato, o mio Piero, io ti vorrei. Tu che sugli altri al padre rassomigli, Ed hai più tempo, ajuto esser gli dei. Pier! della madre tua segui i consigli, Ed abbraccia Giovanni. Oh gli occhi miei Paghi si chiuderanno, amati figli, Se conciliati vi vedran. Fratelli! Pace: un amplesso ogni rancor cancelli.» Si guatano i fratelli; e Pier, le braccia Tese verso Giovanni, a sè lo chiama. Parola non gli fa, perchè la traccia D' ogni antico livor togliere ei brama; Ma dolce lo contempla, indi l' abbraccia, E vuol cogli atti palesar che l' ama. Benchè Giovanni a lui renda l' amplesso, Non par compreso dell' affetto istesso. Ei lento si avanzava, e lento apria Le braccia al fratel suo. Parer tranquilla Forse quella superba alma vorria? No, bagna gli occhi suoi più d' una stilla. Sciogliersi dal fratello egli desia, Nè tener fisa in lui sa la pupilla; Ha le fiamme sul viso, e intento sembra Il tremito a celar delle sue membra. Leva le palme, e con voce sommessa L' inferma vecchia al Ciel rende mercede. In lagrime è Luisa, e sta perplessa, Quasi nieghi alla vista intera fede. Alla gioja, che male avria compressa, Libero sfogo il genitor concede. Di dolcissimo pianto ha molle il ciglio, Ed or l' uno contempla, or l' altro figlio. Piero d' un' opra buona il dolce frutto Prova in sè stesso, e compiere la vuole. Ei sa come il fratello ami anzi tutto L' omaggio altrui, sia d' atti o di parole. Quindi de' loro casi il rende istrutto; E come l' uomo incolto al dotto suole, Consigli da lui prega, e si consida Che siagli in avvenir soccorso e guida. Più Giovanni non regge. È la risposta, Ch' egli rende al fratel, tronca e confusa. Ogni altera sembianza or ha deposta, Qual è colui che sè medesmo accusa. Da' congiunti di subito si scosta, Nè del ratto partirsi a lor fa scusa. Per quel contegno suo, di meraviglia Son ripieni il fratel, Giorgio e la figlia. Nella stanza già sua, dove si spesso Sul paterno rigore ei pianto avea, S' è racchiuso Giovanni, e il core oppresso Alle memorie di quei di correa. Poi fatto ingiusto, e crudo anzi, a sè stesso Sentiasi l' alma di gran colpe rea; Tal che a sè rampognando, ei ne scagiona Persino il padre, e in tal guisa ragiona: «Ben del padre avvisò l' occhio veggente Che all' opra del villan non era io nato, Ma pei nobili studj avea la mente, Che potean collocarmi in alto stato. E parve al senno suo convenïente, E dovesse fra tutti essermi grato Il sacro ministero. Oh solo affetto Destinommi all' altar da fanciulletto! «E rallegrarsi non l' udia talora Del mio bello avvenir? Come ho risposto Al paterno amor suo? Mi tacqui ognora, Ognor gli tenni il mio pensier nascosto. Chi, non che il padre, immaginarsi allora Potea ciò che qui dentro avea riposto? E quando alfin lo volli altrui palese, Fu con atto brutal, che tutti offese. «E Piero, il fratel mio? Da me ferito Nella parte più viva ei fu del core. Con animo spietato a lui rapito Della vita terrena ho il più bel fiore. Ah non sarà che in me resti impunito (Risoluto ei seguia) sì grave errore; Ben dal turbato spirto ora comprendo Che pace io non avrò, se non l' emendo. «Ma in qual modo emendarlo?…Il suo perdono Io vo', ma prima conquistarne il dritto. E che farò pel padre mio? Non sono Atto a cosa che torni in suo profitto. Ch' io rieda alla città? Ma in quel frastuono Chi bada allo stranier povero, afflitto? Al bisognoso dell' altrui soccorso Volge, come a nemico, ognuno il dorso.» Oh spirito immortal, come diverso L' affetto che ti muove è d' ora in ora! Ad un tratto amar puoi chi t' era avverso, Lunghe offese obbliando in picciol' ora. E il nappo che di fiel ti parve asperso, Lieto allor tu delibi, e ti ristora; Spesso il mal ti lusinga e ti seduce, Poi la virtù sul buon sentier t' adduce. Or ne' saggi proposti si conforta Giovanni, e a sensi miti il petto schiude. Una vita d' amore è in lui risorta, Che l' antico tenace astio preclude. Irrequïeta voglia ora lo porta A veder se la stanza ancor racchiude Ciò che partendo vi lasciava; e meste Le luci affisa nella sacra veste. Vi fu (certo per caso) scoperchiata La vecchia cassa in cui deposta ell' era. Oh quante e quante volte ivi prostrata Stette la buona madre a mane, a sera! E di che pianto non l' avea bagnata, Mentre al Cielo salia la sua preghiera! Giovanni or la contempla, e par che noto Gli faccia della madre il pianto e il voto. «Coprir di nuovo mi potria le membra.» Questo pensier d' un tratto a lui balena. Poscia di quelle mura ei si rimembra, Che a' bollenti anni suoi fur lunga pena; Nè più legge tiranna ora gli sembra Quella che i moti impetuosi affrena. Sente che pace vera offre l' altare, Nè più duro il servirlo omai gli pare. La foga degli affetti a lui s' è tolta Che al santo ministerio avverso il fea, Dacchè mercede iniqua ebbe raccolta Dalla donna che tanto amata avea. Ed aprirsi all' amor più d' una volta Quell' anima oltraggiata non potea; Nè voluto l' avrebbe, ancor che spento Non ne avesse l' orgoglio il sentimento. —Se il primiero cammino egli ripiglia, E più fermi v' imprime i suoi vestigi, Appartiengli lo aver che alla famiglia La morte rapiria di don Luigi. L' uom si farà che al buono oprar consiglia, Ed a' suoi detti riverenti e ligi I coloni saranno. È d' onor degno Quei che favella del celeste regno. Di rinchiudersi ancora ei fa pensiero, Perchè sia l' interrotta opra compita, E di mutar con istudio severo I vani sogni dell' età fiorita; Finchè, ministro eletto, a quel mistero, Onde scende quaggiù l' eterna Vita, Vêr la terra natia faccia ritorno, E di festa comun v' arrechi un giorno.— Così dentro ei ragiona, e dubbio pende, Quasi un pensier lo sproni, ed un lo arresti. Fiacco spirto ei si chiama, e si riprende; Poi si volge di novo a quelle vesti: Curvasi involontario e in man le prende; Or con occhi sereni, ora con mesti, A lungo le contempla, e, qual da possa Intima trascinato, alfin le indossa. E giacchè intero mai non muta il core, Egli freme al pensar che il mondo dica Dal padre ei fosse o dal fratel maggiore Costretto a ripigliar la strada antica. Quanta allegrezza Piero e il genitore Ne avranno, immaginar non gli è fatica; E quel riso, quel plauso e quella festa Già ne punge l' orgoglio e lo molesta. Ma dirà (correggendosi ei conclude) Che all' opre sue fu sempre unica norma Quel libero voler che in petto chiude, E non cede all' altrui, nè si conforma. E così la superba anima illude, Che disdegna d' ogni altra andar sull' orma; Anima, cui l' amor soltanto apria, A minacce o comandi ognor restia. Vuole a un punto e disvuol, chè in lotta stanno Contrari sentimenti entro quel petto. «Se celare il piacer color non sanno; Se di lode qualcun mi volge un detto, Che della madre secondar l' inganno Volli, condotto da pietoso affetto, Loro aperto io dirò: nè mio pensiero Fu mai di rivestir l' abito nero.» In tal guisa al sospetto offre alimento, Che dal core parea raso da pria; Pur, tien saldo il proposto, e a passo lento Dell' inferma alla stanza egli s' avvia; La porta ne dischiude, e sempre intento A celar quel che dentro gli bollia, Con risoluto ma tranquillo aspetto S' arresta della madre a pie' del letto; Indi gli sguardi attorno ei volge, e impresso Mira un alto stupore a tutti in volto, Giacchè l' intimo senso ha ognun represso, Nè gesto, occhio od accento a lui rivolto. Stanno il padre e i fratelli all' egra appresso Senza mettere un suon, però che sciolto Un improvvido cenno, una parola Forse il bel sogno avria, che la consola. Giorgio alfine da lei si scosta un poco, E basso basso a sè Giovanni chiama. «Figlio, se in te del padre un prego ha loco, Se la vita non vuoi farmi più grama, Di quella veste, deh! non farti gioco, Nè sia della mia casa empia la fama. No! per le sacre cose irriverente Nessun di tua famiglia ebbe la mente.» Così calda ne vien, così verace Dalle labbra del vecchio la preghiera, Che Giovanni n' è scosso, e vuol che pace E letizia per lui racquisti intera. E quindi un solo istante ei non gli tace Qual sia la voglia sua ferma e sincera. Attonito n' è il padre, e non concede A quel novo parlar che dubbia fede. Piero, che tutto intese, a lor s' accosta, E prorompe: «Fratel, resta con noi; La speme della casa è in te riposta, E dì men tristi ritornar vi puoi. La brama delle nozze io l' ho deposta; Pure amerò qual padre i figli tuoi. Saran del genitor paghe le ciglia Quando intorno vedrassi altra famiglia. «Oh ti consenta il cielo una compagna Buona, operosa, che al tuo cor risponda! Tregua diamo al dolore, e la campagna, Speriam, culta da noi, meno infeconda.» Di lagrime Giovanni il viso bagna, E Piero aspetta invan che gli risponda; Sol la destra a lui tende, e con affetto Lo tiene al seno lungamente stretto. Poi torna alla solinga cameretta, Pien d' affetti soavi a lui mal noti. Come la sacra veste or gli è diletta, Or che avversi de' suoi le sono i voti! Or che a libero cor ne fa l' eletta, Ed i soli seconda interni moti! Con fervida pietà salire al tempio Disegna, e a' sacerdoti esser d' esempio. Pago di quello spirto è appien l' orgoglio; Nè più v' è traccia di pensier molesto. Egli alfin dir potea: «Perchè lo voglio, Ora il sacerdotale abito io vesto.» Medita qualche istante, e poscia un foglio Prende, vi scrive risoluto e presto, Indi lo piega, lo ripone, e a volo Ritorna della madre al letticciuolo. Dell' inferma si fe, contro ogni avviso, Miglior lo stato e lucida la mente, Ella domanda, stupefatta in viso, Chi le rese ad un tratto il figlio assente; E brilla in lei dolcissimo sorriso Quando dalla sua bocca il ver ne sente. Prega solo il Signor che le conceda Vita, finchè all' altare asceso il veda. Ei di questo l' affida, e insiem le dice Che lasciarla di novo è a lui mestieri; Unto del sacro Crisma esser non lice L' uom che assolto non ha gli studi intieri. L' assicura che appieno ora è felice, E che fiso nel cielo è co' pensieri. Ne gioisce la madre, e a sè vicino Aver già crede un Paolo, o un Agostino. È il giorno del Signor. Fe lungo invito La campana del tempio ai suoi fedeli. Il prodigio d' amore è già compito; Scese nell' Olocausto il Re de' cieli. Con umili sembianze al santo rito Stan le donne racchiuse in bianchi veli; E gli uomini al pregar del sacerdote Fann' eco con alterne e rozze note. Consumava il mistero, e benedia Il sacerdote ai villici raccolti. Affettuosi cantici a Maria Da voci femminili or son rivolti; Poi segue una funèbre salmodia, Ce pace eterna supplica a' sepolti; E alfin da fanciulletti un canto s' ode Che invocano del ciel l' angel custode. Esce il popolo in folla, ed al vicino Paese drizza frettoloso il piede. N' è disgunta la chiesa, e sovra alpino Masso, eminente e solitaria siede. Chi prende la salita in sul mattino Soltanto a mezzo del sentier la vede, Poi che fan come un cerchio a quelle sante Mura d' abeti e tigli annose piante. Rompe l' albor. Dal sole irradïate, Fuggon le mattutine ultime stelle; E, quasi dal Signore allor create, Splendon valli e colline allegre e belle. L' anime quivi a libertà son nate; Ma sventura ed error l' han fatte ancelle: Pur l' antica speranza alfin risorta Le rialza, le infiamma e le conforta. Vanno a crocchi i villani. Il giovinetto (L' uso il concede) accostasi alla bella, Nè guidarla alla casa è a lui disdetto, E per cammino d'amor le favella. Con verecondo, ma giojoso aspetto Tace e tien gli occhi al suol la villanella: Invidia n'ha di lei più d'un'amica, E in cor la gelosia preme a fatica. Perchè giovane alcun non avvicina Quella gentil si mesta e si pensosa? Bella forse non è la montanina. Sebben dal volto gli sparì la rosa? Di lei vi risovvenga: è Caterina, Che dicevasi a Pier promessa sposa. Povera allora, e in panni disadorni, Pur le agiate vincea di quei dintorni. Or negletto non ha l' abbigliamento; Ma quanto vaga men così vestita! Ne' languidi occhi suoi quel raggio è spento Che di tutto il bel volto era la vita; Nè sembra che a sperare abbia argomento, Pur dal bujo avvenir, conforto, aita. Miglior fregio una rosa erale al ballo, Che non sono il granato ed il corallo. La mutata fortuna ahi non ripara Ai poveri d' amore! Indarno or brama Caterina quel tempo, in cui sì cara Credeasi all' infedel che la disama. Chi nel fior dell' età la feccia amara Gustò del disinganno, e un ben richiama, Un ben perduto, che trovar dispera, Mai sentir non potrà letizia vera. Qual fonte avesse l' abbandon di Piero Penetrar l' infelice almen vorria, E toglierlo dal core e dal pensiero Spesso propon, nè breve ora l' obblia. Vô in queto dolore ha quel primiero Furor, che le spirò la gelosia, Dacchè noto le fu, come per fede Legossi ad altri di Martin l' erede. Oh quanti affanni, oh quante interne lotte Nel segreto pati delle sue mura! Pur querula non era, e sol la notte Concedea lungo sfogo alla sua cura. Ella piangea con lagrime dirotte Della casa di Giorgio ogni sventura, Ed era dolce voluttà quel pianto Versato per colui che amava tanto. Un vivo senso di dolor si mesce A ciò che dato un di le avria contento. La fortuna cangiata ora le incresce, Perchè non può disporne a suo talento. «Dovrei gli agi gustar, mentre s' accresce (Così fra sè ragiona) a Pier lo stento?» E come possa mai recargli aita Pensier nissuno alla fanciulla addita. Povera Caterina! Ella dispera Una gioia avvenir da questo amore; Pur soggetta vi tien l' anima intera, E partir coll' amato ama il dolore. Tacita geme, e sol nella preghiera, In cui liberamente apre il suo core, Quel caro nome ripetendo ogni ora, Meno infelici di dal Ciel gl' implora. Al sacrificio dell' altar presente Ella ben fu con animo devoto; Ma quando al comun prego unir la mente Volea, n' era il pensier da lui remoto, Chè la madre di Pier giacea soffrente Per gravissimo morbo, ad essa è noto; E si accorava a lei fosse interdetto Correr cogli altri dell' inferma al letto. Ed oltre un tal divieto, assai le pesa Che cercarne ad altrui non può novella, Se non con basse ciglia e guancia accesa, Se non con balba e timida favella. Sperò, ma indarno, al varco della chiesa Abbattersi di Pier con la sorella. Amica a lei sapeala: una parola Volgeria senza tema a questa sola. In Luisa confida; è di beffardo Riso incapace un' anima sì schietta. Perchè dunque il suo passo è incerto e tardo? Che svagar può così la giovinetta? Ah, del suo Piero la feri lo sguardo, Non più d' ira infiammato e di vendetta. Quante lagrime allevia e quante ambasce La morta speme che nell' uom rinasce! Come nei di che l' alma avea tranquilla, Dolce è l' occhio di Pier, ma non giocondo. Ella, è ver, nol sostien; la sua pupilla China un timido senso e verecondo: Pure in lei si ravviva una scintilla Di quella fede già caduta al fondo; E per la via che al suo tetto la scorta Di più bello avvenir la riconforta. Alla casa ella torna, e, come suole, La parca mensa del mattino appresta. Dir quanto spera a' suoi divisa e vuole, E già nelle pupille il manifesta. A narrar ciò che avvenne, le parole Pensa e rimuta; un dubbio alfin l' arresta. «Forse a caso su me lo sguardo ha volto, E troppo, ahi lassa, il mio sperar fu stolto!» Così la voce in lei della ragione; Ma che retta vi porga amor le vieta. Misurata fiducia aver propone, Pur qual d' evento fortunato è lieta. Oh quante, oh quante volte ad un balcone Desïosa s' accosta ed inquïeta! Guarda, aguzza le ciglia, e se l' è avviso Qualcun vi s' avvicini, avvampa in viso. Da quel pensier la stornano gli accenti Con cui si volge il padre alla consorte. «Ieri a casa ei tornò. Ne' vestimenti Non mostra indizio di cangiata sorte. Come poi lo accogliessero i parenti, Come alla madre, già vicina a morte, Di sollievo egli sia, nè so, nè veggio! Andrà sempre colui di male in peggio.» «Quanto (dicea la madre) in breve corso D' età mutâr le cose! Or mi sovviene Che non fui per color senza rimorso, Quasi io n' avessi invidïato il bene. Or che bere l' assenzio a sorso a sorso E temprarne la mensa a lor conviene, Mi destano pietà, benchè l' offesa Ch' ebbi un giorno da Pier qui dentro è scesa. «Nè a scolparne colui pensar mi giova Che volontà di Dio così dispose; Pace la figlia nostra ahi più non trova, E mal ci tien le sue pene nascose. Spesso io le dico: D' obbliar ti prova, Figlia, chi all' amor tuo si mal rispose. Tranquilla ella s' infinge, e mi protesta Che ricordo di lui più non le resta. «Oh che giovano all' uomo e gli agi e l'oro, Se l' anima ha turbata e mal contenta? Allegra io la vedea porsi al lavoro, Come colei che assanno ancor non senta. Il ricordo di Piero è il suo martoro, Ne rinfresca il dolore e l' alimenta. Volano intanto gli anni, e trista e sola Al mondo lascerem questa figliuola.» Commossa della madre i detti udia La figlia, e come fosse ad altro intesa, Bassi avea gli occhi, e labbro non apria. Poi d' un caro pensier tutta compresa: «Lieta qual era un tempo, o madre mia, Forse ancor ti verrà la figlia resa. Il tuo cor, come il mio, non ti predice Che su lei già risplende un di felice?» È di maggio il bel mese, e la sua veste, Di color mille, abbaglia ed innamora. Leva il cultore alla Madre celeste Calde preghiere, e il santo altar ne inflora; Madre che sulle oppresse e sulle meste Anime versa le sue grazie ognora; E consolata a piè della Divina Quella pur si senti di Caterina. E in quel giorno festivo, a' suoi domanda Ch'ire al prato vicin non le si nieghi, Ove pensa comporre una ghirlanda A Lei che degli afflitti ascolta i preghi. Cogliendo i fiori, oh quai voti le manda Perchè benigna al suo desio si pieghi, E le faccia conoscere il mistero Che le tolse ad un tratto il cor di Piero! La sua ghirlanda sull' altar deposta, Alla casa ritorna, e a quel volume, In cui, chiara talor, talor riposta, È tanta luce dell' eterno Lume, Stende la mano, e a' due vecchi s' accosta, Come nei di festivi ha per costume, E ne legge alcun passo, onde una viva Fede in quelle innocenti alme deriva. Ma dalle sacre pagine lontana Dell' infiammata giovane è la mente, E perchè la disvia cosa profana, Un interno rimorso ella ne sente; Quand' ecco, vinta da potenza arcana, Il volume depon subitamente; Si getta della madre in fra le braccia, E le nasconde in sen la bella faccia. Ed abbaglio non fu di fantasia. D' un passo a lei ben noto erasi accorta, Ch' errò prima dubbioso in sulla via, E che poi risoluto entrò la porta. L' uscio della sua camera s'apria, E con sembianza dolorosa e smorta Piero appari, nè seppe in quel momento Mandar dalle sue labbra un solo accento. Attoniti su lui lo sguardo han fiso I due vecchi parenti. Alzar ricusa Dal sen materno la fanciulla il viso, Non so se più tremante o più confusa. «Piero! (il padre alla fin) dell' improvviso Tuo venirne fra noi qual è la scusa? Che ti può ricondurre in queste soglie. Mentre sai che l' entrarvi a te si toglie?» Ha Piero quel color della vergogna Che succede alla colpa, e pinge il buono. «Ah del vostro perdono a me bisogna, Che reo come infelice io già non sono. Nè crediate però che speme io pogna In un lieto avvenir per tal perdono: Amarmi ancora non potrà! lo sento; Sappia almen quanto fosse il mio tormento.» Dal seno, in questo dir, leva uno scritto: L'ha vergato Giovanni. Egli si chiama Di grave fallo vergognoso, afflitto, E solo a ripararvi intende e brama. Chè saria da rimorsi ognor trafitto, Nè godrebbe più mai d' onesta fama, Quando la pace antica e i lieti giorni A cui gli tolse o intorbidò, non torni. Poi Caterina ed il fratel nomava. Dicea che, d' ira pel secondo acceso, La dolcezze d' amor gl' invidiava. Però della fanciulla ei non fu preso; Che mal d' un' opra sconsigliata e prava L' effetto misurò nel core offeso. Sol turbare ei volea per pochi istanti La letizia de' due teneri amanti. E mescervi pensò la stilla amara Che l' avvelena, con mano crudele. La giovinetta, a lui su tutte cara, Fe mendace parergli ed infedele. E chiudea: «Spenta è in me l' antica gara, Or che a porto miglior drizzai le vele; E voglio, al sacro ministero assunto, Congiungere all' altar ciò che ho disgiunto.» Ambo côlti da forte meraviglia Sono i parenti. Caterina il viso Leva; effuse di lagrime ha le ciglia, Pur misto vi lampeggia un dolce riso. A fior che l' onda avviva ella somiglia Poi che fu dal suo cespite reciso; E più che il labbro, il bel volto palesa I veri e forti affetti ond'è compresa. Alla Vergine pria, cui non invano Si volse nel dolor, grazie ella rese, E qual pegno di pace indi la mano, Arrossendo nel viso, a Piero stese. Nè con vaghezza femminil l' arcano, Onde illuso egli fu, saver richiese. «Madre, l' odi? scalmò, di tanto rea Mi giudicò. Spregiarmi oh ben dovea! «E tu la offesa d' un inganno obblia, Onde al paro di me fosti dolente,» Volta a Piero soggiunse; e non finia; Ma le parole ne tagliò repente Quel senso di pudica ritrosia Che gli atti ne reggeva, il cor, la mente. E Piero: «Il mio rimorso è tardo, è vano: Aspirar più non posso alla tua mano.» Qui rise amaramente, e scuro alquanto Il cipiglio si fe del genitore. «Ben dici, Pier; non puoi creder che tanto Diverso da tuo padre io m' abbia il core. Ogni nodo d' amor non volle infranto, Mentre vi sorridea tempo migliore? Sì, spregiati noi fummo. Ora m' alletta Il calice gustar della vendetta.» «Padre, o padre, cessate! Una parola Piero attende da voi consolatrice. Lagrimaste voi pur sulla figliuola Quando a fatica s' infingea felice; Ed or che la tristezza a me s' invola, E la speme caduta alzar mi lice, Funestar mi vorreste? Appena uscita, La spina ricacciar nella ferita?» Ai detti della figlia allor compagna Si fa la buona madre, Al sol pensiero Di vederla dolente il ciglio bagna; E già quello del padre è men severo Ella il pregar col piangere accompagna, Tanto che sposa ei la promette a Piero. Taccio i caldi, amorosi e grati accenti Che volgono gli amanti a' due parenti. Poi che venner fra lor molte cortesi Parole corrisposte, e fermo il patto, Piero narrò come il fratel ripresi I sacri vestimenti avea d' un tratto; Disse che dal girar novi paesi Nè ricco egli tornò, nè satisfatto, Ma che al fraterno amplesso avea risposto Con animo alla pace alfin disposto. Della madre narrò, come sopita Ebbe a lungo la mente, e poscia il figlio, Di cui sempre avea pianto la partita, Ella rivide nell' aprir del ciglio. «Contro alla umana antiveggenza, in vita Serbolla, ei disse, di lassù consiglio; Talchè la sua salvezza, e quel ritorno Del fratel, ci allegraro in un sol giorno. «E domani, soggiunse, a mattutino Lascia Giovanni le paterne mura. Benchè la madre il brami a sè vicino, Ella ogni indugio di troncar procura. Finchè per quella mano il pane e il vino Non giunga al Creator la creatura, L' infinita Bontà supplica ognora Che le tardi il venir dell' ultim' ora.» Tanto Piero narrò; nè da importuna Richiesta era interrotto. A lor tacea Come tratto il fratello a notte bruna Sovra un colle vicin dianzi lo avea, E quando certo fu che orecchia alcuna Ivi al colloquio lor non attendea, «Fratello, disse, da me cosa udrai Onde estremo dolor, poi gioia avrai.» Tremante era la voce, e più l' altera Alma non apparia dalla favella. «Fratello, egli segui, d' un' opra nera Incessante il ricordo mi martella. Allor che molto sventurato io m' era, Parvemi la tua sorte ahi troppo bella! E che, per farti più felici gli anni, La vittima foss' io de' vostri inganni. «Cacciato, come sai, dalla dimora Paterna, io presi la deserta via Della valle vicina, e nostra suora Bramosa di vedermi a me venia. Un giorno (il ricordarlo assai m' accora) Mi suggerîr la bile e la follia, Ch' essa pur si accordasse in una mente Col padre, e la ripresi acerbamente. «Piangendo mi lasciava, ond' io pentito, E già tratto d' error, la richiamai. Di non seguirla m' accennò col dito, E oppormi al suo volere io non osai. Solo, di nuovo, in quel loco romito Mi vidi, e queste note allor vergai: —Deh, cruccio non serbar per quel che ho detto! Domani, alla medesma ora t' aspetto.—» Qual uom che da molt' anni in un pensiero Si chiuda, turbator del suo riposo, E scopra alfin che unendo il falso al vero L' arte ingannollo di nemico ascoso; Tal si rimase l' infelice Piero. E di sdegno infiammato e vergognoso Di sua credulità, formare a stento Sol potè questa voce: «O Dio, che sento!» E Giovanni seguia: «Presi il cammino Verso il nostro paese. In novi guai Ravvolgami, io pensava, il mio destino, Ma Luisa odïar mi deggia mai. Poco da me discosto un fanciullino Vidi andar solitario, e lo accostai; Chè portatore del mio foglio ei sia, Divisai tosto alla sorella mia. «Stretto al braccio tenevasi un paniero. —Figliuolo, ove ne vai?—(così gli chiesi). —Il don d' una fanciulla io reco a Piero.— —Fammi un tratto vedere—(allor ripresi). Rifiutava il fedele messaggero, Ma dalla mano quel panier gli presi. —Il segreto io terrò; nessun ci vede: Prendi, caro fanciul, la tua mercede.— «Povero di quel dono era il valore, Ma più gradito d' ogni rara cosa, Poichè la fiamma d' un ingenuo core, Fiamma casta e gentil, non v' era ascosa. Suggerimmi lo spirto tentatore Come turbarti un' ora avventurosa, E così bella al mio pensier dipinse La frode, o fratel mio, che alfin mi vinse. «Ben io sapeva che turbar la pace Al core innamorato è lieve impresa; Chè la fredda ragion dalla fallace Apparenza del vero è mal difesa. O provero fratello! è cruda, audace L' alma da sdegno e da livore accesa. Io posi fra que' doni il foglio mio, E gustai la vendetta. Empio desio! «E certo ti sembrò che Caterina Tra que' fogli il ponesse inavvertente. Io prima il lacerai con arte fina, Per ingannar la tua credula mente; Nè l' inganno falli. Se disciplina Del fallo io n' ebbi, se ne fui dolente, Tu stesso il pensa. Ognor questo rimorso D' ogni lieto pensier troncommi il corso. «Che non avresti il fatto in te sepolto, Quasi a conforto, il cor mi presagia, E che Luisa, appena il guardo vôlto A quello scritto, il ver ti sveleria; Indi dal labbro del fanciul raccolto L' indizio avrebbe della colpa mia, E che a trarti dall' anima quel tosco L' avventura diria del vicin bosco. «Oh mal gli effetti del fallir misura La mente umana! Al Ciel rendo mercede Che della madre la pietosa cura M' abbia al loco natio ritratto il piede. Che degna di te sia quell' alma pura, Piero, sull' onor mio, ti faccio fede. A lei vanne, o fratel. Non ho riposo Fin che tu non le dia la man di sposo.» Piero in silenzio avea la frode udita, Da sdegno e da dolor trafitto il seno, Sentimenti d' un' anima tradita; Ma pure all' ira non disciolse il freno. Ruppe in lagrime alfin: «Tormi la vita Era meglio di ferro o di veleno. Misero non sarei qual ora io sono…. Ah mai più non ispero il suo perdono.» «Nol pensar, mio fratello. Appien ti voglio Contento. Più di me, credilo, io t' amo: Apprenderlo potrai da questo foglio. Sì, l' onor tuo preporre al mio qui bramo; Qui dove d' alterezza io mi dispoglio, Confesso il torto, e in colpa me ne chiamo. Vanne all' amata, ed a suo padre il leggi: Se non t' aggrada, un' altra ammenda eleggi.» Molto disse Giovanni, e pregò molto, E Piero al suo consiglio alfin s' arrese. Come ei corse all' amata, e venne assolto Dopo breve preghiera, è già palese. Gianni, da forte stretta il cor disciolto, Lasciò nel di seguente il suo paese. Ciascun ne parla; chi lo tien demente, E chi tocco dal dito onnipossente. Tiene al biasmo volgar chiusa l' orecchia La famiglia di Giorgio, o non l' estima; E racquista vigor la buona vecchia, Or che cosa non è che più l' opprima. Caterina a quel giorno s' apparecchia Ch' ella ripose d' ogni voto in cima; Solo Luisa di sconforto è piena, Benchè voglia apparir queta e serena. Il pensiero d' Antonio in cor le serra Ogni varco alla gioja, e mesta langue. Sente i presagi di vicina guerra, In cui molto fia sparso italo sangue; E sogna che lontan dalla sua terra Cada il diletto suo pallido, esangue. «Giurammo, ella dicea, vivere insieme, Nè teco io pur sarò nell' ore estreme.» Trascorsero più mesi. Un lieto giorno Annunzia della squilla il suon festivo. Vien con serici drappi il tempio adorno; V' accorre in folla il popolo giulivo. Il novo Sacerdote oggi ritorno Farà. Dal fonte della grazia un rivo Di santa luce nel suo cor discese, E nello spirto del Vangel l' accese. Eccolo il nuovo Sacerdote! Oh come Umile a un tempo e dignitoso incede! Ch' ei non voglia aspirar soltanto al nome Di verace pastore, ognun prevede. Ha volte a dritto segno, e in parte dome Le antiche passïoni: egli ama, e crede. Arduo, gravoso è quel cammin che imprende; Ma sublime del paro esser comprende. Però giunto alla chiesa, affettuose Parole ei volse al popolo raccolto, Ed i sensi d' un grato animo espose Per la gioja diffusa in ogni volto. Disse che il loro affetto a tutte cose Preposto avrebbe, che gli amava e molto. Compagni ei li chiamò, fratelli, amici, E seco gli sperava in Dio felici: Poscia ascende l' altar. Fra le sue dita Ecco il mistico pane. Oh di che santa Gioja esulta colei che gli diè vita! Seco il padre si gode, e se ne vanta. D' una speranza che parea svanita Anche il volto a Luisa ora si ammanta, E commossa al fratello: «In questo giorno Deh pregate ch' ei faccia a me ritorno.» Ma di doppia allegrezza oggi è ricetto L' abituro di Giorgio. È presso, è giunta L' ora che in sacri nodi al suo diletto Si vedrà Caterina alfin congiunta. Poi che lunga stagion fissa nel petto Ebber gli amanti del dolor la punta, Qual non denno gustar dolcezza nova! Sventurato colui che non la prova. Dai dimestici gaudj è solo assente Don Luigi. Il vegliardo infermo giace Di lento morbo, e presso il fin già sente; Ma di lasciar la vita or men gli spiace: Poi che Dio quella grazia a lui consente, Che fu sempre il suo voto, ei muore in pace. Già il suon festivo della squilla egli ode; Leva le scarne palme, e al Ciel dà lode. Che il suo Giovanni a lui ne vegna attende Impazïente. Oh quanto ei lo desia! Arriva alfin. Le braccia il zio gli stende, Ed ogni male in quell' amplesso obblia. Poi, ricomposto, un sermon grave imprende, E vuol che degno successor gli sia, E di que' dritti e di quei beni instrutto, Onde raccoglierà tra poco il frutto. «Nipote (incominciò), non lieve incarco (Lo so per prova) sul tergo ti pesa; È di triboli pieno, e d' agi parco, Il cammino che a noi mostra la Chiesa. Di numeroso ovil ci pone al varco, E disposti ne vuole alla difesa, Tal che al nemico d' ogni ben, vietato Sia drizzarvi lo sguardo avvelenato. «Così negli anni tuoi mi venne imposto; Ed io mal saggio al facile governo Di miti agnelle mi credea preposto, Qual banditore del voler superno. Ma fieri lupi vi trovai. Se tosto Colla minaccia del tormento eterno Domo non n' avess' io la mente e il core, Ribellarsi poteano al lor pastore. «Oh gli avvisi d' un vecchio in te procura D' imprimere, o nipote! Alle tue mani, Come venne alle mie, verrà la cura Affidata di stupidi villani. Credi, m' è l' attestarlo or cosa dura, L' affetto e la ragion son mezzi vani Per la turba servil che al giogo nacque.» Qui sospirò l' infermo, e alquanto tacque. Ma poi riprese: «Simile all' armento, (Suo primo amore) è l' uom del monte, o figlio. Perchè l' anima almanco a perdimento Non tragga, spetta a noi dargli consiglio. Ma non ti prenda mai folle talento Di far che dalla terra elevi il ciglio. Con una gente che frenar bisogna, Torneria questa prova in tua vergogna. «Sii zelante nell' opre: anch' io detesto I tiepidi di spirto, i neghittosi. Ripeti al popol tuo ch' ei viva onesto, Senz' occhi all' altrui cosa invidïosi; Che non lasci per frivolo pretesto La chiesa ai di festivi, e che non osi Di profanar con atto, o riso, o detto, Le mura che al Signor danno ricetto. «Un terror salutifero nel seno De' tuoi soggetti infondi. E quando cade Ostinata la piova, od un sereno Lungo ne fraudi le sperate biade, Predica che se Dio sfrutta il terreno, Per lo sprezzo al pastor ciò sempre accade: E mai della campana il suon non taccia Quando fremono i tuoni, è il ciel minaccia. «Tali, o Giovanni, troverai che vana Faranno ogni tua prova. Ai santi riti Accostar li vedrai, ma con profana Mente, nè mai di vero cor pentiti. Correggere costoro è cura insana, Perchè troppo nel mal sono induriti. In pergamo ammonir non è periglio, Ma dal toccar tai vespe io ti sconsiglio. «Credimi, il travagliar per gente abbietta Opra è perduta: tal genia m' è nota; S' inimica a chi l' ama, e la vendetta È un supremo piacer per l' idïota. Della messe più bella (oh te l' aspetta!) Puoi trovarti un mattin la gleba vuota, Sfrondati i gelsi e colti o guasti i frutti, Tronche le piante e gli argini distrutti. «Rigido coi fanciulli, in lor ti forma Una schiera devota; e se in errore Li colga, il braccio punitor non dorma. Rende solo la sferza il cor migliore. Qual d' educarli sia la dritta norma Alla madre tu mostra e al genitore. Di' qual legge il bisogno a lor prescriva, Acciò che all' altrui carco alcun non viva.» Qui del nipote suo quasi all' orecchia Bisbigliò lunghi detti; il cor gli apria; E dir parea: «Giovanni, in me ti specchia, Ve' come d' arricchir trovai la via! Se tal non fossi io stato, alla tua vecchia Madre, o nipote, chi soccorreria?» Ma di Giovanni nel turbato viso Lesse l' infermo zio contrario avviso. Muto e pensoso il giovine si stava Ai consigli del zio. Da tanto errore Brama il senno snebbiargli, e insiem gli grava Turbar quella canizie all' ultim' ore. Ma la parola che ogni colpa lava Chi potrà pronunciar sul peccatore, Se in lui la voce del rimorso tace, Ed anzi dell' errore ei si compiace? «Quest' uom (parla fra sè) dell' oro un nume S' è fatto, e avrà pel vero alma restia; E quella voce del divin volume Invan gli porgerà la lingua mia. Quindi d' alunno peritoso assume Il modesto contegno, e al dir s' avvia. «O la vostra dottrina ho mal compresa, O dal Vangel discorda, e dalla Chiesa. «Dal vostro labbro appresi io fanciulletto Come tutto era zelo e fede ardente Quello stuol, che sentì nell' intelletto La luce dello spirto onnipossente; Come infiammato dall' amor perfetto La parola spandea che mai non mente. E co' modi soavi e coll' esempio Traea le turbe stupefatte al tempio. «Stretti vivean que' giusti in una cara Amistà. L' uno all' altro era fratello. Fratel! Voce novella in quell' amara Età, che degli oppressi era flagello. E offrian le cose possedute a gara All' infermo, al mendico, all' orfanello; Chè la bellezza dell' eterna idea Ogni cupida brama in lor vincea. «Bandian che succeduta al vecchio culto Era una legge, a cui fonte è l' amore, Nè al popolo alcun ver teneano occulto, Ma schiuso a tutti il libro del Signore. E pregavano il ciel che fosse sculto Il linguaggio di questo in ogni core; Linguaggio che speranza a' buoni infonde E sgomenta i perversi o li confonde. «Quanto mutò per me, poi che fissai Gli occhi sull' Evangelo, e al ver gli apersi! Gl' intenti, i voti di quaggiù trovai Ora miseri, or vani, ora perversi. Pochi giusti io conobbi, ingiusti assai, Assai nel lezzo della colpa immersi. Felice chi lo spirto a tempo schiara, E col pianto e coll' opra al mal ripara! «Perocchè doglia acuta all' ore estreme Sono i ricordi della via fallita Per colui che il giudizio ultimo teme, Teme il presagio dell' eterna vita. Pur se pentito amaramente geme, Non lo respinge la Bontà infinita. Oh pietosa dal ciel luce discenda, E vi spiri il dolor, che i torti emenda!» Ascoltava l' infermo irato in pria, Poi commosso. Agli andati anni il pensiero Tornava, e del sudor si ricopria Che di vicina morte è messaggero. Dopo lungo silenzio il labbro apria: «Cingi, figlio, la stola! Io voglio intero Rivelarti il cor mio: venir già sento Con solleciti passi il gran momento.» Obbedi don Giovanni, e al zio dischiuse Dei mondani disegni il torto fine, Tal che all' ultimo di più non s' illuse, E vero ei n' ebbe pentimento alfine. Più non oppose all' avarizia scuse, E la Clemenza che non ha confine, Nè a lei si volge creatura invano, Egli implorò. Giovanni alzò la mano. «Nel nome del Signore (in tali accenti Poi proruppe) t' assolve il labbro mio.» L' infermo sollevò gli occhi languenti, E compose le palme in atto pio. Indi del pane, il primo fra i portenti Che l' Amor suggeri, l' arse desio. Giovanni è presto a satisfarne i voti, E il sacro bronzo omai chiama i devoti. Corre il popolo in folla: una preghiera, Che lo accolga il Signore entro il suo regno, Suona da cento voci; ed è sincera Dimostranza d' amor quel pio contegno. È ver che il moribondo in tutta intera La sua vita mortal non ne fu degno; Ma desta reverenza un uom che spira, E dà fine il sepolcro all' odio, all' ira. In un pensiero il zio sempre ristretto, Avea con dubbia fede e mente accorta Ragunato dell' oro. Al suo diletto Nipote il disse, e aggiunse: «A' tuoi lo porta.» Ma don Giovanni: «Il naturale affetto (Dolcemente rispose) a ciò vi esorta. Questo amor per la casa, e questo zelo Sarà poi cosa che gradisca al cielo? «Poveri siamo, è ver; parte del dono Che voi mi proferite, io non rifiuto. Ricordivi però ch' altri vi sono Pur bisognosi, o zio, del vostro aiuto; E che l' uomo dal ciel non ha perdono Se per lui del mendico il labbro è muto. Lasciate che quell' or partito vegna Come giustizia e carità ne insegna. L' egro cedea del giovane all' avviso, Benchè solo gli stesse al cor vicina La famiglia di Giorgio, e l' occhio fiso Solo in Piero tenesse e in Caterina, Capi futuri della casa. Il viso Poi sul petto anelante egli dechina; Nè lo solleva più, chè sciolte l' ali Avea quell' alma dai nodi mortali. Ben tosto Don Giovanni a lui successe Negli obblighi e nei dritti. Alla sua cura L' anime dei villani eran commesse, Nè l' impresa gli parve ingrata o dura; Poichè da' Santi primi esempio elesse Ad un vita faticosa e pura; Come il vero pastor che non si stanca Cercar l' agnella che al presepio manca. Sulle pagine sacre e notte e giorno Sta pensoso, e lo spirto in sè ne imprime; Dal suo labbro il sermon non tuona adorno Di quella pompa che la mente opprime; Ma quel saver che nel mortal soggiorno Diffuse il Nazaren, chiaro e sublime Al circostante popolo palesa, E niun vuoto nell' alma esce di chiesa. L' acqua che versa della grazia i rivi, Gustar soltanto al popolo non fea, Poi che dal piano a' suoi monti nativi Spesso d' estate il cittadin traea; E coi buoni villani, a' di festivi, Fra beffardo e noiato si mescea; Poichè nell' umil tempio e ricchi e dotti, O dall' uso o dall' ozio eran condotti. Ma la virtù che infusegli il Signore Soggiogô dotti e ricchi: e se vittoria Tanta fosse gradita all' oratore, Dir non è d' uopo a chi ne sa la storia. Cagione di rammarco e insiem d' errore Fu per esso il desio d' umana gloria; Ha domo, è ver, quel senso, o al ben diretto, Ma più che non estima il serba in petto. E forse troppo addentro a sè compiace Perchè ciascun lo interroga e l' onora; Perchè muta d' avviso, oppur si tace, S' egli o l' avviso o il dir non avvalora, Perchè rinversa al suo venir la face La peste rea che tutto il mondo accora; Perchè il fratel, la madre, e Giorgio istesso Rispettosi si fanno innanzi ad esso. Quest' ombre in tanta luce oh che mai sono? Di fronte a tal virtù lieve è il difetto. A tutti egli soccorre, e in questo suono Al povero si volge, e all' uom negletto: «Consólati, o fratel; funesto è il dono Delle umane dovizie; Iddio lo ha detto: Troppo l' ama il mortal, troppo n' abusa, E tremenda ne aspetti in ciel l' accusa.» L' amor d' ognuno egli è. Cauto, prudente, Cerca i tristi condurre a buon consiglio: Ei li avvicina con benigna mente, Se nel dolor li sappia o nel periglio: Dell' opra li sotiene, e del potente Labbro, che l' alma tocca, e bagna il ciglio. Par che i pravi costumi egli ne ignori, E trionfa cosi di tutti i cuori. Sprezzo non mostra già per le terrene Ricchezze, ma il valor giusto n' estima. Spesso i volumi nella man si tiene Dell' arte che dall' uomo uscì la prima; L' arte io dico de' campi. Onde ne viene Ogni painta, egli sa; qual siale il clima Benigno o reo, qual cura accresca il frutto. Di ciò per lunga esperïenza è istrutto. E de' coloni nel' error ritrova Di moltiplici mali la radice: Ma fermo ei tiene, che dottrina nova, Con facile credenza, impor non lice. Quindi nelle sue terre ei ne fa prova, E il buono e tristo effetto o mostra o dice; Sicchè (tanta fiducia in tutti acquista) Scuola al cultor de' suoi colti è la vista. A ciascuno cosi luce e modello Del novo Sacerdote è la famiglia, Che i parenti, la sposa ed il fratello A saggie ed onorate opre consiglia. A tutto quanto è giusto, utile e bello, Ei vuol che a poco a poco apran le ciglia, E con piane ragioni a lor lo apprende; Nè però trarli dalla gleba intende. Empia egli chiama e in abominio al Cielo La sentenza volgar, che tor ricusa Dagli occhi della plebe il fitto velo Dell' ignoranza, ed a suo pro ne abusa. «Ipocriti, gridava, alme di gelo, Cessate almen dalla bugiarda scusa. Non l' utile comune un tal concetto In voi fa germogliar, ma vizio abbietto.»— Della casa di Giorgio il lungo pianto Voltò la rota della sorte in riso. Anche Luisa, che gran tempo affranto Ebbe il cor dalle angosce, allegra il viso. Più discosto non è l' amato tanto, E fra poco da lei non fia diviso. Di corpo infermo e più di spirto, ei chiese Ed ottenne il ritorno al suo paese. Oh come lieto egli depose il brando, E commiato pigliò dalla bandiera, Però che troppo lo atterriva il bando Della guerra vicina, e vil non era. Ma forzato lo avrebbe all' esecrando Misfatto di Cain forza straniera, E cadendo sul campo, alcuna gloria Non potea consolar la sua memoria. Nè il presagio falli. Guerresco suono Penetra nelle valli. Un' animosa Gioventù n' è riscossa, e in abbandono Lascia repente ogni diletta cosa. Nè l' impeto a frenar validi sono I pianti della madre o della sposa, Chè potente assai più degli altri affetti L' amor santo di patria infiamma i petti. Pur nella valle, ove Giovanni intende Al santo incarco, ne giugnea rumore; E destavano in lui le gran vicende, Non so dir se più gioia a più stupore. Un invido desio talor lo accende, A partir di que' prodi anch' ei l' onore; E rimpiange quel tempo, in cui la spada Cinger potea per la natal contrada. Poi si ripiglia; e al suo proposto pio Torna la mente, sol brev' ora infida: «È su tutti il maggior l' assunto mio, Perocchè posto io son dell' alme a guida. Oh l' impresa saprò giovare anch' io Senza che la mia man torni omicida. Su, ministri del tempio, in un pensiero Meco v' unite. È grande il ministero. «Sol commessa dell' armi al dubbio evento Non è già della patria la salvezza. Il vanto che per lei bramo e presento Quello non è della romana altezza, Ma la gloria d' un popolo redento, Che a civili virtù lo spirto avvezza; Nè della libertà (dritto dell' uomo) Vuol da pochi raccolto il sacro pomo. «Oh almeno universal resti il retaggio De' primi doni, che il ciel ne largia! Niun di tôrli s' attenti, e fatto oltraggio Con tal rapina al donator non sia. Fede, fraterno amore, ed a coraggio Temperata prudenza il ciel desia; Virtù che ben più rare ed ardue sono Dell' impeto guerrier che abbatte un trono. «E chi meglio di noi nell' altrui petto Infonderle potrà? Pur che sincero Zelo ne infiammi, e l' opra alcun sospetto Di riposto non dia venal pensiero, A infiniti nel cor, nell' intelletto, Recar la luce noi potrem del vero; Luce, onde solo il ben quaggiù deriva; Infelice la terra che n' è priva!»— Tal è del sacerdote il generoso Proposto, a cui l' effetto è ognor seguace. Contrasto nol rattiene, o fa men oso, E di molte vittorie egli si piace. Affronta ogni cimento, e sol riposo Trova la Carità nell' altrui pace; Come colei che nulla in terra chiede, E riposta nel bene ha la mercede. Vola il pensier dalla romita stanza Del giovane pastor nell' universo. In lui possa non ha la disperanza, Vera morte del cor, per caso avverso. Ma il trionfo del ver, colla fidanza D' uno spirto egli attende al ciel converso; E vede sempre nelle umane cose Quell' arcana virtù che le dispose.
A te che, se maestro il labro appella, Dice amico l' affetto, e tanto amore Poni nell' insegnarmi una favella Che riveli il pensier nato dal core, Offrire opra vorrei, che, pur non bella. Fosse almanco di questa assai migliore: Ma sgradirla non puoi, giacchè preponi Sempre un animo grato a tutti i doni.

FRANCESCA LUTTI.

Erano due fanciulle, ambo leggiadre, Ospiti nove dell' età fiorita: Orgoglio Rosa d' un canuto padre, Cui morte la compagna avea rapita; Stella conforto della buona madre, Che sol per questa figlia amò la vita, Quando, ancora olezzanti, ella depose Sovra una tomba d' imeneo le rose. Le case dividea breve confine Ove le giovinette ebber la cuna. Liete il tempo passâr, che ha poche spine, Sia largo o scarso il don della fortuna. Riuniva il mattin le fanciulline, E disgiunte venian all' ora bruna; Nè mai gradîr, se nol partian fra loro, Dono, gioco, trastullo, ozio e lavoro. Pur dissimile tanto aveano il viso Quanto il pensar, gli affetti e la parola. Tal cor Rosa sortì, che nato al riso Un istante al passato non rivola; Nè all'incerto avvenir tener può fiso Lo sguardo previdente un' ora sola; Qual farfalletta che tra i fiori vaga Dimentica del verno o mal presaga. Ed apparia dell' anima gioconda Nell' aspetto ridente orma palese. L'april de'giorni suoi fu pari all'onda Che torbida l'armento ancor non rese. Gaja era Stella pur, ma vereconda O fuggevole gioja ognor l' accese: Gioja, che spesso nel dolor moria, S'anco d'ignoti la sventura udia. Bruni avea Rosa gli occhi e chioma nera, Alte, snelle le membra e vigorose. Della bellezza sua fu molto altera, E l'ingegno a serbarla e l'arte pose. Di bellissimo ciel tinta sincera Parean di Stella le luci amorose; E dell'ignenuo volto il bel pallore Dagli affetti del cor prendea colore. Stella toccava il quarto lustro, quando La disser fidanzata, e tal fu prima Nella casta sua mente; un solo amando, D'altri non fe giammai pensiero o stima. Rosa, che a serj intenti ognor dà bando, Nè cura vuol che l'animo le opprima, O le faccia di riso il cor digiuno, Folleggiò sempre, e non amò veruno. Ama Stella il suo Carlo, a cui fu stretta, Come dissi, per fede; e non lontano Vede quel giorno, e col desio l' affretta, Che alla sua stringerà la cara mano. «Dio (la madre dicea) m'ha benedetta Quando a me ti dono; nè spero invano Ch' ei secondi i miei voti, ond' io tranquilla M' oda, o figlia, suonar l' ultima quilla.» Ma ritarda un evento il sospirato Di delle nozze. Carlo il suo paese È costretto a lasciar da tal chiamato, Cui sarebbe l'opporsi atto scortese. D' un vecchio infermo zio, che molto amato L'ha da fanciullo, al pio voler si rese; Nè solo il mosse affezïon sincera, Ma pingue eredità ch' egli ne spera. E Carlo s' apparecchia alla partita. Ne piangono i parenti; anch' ei sen duole. Un' alma sovra l' altre n' è ferita, Ma pur ch' ei vada gli consiglia e vuole, Benchè fatta simile alla romita Pianta ella sia, cui non avviva il sole; Ed un vago sgomento ogni sereno Antiveder par che le uccida in seno. «S' io m'allontano, non temer che il core Da te, Stella, mi parta un sol momento. Non è, credi, men forte il mio dolore, Ma il piacer del ritorno io già presento. Fabbro eterno di pene è in te l' amore: Gioja agli altri procaccia, a te tormento; Deh questo breve addio, se ti son caro, Non far, più che non merta, a entrambi amaro. Carlo, così parlando, or la ripiglia Di soverchia tristezza, or le rinnova Il giuro d' un amor, ch' egli assomiglia A ciò che non abbatte umana prova. «Oh Carlo, ella dicea, quando vermiglia Dima risplenderà la luce nova So che lunge n'andrai; ma perchè l'ora Che a me ti renderà l'anima ignora?» Partì. L' addio fu lungo e doloroso. Ne ripete ogni detto, ne rammenta Ogni lagrima Stella, e più riposo Non ha se del vïaggio a fin nol senta. Non è molto il cammin nè periglioso, Pur di sventure ognor sogna e paventa. Alfin n'ebbe uno scritto, ed in quell'alma, Preda al dubbio e al timor, versò la calma. Lieta, più che nel cor, nella parola, Che ragion di mestizia or non avea, Stella passava i dì tranquilla e sola, Così di rado a lei Rosa traea; Rosa che delle cure, onde consola Stella l' aspettar lungo, si dolea: Ed amandola assai, parle che, priva D' ogni dolcezza, in un sepolcro viva. Ama Stella lei pur, ma troppo il core Mobile ne conosce; onde le tace Della speme che posta ha nell' amore, E di quanto può darle o noja o pace. Sa che più d' una veste, e più d' un fiore, Che ben torni al suo crin, parlar le piace: Tema quindi ne fa (troncando a mezzo Quel che l' affligge) o fiore, o gonna, o vezzo. Di Rosa il genitor, che solo intende A far paga la figlia, e vive in questa, Non voglia, non capriccio a lei contende: Tal che spesso ha la casa ornata festa. Senza invidia il rumor l'altra ne sente, E il velo nuzïale intanto appresta, Così nella sua cara opra sepolta, Che non cura il frastuono, o non ascolta. Gusta, o fanciulla, quest' ore serene, Chè più dall' avvenir tu non ne avrai. Un foglio or ti consola. Egli riviene, E disgiunto da te non sarà mai. Obbligo di pietà più nol rattiene, Libero al fianco tuo lo rivedrai. Morì l' intermo zio. V' ha benedetti Entrambi coi solenni, ultimi detti. È Stella al collo della madre, e tanto Giubio al labbro suo vieta gli accenti. Con subita vicenda e riso e pianto Si alterna in quegli azzurri occhi eloquenti. L'eccesso del piacer calmato alquanto, Nunzia ne va di Carlo a'due parenti. Questi la dicon figlia, ed ella, oh come Corrisponde amorosa al dolce nome! Ad un attender breve ha il cor disposto. L' alba che fissa ha Carlo ecco già spunta! Stella il candido velo ha sovrapposto A ricca veste di sua man trapunta. Ma il giorno muore; ogni pensier deposto Ha per oggi ciascun della sua giunta. Ella soltanto nol depone, e teme Che ceda alla ragion sì cara speme. Pur tremante divien quando a quel giorno Un secondo ne segue, e invano attende; Nè la cagion che indugia il suo ritorno Messo o scritto di lui nota le rende. Volge atterriti sguardi a sè d' intorno, Nè dai sembianti altrui conforto prende; Anzi novella angoscia in cor le infonde Chi muto le sta innanzi o mal risponde. Tiene di quell' angoscia a grave stento Nel verecondo sen parte coverta. Del suo più ricco e caro abbigliamento Far disegna all' altar devota afferta. «Leva, al povero dice, un caldo accento Alla Vergin per me, poï che son certa Che del mio l' ha più car;» e di vermiglio Tinge il pallido volto, e bagna il ciglio. Quando s' ode narrar d' un caso atroce Che di pietà profonda ogni alma tocca: Ed il nome di Carlo a quella voce Confondersi, e passar di bocca in bocca. La forza, che ne trae così veloce, Mentre doma è dall' arte, e non trabocca, D' un tratto dal suo carcere si sciolse, E schiacciò chi recava, o capovolse. Ecco il dubbio crudel nell' agitato Petto le piomba, e poi solo v'ha regno. Agli impeti d'un cor già disperato Più vergogna o timor non è ritegno. Cadde, siccome corpo esanimato, Nell' amplesso materno a lei sostegno. Languida le tornò poscia la vita, Ma la ragion più giorni ebbe samarrita. Al venir della mente, amaro pinato Di voci, ahi troppo note! in cor le scende. Le son di Carlo i genitori accanto; La vecchia madre a lei le braccia stende, E dall' aspetto lor, dal bruno manto Che li ricipre, tutto ella comprende; E miracolo par che d' ora in ora Sotto la stretta del dolor non mora. Ben poco dall' estrema ora lontana Si credetta ella stessa; onde l' addio Prese più volte da ogni cosa umana, E fe de' suoi dolori offerta a Dio. Ma quella inesorabile, che vana Torna ogni speme, e vano ogni desio, Quando a torla di pene inchina parve, Del suo color la impresse, e poi disparve. Quasi da grave infermità consunta, Ha spenta ed affondata la pupilla, Fievole il favellar, la guancia smunta, Nè più sorriso giovanil vi brilla, Chè il cor passato da insanabil punta Giammai non le consente ora tranquilla: Ognor la fantasia le mette innante Una spoglia sanguigna e palpitante. Al suo letto la madre è sempre assisa, E, chiusa quanto può, sospira e geme. La giovinetta, che il soffrir ne avvisa, Confortando la vien di buona speme. Chè se il proprio dolor l' ha quasi uccisa, Quel della madre ancor l'angustia e preme, Perchè nè lieta mai nè amara cosa De' suoi cari potria farla obliosa. «Madre, (l' inferma prega, e spesso è vinto Dalle lagrime il dire) un volo ascolta: Nella memoria di quel caro estinto Sai che la mente mia tutta è raccolta. Vien lo spirto immortal da Dio respinto Fin che la nube d' ogni error sia tolta; Ma le offerte dell' uom, lassù gradite, Il consiglio di Dio pon far più mite. Tramuta in oro la mia bella vesta, Pendenti, armille, e quanto ho di pregiato, E la mal nota povertà modesta Fa' che n' abbia soccorso inaspettato.» Scotea con muto dissentir la testa Rosa, che in quell' istante erale a lato, Mormorando fra sè: «cervello torto Ben è chi pena nel desio d' un morto.» Porger vorria conforti alla soffrente Rosa, ma troppo mal ne avvisa i modi. «Credimi, le dicea, Carlo non sente La voce tua, nè sa se piangi o godi. Consiglio di lassù giusto e prudente Stretti non vi volea di sacri nodi. Carlo non era bello, e non t' ascondo, Che in lui mi spiacque un far duro, iracondo.» «Taci, Rosa, deh taci, io ti scongiuro Per la nostra amistà, pe' mali miei. Di' che il voler di Dio spesso n' è scuro, E che piegarvi il capo anch' io dovrei; Ma che grandi virtù di rado furo Congiunte (ahi lassa!) come in chi perdei. Se così mi dirai, di rassegnato Dolore il volto mio vedrai bagnato.» Tacea Rosa a fatica; ella, d' affetto Così diversa, nè pensò, nè intese Che la feria con malaccorto detto, Crudel linguaggio, che credea cortese: Benchè pietà non finta, allor che al letto Dell' amica venia, spesso la prese, Ma importuna ad un tempo ripetea: «Dimmi, o Stella, in colui che ti piacea?» Rosa dalla magion muta e segreta, Al rumor della sua quindi tornava; Di cui la danza o il canto, ond' essa è lieta, La misera disgusta e il mal ne aggrava. Perenne turbator dell' ora queta Quel suon fino il riposo a lei furava, Chè il sonno, o quel sopor che lui rassembra, Ristorate n' avria forse le membra. Quando un mattin nella romita stanza (Costante albergo di querela amara) Ecco aspetti raggianti d' esultanza, Indi voci di gioia. «Oh figlia, oh cara Figlia, a letizia tal, che la speranza Prometter non osava, il cor prepara! Sì, l' afflitto tuo core apri al contento: Lo sposo rivedrai che piangi spento.» Tacque la madre, e vivido discese Quasi un raggio di cielo in quell' istante Sulla fronte di Stella, e tutta rese La perduta bellezza al suo sembiante. Da' guanciali sorgendo, a Dio protese Le palme, e mormorò parole sante; Indi: «Madre, dov' è? Perchè non viene? Guidalo a me!…Chi lunge ora mel tiene?» E mentre della figlia ai rotti accenti Rispondeva la madre, egli apparia. Oh mai forme si belle e commoventi Nella fanciulla immaginate avria! Chè la traccia de' lunghi patimenti Sotto una viva porpora spria; Talchè parve al garzon beltà novella Quel subito arrossir della donzella. Tale un bel fior dal suo cespo diviso Ch' ebbe in vergine sen lunga dimora, Perde il molle profumo, e sul reciso Gambo il calice piega, e si scolora: Pur se l' onda lo irrighi, un improvviso Vigor riprenderà, ma sol brev' ora; Chè serbargli non può forme e colori Stilla, o raggio di sol che lo ristori. Così fievole Stella e scolorata Sui guanciali, onde surse, ricadea. Nè giunta era al suo fin quella giornata, Che allo sguardo di Carlo altra parea. Come un lungo languor n' avea solcata La guancia, un di si fresca, egli vedea; E fu d' un tratto al suo pensiero aperto Ciò che l' inferma avea per lui sofferto. «Povera Stella, le dicea, deh quanta Cagion ti fui d' angoscia! Il credi, assai Soffersi anch' io, chè la persona infranta M' ebbi, e più il core, quando a te pensai. Vivo io solo rimasi, ed una santa Mano mi raccogliea; ma non tornai Così tosto alla mente: in me sopita L' avea lo strazio di crudel ferita.» Carlo così le narra, e dalla pia D' ogni proprio dolor par che si tolga Fin la memoria, e sol quant' ei patia Amaramente nel pensier rivolga, E come cosa non remota sia N' abbia fresco terrore e se ne dolga; Tal che piange, s' allegra, e non sa intere Il labbro proferir grazie o preghiere. Il vigor lentamente in lei risorse, E la salute le ripinse il viso; Ma la bellezza, men fedel, ritorse Dai sembianti di Stella il suo sorriso. Sospirò la gentil, come s' accorse Che l' affanno le avea quel fior succiso, Mentre Rosa gli sguardi e i cor rapia, Raggio di venustà, di leggiadria. Misera Stella, il pianto rinnovelli: Un crudele sospetto in cor t' è sorto. Quando Carlo avvicini e gli favelli, Teco ei non è, ma in altra cura assorto; E per vano pensier non ti martelli, Chè l' occhio dell' amor su tutti è accorto. In te chiudi l' angoscia, e pur la intese La madre, e a chi n' è reo la fa palese. E Carlo, le pupille al suolo inchine, Perchè teme colei vi legga il vero, Risponde: «Ella sospetta? e mai, mai fine Ai fantasmi non dà del suo pensiero? I begli occhi; le guance porporine Non mi velan di Rosa il cor leggero; So che d' amor non palpita, ma gode Ch' altri di lei s'accenda e le dia lode.» Tai proteste la madre alla figliuola Ripetendo venia, che vergognosa De' suoi sospetti, «Una ricchezza sola, Madre, dicea, non partirei con Rosa: L' amor tuo, quel di Carlo. Oh se m'invola La fortuna nemica ogni altra cosa, Gran dolor non ne avrei: di questo dono, Pur che intero mi resti, io paga sono.» Ed ilare nel voito e in cor fidente Come dianzi tornò la giovinetta, Anelando pur sempre impazïente Il di che impalmerà la man diletta. Ma parlarne non osa, e vanamente Ch' ei primo ne favelli ognora aspetta. Farne cenno la madre a lui vorria, Ma il giovane o la sfugge, o il dir ne svia. Oh linguaggio non è d' amor verace Quello di Carlo! ma dell' uom che intende A coprire il pensier colla mendace Arte, che a cor leal mai non s' apprende. Ha labbro adulator, che poco tace, E la risposta altrui non chiede, o attende. Al tempo in cui l' amò non fu ne' detti Con lei si largo vantator d' affetti. E nell' allegra casa ove s' alterna Sempre il piacer, frequente ha Carlo ingresso, E gli dà la gentil che vi governa Su quanti accoglie grazïoso accesso. Cresce a Stella il timor, nè più l' interna Tristezza d' occultare or l' è concesso. Alla madre ne parla, e questa prega D' un colloquio l' amica. Ella nol niega. La giovinetta a lei si fe d'accanto, E così cominciò quella meschina: «Rosa, se d' amistà l' affetto santo Vi strinse a Stella mia fin da bambina; E se con me talor mesceste il pianto, Credendola alla tomba omai vicina; In cortesia mi dite, avreste core Di recarle un tormento assai maggiore? Stupita Rosa la guardò, lontana D' ogni pensier che incontro abbia col vero. Ristette alquanto, e poi cortese e piana: «Questo dir (le rispose) è tal mistero, Che farei per chiarirlo opera vana Quando pur vi pensassi un giorno intero. Su, dite aperto! In che spiacer poss' io A chi parte sì cara è del cor mio?»— «Oh Rosa! v' intingete? E come oscuro Esser vi puó? L' ingrato or l' abbandona Per voi; per voi soltanto, a così puro Fervido amore tal mercede ei dona.»— «Oh cessate, cessate; a voi lo giuro (Rosa interruppe, e non mentia, chè buona Era e sincera) e il giuro a Dio, che mai Disguingerlo da Stella io non tentai! «Carlo, gli è vero, è d' animo giocondo, Nè voi, nè Stella l' ignorate; e poi Che a quell' indole lieta io pur rispondo, Forse avverrà che meco non s' annoi. A Stella proverò (non mi nascondo Con lei) che son chimere i dubbi suoi, Chimere ingiurïose! E tutto questo Le sarà pria di sera manifesto. »Datemi retta. Quando cade il sole, Libeo d' ogni cura, ha Carlo usanza Di visitarmi, e restar meco ei suole Quel poco d' ora che del giorno avanza. Or venuta la sera, apro a voi sole L' andito bujo attiguo alla mia stanza, E occulte ascoltatrici, io vel prometto, Sarete, Stella e voi, d' ogni mio detto.» Esitava la donna, e con preghiera Rosa la mente al suo pensier le volse. Alla figlia n' andò poi messaggera, Che repugnante la proposta accolse; E gli eventi a durar di quella sera Ogni forza dell' animo raccolse, O almen raccor tentò, chè ad ogni istante Incertezza crudel la fea tremante. Forse nell' avvenir (pensava) invano Quel dubbio bramerò che sì m' accora. Il mal, quando lo copra un velo arcano, Non è deserto dalla speme ancora. Oh madre mia, perchè vuoi di tua mano Rimuovermi quel velo? Oh, l' uom che ignora Spesso è meno infelice, ed io non chiesi Tal prova: al senno tuo solo m' arresi. Ma se la porta sua Rosa n' ha schiusa, Se vuol ch' io stessa testimon le sia, Forse d' ingiusta scellerata accusa Carlo ho gravato, e insiem l' amica mia. La madre mi dicea, che ognor ricusa Farmachi di ragion la gelosia; E se profondamente il cor n' è infermo, Nè virtù nè saver le fanno schermo. Mentre così ragiona, al sol cadente Supplici, dolorosi, ha volto gli occhi; Nè il palpito del core ha men frequente Chi aspetta che l' estrema ora gli scocchi. Or solleva le palme, or nella mente Forma preghiere, e al suol piega i ginocchi; Poi sorgendo improvvisa: «Oh qui mi lascia, Madre, esclama; non reggo a tale ambascia!»— «Vieni, figliuola mia, ti rassecura. Io gli spero innocenti; e quando mai Prendessi errore, non sarà più scura Per noi la verità: gli è questo assai. L' incertezza, o mia Stella, è la sventura Più grave, e tu, che ognor piangi, lo sai.»— Più non oppose Stella altre parole, Ed obbedi. Già tramontava il sole. Chiusa in parte ella venne, ove trovato Dolore immenso o immensa gioja avria. Grand' ora non passò, che dell' amato Giovine il passo e la favella udia. Rosa più contegnosa dell' usato Accogliere il sembrava, ond' ei stupia. «Assai, poscia diceale, assai m' è novo Il contegno, il parlar che in voi ritrovo.» Con incerta parola a lui rispose Rosa: «Occultarlo a voi più non degg' io. Stella, che tutto il core in voi ripose, Ora si duol di sconoscente oblio. È grave pena a lei, nol mi nascose, Carlo, vedervi spesso al flanco mio. Nè tollerar potrei ciò che l' accora. Oh nol tacete a me! L' amate ancora?»— «Rosa, che mi chiedete? E qual beffardo Linguaggio è il vostro? Or ben, sappiate il vero. Per lei (non so negarlo) io più non ardo: Un novo e caro affetto ho nel pensiero. Dalla prima mia Stella io torsi il guardo, Chè simile son fatto al buon nocchiero: Se l' astro consueto a lui s' imbruna, Crede a un lume novel la sua fortuna. »Nell' inferma fanciulla io non trovai Più la prima beltà; ma un vago fiore Sorriderle da presso un di mirai, Ed arsi a un tratto di recente amore. Mai favellarle aperto io non osai, Ch' ella, ahi troppo fedel! mi serba il core; Ma renderla felice io ben desio, Chè non è sconoscente animo il mio. »Vaga la so di nodo nuzïale, Chè a' gaudj di famiglia ell' è formata. Entro l' anima sua d' amor lo strale Agevole ritrova, e presta entrata. È ver, di me soltanto ora le cale, Ma d' altri sarà tosto innamorata Quand' ei sappia giurarle amore e fede; Chè l' ingenuo suo cor di più non chiede. »Rosa, mi volgo a voi: nel suo sembiante Traccia v' ha più di quanto il fe gradito? Pur la larva indurrà di caldo amante Tal che poscia le fia saggio marito. Anzi ch' ei vada a lei, di quelle tante Arti, ond' io piacqui, lo farò scaltrito; E, poi che d' uopo ei n' ha, darògli aperta Una via di guadagno onesta e certa. »Compagno mi sarà di belle imprese, Di mie fortune, e di me stesso amico.»— «O chi dunque è costui? (Rosa gli chiese.)»— «Anselmo il mercadante è l' uom ch' io dico.»— «Troppo folle pensier, Carlo, vi prese: Se a lei lo comparate, è d' anni antico; E padre lo lasciò di numerosa Tenera prole la defunta sposa.»— «No, Rosa, v' ingannate! Io non pavento Che le sia quel de' figli un duro incarco. Di ciò che adesca femminil talento Stella, credete a me, l' animo ha scarco. Nè il cor potrebbe mai farle scontento Un viver casalingo, e d' agj parco; Nè giova dir che d' anni ei grave sia, Poichè molto l' avanza in leggiadria.» Qui contrasse le labbra ad un sorriso, E Rosa quasi a stento il rattenea. Pur gli rispose, componendo il viso: «Carlo, d' animo tal non vi credea.»— «Rosa, mi dite il ver: chi mai diviso M' ha da quanto per sempre amar dovea? Per voi, solo per voi, colpevol sono.» Tacque la donna, e in cor gli diè perdono. E gli sdegni, le paci, onde subbietto Era il colloquio che tra lor seguia, Stella ascoltava, e nel tremante aspetto Tutta la desolata alma apparia. Talor chinava sul materno petto La faccia, e tronchi accenti proferia; E prodigio fu ben che non s' estinse La sua ragion, tanto dolor la vinse. Pareale che un poter funesto, arcano, Al tristo loco la tenesse avvinta; E per indi staccarla, erasi invano La saggia madre con preghiere accinta. «Che di peggio aspettarmi? Or l' inumano Conosco!»—«O figlia mia! da te respinta Finor così non venni. Ah cedi omai, Chè inutile supplizio al cor ti dai!» Ma di Carlo al partir, quella tradita, «Madre, dicea, fuggiam! Lo sguardo mio Non s' incontri con Rosa. Oh con mentita Faccia d' amor vederla or non poss' io!» E di là si togliea, come inseguita Che senta avvicinarsi il calpestio; E invan la madre sconsolata intanto Volea col tardo piè venirle accanto. Poi che al dolor lo sfogo ebbe concesso Lungo la notte, serenossi in volto; E quanto sostenea nel core oppresso Gelosamente altrui tenne sepolto. Corse Rosa all' amica il giorno appresso; Nè vederla e parlarle a lei fu tolto, Benchè di questa i malaccorti detti Fossero strazio di profondi affetti. «T' allegra, le dicea; credi, per gioco Ei cinguettò, nè quella è la sua mente. Stella mia, non pensar ch' ei t' ami poco, O ch' egli all' amor tuo sia sconoscente. Nè immaginar che d' amoroso foco Altra lo infiammi; sol per uso ei mente. E proferire ad ogni donna suole Quelle stesse d' amor dolci parole. »Non l' osò meco pria, perchè ti sono Stretta, o mia cara, d' amistà tenace; E di quanto parlò non l' accagiono, Chè per ebbrezza mi parea loquace. Deh non negargli, Stella, il tuo perdono! Così ritornerai l' animo in pace!»— Qui la-Rosa si tacque, e l' altra a lei: «Darti un tanto pensier per me non dei. »È mutato mio cor, come mutata (Oh Rosa, non disdirmi!) ho la sembianza. D' ogni felicità dianzi sperata Trista compagna or m' è la rimembranza. Anche da questa mi sciorrò. Guidata A malincore io fui nella tua stanza. Di tutto, e da gran tempo, accorta m' ero; Nè por gioghi ad alcun fu mio pensiero. »Una grazia ti chieggo. Oh mi prometti Che al padre tuo, nè ad altri, non dirai Com' io fui testimone ai vostri detti! Credilo, in cor ne son pentita assai. Chè se pur, già tel dissi, e mente e affetti Per impulso mio proprio io rimutai, Uno scherno villano il cor ferisce Anco se abbietto labbro il proferisce.» «Stella, n' abbi promessa.»E a lei si tolse Rosa in ciò dir, chè nota voce intese. Stella, che l' udì pure, il guardo volse Al cielo, e di soccorso lo richiese. Volle, e chiamò la madre, e Carlo accolse, Come ognora solea, mesta e cortese. Se non che nel partirsi egli scorgea Tremar la man, che un foglio a lui porgea. «Carlo, (dicea quel foglio) un dolce sogno M' ha nella verde età l' animo illuso; Nè d' averlo bandito io ti rampogno, Nè d' infrante promesse ora t' accuso. Dacchè tutto disparve, io pace àgogno, Chè ad ogni altro desio l' animo ho chiuso. E pace avrò, chè senza lotta inchino La fronte rassegnata al mio destino. »Carlo, vivi felice! Alcuna cura Non ti prenda di me. Tu non m' udrai Compianta da verun, nè la sventura Querula, il credi, mi farà giammai. Nè infefice sarò, poi che a secura Meta gli affetti miei volger pensai. Non venir più, ten prego, alla mia porta; E pensa a me com' io fossi già morta.» Con questa mite e placida favella La tempesta coprì che avea nel seno. Anche alla madre l' occultò, ma quella Nell' ascoso pensier leggeale appieno. «E vieni, le dicea, povera Stella, Alle lagrime tue disciogli il freno. Il mio duol non ti affanni; al tuo soltanto Dà refrigerio, se tu puoi, col pianto.» Importuna solea Rosa talora Ripetere all' amica: «Udito ho il vero? Tu così buona ed indulgente ognora, Puoi corruccio serbar non passaggero? Carlo di te si lagna; ei tutto ignora, E t' accusa a ragion di cor leggero. Va bisbigliando ognun che folle sei, Nè ti ponno scolpare i labbri miei.» E Stella a lei, tranquilla rispondea, Che s' era a volgar biasmo apparecchiata.— Da tre lune varcata non avea Quell' infedel la soglia a lui vietata. Un di Rosa ci venne, e ancor chiedea Se la mente di Stella era mutata; E poi che questa lo negò: «Tu stessa Dunque assolto lo vuoi dalla promessa? »Nè cosa vi saria che conciliarti Con lui, Stella, potesse?—«Ed a che mira, Rosa, il tuo dir?»—«Rispondi! e se d' amarti Ora giurasse, deporresti l' ira? O nulla, nulla più benigna farti A lui potrebbe?»—«Il tuo labbro delira, Rosa: ben sai che dell' estinto amore Non può la fiamma ridestarsi in core.»— «Tu dunque lo ripeti? Or che reietta E spregiata la man così tu n' hai, Forse d' altra fanciulla ei far l' eletta Vorrà. Nemica, o Stella, le sarai? O da te, se non tanto, andrà negletta?»— «Rosa, il mio cor tu disconosci assai. Quanto dir mi vuoi tu non m' è già novo; Pur segreto rancor per te non provo.»— «Me dunque non condanni? Oh tu m' hai resa La pace alfine, generosa amica! Un dubbio, un dubbio solo ancor mi pesa, Ed è forza che aperto a te lo dica. Non pensar ch' io fingessi. Odimi: accesa Non m' ha fiamma per lui novella o antica; Io nel biasmarlo favellai verace; Chè mai non piacque agli occhi miei, nè piace.»— «Perchè dunque lo sposi?»—«A ciò consiglio Mi dà ciascun de' miei. Ricchezza molta Lo zio, che l' ebbe caro al par di figlio, Ha col voler supremo in esso accolta. Volge a quella fortuna avido il ciglio Or più d' una fanciulla; e sciocca o stolta, Se rifiutassi, ben sarei. Ristoro Di negate dolcezze avrò dall' oro.»— «Fa' che ti basti tal conforto, e, come Voto io ne faccio, l' avvenir t' arrida.»— «Tu ch' hai d' amica il cor, non pure il nome, Tu, Stella, mi sarai con siglio e guida.»— Le sue molte dubbiezze, onde le chiome E la veste fregiar, poi le confida. Stella a quel dir rimane incerta e muta; Indi l' aita sua non le rifiuta. Delle nozze di Rosa è questo il giorno. Per andarne all' altar lo sposo attende. Abbigliata è già tutta, e pur ritorno Fa sovente allo specchio, e in dubbio pende. Vuol di fior, vuol di gemme il capo adorno; Or per quelli, or per queste ella propende. Consiglio cerca, e presti o neghi fede, Sempre al cristallo irresoluta riede. Esce alfine, e si mostra. «Oh come è bella!» Da molte voci bisbigliarsi ascolta. E già parle ogni donna, ogni donzella Con invide pupille in lei rivolta. Nè dimentica pure oggi è di Stella, Ma fin dell' uomo onde non fia più sciolta; E la posa, e l' andar convenïente Alle spose novelle ha solo in mente. «Piena vendetta avrei, se d' amorosa Fiamma ei credesse riscaldar quel petto, (Stella fra sè dicea) se nella sposa Altro cercasse che il leggiadro aspetto; Ma è cor fatto pel suo quello di Rosa, E, malaccorto, il mio sprecò l' affetto. Non s' amano costoro a chiari indici; Pur, nè credo d' errar, saran felici.» E indovina del ver fu la sua mente: Mai dolcezza d' amore in lor non scese. Lunghi viaggi amava ei far sovente, E freddo a lei reddia, non discortese. Paga Rosa era a tanto, e mai l' assente Con mesto affetto sospirar s' intese. Non chiedeagli ove gisse, e, pari in questo, Di ricerche ei non era a lei molesto. Nè da curè materne amareggiate Furo le gioie sue; però che tanto Sbigottiva al pensier, che, per vegliate Notti, la sua beltà scemasse alquanto; Al pensier che, le danze a lei vietate, Languir dovesse d' una culla a canto; Giacchè di lunga noia erale obbietto L' indocile vagir d' un fanciulletto. L' improvvida sovente il piè volgea Alla casa di Stella; e perchè questa Taciturna o svagata a lei parea, «Amica, le dicea, che ti molesta? Forse offesa t' avrei? di che son rea? Smetti, smetti con me quell' aria mesta.» E l' altra o rimanea pensosa o muta, O la madre accennava egra, abbattuta. Più d' un anno passò, nè ancor s' è chiusa La ferita di Stella. Essa rammenta Lo spregiato amor suo, la fè delusa, E novello dolor par che ne senta. Dentro la stanza solitaria ell' usa Starsi all' opre dell' ago ognora intenta… Poveretta! nessun più la conforta Con parole d' amor: sua madre è morta. Asilo di dolore è la deserta Cameretta per lei, dacchè rapita Quella cara le fu, ch' ogni sofferta Pena le avea temprata o almen blandita. Fra le vergini pie, che a santa e santa Meta sacrâro la terrena vita, Quindi si chiuse, e coi pensieri al cielo, La bionda testa circondò d' un velo. Alle sorrelle fu d' esempio e scorta: Lei bramava l' infermo a tutte l' ore; Perocchè la parola è un' eco morta Nell' uom che non provò che sia dolore. La voce pia, che i miseri conforta, Venir non può che da trafitto core, Da cor che forse mai la piaga aspersa Del balsamo non ha che in altri versa. Ma se qualche infelice le si volse Per tanta carità riconoscente, Turbata nell' aspetto a lui si tolse, Ragionando così nella sua mente: «Labbro d' uomo non scioglie, e mai non sciolse Detti di vero affetto, e costui mente. Ha l' uomo indole ingrata, e spesso aborre Quella man che pietosa a lui soccorre.» Di non vere sentenze ella si piacque. «Errò (dicea fra sè) che m' apprendea Che ogni cosa creata all' amor nacque; Pur con quanta dolcezza io lo credea A una *. original unreadable.lla talor, che i venti o l' acque D' un tratto isterilîr, gli occhi figgea; Pensando come ricca era di fiori, Promessa menzognera a' suoi cultori. E fra le varie piante, onde il giardino Celle e altari abbellisce all' altre suore, Non coglie rosa mai, nè gelsomino, Ma sollecita par d' un solo fiore; Del fior, che dal principio del mattino Al tramonto del sol non manda odore; E, mesto amico della notte, al raggio Che pur vita gli diè nega l' omaggio. E soli nell' inferma fantasia Vivono tai pensieri. Altrui nel petto Legger presume, e vuol che all' uom non sia Dato gioir di corrisposto affetto. «Fu temprata all' amor l' anima mia; A Carlo un tanto ben venne disdetto. Amarmi ei non potea.»Così favella, E lusinga il suo cor. Povera Stella!… Spesso alle alunne ella dicea: «L' impero Su voi non prenda quel potere arcano, Che soggioga la mente, e che dal vero Lungi la trae con desiderio vano. La dolcezza più grande, e il duol più fiero Provati ho in me; ma la celeste mano Mi diè lume e soccorso. Or non poss' io Colpar chi non rispose all' amor mio. «Il navigante io son che sulla sponda Del pelago adagiò le antiche membra. Come ad infida amica ei guarda all' onda, E i corsi, avventurosi anni rimembra. Se in questi più dolor che gioia abbonda, Corrucciato col mare egli non sembra; Ed a ragion. Lo sa cieco stromento D' un poter che lo regge a suo talento.» L' odon mute le alunne, e un infelice Presagio le commove ed addolora. Il suo lento languir tacendo dice, Come fra loro avrà corta dimora. Ella pure il presente, e benedice Placida all' appressar dell' ultim' ora; Chè di viva speranza il cor nudrita Parle già pregustar l' eterna vita.

Offro a te, buona madre, un frutto di quegli studj, ai quali m' hai confortata ed aperta la mente. Più che alla tenuità del lavoro guarda al cuore che lo ha dettato e a te lo consacra.

La tua
FRANCESCA.

Genuflessa dinanzi alla divina Effigie di Maria, versa il segreto Dell' alma sconsolata una fanciulla. Bella, e composta a fervida preghiera Ha la persona; e chi d' un primo sguardo La contemplasse, più che umana forma, Giudicar la potrebbe un cherubino Esule in terra di dolor. Ma dove Più veggente pupilla in quel sembiante Fitta si fosse a in vestigar l' arcano Che la parte divina alla mortale Rannoda intimamente, orme sicure Avria del fallo d' Eva in lei distinte. L' angiol così non prega. Estasi eterna Innanzi al sommo Vero, eterna brama D' addentrarvi lo sguardo, occupa l' alme Che al trono del Signor cantano Osanna. Pianto, angoscia, terrore, ignoti nomi Sono a quelle felici, e qui palesi Erano, ahi troppo! in quegli occhi piangenti. In quel labbro tremante, che s' apria A fioco e tronco suon, quasi il pensiero Non potesse bastar, senza l' aiuto Della parola. Sguardo ivi non era Che compatisse al suo dolor. Deserto Di devoti era il tempio; e nondimeno Più cara al Ciel che mormorio di molte Voci, discordi dal sentir, salia Quella preghiera.—Romorosa e lieta Era in quel giorno la città: tripudio Per antica vittoria. Abbandonava La giovinetta il tempio, e ripetea Il divino saluto a quella Santa, Cui non si volge alcun dolente invano. E la gioja mirò che baldanzosa Le vie frequenti percorrea tenendo Soggiogato ogni cor (se togli il suo) Con dolce si, ma fuggitivo impero. Mirò donne, donzelle e giovinetti, Vegliardi che moveano a stento il piede, Pur con vaghezza giovanil frammisti Al comune tripudio; e in cor si dolse Che venuta malcauta era fra loro. Disperato dolore aveale chiusa Ad ogni saggio antiveder la mente. Tutta in quello sepolta, ai primi raggi Mattutini lasciava il suo tranquillo. Ricovero, e in quell' ora indizio alcuno Della festa non ebbe. Il sonno ancora Occupava i viventi. E quando al cielo Coi pensieri si ergea, qual voce, o quale Assordante frastuon l' avria disciolta Da quel pio rapimento? Inavveduta Nell' esultanza popolar s' immerse, Come palomba che ritorna al nido De' suoi teneri implumi, onde si tolse Per trovar dolce pasto al lor digiuno, E su lei dalle nubi astóre o falco Vede a piombo calar, sì che minaccia Di troncarle il ritorno, e insiem la vita. Era tal la fanciulla. E perchè sguardi, Perchè sorrisi alcun non le volgea? Se curïosa o involontaria svolta D' occhi cadea su lei, tinta da vivo E penoso arrossir chinava il volto, Poi che sprezzo crudele e non soave Pietà raffigurava in ogni aspetto. Bella era fra le belle, e il pianto istesso Che velava sovente il bel zaffiro Di sue pupille, v' accrescea vaghezza. Quell' antica, e ancor nova, ancor non mai Superata dall' altre ellenia gente, A cui piovve si larga la scintilla Che di rado riscalda i petti umani, Vide in simili forme il tipo eterno Della bellezza. È ver che negli sguardi La sedea la mestizia, è ver che tutta N' era informata la gentil persona: Pur la serena fantasia de' vati Che ritragge l' idea con sensitive Immagini, e dà forme anche al dolore, Potea rassomigliarla alla velata Pietà che sull' avel d' un caro estinto Lacrimosa si curva. Il suo patire Una vita di colpe avria redenta, E pur nessuno impietosì. Ma quella, Non che dolersi del codardo oltraggio, Giusto e mertato le parea, nè rossa Mai lo sdegno o il rancor le fea la guancia. Solo il mendico, a cui niega la dura Necessità d' interrogar qual mano S' apra a lui liberale, o chi gli volga Un accento d' amore, alla fanciulla Benedicea. Quelle sante parole Promettitrici d' un' eterna vita Udiva ella commossa; e perchè duro Labbro di passegger non susurrasse: «Il pan ch' ella ti dona, è insanguinato; Gittalo come tosco!»—«oh, gli dicea, Non ritrarre la man! Non l' ho da lui! Ciò ch' io parto con te, mercede è solo Di notti in femminili opre vegliate.» L' infamia su quel capo era discesa; Nè per proprio fallir: ma pur di tale Impronta la segnò, ch' ogni speranza Di cancellarla in lei moria.—La figlia Del carnefice ell' era.—Ecco la calca Ella rompe a fatica, e stretta in quella Può sol lenta avanzar. Men grave assai Le fôra, se nel suo lungo cammino Rovi o accesi carboni al piede ignudo Le facessero inciampo. E qual fanciullo Che udi narrar le paurose storie Delle streghe e dell' orco, e quelle impresse Tiensi nella memoria tenerella, Se a notte bruna ricondur la greggia All' ovile egli dee, tutto si turba, Mira larve e folletti, e il cor gli balza Per crescente terror; fin che una voce Ode per la foresta, e si rincora: Voce del fratel suo che bujo e spettri Fugo col lumicin che tiene in mano: Tale in vista si fe la giovinetta, Quando da labbro amico udi profferto Il nome suo. Si volse, e nel canuto Capo d' un vecchio grave ella scontrossi, E senti chiuso il suo braccio tremante Da cara man che le porgea soccorso. «Perdonate, diceagli, oh perdonate Se fui si malaccorta; a voi cagione Recai certo di sdegno, e vi costrinsi A venir su' miei passi.»—«Or t' assecura, Rispondeale il vegliardo, e a me dappresso Movi il piè senza tema.»—«Ah dite, dite! Dorme ella ancora?»—«Un sonno queto e leve Che a buona speme riconforta il core.» Tali voci scambiaro. Alla gran turba S' involarono alfine, e dalle porte Uscîr della città; nè mai da quelle D' una lunga prigion più dolce addio Prese colui che libertà racquista, E di madre o di sposa al sen ritorna. Seguiva il lor cammin per un dirotto Faticoso sentiero; e dal cospetto Dei cittadini alberghi appena usciti, Giunsero a muto e solitario asilo. Trepidante nel cor la giovinetta Corse alla madre inferma. Ancor dormia. Stava assisa al suo letto una pietosa Donna, che le venéa sommessamente Iterando con cenni e con parole Liete novelle. Ma dal ver lontane Scorger ben le dovette, allor che il sole Schiarò d' un raggio alla dormente il viso, Quasi a lei rivolgesse il vale estremo. Tutto, ahimè, presagia che l' alma stanca Regger più non sapea le affievolite Membra. Ma la speranza, ultima luce Che si spegne nei petti, abbandonata Non avea la morente. A stento aperse Questa il languido ciglio, e sorridendo Alla figlia parlò: «Vigor novello Diemmi, o figlia, il riposo. Il cor solleva, Mia diletta Maria (tal era il nome Della fanciulla), ti verrò fra poco In aita, mel credi; e non più sola Tu coll' opra dell' ago all' uopo nostro Soccorso porgerai»—«Madre, di questo Deh! pensier non t' accori. A me vigore Dan gli anni verdi; che la tarda etade Non mi fiacchi le membra, io sol m' allegro, Perchè il dolce conforto or m' è concesso D' essere appoggio a te, che a riposati Giorni hai ben dritto. E ch' io pur vegli attenta Consentir tu mi devi, acciò non sia Che per disagio il vivere inclinato Precipiti dell' uom che a noi tapine Pietoso aperse le ospitali braccia.» La dolorosa confondea co' baci Altre parole di conforto, e molte Maria ne rispondea, serbando occulto L' angoscioso pensier, che, strale acuto, Trapassavale il core. In lei rivolte Vedea con atto d' infinito amore Quelle care pupille, ahimè, già prive Del lume che sì vago un dì splendea. Ben s' apria quella bocca ad amorose Voci, ma rotte da tosse profonda; E breve ed affannoso era il respiro. Ah non fugga quest' alma affaticata Dal compagno fedel delle sue pene, Anzi ch' io narri la difficil prova Che sostenne quaggiù! L' avello inghiotte L' ossa e i ricordi de' vissuti, quando Fama o tuba immortal pensieri ed opre Non ne divulghi ed infuturi; e spesso Opre e pensieri più degni d' oblio Che d' illustre memoria. Per gli oscuri Martiri il mondo non ha plauso! Inchina Riverente un allôr di sangue tinto, Ma guarda e passa non curando un' ostia D' amor, di fede e di virtù che soffre. Della sicula terra una ridente Villa (e sotto quel cielo è forse loco Che ridente non sia?) diede all' inferma Donna il natale. I begli anni trascorse Della infanzia, non men che della prima Gioventù, nella gioja, a cui parea Predestinata dagli eventi. Ell' era Di non giovane coppia un tardo frutto, Quanto aspettato men tanto più caro. Unico frutto! Gentilizio stemma Non fregiavane il nome, e tuttavia Saggi e non saggi l' esaltaro. A'primi Era gloria l' onor dai padri ai figli Senza macchia disceso; e pregio agli altri L' oro in copia adunato e i pingui cólti, Patrimonio paterno; e questo dono Della sorte affollato avriale intorno, Ancorchè d' ogni fior di leggiadria Stata fosse deserta, assiduo e denso Stuolo di adoratori. Al quinto lustro Ella appressava, e la gentil parola Da tanti sospirata il labbro suo Proferta ancora non avea. Proferta Mai non l' avesse! Alfin del primo foco Arse amore il suo petto, e sì cocente La fiamma ne destò, che fu vendetta Di ben mille repulse. Il suo segreto Peritosa svelava, e fra le braccia Stringendola i parenti: «Un voto nostro, Diceano, adempie il Ciel. Teresa! invano Cercheresti uom più degno. Unico, ardente Sospir fosti di molti, a cui più chiaro Sangue discorre nelle vene. Illustri Nodi hai respinto disdegnosa, e quanto Adescar può la donna indarno offerto Fin qui ti venne. Di vulgar fanciulla Non fu la scelta, nè t' illuse il core.» E più labbra iteravano le voci. Dei parenti amorosi.—Era l' eletto Di Teresa un garzon, che di concorde Lode nella sua terra iva onorato. Soleano i vecchi rispettarne il nome Se la corrotta gioventù biasmando. (Consueto lamento), i tempi andati Rimpiagneano fra lor. Non ebbe affanno Per lui chi spesso di sublime incarco La santità sconosce, e quasi fatto Di belve domator sul magistrale Scanno s' asside, ed anzichè la voce Assumere d' un padre, le infantili Anime opprime col terror, nè sente Commoversi a pietà dei tenerelli Corpi di cui fa strazio. Oh se men fosse Cieco dell' intelletto, s' avvedria Che mal seme egli gitta! indura il core Del suo tenero alunno; menzognero Lo fa per tema, ed alla bella scola D' ogni utile saver per sempre avverso. Ma di Teresa l' amator conobbe Quell' arte che misura un detto, un guardo; E perchè mansueto e reverente Stava in faccia al maestro, ed in silenzio Dalle allegre brigate si togliea, Mai non ne intese il rampognar severo. Anzi notando che precoce agli anni Avea senno e virtù, farlo ei si piacque D' ogni atto esplorator, d' ogn' imprudente Detto che quell' austera e veneranda Dignità cattedrale avesse offesa. E quando un' altra età (quella che schiude Ai più fervidi affetti il cor dell' uomo, E di magiche tinte incolorando La vita a generosi impeti è madre) A lui sorrise, non mutò la cupa Indole taciturna, e come esempio D' ogni bella virtù venía dimostro Dalle madri ai figliuoli. Avea perduti Ambo i parenti suoi, che le modeste Loro fortune nel mercar trovaro; Tal che scarso retaggio e gravi cure S' ebbe alla morte lor; ma solo inteso Ad un desio, la sua nave scommessa Tolse ai torbidi flutti, e a sè negando Quanto i giovani adesca, ogni più lieve Diporto, ogni trastullo, a poco a poco La tenue eredità di molto accrebbe. Nessun per foco passager di sdegno Visto avea quel sembiante (ognor cortese E sorridente) imporporar; nessuno A proferir lo udi villano accento. Di magnanimi sensi, è ver, parea Vuota al tutto quell' alma, e mai le stille Noverate nel Ciel, perchè spremute Dalla pietà, l' immobile vermiglio Delle sue guance non avean bagnato. Un oltraggio non lieve egli pur seppe Tollerar simulando, e del perdono La santa voce proferir; pentito Fu l' offensore, ben amato padre Di prole numerosa. Al ciel saliro Del giovane le lodi…—emendo il detto— Al ciel non arrivâr. Posti in obblio Eran già quell' insulto e quel perdono, Quando sul vecchio padre una tremenda Sciagura cadde. Non parea da umana Forza discesa, nè destò sospetto; Con tal arte infernale era quell' opra Stata concetta! e l' uom che meditolla E nel silenzio l' eseguì, parole Di pietà, di dolor sull' infelice Profondea.—Per tai modi il senno adulto Ingannava costui, sotto una larva Di virtù, di candore: i giovinetti Però non abbagliava. O fosse il loro Angelo che ammonéali, oppur ricordo Degli anni primi, lo fuggiano, e quando Favellavan di lui, l' uno narrava Come per sua cagion sostenne un giorno Pene crudeli, e ne mostrava i segni. L' altro dicea: «De' miei l' animo ei venne Nimicandomi il di che fui cacciato Sì duramente dalla scola; e lieve Era il trascorso mio, ma con maligna Lingua ei gravollo.»—Di ricordi amari Mai l' obblio non cercò, nè mai fidente Ai compagni venéa col franco aspetto Che i perplessi assicura. Uom non potea Volger di quell' infinta alma la chiave, Nè penetrarvi l' amistà, gentile Affetto, che ogni mesta ora consola. La sua bella persona amor destava, E di elette donzelle era segreto Sospir; ma nè beltà nè leggiadria Su quell' alma di gelo avean possanza. Spesso inculto apparia, quasi mal nota L' avvenenza gli fosse, onde natura L'avea con mano liberal donato. Quando pubblica voce fe palese Come propizio evento alla fortuna Del padre di Teresa avea sorriso, Il giovine agognò far suo quell' oro; E gli atti mascherando e la favella Di modesto amator, con improvviso Divisamento, della ricca erede Tentò nel core insinuarsi. Altera Ne fu Teresa: un petto adamantino Spetrato aver credette, e non gli ascose La gioia ond' era piena. «Avventurata Giovane (ognun dicea), per te l' amore Non fu bendato, nè gli mosse guerra La ragion che talvolta è a lui nemica.» Dalle compagne invidïata all' ara La vergine movea, nè sol le labbra Ne profersero il giuro; intimo e pieno Consentimento accompagnollo. Un' eco Del comando divin che fea seguace Eva ai passi d'Adamo in quella pura Alma suonò. Sull' avvenente viso Pingeansi i suoi pensieri, e la battaglia Degli affetti diversi. Uno parlava Di gaudi; e l' avvenir colla bugiarda Luce della speranza a lei vestia; Sussurravale l' altro il mesto addio De' suoi cari parenti. Invan sul volto Immobile dell' uom che la impalmava Cerco un occhio sagace avrebbe il core. Dalle amate pareti, ove cresciuta Era, ove tutto di passati tempi Qualche dolcezza le ammentava, in duolo S' accomiatò Teresa, e nella casa Dello sposo innoltrossi. Un voto santo Dal petto le partia: «Fedel custode Fate, o Signor, ch' io sia di questo tetto, E la virtù che pur nella tristezza Pace può darne o tolleranza, oh v' abbia Costante asilo!»—Aita al pio proposto Invocava Teresa i buoni avvisi Della madre e del padre. A lor sovente Dicea tutta commossa: «Il mïo consorte Non è simile agli altri. Io mai non vidi Sul costante seren di quella fronte, Che già tanto mi piacque, ombra di sdegno. Ciò che mi accora in lui….(nè farne io posso A voi, cari, un segreto) è la soverchia Bramosia di guadagno: a me sovente Questa lo strappa, ed in lontane terre Lo trae d' acquisti fortunosi in traccia.» Ma l' amorosa donna ai genitori L' anima intera non apria, tacendo Come al ritorno de' vïaggi suoi Sollecita richiesta ei le facesse Dell' òr, che nel partirsi a lei fidava Per usi casalinghi; e la repressa Ira ei male ascondesse allor che scarso Ne trovava l' avanzo. «In questa casa (Così dir le solea con piglio amaro) Veggo troppo dispendio: una misura Por ci devi, Teresa.»—«A senno tuo,» Mite gli rispondea, da quell' ingiusto Ammonire atterrita, e sacrificio Gli fea degli agi consueti.—Un anno Compiuto il giro avea, dacchè Teresa S' era del fior d' arancio adorno il crine; Quando a novello amor (gioia implorata Al Ciel per caldi preghi) il petto aperse. Col santo nome, che dolcezze, affanni, Cure senza paraggio in sè comprende, Salutata veía. Quella felice Già correa col pensiero al di ridente In cui l' avria dal caro labbro inteso Della sua pargoletta. O lieto o tristo Che il presente ne sia, l' umano sguardo Non vi si arresta, e desïoso cerca Penetrar nel futuro. Oh se l' eterno Consiglio, ascoso degli umani al senno Non tenesse il futuro, avria Teresa Vôlto in lacrime il riso! A lei dappresso La Tristezza s' assise, e: «Va, ti scosta! (Dicea severa alla nemica sua) Mie quest' anime son: la morte sola Dee partirmi da loro.»—E il nappo arcano A Teresa diè tosto. Amaro pianto Sulla fossa recente ella versava Che della madre sua chiudea le spoglie; Nè alcun balsamo ancor sulla ferita Era disceso, che le tolse il padre Morbo improvviso. Desolata in pianto La donna si struggea. Di tanta ambascia Una stilla credea nel freddo petto Dello sposo versar. Quella divina Voluttà del dolor fra due partito La sfortunata desiò, ma invano. Non commosso nel viso, e nella voce, E in ogni atto lo scorse; e se talora D' amoroso compianto una parola Le volgea, mal risposta era dagli occhi. Ma pur (che non disgrava e non iscusa L' amor che in gentil seno ha preso albrego?) Compiacendo a sè stessa, in lui vedea Segni d' occulta pena. «Ei chiusamente Soffre (volgea fra sè); lo mi nasconde Perch' io più valga a moderar me stessa.» Delle quattro Sorelle il vario manto Coperta avea la terra, ed una dolce Malinconia, che d' intime e celesti, Ma remote speranze favellava, Nell' alma di Teresa iva temprando L' impeto del dolore. I balbo labbro Della sua pargoletta erasi aperto Al sorriso infantil, che quello forse Degli angeli somiglia e a qualche accento. Una ser, trascorsa era quell' ora Che ricondur lo sposo a lei solea. Ella in pena aspettava. I primi incerti Passi movea la fanciullina, e al vivo Suo materno contento aver compagno Il marito bramava; e quella sera, Che fu principio d' ogni sua sventura, Consacrar la delusa ad una gioia Domestica sperava! Alfin le giunge La voce dello sposo, e lo rivede, Ma d' aspetto cangiato: una letizia Strana nel volto, e quasi d' ebbro il guardo. Teresa a lui correa, del lungo indugio Chiedendo la cagion. «Non ti dorrai, Cara, buona Teresa, allor che nota La mia ventura ti sarà. Che grande Questa esser debba (ed assumea le forme Di grazïoso giovane che volge All' amata donzella un primo detto) Pensartelo ben puoi, se d' esser teco Il piacer m' ha tardato.» E le melate Parole con sorrisi accompagnava, Che sola meraviglia, e non dolcezza In Teresa destaro. A lui volea Far altre inchieste, ma un garzon coverto Di ricca assisa, che a stento potea Trar, sotto il peso che premeagli i terghi, L' anelante respiro, in quel momento Chiese e ottenne l' ingresso. Il carco ei pose, Ed al suon che ne uscì brillò di gioia Lo sposo di Teresa. «Or vedi, o cara, (Diceale, e sorridea) che più di prima Esplorar ti dovrò, poichè m' è noto Che la fortuna i suoi doni non gitta Ad un solo mortale, e a chi propizia Si fa nel gioco, avversa è nell' amore. Ma che? Non parti la mia gioia? e poco Ti cal di tanto acquisto?»—«Io non ti celo, (Teresa rispondea) che nel mio petto Vince un tristo presagio ogni contento.»— «Ed è?»—«Vuoi ch'io tel dica? Ho di funesti Casi udito il racconto, e m' atterrisce Un riso della sorte, a cui sovente Lungo sdegno succede.»—«Oh mal t'apponi! (Le rispose il marito) Io non ti niego Che ciò debba avvenir, quando uno stolto Voglia costretta di fedele amplesso Questa libera Dea, che vaga è sempre Di novi amanti. De' favori suoi Abusar non saprò. Sollievo il gioco Delle fatiche dïuturne io faccio, E che tu mel vietassi ingiusto fôra.» Tacque la donna e sospirò. «Me lassa! Più conforti a lui dunque (in cor volgea) La sua casa non offre?»—Una mestizia, Forse presaga di futuri danni, Le occupava i pensieri, alimentata Da un ricordo del padre. Il buon vegliardo Detto un giorno le avea: «Teresa, ascolta Un mio consiglio. Non è già ch' io voglia Cacciar dall' alma tua quella serena Fede nell' avvenir, chè tutto, io spero, Ti sarà lieto; ma s' addice a noi Canuti l' avvisar gli anni inesperti. Il freddo dell' età chiare ne mostra Molte cause de' mali. Oggi a me venne Lo sposo tuo. Trovommi in compagnia Di pochi amici al tavolier del gioco. Il mio seggio a lui cessi, indi mi feci Del gioco attento spettator. Teresa! Dirti quel ch' io notai sarebbe indarno. Sol che troppo bollente e troppo audace Giocatore ei m' apparve, a te non taccio. Dal funesto diletto, o figlia mia, Tienlo, oh tienlo discosto! A te sarebbe Non ardua forse nè sfidata impresa Riconquistarlo alla virtù da ogni altro Vizio sedotto; ma se tuo rivale Diventa il gioco, o mia Teresa, invano D' una dolcezza sapïente il petto, O d' un giusto rigore armar sapresti.»— Il paterno ricordo a lui volea Ripetere la donna. Impazïente Il sermone ei tagliava: «È questo adunque Che ti affligge, o Teresa? Or ben, non sai Che di vieta prudenza e d' importuna Austerità la lingua ha il vecchio piena, E vorrebbe all' età che gli è fuggita Negar severamente ogni diporto, Ogni onesto diletto? Io pur tel dissi, Che l' amor delle carte o d' altro gioco Mai non potrammi soggiogar.»—Confusa La giovine si tacque, e l' inquïeta Mente più non gli schiuse.—E molti giorni Corser così tranquilli. Alfin la sera Di un di, che lungamente e indarno atteso Lo avea, tornar lo vide ebbro di gioia: E in atti e detti prorompea sì stolti, Che tremonne la donna, e inorridita Torse gli occhi dall' òr, che sovra il desco Luccicar le faceva. Egli beffardo La trattenne, e celió: «Perdona, o saggia, Se male io t' obbedii, se non m' arresi A' tuoi sani consigli, e la seconda Prova tentai, che, come vedi, infausta Mi fu. De' mali al giocator serbati Or mi racconta, chè ascoltar ti voglio.» Da quella sera ei fu perduto. Il gioco Non ne uccise l' amor, che mai non ebbe Vita in quell' alma, ma lo studio ingrato Di larvarlo gli tolse. Allor la prima Volta qual era all' infelice apparve. Se rinnovar gli usati abboccamenti Volea, de' quali era tèma diletto La cara figlia, a lui tosto sul volto S' imprimea tetra noia, e con amara Voce diceale: «Orsù! cessa una volta Questa eterna molestia! Ognor dovrei Di domestiche cure esser gravato? Carco son della donna. Altri, ben altri Pensieri mi si affollano alla mente!» Del mercare intendea; ma questo pure Iva languendo: a men penosi e presti Guadagni avvezzo, abbandonate avea Del traffico le cure a' suoi famigli, Che più non vigilava; e questi, incerti Sul valor delle merci, alla sua donna Spesso ed indarno ricorreano: indizi Di ruina imminente. Oh quai preghiere, Quali lagrime mai non fur gittate Da quella sventurata! Ancor che tanto D' atti cangiato e di parlar, men caro Non l' ebbe. A forza di destino ascrisse Molti suoi torti, e nell' ingenuo petto Pur non tacque il timor d' una rivale. A mezzo del suo corso era una notte. Già le coltrici avea la terza volta Abbandonate l' infelice, e corsa Ad un veron, cercava al dubbio lume Della luna cadente una sembianza Che mai non si mostrava; e poi, chinate Le ginocchia, piangea: ma d' improvviso Tronca la prece, in piè balzava, e il suono Di maschia voce o calpestio vicino Le scioglieano il respir, che prigioniero Tenea l' angoscia nel suo petto. Illusa Più volte s' allegrò, chè le sue pene Consolava talor colla speranza Di stringerlo pentito alle sue braccia; E chiedeva al Signor quella parola Che penetrasse l' indurito core. Lunge non era dalla sua la trista Dimora, ove ogni santa e cara cosa Immergea l' inumano in turpe obblio L' agitato pensier della dolente Correa sempre a quel loco, e dolce inganno A sè stessa facendo: «Or (dicea), sorge E s' accomiata da' compagni suoi… Si, di me gli sovvenne, e con frettosi Passi ritorna…. mezza via trascorse…. Il volger della chiave udir già parmi… Ed attenta ascoltava; indi la prova Rinnovellava, e n' era ancor tradita.— Così consunse quella notte. Il Sole Già schiarava la terra; e, quasi spettro Che il primo lampo del mattin rincaccia Nell' eterno soggiorno, il giocatore Alla donna si offerse. Irte le chiome, Gli occhi torbidi, immoti e da convulso Tremito presa la persona. Un grido Mandò Teresa; ed ei: «Perchè, proruppe, Se pur fede pretendi, hai sì fallace Il profetico don? Ieri dal gioco Sconsigliar mi dovevi; e quando io pure Non ti avessi ascoltata, oggi darei Docilissimo orecchio a' tuoi lamenti; E se pur t' accorava, ed era giusto, Il mio lungo tardar, perchè mandato Un messaggio non m' hai? Con buona scusa Tôrmi al gioco io potea, potea dall' ira Della sorte fuggir. Ma tu di vane Querele fonte ognor mi sei, non d' opre Che giovar mi potessero. Gioisci! Ti sarà tolta l' odïosa vista Dell' oro, anzi addoppiato or lo vedrai Uscir di questa casa.»—«Oh perchè tanto Meco ingiusto se' tu? Cordoglio vero Io pur ne sento. Ma ti calma, e vaglia Più d' ogni avviso il doloroso evento A scostare il tuo piè, fin che n' hai tempo, Dall' orlo d' un abisso ove t' aggiri.»— «Dunque dal gioco mi sconforti? È questo Fausto augurio per me. Forse mi serba Sollecito compenso la fortuna.»— Così ghignando rispondea; ma quella, Non sapendo alle lagrime represse Più contener l' uscita, al letticciuolo Della figlia correa tutta tremante. Sovra il viso gentil della dormente Dalle ciglia materne il dolor piovve: Si destò la bambina, e in alte grida Proruppe, quasi da stille bollenti, Non da pianto inaffiata. Il senso arcano Che nunzio è all' uomo di sinistre cose Forse fuso in quel pianto al cor le scese. Non serenava i torvi occhi il marito, Nè a lei parola altra volgea. La figlia Al suo petto non presse; e quando accorto Lo fe Teresa che pensar dovea A por, senza ritardo, alle malferme Sue fortune riparo, aspro e superbo «Taci, (rispose) di riposo ho d' uopo, Nè far posso pensier che la passata Notte non mi rammenti; e sol la speme Della vegnente mi consola.» E tacque. Occùlta da quel giorno ogni vicenda Della fortuna il giocator le tenne; Ma perduta il suo volto avea l' antica Larva de' suoi pensieri asconditrice; E Teresa leggea nel bieco aspetto Pria le perdite gravi ond' era colto, Poscia ne' dì seguenti un disperato Cordoglio, e vide con terror le prime Tacite goccie inumidir quel ciglio. La desolata donna in compagnia D' una ancella fedel s' incamminava, Chiusa nel suo dolore, ad una casa Poco discosta da Palermo. Un vecchio Zio v' abitava, ed ella il cor gli aperse, Nè di avvisi e conforti ei le fu parco; Si che men trista ne tornava. Appena Tocco della sua porta il limitare, S' abbattè nel marito. A lei correndo Tra supplice e fremente: «Io son perduto, (Dicea) Teresa, se d' appor mi nieghi A piè di questo foglio il nome tuo. Tutto quanto posseggo, e fin la stessa Dimora che n' accoglie, ora è d' altrui, E se tu non m' aiti, oggi potranno Di qui cacciarne.»—E la misera donna: «Oh miei veri presagi! A tal siam giunti? Questo è dunque l' amor che di tua figlia, Di me tu senti, o sciagurato? Oh tolti Non m' avesse la morte i miei diletti Parenti! Ancora un amoroso asilo Sariami schiuso, e tu lungi n'andresti E per sempre da me: ramingo in terra, Senza un affetto; immagine odïosa Del vizio, a dito mostro, e da nessuno Consolato o compianto.»—E qui fe posa Al suo garrir, chè gli atterrati sguardi E il pallor del marito uno sgomento Le misero nel core. «Ah troppo io dissi! (Così fra sè dicea) condurlo ad opra Disperata potrei. Ch' io ceda?… il farlo Lieve cosa per me… ma la mia figlia… Nelle braccia gittar della indigenza Questa cara innocente!… Ah no! costretta A mendicar non sia… Ma se rifiuto, L'infamia scenderà, retaggio solo Serbatole del padre, a lei sul capo… Vile è il mio dubitar. Cara fanciulla, Rimanga illeso il nome tuo.» Poi vôlta A lui con viso raddolcito: «Oh torna, Torna in te stesso, amico mio. Non parlo Di'me, che forse più cara non m' hai, Ma della figlia tua. M' odi, non niego Satisfar la tua brama: una promessa Sola ti chieggo. La tua man mi porgi (E veggendolo pur muto e confuso, Con dolce vïolenza a sè lo trasse); Giura a Dio, giura a me, che questa cara Il pensiero sarà della tua vita; Che per lei, per lei sola e mente e braccio Adoprar tu vorrai, sì che non debba Sulle porte straniere ir mendicando Il pan della vergogna.»—Alfin si scosse Il giocatore; ma non fur le acerbe Parole al cupo meditar cagione, Nè le soavi al suo destarsi: immersa, Mentre la donna gli parlò, la mente In un còmputo avea, nè gli sonaro Fuor che gli ultimi detti. «Io tel prometto! (Gridò) ma tu soscrivi. E ciò non basta: Perchè tutti io racqueti, ho d' uopo, e tosto, Procacciarmi dell' oro.»—Al ciel rivolse Teresa un guardo desolato. E poi, Come agli ingordi flutti il mercadante, Che della nave sua vede il periglio, D' ogni merce fa getto; a tale immago, Ripugnante bensì, ma pur secura, Correa la donna ad uno scrigno, e tolti Armille e vezzi, nuzïal suo dono, «Te li rendo (diceagli); a me sol resti Quanto recai dalla paterna casa.»— Come veltro digiun, che la mascella Posta al cibo agognato, altro non cura, Egli strinse così su quelle gemme L'avida mano, e di troncar bramoso L'importuno colloquio: «Abbi mercede, Mia Teresa (egli disse); un dì, mel credi, Potrò ridarti ciò che m' offri. Ho fede Ancor nel mio destino. Addio, Teresa.»— E con passo veloce a lei si tolse. Se dolcezza e virtù, se quell' amore Che tutto affronta e vince, e se l' aspetto D' un soffrir rassegnato, ad un macigno Non si fossero vôlti, avria Teresa Pieno trionfo riportato. Un soffio Di zeffiro gentil, che tronco o ramo Tenti piegar di vasta annosa quercia, Furono quelli avvisi e quei lamenti. L' oro perduto racquistar volea; Poco il come importava. Un patto strinse Con altri scellerati, ond' egli i segni D' una favella insidïosa apprese, E conobbe le vittime cadute Ne'loro artigli. Un chiuso infame loco N' era il ritrovo, e l' esca (acciò gli incauti Allettar facilmente al teso agguato) Perdita studïata. I giocatori Sedeano al tavoliere, e lieti alcuni Erano ormai di poche auree monete. Uno allor de' perdenti, mascherando Dispettosa sfiducia, «Oltre non voglio Tentar la sorte (prorompea): domani Qui l' ora stessa ne raguni. Avversa Oggi è a noi la fortuna. Or ben, lo sia! Ma pariamci a' suoi colpi, e con nov' arme D' oro e d' argento, ritentiam domani La prova.»—Al suo consiglio ognun s' arrese, E di là si partiro. Il dì vegnente Niun falliva al ritrovo. I vincitori Nova vi trascinava ingorda speme, Certezza i vinti di guadagno iniquo. Al tavolier raccolti erano appena, Quando improvviso strepito lor giunse. Tre volte udiro con urto crescente Alla porta picchiar; l' uno con l' altro, Muti, atterriti si guataro. Al suolo Fu la porta gittata, ed essi in cerchio D' armi e sgherri trovârsi. Esaminate Fur carte e dadi, e si svelò la frode. Al carcere condotti i barattieri Vennero tosto, e invan le madri, i figli, Le spose gli aspettâr quella funesta Notte. Al mattin si divulgò la colpa, Ed il castigo, per l' indubbia prova Del delitto, infallibile; e più grave Cader sul capo di color dovea Che l' inibito ruïnoso gioco Fero di tradigion turpe stromento. Or che fu di Teresa? Ahi sciagurata, Senza misura sciagurata! Il tristo Che legò la sventura al suo destino Non patì quel dolor. Le disperate Grida ch' ei fe sulla condanna, amore Di sè, non carità dell' infelice Donna strappògli. Avria volenterosa Ella de' ferri suoi diviso il carco, Benchè tanto mertati. In quello spirto Stavano a lotta due contrari affetti: Il vile malfattor d' ogni amoroso Dritto scaduto, che la figlia e lei Di vergogna coprìa, nel suo pensiero S' imprimea con terrore e con ribrezzo; Ma nel suo core invece una bugiarda Immagine di lui s' era scolpita, Che troppo a lungo amata, interamente Radersi non potea.—Di querimonie Accusatrici non fu scarsa; il Cielo Vindice ne invocò: ma d' altre bocche Tali voci ascoltando, e tutti, tutti Inveir contra lui, mutò linguaggio. Travïato il dicea da tristi amici, Travïato e non altro, e forse ignaro De' loro inganni. E contro sè volgendo Anco l' accusa: «Io fui (seguia) che troppo Severa il rimbrottai quando la prima Avversità l' incolse. Amor soverchio Della figlia e di me, pietà d' entrambe Fuor di senno lo trasse, e non è giusto Incolpare un demente.» E col suo pianto Ella sperò far forza all' altrui fede; Nè a passi, a prieghi perdonò, bramosa D' addolcirne la pena. E come folle Da giudici e potenti fu respinta! La prigionia d' un lustro era decreta Per lui. Soffrilla intera. E quando muto, Pallido, vacillante, e coi profondi Segni del suo patir lungo e crudele Teresa lo rivide, entro il suo petto Tacque il giusto rancore, e impietosita Gli dischiuse le braccia. In quell' istante Parve ed era commosso. Il mal durato, L' oblio, lo sprezzo altrui, la generosa Sua donna, in lui destaro un sentimento Ignoto, un lampo di verace amore; Ma nell' abbietta sua tempra ricadde Subitamente, e a investigar si volse Se Teresa serbati avea quei pochi Vezzi de' suoi parenti ultimo dono. Non le richiese come i dì traesse Nel dolor, nel disagio; e de' suoi mali Era soltanto narrator prolisso. La fame, la miseria e le minacce Di nuova prigionia scossero alfine L'ignavia in cui sommerso anzi il delitto S' era quel tristo, nè la lunga pena Tratto ancor ne lo avea. Cercò lavoro, Si profferse a parecchi, e fu rejetto Da tutti, e spesso con parole acerbe. «Hai lividi pe' ceppi ancora i polsi (Un gli dicea); non vo' chi sia di scorno A' domestici miei, nè rimandarti Dalla mia casa alla prigion.»—Teresa Disperata correa di porta in porta Supplicando per lui. Ne fu commossa Una giovine sposa, e dal marito Impetrò che custode a' lor fanciulli Fosse la meschinella, e provveduto D' un onesto lavoro anco lo sposo Che pentito asseria, tal che d' eccesso In eccesso gittar non si dovesse Pe' continui rifiuti. Un vivo raggio D'allegrezza brillò nella scorata Sembianza di Teresa, e ne venía Lieta nunzia al marito. Alla proposta Lampeggiar vide un infernal sogghigno Su quelle labbra. «Oh non ti dar (le disse) Pensier del mio futuro! Una sicura Via trovar seppi, e sagrificio alcuno Non esigo da te.»—«Dio!… qual mistero È nel tuo dir? Ti spiega; a me palesa Qual via trovasti. Il sai che forte io sono E risoluta, nè periglio alcuno Può staccarmi da te.»—«Come? staccarti Da me non vuoi? Mi segui adunque, e taci; Ch' or non posso appagar le tue richieste. Sappi soltanto, che femminea mano Mai non venne a quell' opra ajutatrice Ch' io compir debbo, e novo, unico esempio Ne saresti, Teresa.» E un'altra volta Il sinistro gli apparve orribil ghigno Sulla bocca. Tal era in quel momento Il volto suo, che amore aprì le penne Nel cor della sua donna, e già parea Che ne prendesse impaurito il volo. Ma la virtù co' suoi nodi tenaci Costretto ivi l' avea. Poi che sì pura Stanza lo ricettava, amor non ebbe Nè desio nè poter d' abbandonarla. Che le aprisse il marito il suo segreto Invan pregò Tenesa, invano i detti Tutto quel dì ne meditò. La notte Venne, nè su quegli occhi, affaticati Dal lungo lagrimar, piovve il soave Balsamo suo; ma pur meno affannosa La veglia ne parea, che l' agitato Dormir di suo marito. Ad ora ad ora Torcea le braccia, e dal labbro convulso Grida tronche da gemiti mandava; Poi con sommessa e men confusa voce Dicea: «Di sangue la mia mano è lorda.»— «Oh per pietà ti desta! È sogno il tuo…» Esterrefatta prorompea Teresa, Fortemente scotendolo.—«Che vuoi?» Rispondeale il marito, ancor mal desto. Poi dal sonno riscosso, e fitte in lei Le sbarrate pupille, «Oh perchè (disse) Al riposo m' hai tolto? Paurosa Tanto se' fatta, che d' un sogno hai tema? Lasciami in pace!»—Intanto i primi albori Spandea la luce in quella casa (ahi degna Delle tenebre eterne!), e replicati Colpi alla porta udì la donna. Sveglio S' era anch' esso il marito, ed accostarsi Veggendola al balcon, «Che fai?… t' arresta! (Le gridò fieramente) io son chiamato, E so da chi.»—«Deh ! almeno ora mi svela Ove ne vai! Ti rivedrò fra poco?»— «Sì, prima del meriggio.» E ratto sparve. Affrontando il suo sdegno ella gittossi Tremebonda al balcon. Quattro scherani, Di stocco armati e d' archibugio, agli occhi Le si affacciaro, ed egli in mezzo a loro. «Gran Dio! dove il traete?» a quella vista La misera ululò, nello spavento Che per novo misfatto a nova pena Fosse condotto.—«Non temer, mia bella, (Un de' quattro rispose in tuon di beffa) Vedova a lungo non vogliam lasciarti, E giuriam di tornartelo fra poco Questo caro tesoro in fra le braccia. Io con questi miei prodi usbergo e scudo Gli sarem, se per caso alcun monello Oltraggiar te lo ardisse, ed un mal tiro Far con poco rispetto all' onorata Scure della giustizia.»—E detto questo, La bieca comitiva oltre passava. Lo sciagurato non osò d' un guardo La sua donna fissar, ma chino il volto, Quasi pietra sospinta procedea. Cogli occhi ella il seguì fin che d' un velo Il dolor li coverse: allor si trasse Dalla finestra, e le ginocchia a terra In silenzio piegò. Puntello al capo Fe delle palme, e lungamente immota In quell' atto si tenne. A Dio parlava. Poi come colta da subita luce, Surse, e: «Vien, figlia mia, vieni, mi segui; Corriam sull' orme di tuo padre.»—Uscía La man porgendo alla fanciulla, quando Un braccio l' afferrò: del vecchio Paolo Era, che un dì la confortò di speme: Speme bugiarda! ed or nunzio venía Di verace sventura. «Il Ciel t' ajuti, Teresa; io più nol posso!»—«Ov' è? parlate! Oh sì, voi lo sapete!… E perchè tanto Pallido, costernato?…»—«Ignori dunque?… Infelice!… Il mio labbro a te nol dica. Pur saperlo t' è forza. È maledetta Questa casa, o Teresa. Abbandonarla Devi con me. Qui ritornar vedresti… Il carnefice!…» Un grido uscir volea Dal petto della misera, ma spento Fu nella strozza, e disensata cadde Fra le braccia di Paolo. Accorse a lei La buona fante, che da' suoi prim' anni L'ebbe diletta, e seguitolla quando Dalla casa paterna si divise. Raccapricciando udì l' orrendo vero Dalla bocca del zio, che l' esortava A far raccolta di quei pochi arredi Che ancor Teresa possedea, reliquie Povere, e sole al giocator sottratte. «Or poi che Dio pietoso (ei le dicea) D' intelletto la tolse, oh non cerchiamo, Anna, di richiamarla al suo dolore, Dal letargo destandola.» La fante Obbedì rispettosa, in lui mirando Quasi uno spirto che dal Ciel disceso Due vittime involasse ad aere infetto Per mali influssi. Dalle forti braccia D'un pio vicino sostenuta, tolta Fu Teresa a quel loco. Ancor sopiti Erano i sensi in lei… Quando coi dolci Pensier di giovinetta amante sposa Tocche avea quelle soglie, oh qual profeta Di casi infortunati avria saputo Predir com' ella ne uscirebbe un giorno!— L'adagiaro in un cocchio: a lei vicino S' assise il zio, che avea fatto sgabello Delle ginocchia alla bambina, e il pianto Infantil ne chetava. A lor l' ancella Venia compagna, e all' umile abituro Giunsero in breve del vegliardo. Il fresco Ventilar della brezza mattutina Risensò l' infelice. Ah mille volte Tronca avrebbe il dolor quella sua vita; Ma vincitrice del dolor pugnava Un' altra forza in lei: l'amor materno! Vedea nell' avvenir, raminga, sola, Derelitta la figlia, nè bellezza, Nè virtù, nè sventura, un guardo, un detto Conquistarle d' amor, di simpatia, Non che la mano d' uno sposo; e un' ombra, Un fantasma terribile, l' infame Nome del padre ributtar da lei Ogni vivente creatura!—In questo Seno (Teresa nel pensier volgea, Mentre un misto d' affanno e di sgomento Infiammava il pallor delle sue gote), Ritrovi in questo seno, ove la faccia Celare all' occhio insultator del mondo.— Povero di fortune era il pietoso Vegliardo, e misurarle a lui non piacque Quando aperse alle donne il proprio tetto. Esperta era Teresa in femminili Opre, e soccorsa da colei che volle La sventura partirne, ad indefesso Lavor si diede. Han povera mercede Le mani industri della donna; e male, Benchè negasse alle pupille il sonno, Opponeasi la misera al disagio Col tenue prezzo delle sue fatiche. Nè mai nuova di lei nè della figlia Il carnefice chiese, allegro forse Dell' abbandono. Non gli avea Teresa Sprecato ogni suo bene? Ei dunque nulla, Nulla in lei più vedea, perchè dovesse Correrne l' orme. In quell' anima abbietta Avea l' insazïato amor dell' oro Quello di padre combattuto e vinto. Con raccapriccio e con dolor pensava A lui Teresa, ma lamento o inchiesta Più non ne fe. Talora a Dio rivolta, Lagrimava in silenzio, e susurrava Un nome che turbar tutte potea Degl' Immortali le serene fronti. Quando agli umani sguardi ella s' ascose, Di sostenerli vergognosa, alcune Alme pietose al suo destino orrendo Commiseraro; ma fu tolta in breve Dalla mente d' ognuno, e in quell' oblio Quattro lustri produsse.—Il dono usato Di rose e gigli, dall' età fiorita Solo non ebbe la fanciulla sua: Di meste e dolci tinte una soave Vicenda era il suo volto, e la rendea Dissimile ad ogni altra. Ereditata La dote avea delle virtù materne: Intenta alle più belle opre dell' ago Notte e di stava. La pomposa gonna Che in lieto crocchio rabbellir dovea Qualche ricca patrizia, o il nuzïale Candido vel, di vergine amorosa Cano occulto sospiro, uscian da lei Di bel fregio trapunti. E temperate Della madre infelice avria le pene; Se non che la tristezza a lei si oppose, La tristezza che avea su quella vita Geloso impero, nè la ferrea mano Dal suo capo levò, che per lasciarla A maggior possa della sua, la morte. Questa del suo squallor le impresse il volto; E lenta infermità, che qualche raggio Talor le dava di speranza (ahi vana Menzognera speranza!) alfin nel sonno Del Signore gli stanchi occhi le chiuse. Ravvolta in negri panni, e, quale estinta, Pallida in viso, su recente fossa Una vergin piangea. Scorta a' suoi passi Era un canuto. «Poi che avrò rendute Le cure estreme a quest' antico, Iddio Mi sciolga dalla vita, e teco, o madre, Per non più separarne, mi congiunga.» Tale era il prego che iterar solea La giovinetta alla materna fossa. Dolce amica del Sol, Sicilia bella, Sacro nido dell' arti, e di quel canto Che a nova altezza sollevar dovea Il vol che da te mosse, e poi si larghe Ali distese per l' Ausonia tutta; Delubro, onde rifulse il primo lampo Dell' italico Genio, a cui nè il lungo Servaggio, nè l' età fiacche e codarde Fèr ombra tal, che vivida, raggiante Non mandasse ei talor qualche scintilla Della fiamma sepolta avvisatrice! Ma perchè la gramaglia ora tu spogli Che ti diè la sventura, e di pompose Gonne t' adorni? Il tuo limpido cielo Splende, o Sicilia, su felici? Parte Della terra gentil forse non sei, Ove il Dolor colla Bellezza strinse L'antico nodo, ed insolubil forse? Si; ma decreta nell' eterna Idea Era una tregua al suo patir.—Qual donna Che, vinta di letal morbo la possa, Volge pietosamente i languid' occhi A colui che la tolse a certa morte; Così, rotto l'Italia il gran letargo, Girò lo sguardo conoscente ai forti Che le scossero primi il grave sonno, E nella man che stretta era di ceppi Riposero la spada. Oh come allora, Come apparve mutata! Un sol volere Scaldava i petti, e Carità fraterna, Alla Fede congiunta ed alla Speme, Ne reggeva lo scettro; e il santo amplesso Tanta luce mettea dal mare all' alpe, Quanta mai non gittâr sull' infelice Cento splendide aurore, a lei presaghe, Ma sempre infide, di miglior destino. E quest' alba che tutte le vincea, (Ed, ahi, così diversa ebbe la sera!) Dalle sicule vette a lei sorrise. Gli abitatori del romito asilo, Paolo e Maria, non l' avvertiro. Udito Senza un palpito aveano il forte grido Di libertà; ma scuotere potea Forse i lor cuori? Ed era angolo alcuno Di quella terra, allor allor risorta, Che repulsi da sè, con duro accento, Non avesse quei miseri?—Tremante, Furtivo intanto la città fuggia L'uom che gli avea dannati allo sconforto, All'indigenza, all' ignominia, al pianto. Allor men vergognosa l' orfanella Alla materna fossa ardia venirne, Chè pareale ammansata ogni sembianza; E di qualche saluto in cor gustava L'inusata dolcezza.—Or come accade, Se desto alle tepenti aure d' aprile Sorga il germe sopito, o metta il ramo Imprudente le gemme, e poi ripreso Il verno, ancor nondomo, ira e vigore, Fiori e foglie dissecchi; a tale immago Strinse i fervidi petti un gel di morte, Che d' improvviso n' attutò la molta Malconcetta fiducia, e la baldanza; Nostre antiche sventure! Ecco la bella Isola de' Ciclopi ancor nel pianto! Ma qual ne fu la breve gioia, e quanta L'angoscia che rinacque, oh mal rammenta Il verso mio!—Quasi belva digiuna, Il carnefice riede alla caduta Città, sepolcro di viventi. È nato Dal terror quel silenzio. Ahi! quanti aspetti Squallidi, incerti sul destin di cari Congiunti, amici, o di lor fin dolenti! Ma un amor che nei caldi impeti venne Da forza altrui compresso, illanguidirsi Non può: si affina invece, e qual costretta Fiamma tormenta il petto ove si schiuse. E così fu. La gemebonda voce Di novo alzò la patria; era la stessa Voce, che ad un vessillo unico strinse Col cittadin l' abitator modesto Di ville e di tuguri. Allor confine Muro o campo non furo all' occorrente Sicula gioventù: segreto nodo Unià quanti affrontâr securi e lieti Un medesmo periglio, e insiem partiro L'alterezza gentil della vittoria. Ma pari a viator che per le ardenti Libiche sabbie si rigira, incerto Del suo cammino, e sente omai la possa Mancar, mentre la sete ognor più cupa Lo riarde e lo strugge, ove d' un tratto (Mero gioco di luce) a lui si mostri Bosco, fonte, o abituro, alza la speme Che nel cor già gli muore, e s' abbandona Esultante al poter di quella vaga Incantatrice, che dagli occhi suoi, Quasi irridendo, i bei fantasmi invola; Cadde non altrimenti a pena eretto A'piè de' valorosi il mal commesso Edifizio. Ma breve è lo sconforto Nell' animosa gioventù, chè vinto Vien da forze rivali, e queste sono Dell'avvenir coloritrici, insieme E pietose e crudeli. Agevol opra Credean gl' illusi la perduta gloria Intera ricovrar, ma chiusamente Doveano i modi divisarne, e il tempo. Inavvertita al passaggier, sepolta Fra gibboso infruttifero terreno, Solitaria, ignorata, e dai gremiti Rami protetta di due tigli antichi, Era la casa di Maria, ma nota Nondimen fra' giurati. Un di costoro, Alpestre cacciator, segui le tracce Di ferito cinghiale, e dopo molto Vagar scese dal monte alla pianura. Ivi un turbine il colse. Al suo balcone Era Paolo, e pregava, acciò non fosse Quella bufera perigliosa. Appena Lo straniero ei notò, che senza schermo Stava dei nembi all' incalzante possa, La finestra egli aperse, ed all' antica Voce diè la pietà robusti suoni. Udilla il cacciatore, e grato accolse Le ospitali profferte. Allor Teresa Vivea. Pietosa sempre, al passaggero Volle apprestar di foco e di vivande Pronto ristoro. Ma d' aspetti umani Schiva pur sempre, si ritrasse quando Disposta ebbe ogni cosa. Indarno ei chiese Della benefattrice ignota mano Che all' uopo suo provvide, e nella mente Le fole richiamò che udia fanciullo Di palagi incantati. Or come suole Spesso la fantasia finger gli uffici Della memoria, col pensier tornando A quell' albergo, ogni veduta cosa Sotto mistico vel raffigurava. «Amici (egli dicea), m' udite, e beffa Far non vi piaccia del mio dir. D' occulto Ricovero n' è duopo, e dimostrarvi Tal ne poss' io, che più secreto e fido Nol potreste bramar; ma pria, parlate! V'ha tra voi chi d' incanti abbia terrore? Abitator del loco è un vecchio grave, Che mi fa ricordar del mago Atlante. Un di mi fu d' ospizio assai cortese, E sarallo a voi pur. Se vi gradisce Seguitar la mia guida, a lui v' adduco.» Quelli assentiro, e per dirotte vie Alla casa di Paolo ei li condusse.— Ai caldi preghi, da talun proferti Con quel sembiante che a mutar s'appresta La preghiera in minaccia, opporsi il vecchio Non seppe, e rincorò la giovinetta Altamente atterrita ai novi aspetti. «Che vuoi? (diceale) la ripulsa è vana; Ricettarli n' è forza. Un mezzo solo Per cacciarneli avrei, ma si rifiuta Fermarvisi un istante il mio pensiero. Infamia tale, e da me compra, il capo Non mi dee ricoprir, nè tu il vorresti.» La fredda mano del vegliardo a quelle De' congiurati si congiunse, e Dio Qual vindice invocar dello spergiuro. Le segrete adunanze ebber principio; E corsero due lune. Assuefarsi Il cor della fanciulla alle sembianze Incognite parea, da sè rimosso Il primiero terrore. Altri compagni Intromettersi ai primi ella vedea, Cui dell' ordine ascoso e della trama Venian le fila manifeste; ed era Di lettere vergate in cifra arcana Spesso lo scambio coi lontani.—Il fine Che tratto avea que' giovani al suo tetto Non sapea la fanciulla, e rammentava Come la madre sua cercar soleva Ne' santi esempi del soffrir di Cristo Conforti al suo penar. La dolce storia A lei bambina raccontava, e quanta Fosse la lotta dell' error col vero Pe' discepoli suoi. «Pari a costoro, (Così pensava) in chiuse ignote mura S' accoglieano que' Santi, a cui la speme Altissima, divina, invigoria La fralezza dell' uom; tal che leoni Per invitta possanza, e per candore Purissime colombe, uscian fra lupi Que'banditori dell' eterna vita.» Pria qualche cenno di saluto, e poi Schietto, amico parlar, ch'era sollievo E pausa a gravi cure, alterna strinse Dimestichezza fra il vegliardo e i molti Ospiti suoi. Di riso offria subbietto Quella, vera che fosse o simulata, Credulità del cacciator, che pinto L'avea qual malïardo a' suoi compagni. E venia da ciascuno alla modesta Bellezza di Maria (che di rossore Tingea la guancia, e gli occhi al suol chinava) Porto omaggio di lodi. Un sol parea Schivo di proferirle; il giovinetto Riccardo, che fra tutti avea gentile L'animo, la sembianza e la parola. Penetrato Riccardo il chiuso affanno Della vergine avea, nè profanarlo Ardia coll'importuno e consueto Favellio de' garzoni. Alla fanciulla Sola e pensosa, d' accostarsi amava In atto di pietà, poi le volgea Dolci e meste parole; ed una madre, Che perduta egli avea fanciullo ancora, Così com' ella, rimpiangea talora Nei frequenti colloqui, onde i lor cuori Si venian rivelando una segreta Consonanza di pene, e la speranza Di riveder le care anime in cielo. Maria piangea, ma pure una dolcezza Sentia nel pianto. Quella voce amata (Assai più ch'ella nol credesse ancora) Nova forza infondeale, e temperarne Parea quasi il dolor… Non altrimenti Il vomere riprende il villanello Che stanco abbandonava, anzi la sera, Sull' incompiuto solco, ove la cara Voce della sua donna all' interrotta Opra il conforti, e novo ardir gli spiri. «La sola gleba ove la madre mia (Essa diceagli) fu sepolta, e questa Romita casa, un tempo a me fur care. Ma dacchè vi conobbi, un altro amore Provai… quel d'una patria;» e paventando Ch'ei non leggesse nel suo cor, «per voi Soltanto appresi la sublime e forte Virtù di questo affetto.»—«E stanza ognora Qui teneste, o Maria?»—«No, m'ebbi altrove La vita, ma nei primi anni qui trassi. L'industre mano della madre mia E la pietà di questo zio vegliaro Pròvvide allor su me, chè nel disagio Di quanto all'uom bisogna una tremenda Sciagura ne gittò.»—Qui si coverse Di porpora le guance, e il giovinetto Quel subito avvampar credea vergogna; La vergogna del povero, che sdegna Ir mendicando, e occulta i mali suoi; E di troncarle ogni pensier molesto Sollecito, aggiugnea: «La madre vostra Parmi che ignota non mi fosse: in voi Le amabili virtù così ne scerno.»— «Oh veduta l'aveste! Amato assai Ella, o signor, vi avria (con vivo accento La fanciulla interruppe); il labbro suo Meglio, oh meglio del mio, vi avrebbe aperto L'animo grato, chè benigno a lei Stato (n'ho fede) come a me sareste!» Così dicendo, il suo timido sguardo D'amorosa eloquenza era ripieno. «Che mi dite, o Maria? L'animo grato? Nulla io feci per voi, che mi deggiate Riconoscenza. Ma nel mio pensiero Forse voi penetraste, e qual desio Di giovarvi m' accenda, avete scorto.» E nel dir questo, amicamente strinse La destra sua. Maria tacque un istante; Indi: «Oh noto non v'è come distilli Balsamo ai cuori addolorati un dolce Commiserar! Da voi l'ebbi, ne mai Con più vera parola in me discese.» Eran tali i colloqui che destaro Nel seno di Riccardo il vivo affetto D'una amistà sincera, e il foco primo D'amore in quello di Maria. Celato Ad ogni occhio v' ardea, da interna voce Combattuto. «Perchè, perchè (pensava) Amar non lo dovre? Buono, cortese D'animo egli è. Sol la pietà mel fece Sì tosto amico. D' un amor fraterno, (Dolce affetto che mai non muta o langue) Concessa non mi fu, ma non disdetta La dolcezza. Che in lui provarla io possa! Ma lunge dal mio petto ogni delira Speranza. A Dio mercè di tal conforto Porgere io deggio, e non per folle intento Volgergli il core.»—Ma fur leve auretta, Che vasto incendio soffocar presuma, I suoi buoni proposti; e nondimeno Questo amor che in Maria nacque gigante, Sfuggi di Paolo al guardo, ancor che fosse Facile indagator de' suoi segreti. A lui pur sovra gli altri era diletto Il giovine Riccardo, e alla fanciulla Dicea: «Tu sai com' io sovente assista, Testimonio richiesto, a'lor ritrovi. Benchè un solo desio mova ciascuno, Maria, mel credi, dal pensier discorda In molti la favella, e larva è forse, Se non di ree, d'ambizïose mire. Sai chi la lingua ha pari al cor? Riccardo. L'alto amor che lo infiamma, ei non confonde Mai col suo proprio: se travia da questo La mente dei compagni, ei con sensato Parlar ne la richiama, e sa con mite Discernimento temperar le audaci Proposte.—Odio, o rancor non si frammetta, Fratelli, a un' opra che l'amor consiglia!— Dir più volte lo intesi; e par che il vero Sul labbro suo novella forza acquisti, Che gli erranti suade, o li confonde.»— Maria commossa lo ascoltava. Ell'era D'incessante pensier sotto l' incarco, Dacchè Riccardo le fu caro. «Oscuro Rimanergli non può (talor dicea) Chi mi fu padre. Lo vedrò pentito Forse dell' amistà che mi concede. Ad alcun di costor patria o soggiorno Non è Palermo, è ver; da più lontane Città mossero tutti, onde sospetto Per or non ho, che oscuro a lor non sia Qual nome io rechi. Ma chi poi m' accerta Dell' avvenir? Sariami obbligo forse Manifestargli il vero. Oh! ma di tanto Sacrifizio il mio cor non è capace.»— Un di sul padre suo la prima inchiesta Le fe Riccardo. «Lo perdei,» rispose Tutta tremante, e si ritrasse; al vecchio Ratta poi corse, e con infinti detti, (Nova cosa per lei) coperse il vero. «Buon zio, m'udite: non vorrete, io penso Disdirmi un giusto priego. Il giorno è presso (Per quanto intesi) che da noi commiato Gli ospiti prenderanno. A viso aperto Sarà lo scontro co'Reali. Amica Spero lor la fortuna; ed a Palermo Potrebbero di corto andar le grida Di libertà suscitatrici. Quando (Dolce cosa per l' uomo) essi diranno Gli sfidati perigli, alcun potria La dimora indicar che un di li accolse. Come sui capi nostri odio, disprezzo Pesi, ah troppo sapete! Al velenoso Labbro della calunnia è lieve impresa Farne vittime sue. Qualche maligna Bocca bisbiglierà, che una fanciulla Soggiorna in queste mura, e che palese Da chi nata ella fosse a lor non era. Con sembianza di ver fatti bugiardi Ripetuti verranno. Alla mia buona Madre promisi che sul nome mio, Nome che intatto mi serbò, giammai Non cadrà l'ombra d'una macchia. Or voi Que' giovani pregate (e grave a loro Non sarà, spero, l' assentir) che sempre Taccian qual fosse dei ritrovi il loco.»— «Saggio è il pensiero, figlia mia, (rispose Paolo) e mi pieghi al tuo voler.» Poi quando Vide raccolti i congiurati, ei venne Di mezzo ad essi, e la cagione esposta Del suo venirne, al proprio aggiunse il prego Che lor fea pel suo labbro anche Maria. «Onesto vecchio, il tuo voler n'è sacro (Disse Riccardo); nè fra noi, t' accerta, Biasmo o rifiuto incontrerà,» (seguia, Gli occhi volgendo su'compagni; e tutti Concordi v' aderiro). Era fra questi Quadrilustre garzon, che mal frenava Un'indole faceta. Al fin de'gravi Ragionamenti, novellier giocondo Faceasi, e il falso affastellando al vero, I compagni allettava. «Io so (dicea) Onde move il desio della leggiadra Ospite nostra. Nuzïal corona Quel suo crin biondo cingerà fra poco. Or che lunge ha lo sposo, uno sgomento Giusto la prende che labbro maligno, Pria del suo, nell'orecchio gli susurri Che la casa, deserta al suo partire, Oggi è d' ospiti piena, e che potria Qualche vagheggiator… poichè gli assenti, Come canta l' adagio, han torto sempre… Paolo! ne' suoi begli occhi il ver non lessi?»— «Giovane, hai viva fantasia, ma trista Indovina del ver,» Paolo rispose.— «Tu, tu piuttosto palesar nol vuoi,» Più d' uno allor gridò, chè fede intera Il racconto ottenea. «Spirto sagace Ch'ogni segreto intendimento svela È costui sempre.»—«E sia. Lunga contesa Far di questo non voglio; e grato a voi Del giurato silenzio, a farne istrutta Maria m' affretto.»—«Nè temer che il giuro Per mal talento o per obblio si franga» Tutti acclamaro. Sorridente in viso Corse il canuto alla nipote, e a quale Cagion fu ascritto il suo pregar, narrava. L'interna pena in volto a lei si pinse: «E perchè (gli dicea), perchè smentito Quell' audace parlar con meno incerta Parola non avete?»—«A te calerne Può, mia buona Maria? Lasciam che tale Sia pur la fede loro: al nostro fine Nuocer, parmi, non debba.» Allor confusa Ammuti la fanciulla, e il turbamento Meglio che seppe gli celò; ma lungo Sfogo di pianto al suo dolor concesse Quando, giunta la notte, ella si chiuse Nella sua solitaria cameretta. Nulla speme nodria d' essergli cara; Pur forte l' accoró che fidanzata Ad altri la credesse. E di follia Sè medesma accusò, non perdonando La rampogna al suo cuore; e pur quetarne I palpiti non seppe. Nella mente Un pensiero accogliea, poi l' obblïava D' un secondo invaghita, e questo ancora Respingea per un altro: immota alfine Parve in un solo: «Gli dirò che mera Favola è quel racconto… E come osarlo? Domani forse quel saluto amico, Onde tanto conforto in me piovea, Non volgerammi ei più; ritroso e freddo Mi si farà… nè forse allor l' inchiesta Sconvenirmi potria, se mal mio grado Gli spiacqui… Ei mi dirà… Ma che mai sogno? Mutabil sorte de' mortali! Atroce Tormento mi fu sempre il sol pensiero Di vederlo sdegnato; ed or m'è speme.»— Speme delusa.—All'ago intenta ell' era, Quando la voce di Riccardo intese. Non ardi la fanciulla a por la faccia Mentre gli rispondea l' augurio usato Che sul mattin si alternano i cortesi. Ma solo il peritoso atto modesto Di fidanzata vergine, che i primi Saluti, i primi curïosi sguardi Arrossendo sostien, poi che la madre Divulgò le sue nozze omai vicine, Scorse il giovine in essa; ed un istante, Quasi ne dividesse il verecondo Timor, si tacque. Con timida voce Quindi a dirle si fe: «Buona Maria, È nota a noi la brama vostra, e intero Adempimento avrà.»—Qui le pupille Gonfie di pianto ella drizzogli, e invano Parlar tentò, chè la favella impulso Troppo veloce ebbe dal cor. Confusa, Rotta n'usci, tal che Riccardo il senso Coglier non ne potè. Nè più seguia Quel colloquio tra lor, chè tronco venne Dal sorvenir de' collegati. E come Non penetrò Riccardo a lei nell' alma? Egli che si amorosa avea la tempra, Perchè non ravvisò l'interna fiamma Per tanti indizi manifesta? Ah certo, Benchè non fosse estimator verace Di sè (modesto troppo), un di n'avrebbe Rivelato il segreto, ove l' amore Fervido d' un'idea, pensieri, affetti Tutti assorbiti non n'avesse. Intanto La misera struggeasi. «Ahimè, dicea, Perchè, stolta ch' io fui, non seppi un niego Con ferma voce proferir? Bastanti Eran poche parole: io pur n'avea Tante pensate, e d' una, e d' una sola Non mi sovvenne!»—Vergine infelice, Serba, serba i lamenti! Oh! ben n'avrai Più crudele cagion, talchè fra poco Fanciullesco dolor ti parrà questo. D'improvviso cessâr quelle adunanze; Nè parola cortese, o grato addio D' ospite che va lunge, alcun rivolse A Paolo od a Maria. Tornò la casa Come pria desolata: occhio mortale Notar non vi potea cosa diversa. Ma chi dentro penétra, assai mutato Vedeavi un core. «Ah no, più non verranno,» Ella a Paolo dicea, mentre un' infinta Calma avea nello sguardo, e ad ogni lieve Strepito, al mover d' ogni fronda scossa Dall'aura, ella tremava, e il suo pallore Di rossor fuggitivo si copria. Volgea muta e dolente a terra il viso, Quando colla parola ammonitrice Che volge l' età grave all' inesperta, Il buon vecchio dicea: «Volgar giudizio Biasma la diffidenza, onde i canuti Arman la mente e il core. A me già piacque Estimarla non giusta, e nel mio seno Penetrar non lasciai la fredda possa, Che gli affetti più belli in noi precide. Or, mal mio grado, sapïente figlia Dei tardi anni la dico. Un giovinetto Me vecchio illuse. Villania fu l' atto Ne' suoi compagni; sconoscenza in lui; Chè molto ei mi fu caro, e sol l' amore È compenso all' amore. Io loro apersi, Costretto quasi, la mia porta; or duro M'è non vederli. Oh quanto rassomiglia Il viver nostro a quel de' prigionieri, Cui la voce dell' uom giunge si cara!» Era una notte, e sulle stanche ciglia Scese a Maria (conforto inusitato) L'alleggiator d' ogni terrena cura; E la Letizia le sedea da presso: La bella creatura all' uom concessa Per amica fedele, e ch' ei respinse Col primo fallo; nondimen ricordo Tien quella diva dell' antico affetto, E sebben qui fuggiasca e peregrina, Spesso all' uom si raccosta, e non è vita Così posta nel fondo, a cui sorriso Un istante non abbia. Ed obblïosa Non fu pur di Maria, chè una felice Ora le addusse. Ella sognava. Il mare Intorno a sè vedea limpido e cheto. Sovra una nave con Riccardo ell'era, E con gioia infinita allontanarsi Ogni sponda mirava. Udia dal caro Labbro il nome di sposa, e il legno intanto Rapido s' appressava ad una spiaggia Tutta bella e ridente, ove profusa Era ogni pompa di natura, e vuota Parea d' abitatori. «Io so che grata, Più che il tumulto cittadin, la pace Hai de' boschi e de' campi. Ove ti guido, Sorge un solo abituro, e basta a noi, Che nido lo farem d' ogni diletto.» Così Riccardo le parlava, ed ella Spezzarsi il cor sentia sotto l'assalto Di tanto gaudio. Si destò. Balzata Dalle coltri cercò per l' aër cieco Con aperte pupille il dolce sogno. Era sparito. Ma da lei partirsi Quell' allegrezza a un tratto non potea; E per la prima e per l'estrema volta Guatò serena l' avvenir. La speme Che reina è dei cuori innamorati, Mille fantasmi le creò, che poi Fugati il lampo del mattino avrebbe. Ma le stanche palpébre all' infelice Velò di novo il sonno, e nuove larve Alla sua mente s' affacciâr. Veloce Nella seconda visïon da lei La Letizia fuggi, che aver dovea Breve regno in quel cor. Sul lieto margo Scendere le parea condotta a mano Dal giovinetto che volgeale ancora Cari accenti di amore. Ed ecco un' ombra Di terribile aspetto all' improvviso Sorgea fra loro a separarli. «Questo (Dicea quella sdegnosa) è il fin, Riccardo, De'tuoi proposti? Un vile ozio, un obblio Dell' alta impresa che tenea la cima Della grande alma tua? Menzogna dunque Fru si nobili sensi? O in te li estinse Il padre di costei, che trae la vita Dall'altrui morte? O bella, o degna cosa D'un sognator di libertà, la figlia Impalmar del carnefice!…»—«Maria! Gridò Riccardo, è verità? Tu figlia….» E la fronte torcea rabbrividendo Da lei, che disperata a' suoi ginocchi S' avviticchiava. Corrucciato in vista Ei da sè respingeala. «Ah m' odi! lordo, No, non era di sangue al nascer mio. Tosto che ci fu noto, inorridite Mia madre ed io l' abbandonammo.»—Il sogno Qui dagli occhi le sparve. Acuto grido Mise al destarsi. A lei corse atterrita Anna, e trovolla affogata nel pianto Sulle coltri sconvolte. «Anna, t'accheta; Fu sogno il mio. Va! va!… ti corca. Il vedi, Tranquilla or sono.» E l'incomposta faccia Tentò rasserenar. Ma qual nocchiero Che men sicura o men crudel non crede L'imminente procella, ancor che solchi Qualche lucida striscia il fosco cielo, Anna non affidossi a quella calma Dai gonfi occhi smentita, e dal mortale Pallor delle sue guance, indizio cerlo Della tempesta che fremeale in petto. Al seguente mattino i segni impressi N'avea sul volto e nel parlar, che fioco Era, e qual di delira; e non ardia Anna d'interrogarla.—Ombra di questo Paolo non ebbe, chè scemata molto Avea degli occhi la virtù. Cadente Era il vecchio ed infermo, e l' ultim' ora Sempre attendea. Maria su lui vegliava Con animo di figlia, e per gentile Accorgimento, a divinare intesa Ciò che più gli gradisse. «Oh mi ridite (Carezzevole spesso a lui dicea) De' vostri giovanili anni la storia.»— Sorridea pago il vecchio, e con paterna Gioia portava sulla bionda testa Della fanciulla la sua mano, a lungo Strascinando il racconto. Ogni minuta Parte Maria ne conoscea, ma ignara Però se ne infingeva, e larga sempre A' suoi vanti infantili era di plauso. Modesto e vanitoso, a lei narrava Della sua gioventù, come di forme Leggiadrissime ei fosse, e d'avvenenti Donne sospiro; e la beltà, le grazie Loro esaltava, che riscontro alcuno, Nè paragone avean colle viventi. In un giorno d' april Paolo sedea Su vecchia scranna, e con devota mente Recitava il Rosario; e le due donne (L'una intenta al ricamo, e l' altra al fuso) Ripeteano l'angelico saluto. Ma la voce del vecchio ognor più roca E indistinta divenne; alfin la testa Piegò sul petto ed ammuti, sorpreso Da dolce sonno. Con parlar sommesso Conversavan le donne. «Anna, oscurato Sembrami il cielo.»—«No, cara, risplende Senza nugoli il Sole. Agli occhi velo Vi farà la stanchezza. Oh m' ascoltate! Tacer più non vogl' io. Cura inquïeta Siete voi del mio cor. Soffrite, il veggo, Fieramente soffrite, e un morbo in voi A gran passi s' avanza. Agevol opra Ridarvi la salute oggi sarebbe; Ma doman chi lo sa? Riccardo anch egli Dirvelo intesi;… rammentate?» Incerto Levò lo sguardo la fanciulla, e l' altra Segui: «Nè allor si pallida e scarnata Eravate, o Maria:»—«Non era io tale, Anna, tu dici? S' ei tornasse, e come Or son io mi vedesse….» E qui ritrosa D' aprir l'animo suo, serrava il varco Schiuso al pensiero, e soggiugnea: «Di morte In me vestigi noteria, chè sempre A funesti presagi inchino ha il core; Ma cadrebbe in error, non altrimenti Che tu, mia buona. Non è male il mio Che conduca alla tomba; e quando il fosse, Perchè dolermi? Tu lo vedi, amica, Quel capo venerando (e mestamente Paolo additava); in breve un altro sonno Ei dormirà. Che può, che dee restarmi Allor se non la speme, in cui m' allegro, Che presto il Cielo a sè mi chiami? Amaro M'è sol l'abbandonarti. In ogni tempo Tu qual figlia m' avesti, e di mia madre Consolavi il dolor. Ti renda Iddio Mercè di questo… Io non potea che amarti. Se al mondo sola ti sapessi, un voto Di morir non farei; ma ti rimane Più d' un congiunto, chè per noi lasciato Hai tutto, o generosa. A lor renduta (Che t' han si cara), tu vivrai, lo spero, Giorni tranquilli, e rammentar sovente Di noi, di me vorrai.»—Tacea l'ancella Resa muta dal pianto. «Anna, portarmi Alla chiesa vogl' io. Da tempo il bramo, Ma vel tacea per non turbarvi. Or sento Che interna voce mi vi tira. È forse La voce di mia madre.—In quella, desto S'era Paolo. «Maria! non è compiuto, Parmi, il Rosario?»—«No, buon zio.»—«Maligno Spirto me ne distolse, e farmi accorto Tu, Maria, men dovevi: anche a' seguaci Di Cristo il tentator chiuse le ciglia Nell' orto di Getsèmani.»—«Gradito Nel cielo è il buon voler. Di questo, o zio, Non vi prenda pensiero. Una domanda, Se timor di spiacervi io non avessi, Farvi or vorrei.»—«La esponi, o figlia.»—«Pace Non ho, se non mi prostro oggi all'altare Della Madre di Dio.»—«Soletta andarne Vorresti alla città? Maria, Maria, Non lasciarmi, ten prego! Io temo sempre Che la morte mi colga allor che lunge, Cara, mi sei.»—«Ritornerò fra poco, Ve he do fede… Io so che dir volete; La Madre del Signor qui pur m' udrebbe; Ma da un' intima forza irresistibile Tratta al tempio mi sento.»—«Or ben, mia figlia, Vanne all' altare, e pace al cor vi trova. Maraviglia non è se a un'alma pura Come la tua, favellino i Celesti. Oppormi io più non so.»—La giovinetta Bruna veste s' indusse; un bianco velo Fermò sul capo, e vi nascose il volto. «Vieni, o cara fanciulla, un bacio ancora Pria di lasciarmi. Oppressa è l'alma mia (Così diceale il vecchio); e non ti vidi Mai scostarti da me con un presagio Come questo angoscioso. Il sentimento Forse è dell' uom, che di più forte amore Stringesi a quanto perderà fra poco.»— «Deh, pensar nol vogliate! Assai mi pesa Lasciarvi un' ora; ma da voi perdono Mi confido ottener.» Dalle sue braccia, Nel dir questo, si tolse. Ella parea Timida cerva, che la pésta intenda Dell'inseguente cacciatore, e al piede Cerchi dar ale. Trafelata e stanca All' altar si chinò; ma ben diversa, Ohimè, dalla fanciulla addolorata Che alla stessa correa divina immago Per l' inferma sua madre! Allor sembrava Tenero fior che il primo nembo ha chino, Ma la forma gentile intatta serba. Or d' un cespuglio, che sfiorîr le fredde Ali della tempesta, avea l'aspetto; Nè più labbro vulgar titol di bella Dar le potea. Ma l'uom cui negli sguardi L' arte ha infusa virtù che gli rivela I varj tipi di bellezza, in lei Un trovato n'avrebbe, ancor che fosse Senza rose la guancia, ed affondata La cercula pupilla.—Ella pregava: «Madre de' travagliati, oh su me volgi I tuoi sguardi pietosi, e dentro un core Combattuto gli interna! Io non ti chieggo Di rivederlo… ma del suo destino Fa'che ignara io non sia. Per te, Divina, Ardua cosa non v'ha. Benchè da tutte Le umane creature io sia divisa, Voce mi suonerà, quando tu il voglia, Che lo m'additi; e se dal Figlio tuo La pentita di Magdalo perdono, Sol perchè tanto amava, ebbe a' suoi falli, In te, Vergine santa, e pia tutela Delle vergini, io spero. Ah no, del mio, Più casto e vero amor non arse il petto D'altra mortale. Rassegnata il capo Piego alla sorte mia. Di questo amore Non attendo che pianto… almen mi sciogli Dall' angoscia crudel dell' incertezza.» Surse così dicendo. Oh di che mai, Malaccorta fanciulla, il Ciel pregasti! Nell' uscir della chiesa a lei s' offerse Più d' un aspetto di pietà dipinto. Vide un veglio dipoi, che in aria mesta Dicea sommesso a' suoi vicini: «Ahi troppo Infelice garzon, così soave Di sembianza e di modi! I suoi compagni Tutti fuggiro, ed ei solo ne sconta Il delirio funesto.»—«E su chi mai Fate lamento?»con voce affannata Gridò Maria, che dall'angoscia vinta Sciolose il timido labbro, ed all' ignoto S'accostò risoluta.—«E come dunque Nota cosa non v' è? Straniera siete? Trama avversa al poter che ne governa Fu, son più lune, manifesta. Un foglio Venne intercetto, ed a chi regge apprese D'ignoti congiurati il folle intento. Occulto è ancor l'asilo ove di furto Si convennero a lungo. Un qualcheduno Gli ammoni del periglio; e sol qui venne Un giovine di lor (non so ben dirvi Se ignaro della cosa, o troppo audace) Quasi agnello fra lupi. Era a' fuggiaschi Affratellato. Da quel dì fu chiuso In oscura prigione, e la sentenza, Che lo danna nel capo, in questo punto Si divulgò. Gli restano di vita Tre soli di.» Frenar l' immensa piena Del suo dolor la misera non seppe; E dal petto anelante in uno schianto Disperato scoppiò. Ciascun su lei Volse il guardo stupito. Ella tentava Interrogar, ma rotte le parole Da' singulti veníano, e più dagli atti Che dagli accenti era compresa. «Scampo Per lui non resta… La prigion chiedete Ove fu sostenuto… È quella torre… Osservate il pertugio, onde al meschino Reca ancora la luce i raggi suoi.» L' occhio vi dirizzò la dolorosa, E fiso vel tenea, quasi volesse Passar d' un guardo quelle mura. «È folle! (Alcun dicea) miratela… non sembra Pure, avvedersi che di tutti è fatta Spettacolo… Fanciulla! oh vi scostate Da questo loco… Se vi duole il fato Del prigioniero, alzate a Dio la voce, Chè sordo l' uomo vi saria. Congiunta Forse di sangue o d' amistà gli siete? Ma v' interrogo invan. Deh; vi scostate Pria che v' affoghi l' accorrente folla! Mal per voi se qui giunge.»—In questo, presa Fu da braccio pietoso; e come automa Che si mova ad un tocco, in via si pose. Ratto il piè procedea, ma vôlto il capo Era sempre alla torre. In breve uscita Ne fu di vista, ed al pianto interrotto La meschina tornò. Ma chi le avea Svelato il nome del prigione? Il core, Il presago suo cor. Frequente inganno Ne fa la voce sua, ma nondimeno Ascoltata vien sempre, e vera troppo A Maria favellò.—Tocche le soglie Del suo ricetto, un gemito la colse, Per cui s' avvide che l' incarco orrendo D' esser di tanto duol nunzia primiera Tolto almen le veniva. Uno straniero Con Paolo ed Anna ragionava. Entrambi Piangeano al suo racconto. «Oh Dio! sapeste? Tutto sapeste?» singhiozzò l' ancella All' entrar di Maria. «Povero amico! A torto io l' accusai, Paolo dicea. Ne' giorni estremi, e di tal morte in faccia, Pur di noi gli sovvenne. Ascolta, o figlia… Maria… non m' odi tu? Desia Riccardo Che la nostra preghiera un cor gli impetri Rassegnato al suo fine. Il padre suo, Che solo (ahi sciagurato!) or lo conforta, Ne compieva i voleri, e questo servo Occultamente ne spedì. Supreme Care memorie ei reca. Oh dal mio petto Mai questa croce non sarà divisa! Te fidanzata egli credea; lo sai. Or mira! un vezzo nuzïal ti manda. (A quella vista, a quel parlar, Maria S'agitó fortemente.) E d' Anna ancora Dimentico non fu.» Qui la parola Gli troncò la fanciulla, e raccogliendo Tutte al cor le sue forze: «Ha seco il padre? Chiese rapida al servo.—«A lui concesso Fu rivederlo… ma non già ch' ei possa Gli ultimi giorni consolarne. Un' ora Per tre di gli assentiro, un' ora sola; E domani è la terza.»—«Ove dimora Il padre suo? mel dite… io dar gli voglio Mercè di questi doni.»—In un silenzio Poi di nuovo si chiuse; e quando tolta Le fu la vista di quel messo, in braccio Al vegliardo gittossi. «Oh zio, perdono, Se finora vel tacqui!… io d' un amore Disperato l' amai. Che la mia vita Per camparlo darei, giurar m' udreste, Quando felice crëatura io fossi; Ma desolata e misera qual sono, Poca offerta saria. Dirò che mille Volte torrei si rinnovasse il carco De' miei giorni dolenti, anzi che tronchi Così fossero i suoi.» Commosso al seno Il vecchio la stringea. Fu muto e lungo In tutti il lagrimar. Poi le ginocchia Chinaro insieme, e tre preghiere ardenti Volaro a Dio. Ma gli occhi al suol conversi Levâr le donne d' improvviso. Un tonfo Scosse le avea. Riverso in mezzo a loro Era Paolo caduto, ed apparia Simile molto a inanimata cosa. L' äer s' annera, nè la luna il buio Dissiperà, chè torbida e coperta È la faccia del ciel. Ma perchè lista Quella striscia di luce il tortuoso Sentier colà? sentier che dianzi impresso Dai miseri venía, necessitosi D' ignorata dimora; e quindi il passo, Or ratto, or tardo, or dubbio, ora securo, Reggea di quanti lo calcaro, accesi D' un audace pensiero, e tormentati Da perenni incertezze. Quella luce Non gli scende dal ciel; non è l'usato Cenno dell' alpigian, che s' avventura Per torti ignudi greppi, e la recisa Selva accatasta e incende, alla lontana Sposa segnal che illeso ha tocco il sommo Della montagna. Proseguir tu vedi Lungo tratto il chiarore; e che non sia Gioco d' occhi abbagliati a te lo dice Anche l' orecchio, se t' accosti. Alterno Suono di salmodìe da vocie meste Ti giunge, e la parola umil che prega Il perdono di Dio sull' uom pentito. Sosta la turba pia di Paolo al tetto, E supplice si prostra. Al sacerdote Il povero abituro ecco si schiude. Signor del mondo! Tu le illustri porte Penetri e le modeste, e ognor preponi La schietta voce dell' amore al fasto D' una tumida lode, impari sempre All' esser tuo, che l' uman senso eccede. Tu che sol guardi al cor, conforme il vedi Nel tuo servo morente alla favella. Ecco le palme ei giunge, e il grave capo Solleva a stento da guanciali, e prega: «Degna stanza non t' è lo spirto mio; Ma parla, e tale il tuo Verbo la renda.» Su quell' antica fronte il divin raggio Della Fede traluce. Al trono eterno Ella porta il tributo ultimo e caro Dell' uom, che riconobbe il Dio presente Sotto mistico velo.—Al suo Fattore Paolo per sempre si congiunse. Accolto Ch' ei l' ebbe in sè, ricadde indietro, e il capo Più non levò, nè mosse. E il sacro carme, Porgitor di mercè de' Santi al Santo, Forse eccheggiò colle angeliche note, Che il fulgido apparir d' una novella Alma in ciel festeggiavano.—Maria Sull' esanime spoglia abbandonata, Baciolla e ribaciolla, indi s' assise Tacita al fianco suo, fin che de' primi Mattutini colori il ciel fu sparso. Sorse allor, sempre muta, e con un misto D' amor, di reverenza, ella fe croce Delle braccia a quel sen, pur dianzi albergo Di tanto affetto, ed ora immoto e freddo. Ma spenta ancora non parea la vita Nella fronte e negli occhi al ciel rivolti; Chè la parte immortal nello spiccarsi Dalla terrena, v' imprimea l' estremo Pensier della preghiera onde il Signore Assolse il Pubblicano. In questa forma Vedi in limpido ciel la folgorante Immagine del Sol, che già discese Dispensiero di luce ad altre genti. Lo riguardava con asciutto ciglio Maria, che tanto pianse al sol pensiero Della sua morte. Inaridita fonte Erano omai quegli occhi. Anco la stilla Delle prime amarezze alleggiatrice Si dissecca nell' uom, quando lo prema Incessante la man della sventura. Singhiozzava la fante; e sbigottita S' affissava in Maria, chè in lei notava La sollecita cura, onde parasi Intende il pellegrino a lunga via. Piccola effigie della madre, appesa Sovra il suo letticciuolo, in sen ripose. Poi da stipo geloso il velo trasse Che sua madre coprì (sposa beata D'un avvenir bugiardo), ombrando in parte Di quel viso d'amor la vereconda Aria, e lo sguardo testimon del core. In quel velo si chiuse; indi raccolta Ogni povera cosa a lei diletta Per ricordi, «Anna mia, (con gran fatica Favellò) tu lo sai qanto penoso Sariami il dubbio che in straniera mano Tai memorie cadessero. Guardarle, Spero, vorrai.»—«Gran Dio! parlar v'intendo Come persona che a morir s'appresti…. Maria, deh! per pietà, se degli estinti V'è sacro il sovvenir, sì grave offesa Voi non farete al cielo.»—«Anna, ti calma. Mal mi comprendi: vïolenta mano In me non volgerò, te n'assicura; Ma perigliarmi ad ardua impresa io voglio. Se a te la taccio, mi perdona: i modi Fermi io medesma ancor non ho. Tu forse Reduce mi vedrai, benchè di morte Mi parli il core. Ma se m'ami, o cara, Piangere non mi dèi. M'abbraccia, e fammi D'una grazia contenta. A questa salma Tu rimanti vicina, e non ti sia Grave l'accompagnarla al sacro asilo. Implora che la terra la ricopra Presso la fossa di mia madre. Oh questo Non niegheranno!… Ascolta. E se volere Del ciel ti confidasse anche la mia, Fa'che trovi una gleba in mezzo a loro.»— «Vane è l'oppormi, il veggo. Ahi più non suona Quell'amorosa ed autorevol voce Che stornarvi potrebbe! Audace spirto, Inflessibile è il vostro, e ben diverso Dalla tempra soave e mansueta Di vostra madre! Dell'età matura Gli avvisi ella onorava, e voi superba Ascondete il pensier fino all'istante Che in opra lo mutate.»—«Oh non avermi Per ciò men cara.»—«E lo potrei? Mi fosse Dato almen di seguirvi, e schermo, aita Esservi ne'perigli.»—«Io nol potrei Consentir, dolce amica. Assai già festi Per me; nè vo' compagni ov' io non seguo Che la voce del core; imperïosa Voce, ma per me sola…»—«E sì dicendo, Al sen teneramente ancor la chiuse. Poi la cara accostando estinta salma, Ribaciò il freddo labbro, e la cadente Mano sul capo suo lenta s'impose, Siccome ei vivo far solea nell'atto Di benedirla. «Vi protegga Iddio!» Piangendo Anna sclamò, quando alla soglia Appressarsi la vide. A lei risposta Far più non seppe la meschina, e un cenno Di lungo addio le volse.—Abbandonava Ella il tetto così, che le si aperse Generoso, ospital, nella sciagura. Santuario dimestico d'affetti, Dove una madre cara, un caro zio, Anzi padre verace, ebber tranquillo Lungo soggiorno, e chiusero la vita; Ove il primo d'amore in cor le nacque Palpito infortunato, a lei sorgente Di novi affanni, ma da cui disciolto Mai non avria volonterosa il core. Tai pensieri raccolse in un baleno La mente sua. Con vacillante passo Ne uscì, come se avesse un fermo appoggio Improvvida rejetto. A lei sembrava Che invisibile mano al tristo loco La ritraesse, e col voler contrasto Facea. Ma tacque quell' interna lotta, Allor che da lontano il doloroso Edificio le apparse, ove a Riccardo Splendea l' ultimo di. Colla fallace Virtù per cui le non vedute cose Mostra il core allo sguardo, in mille guise (Miserabili tutte!) il prigioniero Innanzi si fingea. Ma le veraci Angosce di quell'ora alla sua mente Non s'affacciaro, nè i commiati estremi Che prendeano fra lor due sconsolate Anime; ahi padre e figlio!—Il miserando Vecchio sedea sul nudo umido suolo: Giaceavi il giovinetto, e sui paterni Ginocchi il capo reclinava. Un muto Scambio di sguardi era fra loro. Oh come È cangiato Riccardo! Impallidita, Altamente turbata ha la sembianza, Ma bella ancora, e di pensieri egregi Speglio sincero. Sull'amata fronte Posa, in atto d' amor che non si dice, Il canuto le palme. Il suo dolore Talor si muta in raccapriccio. Avvince D'ambo le braccia quella testa, e forte La serra, quasi, ahi misero! sottrarla Alla scure ei credesse. Il condannato Ben lo comprende, e tace. È primo il padre A troncar quel silenzio. «Avventurata La madre tua!»—La rivedrò, n'ho speme, Padre, fra poco; e ricongiunti in cielo Noi tre saremo, oh certo! È breve, o padre, La vita.»—«Oh mio Riccardo, un giorno, un'ora Mi sarà lunga e spaventosa pena Nell'avvenire… e lo mertai. Di forza Dovea tôrti al periglio. Audaci spirti Ha l'età giovanile: un nome, un vano Simulacro di gloria a sè la tira; Di strapparti la benda a me spettava. Fiacco e tardi io lo feci.»—«Accusa ingiusta In voi, padre, torcete. I tanti preghi Che mi drizzaste in pianto, e le severe Voci, che a me protervo, e sempre invano, Volgere solevate, uscite adunque Dalla mente vi sono? Io sordo fui, Fui pertinace ad ogni avviso… ed ora Perdono a voi ne chieggo.»—«È ver, Riccardo! Una voce qui dentro mi sonava D'imminente dolor… ma chi pensato Sì tremendo l'avrebbe?»—«Oh sì, tremendo! Con voi, col padre mio, non vo'la calma, Che in me non provo, simular. Cordoglio Mortal l'alma mi preme… esservi tolto Così!… lasciarvi solo!… È conturbata, È penosa ogni fronte allor che il fine Medita della vita, ove pur tronca Ne sia da forza natural; ma quanto Sgomentato n'è più chi la fatale Ora conosce, e vigoroso il sangue Sente fluir nelle sue vene! Oh mai! Mai lo spirto e la polve, insiem congiunti Dalla mano di Dio, l'uom non dovria Disgiungere così! Pur l'olocausto Della verde età mia, padre, men grave Parmi, quando la vile opra rammento Che salvar mi potea. Se riscattato A tal prezzo io m'avessi, ed or l'impronta Di traditore mi bruttasse, oh padre, Voi stesso più non m' amereste.» Il vecchio Tacque; la sua ragion, se non il core, Persuasa restò, nè seppe il labbro Parola oppor. «De'miei giorni cadenti Sola speranza (proseguia), supremo, Unico appoggio mio, strappato, o figlio, In tal modo mi sei?»—«Lo volle Iddio; Pensate a ciò. Predestinato è il giorno Della morte a ciascuno, e repugnante Talor, ma spinto da una forza arcana, L'uomo imprende la via che ad esso il mena. E per me questa via di tanta luce Irraggiata parea, che mi sperava Lasciarvi un gran vestigio.»—«Oh forsennato Desio di libertà, che le migliori Alme seduci! Pellegrin d'un giorno È il mortale quaggiù: tutto lo assenna Ch'altra è la patria sua; ma sol curante D'una terra d' esilio, e pace, e vita, E il cor de' suoi più cari in sacrificio L'insensato le porge! Oh questo amore È sepolcro fatal d' ogni altro affetto!»— «Ingiusto, o padre, è l'anatèma. Al labbro Ve lo strappa il dolore. Io ben concedo Fosse illusa la mente: intempestiva Era l'impresa, è ver…più d'un'abbietta Alma io credei di puro zelo accesa…. Ma bello, generoso, ottimo e grande, Padre, l'intento cui mirai mi splende. D'un'idea luminosa oscuratrici Spesso son l'ombre dell'error; ma sciolta, Pieni i suoi raggi manderà, chè invano Di scemarne ei si prova una scintilla. E Dio n'abbia mercè! Come più dura Saria per me la morte, ove men buono M'apparisse il proposto, a cui devota Fu la mia vita:»—«Ed un pensiero intanto Non volgevi a colui che te la diede?… Riccardo, che farò su questa terra Così privo di te? D'ogni mia cura Eri tu fine; e mente, ed occhio, e core Sempre e solo in te fisi. Io fei conserva D'oro; io pensai che dalle nuove piante Ne'miei campi educate, i figli tuoi Còlte avriano le frutte…. ed io già polve Nel mio sepolcro… Illusïon crudele! Vecchio, inutile e solo, io ti sorvivo.»— «Non d'affanno cagion, ma di conforto La dovizia vi sia che ragunaste. A voi buono, a voi saggio, ampia sorgente Di bell'opra sarà, se col mendico, Coll'infermo, coll'orfano, pietoso La partirete. Oh quanti, oh quanti, o padre, Saran tolti all'inopia, e consolati Per voi! Donate le ricchezze avrei Io forse ad altro scopo; e se raggiunto L'avess'io, non lo ascondo, alta mercede Colto avrei dal mio don; ma voi più dolce, Più sicura l'avrete, e in cielo, o padre, Nella preghiera di chi soffre, accetta Più d'ogni altra al Signore, il nome vostro Sentirò benedetto.»—«Oh Dio, che spiri Tanta forza e tai sensi al figlio mio, Perchè me non soccorri, e m'abbandoni? Questo il vecchio dicea. Poi dopo breve Tregua di voci, ma non già di sguardi, Non d'amplessi, di baci e di sospiri, «Riccardo! io seguirò, se Dio prescrive Che sopporti la vita, il tuo pietoso Voler.»—«Sì, padre mio; quanti mi amâro, Quanti amai sulla terra…» Un calpestio In quella li feri. Sorsero entrambi, E tremanti ammutîr. Poi fra le braccia L'un dell'altro gittârsi allor che schiuso Fu l'uscio, e due v'entraro. «Esecutori Siam noi, dicean, d'incarco doloroso. Separar vi dovete: è scorsa l'ora.» Che gli aveano compresi e padre e figlio Con un cenno indicâr. Ma chi potea Primo staccarsi dall'amato petto? Fu l'avviso iterato, e poi che vano Tornò pur questo, «Dispiccarli a forza Or n' è d'uopo,» diceano; e sui meschini Poser le mani. Senza sensi cadde Riverso il vecchio al suolo, ed un antico Servo, che nel vestibolo attendea, Lo trasportò qual salma esanimata. Raccomandarlo a lui colla parola Volea Riccardo, e non potè: mestieri Però non era, chè negli occhi suoi Il supplice pensier tutto appariva. Quando la porta dietro a lor si chiuse, E solo ei si trovò, gittossi a terra In un muto abbandono. E l' infelice Padre il sentir riebbe, allor che il cocchio, In cui fu posto, s'arrestò. Da quello Ad una stanza lo guidâr. Col cenno Ai piangenti famigli ei diè commiato. Ma ritta sulla soglia una fanciulla Stava, nè forse ei l'avverti. «Partirvi, Giovane, voì potete. Oh mal sceglieste L' ora: pensate se caler gli possa D' udirvi in tai momenti!» Era la voce Questa del servo che Riccardo avea Dianzi a Paolo spedito, e riconobbe Nella fanciulla che chiedea l' entrata, Maria. «Non mi cacciate, oh ve ne prego! Qui pazïente aspetterò.»—Ma quando Ciascun se ne parti, con mano ardita Schiuse la porta. Genuflesso orava Quel misero, e levando all'improvviso Fruscio de'passi i chini occhi alla soglia, Vide entrar la fanciulla, e con severo Ciglio sorgendo, mormorò: «Chi siete? Presume alcuno che toccar mi possa Ora un dolor, che non è il mio? Soccorso, Se a voi bisogna, in altro istante avrete.» Ma quasi non l' udisse, al suo cospetto Ella piantossi, e le congiunte palme In atto di preghiera a lui tendendo, «Oh salviamlo! proruppe.—Il vecchio in lei Volse allor le pupille, e a quell'aspetto Pallido, costernato, e pur non privo Di nobile alterezza, intimo senso Di reverente meraviglia il prese. «Donna, di chi parlate?»—«E vi potrei D'altri parlar, se non di lui? Salviamo, Salviam Riccardo!»—Attonito, nè certo Quella non fosse illusïon degli occhi, Egli tacque un istante, e poi: «Chi siete Voi, che dentro al mio cor gittar vorreste Un balen di speranza? Oh men turbata Vi scorgessi nel volto, e fede avrei In un'aíta non terrena!…E come, Come salvarlo?»—«Mi narrâr, dicea La misera (e le aveano il ver narrato), Che di notte profonda un prigioniero Dal carcere s' evase… Ei ne sconfisse La ferrata… un amico era dell' opra Consigliero ed ajuto… E perchè mai Ciò non potrassi rinnovar?… La porta Del carcere è guardata… io non lo ignoro… Da lui vi congedaste, e rivederlo Non v' è concesso… tutto so… Ma pure Un felice pensier mi dà speranza Che scampar lo potremo; e secondarlo Sta nel vostro poter. Che vi son figlia Direte lor… sorella di Riccardo Da lontano venuta, e che vederlo Anzi il suo fine lagrimando implora. A chi volgersi dee la mia preghiera Voi m' addurrete, e ci sarà, n'ho fede, Tosto esaudita. Col venir dell' ombre N' avvïeremo alla prigion… mirate, Tutto apprestai.» Dal suolo in questo dire Un fardello levò, che sulla soglia Entrando ella depose, e lo disciolse. Contenea lime e funi. Il prezïoso Monil (presente di Riccardo) avea La giovine mutato in quegli ordigni. «Malagevole al certo (indi soggiunse Quasi un rifiuto paventando) è questa, Ma possibile impresa;… e quando aperto Saranne un varco, a' suoi fianchi la fune Riccardo allaccerà di forte nodo, E soccorso da me, senza periglio Potrà calarsi nella via. Parato Con veloci destrieri ivi sarete, E pria che spunti il Sol…. fuor d' ogni traccia Degli sgherri inseguenti… In loco suo Me prigioniera troveranno, e pena Dell' inganno m'avrò; ma quanto, oh quanto Più grande il guiderdon, quand' ei fia salvo! Intenerito e da stupor compreso Stette il vecchio a que'detti; indi scotendo La bianca testa: «Oh giovine, viveste Forse in terra deserta, ed ignorate La guardia sospettosa, onde vien cinto Chi contro il soglio congiurò? Sarebbe Vana ogni prova, nè delusa mai Si gelosa custodia. Ho seppellita Ogni speme quaggiù. Ma voi chi siete, Generosa fanciulla? E perchè tanto Amor portate al figlio mio? Perdono Se testè, come ignota, io da me lunge Respingervi volea. Dritto funesto Di pianger meco avete.»—«Ella si tacque. La contemplava il vecchi; e poi, siccome Lo chiarisse un pensier: «Forse a Riccardo… Nol mi tacete! di segreto amore…» Maria comprese, nè lasciò che intero Pronunciasse quel dubbio. In affannosi Rotti accenti proruppe: «Ahi sventurato! Dovrà dunque morir? Nè val l' offerta Di questa vita mia?… Morte si fiera Discenderà su quell' amato capo?… Scampo alcun non è dunque?» E con tremante Voce il misero padre: «Oh perchè mai Eco vi fate d' un pensier, che strazia Incessante il mio cor! Per lui pregate, E pregate per me, serbato a vita D'ogni morte peggior; nè sia la prima Volta che ne scontriamo anco l' estrema. Quanti vivo l' amâro, a me diletti Saran nell' avvenire, e più di voi Nessun certo l' amò.» Non l' intendea Più la fanciulla, assorta in dolorosa Estasi; e quando se ne sciolse, un grido Efferato mandò. La disperanza Piena in volto le apparve. «Egli morire! E per qual man!… per quella…» E fra le palme Chiusa la faccia, si spiccò veloce Dalle soglie, e fuggi. Fuggi cercando La prigion che pur dianzi le additaro Gl'ignoti passeggeri. Indarno corse E ricorse più vie; quella del tempio Sol conoscea, non altre.—Ravvisata Chi avrebbe allor la timida fanciulla, Che testè s' atterria d' un infantile Subito grido? Noncurante e sorda Ai volgari bisbigli, ella con franco Passo incedea. Quel lungo errar la trasse In loco suburbano, e per costume Deserto di viventi, ed or sol pieno Di turba sfaccendata. E vuole anch'essa, Come il presagio del suo cor la spinge, Veder che si contempli. Urta, divide Gli ozïosi assiepati ad un obbietto Che ne attira gli sguardi, e par che dritto Abbia di porsi fra gl' innanzi. Oh come Saria stato pietoso un forte braccio Che respinta l'avesse, ancor che lunge Balestrata dal colpo, ad un macigno Franto il capo si fosse! Un altro passo, O sventurata, e lo vedrai. Ministre Ti saran d' ineffabile tortura Le tue stesse pupille! Un uom vedranno Piantar l' infame palco, acciò la morte Spegna domani il fratel suo. Crudele Per sè stessa è tal vista; ma nessuno Col tuo misuri il suo dolor. L' estremo Almen sarà, nè lungo.—Eccola tratta Dai sensi, e più non torneranno interi Per darle strazio. All' assalto incessante Di nemico poter non regge alcuna Cosa quaggiù: mutar forma e natura Fin la pietra veggiamo. Or meraviglia Cagionar ne dovria, che pur l' umana Tempra all' eccesso del dolor si franga? Oh felice pel misero quel giorno In cui Dio gli ritoglie il prezïoso Dono della ragion, che lo sublima Sovra gli altri animai, ma fagli insieme Sentir pene ed angosce ad essi ignote! La turba curïosa avea rimossi Dal patibolo gli occhi, e li figgea Sulla svenuta vergine. Vaghezza Spingea ciascuno di veder che fosse, Ma il veder gli togliea la fitta siepe De' primi accorsi. Invano i men vicini «Che fu? che fu?» gridarono: confuse Risposte, e nulla più. L' un l'altro allora Si premean, s' accalcavano, sospinti Da panico spavento. A terra pesti Cadder parecchi, nè gentil compianto Ebbero poscia, chè pietà non merta Chi l' occhio pasce nell' altrui sventura. Era già sazia l' adunata folla Di mirar la caduta, e dirla estinta, Quando due donne vi giungean, non tratte Da inumano desio. Poi che agli astanti Lunga inchiesta drizzaro, incerte sempre Se in lei la vita palpitasse ancora, Sollevârla di terra, e sulle braccia Al vicin tetto la tradûr: seguille Un giovinetto che il fardel raccolse Caduto alla fanciulla. E le pietose Conobber tosto che vivea. Contratte Erano le sue membra. In molte guise (Quando in modesto letticciuolo agiata L' ebbero) s'adopraro onde renduta La conoscenza le venisse. Invano! Più d' un'ora trascorse, e ciglio aperto O mosso labbro non avea. «Rimane Il soccorso dell' arte: andiamo in traccia Di chi gliel porga.» Si dicendo, entrambe Uscîr, chè scompagnate a tarda sera Non l'ardíano. Maria destossi in quella Dal suo letargo. Un gemito ella mise, E gittossi dal letto; indi puntello Fatto al suo capo delle braccia, alquanto Muta, immobile stette. In un profondo Meditar parea chiusa, e pur non era Fissa in pensiero alcun. Veníale al core Del passato il ricordo, e sen partia Nell'istante medesmo; e del presente Le apparía come in ombra una indistinta Immagine, e non altro. «Oh madre, madre!» Alfin le uscì di bocca; e gli occhi in giro Stupefatta volgendo, a terra sparsi Gli stromenti mirò ne'quai riposta L' ultima speme avea. Qual forsennata Li racolse, li uni, li strinse al petto, E scese nella via. Con vana inchiesta, Quando il giorno splendea, quando trafitta Dal suo pieno dolor di sè medesma Consapevole ell' era, avea le mura Cerche del prigioniero. Or fosco è il cielo, E fosca è la sua mente, e nondimeno, Pari all' augel che ramingò lontano Da' suoi piccoli nati, indi ritorna Coll' esca in bocca, e dritto il vol converte (Scernendolo fra mille) al caro tronco Ove il nido depose, ecco Maria, Che più mal certa non procede, e tocca Ha in poco d' ora la ferrata porta; Però che quell'istinto intimo, arcano, Privilegio de'bruti, anco nell'uomo Par che s'affini allor che in lui la face Della ragion s'intorbida o s'abbuja. Ivi il passo rattiene. Alza lo sguardo Al sommo della torre, indi lo atterra. Ma in quell' atto soltanto appar la vita Nelle pupille sue, che quasi ancelle Dianzi dell' alma, ne seguieno i cenni, Ed or volte soltanto in ozïosi Giri dalla virtù che moto imprime. Risensar parve a un tratto, e rammentarsi A che là venne. Taciturna esplora Sbarre e ritegni della porta, e tenta, Col vigor che veggiam nelle dementi, Abbatterla co' ferri che tenea Fra le man convulse. Accinta appena S' era all' opra insensata, allo che il grido Della scolta s'udi, da quella torre Breve tratto discosta; il consueto Grido, che suole interrogar nel bujo Il passaggero. Lo iterò tre volte, Nè la donna rispose; e quasi fosse Parola animatrice, ella durava Nell' impreso lavor con raddoppiata Lena. D' un' arme ne seguì lo scoppio. Infelice! del suo barbaro dritto S' è giovata la scolta, e della mira Non prese error, chè di Maria nel fianco La mortifera palla ecco s'interna. Ella cadde riversa, e quasi allora Rispondere tentasse alla richiesta Che il soldato le fè, confusi motti Proferîr le sue labbra, e sol distinto Ne uscì due volte di Riccardo il nome. Molti, accorsi allo scoppio, un cerchio fero Alla morente: ma dal suol d' un tratto Sul cubito si resse; e quasi il Cielo Rallegrarne l' estrema ora bramasse Con pensieri giocondi, irradïata D'improvvisa letizia avea la fronte. È salvo (balbettava), io lo redensi Col sangue mio… fuggi.» Poi come suole Qualche barlume di ragion talvolta I dementi schiarar nell' ultim' ore, Seguia con voce più secura (e fiso Tenea lo sguardo sul purpureo rivo Che scaturia dalla ferita): «Amore Dal mio petto lo versa: o Dio, lo accogli, Offerta espïatrice, e a chi ne sparse Per infame mercè, deh tu perdona!» Qui la voce non pur, ma fin l' appoggio Del braccio le mancò. Sul duro suolo Ripose il capo, di mortal pallore Soffusa, indizio che fuggìa lo spirto Dall' ingombro terreno; e doloroso L'abbandono non fu. Parea la pace Qui gli avesse congiunti, e fiera e lunga N' era stata la guerra. Inavvertito Fu dagli astanti il suo morir. Pietose Mani nella ferita aveano infuso Farmachi lenitivi… inutil opra! Nè tôrla osando al loco ove caduta Era, n' alzaro dal terren la testa, E sopposto un guancial, ve la adagiaro. Così candido, bello e sorridente Quel suo volto parea, che sculto marmo Detta l' avrebbe il passaggero.—Intanto Giungea Riccardo al punto estremo. Oh quale Esser debbe la notte al condannato Che precede il supplizio! E pur le membra, Vinte dalla stanchezza, a sonno breve Egli abbandona; ma trovar non sanno Quïete i suoi pensieri, e li governa L' immago della morte ancor nel sonno. Fra la calca egli passa, al palco giunge, Vacillante vi sale… e sente il taglio Della mannaia… allor libero esala Il respiro dal petto. Ei vola al cielo. Di terrene ricchezze adorno e vago Sogna il novo soggiorno… in uno spirto Par che s' incontri. Oh madre, oh madre mia! Sclama Riccardo; e un'altra luce ei scerne, Bella come la prima, abbenchè lieta Di splendore diverso, ed anco in lei Manifesto il gioir di sua venuta. E parea le dicesse: «Hai sconosciuto In terra l'amor mio… ma qui nel cielo Rispondergli dovrai.»—Dal sonno in quella Si scuote, e torna al vero. Ahi la parete Nera della prigion, non la celeste Patria lo chiude! Tuttavolta il sogno Nel pensier gli sta fitto, e desto ancora Sente la melodia di quella voce Che nova a lui non parve. Un sacerdote Si vede al fianco. Porgitor verace Di conforto era questi, e posto avea Grande affetto in Riccardo. «Amico, il cielo V'aspetta! È breve il duol, la gioja eterna.» Con un misto d' affanno e di dolcezza, Riccardo a lui si volse, indi la faccia Sul petto gli posò, nè più fidato Seno di questo ritrovar potea. Del suo cuore ei gli apri la vita ascosa; E l'uom pio ne conobbe l' elevata Indole, inchina ad ogni bella impresa, E d' ogni fallo vergognosa; e d' alta Speranza l' affidò, poichè allo sguardo Della cieca Veggente aperto è il cielo. Si spalancâr del carcere i battenti A due bieche sembianze, e proferito Fu l' orribile annunzio. Il prigioniero Non mosse voce, e il suo congiunse al braccio Del sacerdote. A piè della contorta Scala, varcato il limitar, cogli occhi Egli diè nell' estinta, e riconobbe La nipote di Paolo. A lei volea Accostarsi, e il negaro: era ogni breve Sosta inibita. Di chiamarla a nome Pur gli cadde in pensier, ma trar non seppe Un accento dal petto, e fisi in lei Gli occhi ancora una volta, il carro ascese Che l' attendea. Si pose a lui daccanto Quel pio consolatore, e muti entrambi Alcun tempo restaro. Il condannato Primo ruppe il silenzio: «Amico (ei disse), Uom venerando, cui si dentro tocca L'altrui sventura, d' una grazia ancora Supplicarvi degg'io. M' è conosciuta Quella fanciulla… la vedeste?… uscita Di sentimento mi parea. Divisi Che ne sarem, sollecito cercate Di lei: se più nel loco, ov'io la vidi Testè, non la trovaste, ecco v' addito La sua dimora (e gli mostrò la via Ch' ei dovea seguitar). Le son custodi Un veglio ed una ancella. Ah no, di queste Non racchiude la terra alme più belle! E dite al padre mio, che nel disagio Io li so di fortune, e sovvenirli Desïava il mio cor, ma non l' ardia, Poichè nobile troppo, e troppo altera Vidi in lor la virtù, talchè un soccorso Non chiesto, offesa dubitai. Ma voi, Di sapïente carità maestro, Pensate al modo.»—E poi come percosso D'improvviso pensier, «Nome di sposa Dovea presto allegrarla.» Ei tacque, e il pio Ministro allora: «Ogni parola vostra Chiudo, o giovine, in me. Sarà compiuto Quanto voi desiate.» Ed ammutiro Di nuovo entrambi.—I primi incerti raggi D' un' aurora d' aprile e cielo e mare Vestian di rosea luce, e procedea Per le vie, buie ancora, il tristo carro Con moto, lento ed uniforme. Uscito Dai muri cittadini all'aere aperto, Levò gli occhi Riccardo, e vide i campi, Vide i clivi, i giardini, onde son l' aure Dell' amena Sicilia ognor fragranti; E di allori, e di cedri incoronate Le ricurve sue rive, e il mare immenso, Ch' or dolcemente le accarezza, a guisa Di sposo innamorato, or le flagella Qual feroce tiranno, e nella rabbia Le spumose colonne al ciel solleva. Si perdean gli occhi suoi nella pienezza Di tante meraviglie, ad uom simile Che per l' ultima volta una diletta Donna contempla, e dal soverchio affetto Ogni voce gli è tolta.—Il sacerdote Se n' avvide, ed al sen forte lo presse. Indi: «Felice il cor che non è muto Al bello di natura! In armonia Purissima amorosa egli si annoda Colle cose create, e che soggette Dall'Eterno gli furo all' uom palesa. Giovinetto, non sai come al perverso Sia tortura tal vista. Alle serene Tinte del cielo, al mormorar tranquillo D' una limpida fonte, al fior che nato Pare a fregiar la vergine innocente, Non rassomiglia l' alma sua: rimorso Ognì placido aspetto, ogni amorosa Voce è per lui. Vedranno il ciel fra poco Gl' immortali occhi tuoi. Perchè donato Ti avrebbe il senso estimator del bello Dio, se te non volesse a Lui vicino, Ove le sue più belle opre ne mostra?» Lo ascoltava Riccardo, e la dolcezza, Che gli venìa da questo dir, nel volto Gli si dipinse. Di parlar fe prova… Indarno! Più non gli obbedia la voce. In quella il carro s' arrestò. S' avvide Riccardo ov' era giunto, e pur securo Ne discese; ma quando il palco e l' uomo Che tronco avrebbe il viver suo dinanzi Gli furo, ei vacillò…confusa, oppressa Parve in lui la virtù. Con forte stretta Si chiuse al braccio del compagno, e questi Lo guardò dolcemente: «Amico, al fine D' ogni angoscia terrena eccovi giunto. Lo incontrate da forte, e al padre vostro Dirò: fu eroico il suo morir! Conforto, Gloria il misero avranne.» A questi accenti L'animo in lui risorse; a risoluti Passi, sdegnoso dell' altrui soccorso, Ei la scala salì, che non dovea Scender mai più. Rivolse a Dio la mente, Non voce o sguardo all' affollata turba Che cerchiava il supplizio. Era fra questa Sorto un vivo tumulto. Al manigoldo, Pronto all' ufficio suo, par che si volga Ogni pupilla, è mormorar s' intende: «Morto è il vecchio carnefice? Inesperto Certo è colui… L'han posto a dura prova Quell' infelice… Non vedete? il ferro Gli trema nella mano… Egli è mal destro… Abbia indugio la pena… Olà, fermate!…» Queste voci partìan dalla stivata Turba. Ma l' uom cui le drizzâr, sembianza Facea di non curarle. In picciol tempo, Ei con fronte beffarda ai circostanti Presenta un capo sanguinoso, mozzo Dal busto suo. Ciascuno allor si tace, Poi che s' avvede, con orror, che sperta È dell' opra terribile la destra, Cui perplessa non fece o vacillante L'ingiusto dubitar. Nè dall' aspetto Altro indur si poteva. Eran feroci, Torbidi gli occhi, e di gagliarde membra Da natura dotato.—Ancor s' affisa La calca (ahi quanta!) sulla tronca spoglia. Chi ne piange la fin, chi la racconta Con vario modo. In tacita preghiera La benedice il sacerdote, e l' orme Sollecito rivolge ove l' estinta Vergine ancor giacea. Le stava accanto Anna, che inchiesta ne fe lunga, e poi La rinvenne così. Che morta ell' era Ciaschedun le dicea, ma l' amorosa Donna non li ascoltava, e coi lamenti E co' baci e col pianto entro quel seno Destar credea la vita. «Al nostro tetto Vogl' io portarla. Oh nol vietate! Parmi Che spiri ancor; ma quando (oh me infelice!) Così non fosse, e m' illudesse il core, Che almen la sola mia mano la tocchi, E la ponga sotterra, ove tra poco Porrà me pure il mio dolor.» Tentava, Così dicendo, di gravar le spalle Del caro peso, e nol potè chè fiacca Era per l' età grave, e forse inferma. «Aita alcuno non le porge? Io dunque, Donna, v' assisterò.» La voce ell' era Del buon ministro. E l' opra alla parola Tosto successe. S' avviâr. La meta Del lor viaggio han tocca. Un' altra spoglia (Quella di Paolo) nell' ostel deserto Stava rinchiusa, ospite sola. Assai Per rivocar lo spirto entro le fredde Membra l' ancella s' adoprò. Cessato Quel bugiardo sperar, colle tremanti Man le compose, e le vestì.—Caduta La luce, un canto funeral sonava Nella vedova casa, e due ferètri N' usciano a un punto scoperchiati. Il vis Venerando d' un veglio ed il sembiante Di quadrilustre giovanetta estini, Ai viventi ammonian, che miete il ferro Della morte ogni età. Non osservato Il funebre convoglio s'incammina Per deserto sentiero, infin che giunge A poche umili case. Una è divisa Per buon tratto dall'altre. Il passeggero O non l' avverte, chè da fitta schiera D' alberi è circondata, o con ribrezzo Ne ritorce lo sguardo. Alcun non batte A quella porta mai.—Chi s'avvicina In quel punto a un balcone, e gli occhi abbassa Onde raffigurar chi fur gli estinti? Il carnefice antico. Indarno aguzza Le ciglia per veder: la sua pupilla Più da lungi non scerne. E perchè tanto Può calergli di questo, e al freddo petto Sente la stretta del dolor? Non ama Vivente crëatura, e da nessuna Amato egli è. L'ha colto un fero morbo, Ed oh quanto dall' uom che le gagliarde Mani volgea ne' miseri fratelli, Strappandone le vite, appar diverso! Già da tre lustri uso a ferir, sospetto Che in lui l'usata vigoria fallisse Desto mai non avea. Cader Riccardo Dovea per quella man; quand' ecco a mezzo Della notte (in quell' ora il prego estremo Pronunciava Maria) d' un peso enorme Senti gravata la persona, e invano Tentò mover le membra, intorpidite Per sempre. Oppresso, derelitto, infermo, Sol da due circondato, a cui tardava L' ora della sua morte, e disperato Di men tristo avvenir, così vivea. Unica gioja sua, l'auree monete Con mani ingorde noverava, e questa Pur negata gli venne; chè di sangue (Fantasia spaventosa) al tocco or mira Di quel metallo le sue dita intrise; E quanto ei più le terge, agli occhi suoi Si fan più sanguinose. Una perversa Femmina ha presso, che deride, insulta A quel delirio. Allor nel suo confuso Pensier balena di Teresa il volto: E la rivede come fu nel giorno Che a lei tornò d' infamia carco; e gli atti Ei ne rammenta, l'accorata voce, Che, pur nell'ammonir, da sì profondo Affetto era temprata, e di conforti Larga, non di rampogne, al reo marito. E da questi fantasmi esagitato Egli manda un sospiro alla schernita Virtù; sospiro, che dal cor dell' empio Doloroso prorompe allor che piomba Nella sventura.—Istigator coverto Il carnefice fu della ribalda Compagna sua, partecipe segreto Di carpito retaggio. Il beneficio Or colei non rammenta, e grave noja È per essa l' infermo. All'uopo un'altra Mano provvede, a cui l' empia s'affida; Il feroce garzon che gli successe Nell' ufficio cruento, di quell' oro Anch' ei vagheggiatore. Al vecchio un giorno Per farmaco la donna un licor mesce Di virtù soporifera. Si chiude La sua pupilla, che lunghe vigilie Aveano affaticata. Esterrefatto Fu nel destarsi, chè novella cosa Quel transito alla veglia era per lui. Chiama e richiama, chè non può da solo Il giaciglio lasciar… Nessun lo ascolta. Allor sorgere ei tenta, e con tremanti Mani appunta le coltri… a mezzo è sceso, E grida ancor, chè affievolir già sente Il poco di vigore in lui trasfuso Da quell'impeto primo. A piè del letto Cade alfin dispossato, il braccio e il fianco Dalla caduta offesi. A sè d'intorno Gira gli occhi atterriti, e spalancato Vede lo scrigno suo. Come ferita Belva, strepita, rugge; e quel ruggito Giunge all' orecchio di Colei, che mondo Serba il candido velo, ancor che ponga Entro luridi alberghi il casto piede; Che puro ha il labbro, ma da voci oscene Atterrita non fugge, e la parola Mite, e le dolci cure all'uom caduto Rifiutar non s' avvisa, e fin le scale Del carnefice ascende in forma umana. Ma l'angelico suon dell' amorosa Carità quei non ode, e tuttavia Segue feroce a maledir. La bile, Giunta allo spasmo, per le gravi offese Che gl' impresse il cader, di senno il priva, E deliro lo fa; tal che non vede Nelle braccia pietose a lui rivolte, Soccorrevoli a lui, fuor delle sole Che lo spogliaro, e le ributta. Avvinto Vien di funi il deliro, e chiuso in loco A cui la sapïente arte presiede Della ragion ridonatrice. Il senno Tornagli alfine, ma l' occulto verme Del rimorso compagno a lui ne viene. Schifi, orrendi malori a poco a poco Gli consumano il corpo, ed un'angoscia Nova, arcana, crescente, il cor gli rode, Onde sembra a ciascun quella tenace Lunga vita un prodigio; e forse è tale, Chè l'eterna clemenza, alle preghiere Delle martiri forse, a cui lo avea La ferrea mano del destin congiunto, Consentì che per lunghi e gravi affanni, Gravi e lunghi misfatti ei cancellasse. Pieno d'anni egli muor. Da lui si scosta Sereno un sacerdote: ei la parola Salvatrice ne udì del pentimento.

I.

Ed è dunque così. Tu n'hai lasciati, O dolce, amato padre! e invan ti chiama La nostra voce, e più non sei che brama Di cuori desolati. Forse (questa speranza Iddio concede Al nostro pianto) Lo spirto tuo ci vede, E s'aggira segreto a noi da canto. Oh che saria di noi miseri, allora Che ne strugge il dolore, Se quella speme non ci fosse in core Che addita altra dimora! E gli afflitti occhi nostri ergendo al loco Ove tu stai, Par ne dica: «Tra poco Vi sarò reso e non ritolto mai.» Nel pensier della morte Io provava talvolta uno sgomento, Ed un desio che lento Mi fosse il vol degli anni, e che le porte M'aprisse sol l'eternità nell'ora Che all'egra e stanca mente, Per l' età già cadente, Si confonde ogni cosa e si scolora. Ora tutto è cangiato, e l'alma mia Alle umane lusinghe ha tronchi i vanni; E mi affligge il pensar che giovin d'anni Ancor troppo io mi sia. Ma quante vite non recise Iddio Liete e fiorenti? Oh molti anni dolenti Recidesse egli pure al viver mio! Spenta, o padre, hai la gioia in quattro petti. Tutti, tutti i diletti N'avvelena il pensier che tu non puoi Dividerli con noi. Se non ci sia la tua voce amorosa Guida e conforto, Alcuna umana cosa Più non ne alletta, e l'avvenir n'è morto. Oh! perchè possa almeno. L'alma mi rïudirti, ov'hai la sede Fra gli spirti celesti, D' ogni affetto terreno Mi sgombra, e sol mi vesti D' amor, di speme e fede. Padre, amor mio, se breve ora dal cielo T' è dato allontanarti; e volger l'ale Ov'ebbe umano velo Acconsente il Signore a un Immortale, A me vieni e ti mostra! In te rivolti Stan gli occhi miei, E non temo i sepolti Da quel dì che disceso a lor tu sei. La vista tua m'infonderà nel petto Nova virtude; ed alla madre mia, Ai fratelli dirò, qual m'apparia Il tuo beato aspetto; E con pari desir, ma più tranquilla Alma, sospireremo Al suon di quella squilla Che annunzia del dolore il giorno estremo.

II.

Io sognai di vederti, e alfin diviso Da tristissimo inganno il cor parea. Fra le amorose tue braccia io correa, Petto a petto premendo, e viso a viso. Per non turbar di quell' istante il riso Quanto, o padre, soffrimmo io t' ascondea, E così la letizia in me chiudea Celando nel segreto un paradiso. Ma perchè gli occhi miei s'apriro al giorno? La cara visïon, ch'era sparita, Invano essi cercaro a sè d'intorno. Sogno è dunque la gioja, e presto muore; Larva trista, mendace è questa vita, E sol vero, immutabile il dolore.
Madre, iterar da care voci io sento Solo un voto per te! voto d' amore, Che suona all' alma tua quasi concento D'eterei spirti accesi in un ardore. Farmi un' eco amorosa io pur talento, E dei poveri carmi offrirti il fiore, Ma la musa mi niega il vero accento Che manifesti d' una figlia il core. È più sovente al cor che all' intelletto Avversa la parola; e dove suona Più libera, talor langue l' affetto. Tu dunque, o madre, il mio tacer perdona, Chè pari a prigionier da lacci stretto, È quell' amor che dentro mi ragiona.
Ben le tre glorïose arti rivali, E colei che le ispira e tien l'impero, Di molti illuminaro astri immortali Quest' ultimo d' Italia äer sincero. Ma rado ad arduo vol qui stese l' ali Pei campi delle idee l' uman pensiero, E l' arco di Sofia vibrò gli strali Della polve animata entro il mistero. Tu l' incerto cammin di vasta e nova Orma imprimesti, e quel difficil serto, Ch' altri non colse, ti ricinse il crine. Avventuroso! chè l' ardita prova A Dio più t' accostò, nè il core aperto T' han del dubbio crudel le acute spine. Le dolcezze or di figlia ed or di sposa, Ti spiravano al core e all' intelletto La poësia, che luce ha dall'affetto; E sposa e madre tu non eri ancora. Ma poi che il novo e doppio amor t'infiora. La vita, e a gaudj ignoti apre il tuo petto, Perchè muta sei tu? perchè negletto Lasci quel canto che l'Italia onora? Rompi, Erminia, il silenzio, e a questo amore Che in te racchiudi come santa cosa Concedi alfin la tua casta favella. Chè se dolce sonò mentre donzella Tu fosti, or che sei madre e lieta sposa, Quanto più dolce t' uscirà dal core! Dal dì che l' amorevole rampogna Volgesti alla mia musa, alma gentile, Di sì lungo tacer sente vergogna, E gli estri invoca del suo primo aprile. E poi che il voto lusinghiero agogna Compier de'pochi che non l'hanno a vile, Or, più fidente che non era, sogna Canti più degni e più leggiadro stile. Però mel credi, allor che ti parea Questa mia musa neghittosa o morta, A me novi d' amore inni apprendea. Ma quanto appresi mentre il figlio mio Contemplava, in soave estasi assorta, Ridir non seppi che a suo padre e a Dio.

Ermina Fuà Fusinato.

Se tra questi miei numeri sdegnosi, Ond'io lamento infermità sì amara, Una pagina v'ha che i rai pietosi D'una stilla t' offuschi, anima cara, Oh beato tra quanti io ne composi Il verso che berrà perla sì rara! E ben sofferti miei spasimi ascosi Nel desio di cangiar coltrice in bara! Chè se questo non sia folle pensiero D'uom che il dolore inebria, e non t'incresca. Ch'a te libero io schiuda il cor sincero, Invidïato a me dono tra mille La pagina m'invia, su cui, Francesca, Cadde tal gemma dalle tue pupille.

C. Betteloni.

26 novembre 1855.

Forse quell'Immortal che messaggero Fu d' esiglio e di morte a' due parenti, La cetra del dolore armò primiero, E ne fe pei caduti uscir lamenti. Poi sulla storia dell'uman pensiero, Fatal tessuto d'infelici eventi, Gemè la mesta corda, e le dolenti Note di consolarlo ebbero impero. Or sotto alla tua man, gentil poeta, Manda un suon così dolce e lagrimoso, Che stringe di pietà l'anima mia. E sarà chi non preghi alla inquïeta Cura che ti dispera un pio riposo? Oh non già quello che il tuo cor desia! Come dell' amistà sulle amorose Penne, voli al Signore un caldo affetto Che di te parla, e che di liete cose Vorria fosse il tuo spirto ognor ricetto, Noi taceremo: han vita in seno ascose Le preci; use a svelarsi al solo aspetto Di Dio, d' ogni altra via sono sdegnose, Nè sanno colla voce uscir dal pètto. Oh trovino lassù chi le seconde! E tu ne serba quell' amor che benda Non porta agli occhi, nè sul tergo ha volo. Amaro è il nappo della vita, e solo Lo addolcisce l' amor, soave emenda, Che a conforto de' mali il ciel v' infonde. Il Benaco natìo sorrise altero Nel chiamarti suo figlio, allor che il canto Del bel paese hai dato al fior di quanto Seppe il genio crear dello straniero. E mirabile è certo il magistero Onde pochi ed eletti ebbero il vanto Di così rivestir l' altrui pensiero, Che beltà non gli scema il novo manto. E tu, di quest' arcana arte signore, Ami, più che le tue, le peregrine Immagini abbellir; non dissimile A bella donna, che dal proprio crine Toglie per darlo ad altra un vago fiore; A sè non giusta, quanto altrui gentile.

F. Lutti.

Quando detto mi fu che il santo velo Avvolger ti dovea la bruna testa, E che, sposa promessa al Re del cielo, T'era ingrata ogni lotta, anzi molesta; Te contemplando, prorompea sovente: «Forse questa gentile anima pura Un giorno piangerà segretamente, E in odio le verran le sacre mura. Così ricca d' affetto, e così pia, Perchè s' arresta d' alte gioje al varco? Ella compiuto degnamente avria E di sposa e di madre il grande incarco. Tolta or sarà de' suoi cari all'amore, Tolta agli amici ed al paterno tetto; E raderle vorran tosto dal core Ogni ricordo di mondano affetto.» Questo, cara fanciulla, allor pensai; Nè t'ascosi il mio cor; te ne rimembra? Ed or (fallace antivedere!) assai Del mio migliore il tuo destin mi sembra. Con libero voler prendi un commiato Lungo, solenne da'congiunti tuoi, Mentre dal seno nostro, ahi! fu strappato L'angelo che fu luce e gioja a noi. Più conforto terreno a me non giova Or che m'è tolto il desiato aspetto; E tu, fanciulla, in ogni avversa prova Farai di viva fede usbergo al petto. In te lo spirto parlerà del chiostro, Quando del velo avrai cinte le tempia, Mentre mormora solo il labbro nostro, Ma non il core: «Il voler tuo s'adempia.» Oh che strazio crudel di te non féro Spirit deliri e sacerdoti infinti, Che, tolto all' ara il tuo sembiante vero, Idoli vi locâr di sangue tinti! Diletta figlia del divin pensiero, Guarda, guarda quest'empi! anzi che vinti, Li vedrai dell' Italia aver l' impero, E i tuoi fedeli di catene avvinti. Vieni, o diva, e li sperdi. Ove del cuore Ti fai tempio ed altare, il Bello e il Grande Tutto s' informa del tuo santo raggio; E quando o sul delitto o sull' errore Il tuo vessillo menzogner si spande, Libertà tu non sei, ma vil servaggio. Ignoranza e impostura han di terrore Circondato Colui che volto umano Per redimerne assunse. Un lieve errore N' arma (si grida) di flagel la mano; E si tace che a'dolci atti d' amore Fu per l' uom nova scola; a tal che invano Non gli volse un ladron la voce e il core. Ma quanto è il vostro Dio da quel lontano, O falsi zelatori, o turba rea, Cui sul labbro è Gesù, nel petto è gelo! Il ver (voi mormorate) al popol nuoce! Ma perchè lieto il popolo accorrea All' amoroso suon dell' Evangelo, Non pose il Fariseo quel Giusto in croce? Pura luce d'amor, Vergin pietosa, Quando il tuo nome, fanciulletta, udia, A me più dolce d'ogni dolce cosa, Tutta si commovea l'anima mia. E forse allor più calda, affettuosa L'infantil mia preghiera a te salia, Chè pensiero inquïeto o cura ascosa A sviarla dal cor non mi venia. Oh se mentre di guida e di consiglio Grand'uopo non avean gli anni innocenti, La man soccorritrice a me porgesti, Non la ritrar negli anni del periglio! A quanti, o madre, a quanti occhi dolenti Con quella man le lagrime tergesti! Rivelar quanto ascoso è nel mio petto Troppo m' è grave ed inamabil cosa, Chè della scritta pagina all' aspetto O mal paga io mi sento o vergognosa. Chi' io sacri alla più bella arte l' affetto Par mi consigli una virtù nascosa; Ma tremante io m' arresto al gran subbietto, E la mia voce profanar non l' osa. La voce mia, che languida, confusa Eco è del mio pensiero, ed un lïuto Tocco da indotta mano altrui ricorda; Se l' arcano gentile è sconosciuto Che trae dal legno l' armonia rinchiusa, Stride, e non suona l' agitata corda. O Virtù! l'inquïeta anima mia Or commossa è al tuo nome, ora sgomenta, Come l' ingrato che un amico oblia, E del suo lungo ingiusto oblio si penta. Forse perchè fuggita ha la tua via Ed al richiamo tuo fu sorda o lenta? O perchè cari affetti ella t' offria, Che poi rivolle, o con dolor rammenta? Ma punir tu ben sai. Notte profonda È la mia mente di splendor sì vaga, Guerra il mio petto che pace desia. Sera non cade mai che non m' asconda Qualche speme delusa, e che presaga Di più trista, angosciosa alba non sia. Oh fosse la parola, a cui soggetti Sono spirito e polve, a me rivolta, Fin ch' io mi vegga da' lacci disciolta Che l' errore ha tessuti, e al cor m' ha stretti! La santa fiamma dell' amor, che tolta Non può, per mal compenso, esser da' petti, Nel mio pur anco affineria gli affetti, Com' ella suol, se drittamente accolta. Dal sorriso di qualche arte gentile Trar potessi conforto, e della vita Non curar la lusinga e il gaudio vile! Ma forse la mia prece è inesaùdita, Perchè mi trovo a pellegrin simile Che invano ode gridar «l' orma hai smarrita!» Oh di tempra tranquilla avessi il dono, Nè fosse il mio pensiero eternamente D' ogni posa nemico, e sì frequente Dato a tristi fantasmi in abbandono! Son felici color che fanno un trono Alla ragion de'sensi e della mente! Color che fredda han l'alma, o che non sente, Qual arpa infranta che non manda suono. Perchè tanta sprecar virtù del core? Perchè voler che chiuso ei si consumi, Vana speme nudrendo e van desio? Solo ai placidi spirti un qualche fiore Crescer può della vita in mezzo ai dumi; Ma fuor che spine non raccoglie il mio. Sì; l' amor de'miei cari, e quanto io scerno Dintorno a me, dovria farmi felice; E mal mi dolgo d'un affanno interno, Che nel debole core ha sol radice. Stanco è il mondo a ragion di quell'eterno Dare al verso una larva, una vernice Di profondo dolor, mentre al governo Sta dell' alma un pensier che lo disdice. Altera è la mia tempra, e sol mi sdegno Al pensar che confuso il verso mio Sia col lamento che non vien dal core. Non può qui dentro penetrar che Dio! Egli sa quali spirti ha fatti segno All'arco della prova e del dolore. Per la queta dimora, ov' han riposo Gli estinti, erra talor la mente mia, E pensa: Oh come il tumulo è pietoso, Ed a quanti infelici ei qui s' apria! Chi nacque ad un soffrir lungo ed ascoso, E la prova mortal lieto fuggia; Chi l' opra della vita a generoso Segno drizzò, ma tronca ebbe la via. O chi forse nudri l' eterea face Del genio e delle sacre arti sorelle, Ma negletta, o mal nota in lui s' estinse, Qui trovano alle stanche ossa la pace. Oh spiegassero almen là sulle stelle Il vol che la sventura in terra avvinse! Se schiavo eterno è degli affetti il core, Ed a lor si conforma anco il pensiero; Se letizia, tristezza, odio ed amore Li soggettano entrambi a vario impero, Perchè meravigliar che un sol colore Ogni carme non vesta? e dir mistero, Se per la stessa man gaudio o dolore Manda la lira, e suono úmile, o altero? Sarà per legge temeraria e stolta Trista ognora la musa, ognor serena? Nè più compagna all' uom lieto o dolente? Dica l' anima, a cui fu data o tolta Con alterna vicenda or gioja, or pena, Dica, se vero è il canto, oppur se mente. Se l'occhio intellettivo ho sì imperfetto, Che per corta veduta a me sovente Fa inganno, e menzognero o vile obbietto Incolorar mi sa leggiadramente, Tal che soglio provar pena o diletto Per vane cose, e veggo a me presente Quel che più m'è lontano, e indarno aspetto Il ben che non s' invola, o che non mente; E se pur coll'ingegno ho dell' esterna Luce infermi i ministri, e mi sgomenta Di doppia cecità spesso il pensiero, Chi potrammi accertar che il buon discerna Dal malvagio cammino? Oh mal s' attenta Salpar per tenebrose onde il nocchiero! Chi mai legge nell'alma? e quando trova Adeguata mercè l' amor rinchiuso Nel santuario suo? chi n' ebbe prova Nel vïaggio mortal, nè fu deluso? E chi scernere può se un' opra mova Da pensiero gentile, ora che l'uso Volge forze ed intenti a quanto giova, E rende il sano giudicar confuso? Dunque se fiamma occulta hanno i segreti Sentimenti, nè sempre la parola Suo! dal labbro sonar pura e verace, Avrà l'uomo, a cui tolse amara scola La potenza d' amar, giorni più lieti? Ah no! Pari a sepolcro è la sua pace. Di bianco velo il monte or s' è coperto; Pallido lo smeraldo è delle foglie, E tra poco cadran, misere spoglie, A piè dell' arboscel da lor diserto. Così côlto dagli anni si discioglie L' incanto della vita, e fatto esperto Mira il cor päuroso al fine incerto, Nè più fantasmi lusinghieri accoglie. Ben la virtù, che l' indurito suolo Mollisce, e rinverdir fa il monte e il piano, Ritorna sempre con fedel vicenda; Ma l' anima, da cui presero il volo Le dolcezze primiere, implora invano Che il tempo un' ora di gioir le renda. Voce che al ben mi chiami, oh perchè sei Rotta da un' altra voce e combattuta? Perchè ti affievolisci e ti fai muta, Come fossi talor vinta da lei? Quando il dolce tuo suon più non m'ajuta, E che non freni più gli affetti miei, L'anima mia, fra sogni or tristi, or rei, Mille volte si muta, e si rimuta. E par che tu sciagure a me predica, Gioje l' altra e diletti; e già si sente L'anima schiava della tua nemica. Ma tu sorgi di novo, e più possente Reggi la stanca nella guerra antica. Oh sostegno le fossi eternamente! Certo, o Guido immortale, un de' Celesti Che sul Golgota scese al Redentore Ti sorresse la man, quando pingesti Tutto lo strazio del materno amore. Chè fra tante infelici indarno avresti Quelle lagrime cerche e quel dolore; Qui la madre d'un uom tu non fingesti: Figlio di quest'afflitta è un Dio che muore. Oh se al volger degli occhi e delle ciglia, Converse amaramente in un ruscello, Nessuno aspetto di quaggiù somiglia; Se dolor sì profondo, e pur sì bello, Passa ogni altro dolor, qual maraviglia Che un angelo guidasse il tuo pennello? Sì! qual vive nel cielo, e qual vivea Quaggiù fra noi, tu pingerla sapesti: Era quello il suo volto, onde move a Tanta dolcezza di pensier celesti. Il suo sguardo era quello, e sorridea Teneramente ai poverelli, ai mesti. Quello il labbro gentil, che far solea Gl'inerti cuori al bene oprar sì presti. Ben sapea che la tua valida mente Ritrae con magistero unico e vago L'aspetto umano che ti sta presente; Ma qui dalle virtù, che fêr si bello Lo spirto suo, ne divinò l'immago, E qual fu ne la rese il tuo pennello. Bello qual lo irraggiò la primitiva Luce che piovve sullo umano viso, L'arte evòca un mortal, che della diva Al cenno crëator sorge improvviso. Eccolo! un'alta meraviglia avviva Lo sguardo suo, che, nello spazio fiso, Tenta svelar per forza intellettiva La virtù che il confuso orbe ha diviso. Chi lo regge al gran volo? Un Immortale Doloroso all' aspetto: e pur traluce L'angelica beltà da quel dolore. Creature superbe! a Dio non sale L'orgoglio vostro, e sol bujo ed errore Voi saprete spiccar da tanta luce. Stanchi hai gli sguardi e chini al suol, pensosa La fronte e tutta dall' affanno attrita. Che ti accora, o gentil? qual cura ascosa Ha la gioja per sempre a te rapita? Tu leggi nella storia dolorosa Della dolce tua patria, ognor tradita, E pensi ad una tomba, ove riposa Chi vive nel tuo core un'altra vita. Pensi al dì che partissi il tuo fedele, E quell'armilla al braccio ei ti cignea. Oh meste, e pur soavi rimembranze! Ma rattempra il dolore! ad un crudele Strazio il ciel ne lo tolse; ei non vedea Come sogno sparir tante speranze. Gaja vita ha il gondoliero; La sua casa è in mezzo all' onda, Voga e canta il giorno intero, E non sa che sia dolor. In quell' anima gioconda Non alberga che l' amor. Caro ha il sol; ma più la luna Lo rallegra e lo consola: Sosta allor colla sua bruna Gondoletta ad un balcon, Ed al suon della mandòla Lieto canta una canzon, La canzone affettuosa Che a Torquato amore apprese; Fin che un nastro od una rosa Cade in poppa al navicel; Dolce premio che cortese Dà la bella al suo fedel. Ma se fremon le tempeste, E se ingrossa la marina, Alla Vergine celeste Volge tutto il suo pensier. E la man della Divina Guida in porto il gondolier. Io chiesi al ciel di non amarvi tanto, Poi dal prego mi tolsi impaurita. Se pure amando mi distruggo in pianto, Che saria, senz' amor, questa mia vita? Una gemma che priva è di splendore, Un mesto fior che non olezza e muore. Povera Ghita! allor che lavorava Qualche dolce canzone ognor cantava. E quella mesta sua voce d' amore, Molcea l' orecchio e inebriava il core. Ma presto presto pose fine al canto, E i suoi begli occhi s' oscurâr di pianto. Era morta sua madre, e la figliuola Rimanea sulla terra orfana e sola. E non bastò che le fosse rapita Da crudel morbo così cara vita; Le tolse l' amor suo lo stesso di. Povera Ghita! di dolor mori. Sdegnò Lisa il primo affetto, E d' un conte s' invaghì. Ne piangeva un giovinetto, Ed a lei dicea così: Lisa mia, da quel potente Non avrai nè fè, nè amor. Ghiaccio eterno è la sua mente, Senza palpiti il suo cor. La tua patria è in seno ai monti: Non lasciar per la città L'aure pure, i puri fonti, La gioconda libertà. Ahi l' incauta giovinetta Tardi troppo l' ascoltò! Sempre invano il conte aspetta, Chè il villaggio e lei scordò. Qual rugiada sulle rose Vien la lagrima sul cor. Mai d' imprese generose Non fu sterile il dolor. O fanciulla! all' uom t' invola Ch' ebbe ognor sereni dì. Resta, resta al mondo sola, Non può amar chi non soffirì. Nel silenzio si struggea L'alma afflitta d' un garzon: Una vergine tacea Quando il cor le chiese in don. Ma nel dì che il ferro strinse Per la patria, e si scostò, Infelice! Amor la vinse, Ed un gemito mandò. Ei partì. L' addio fu mesto, Fu mestissimo il cammin. Ah, quel gemito funesto Gli predisse il suo destin! Ritornò. Lo avesse in guerra Steso al suol nemico acciar! Non dovrebbe or sulla terra Solitario lagrimar. Della sera il raggio estremo Discendea sul giovinetto; Irraggiando il bianco aspetto D' un insolito splendor. Ora ei prega innanzi a Dio Per la terra ov' ebbe culla, Per la povera fanciulla, Cui giurava eterno amor. Ahi trafitte entrambe sono Dalla spada degli affanni! Sciolga l' una al cielo i vanni, Spunti all' altra un dì miglior. Puro celeste spirito, Dio mi ti pose accanto Perchè conforto un angele Mi fosse a'dì del pianto. La madre mia, ne' placidi Prim' anni della vita, Fra le più care immagini La tua m' avea scolpita. Oh non fuggir, se improvvida Talor da te mi sciolgo! Se nel mio petto, ahi misera! Un' altra immago accolgo. Fa'che ridar quest' anima Io possa al suo Fattor, Senza che raggio intorbidi Del suo natio candor.

La prima di queste Romanze, con altre di Caterina Bon-Brenzon, di Cesare Betteloni, di Giulio Carcano, di Andrea Maffei e di altri, venne inserita in un albo intitolato I Fiori, di cui s'impressero pochi e non vendibili esemplari; ciascuno dei nominati scrittori vi ha scelto e cantato il suo fiore prediletto.

Ciclamino! il tuo fioretto Mai non torna a rinverdir, Che non esca dal mio petto Malinconico sospir. Tu rinnovi alla mia mente Storia mesta che passò, Tu richiami al cor dolente La fanciulla che ti amò. Dieci e dieci primavere Già vedea la tua fedel: Bianco viso e chiome nere, Sguardo azzurro, come il ciel. Dacchè morte a lei rapita Quella avea che la nudrì, Fra' disagi della vita Trascinava oscuri dì. Pur la cara, ingenua calma Che dal volto all' uom traspar, Quando in lui tranquilla è l' alma, Molti a Rina invidïar, Fin che amor sui rosei vanni Della speme a lei volò, E di novi, ignoti affanni Tristo seme vi gettò. Era un umile alpigiano Chi giurolle eterna fè; Ella strinse quella mano E per sempre a lui si diè. Braccia e cor, null' altro avea, E migrava a stranio ciel, Quando il suol non gli cedea Indurato al primo gel. Poi tornava il pellegrino La diletta ad abbracciar; E tu prima, o Ciclamino, Gliel venivi ad annunciar. Con che palpito amoroso Lungo i cigli del sentier Ti spiccava, o grazïoso Di sue gioje messagger! E due volte alla gentile Fosti lieto annunciator; Ma perchè nel terzo aprile Più non vede il tuo bel fior? Trista me! (dicea nel pianto) Che mai tarda il suo venir? Nè quel fior caro a me tanto Più mi torna ad apparir?…» Ah quel fiore, o dolorosa, Non invano a te sparì! La ghirlanda e il vel di sposa Fiera morte ti rapì. Qual sepolcro, oimè, raccoglia L'amor tuo non dimandar! Chi la lacera sua spoglia Mai saprebbe a te mostrar? Vedi il monte al monte imposto? Là nessuno ancor s' alzò. Per venirne a te più tosto Ei vi ascese, e ruinò. Ruïnò per sassi e bronchi Dall' altissimo-ciglion; Ma que'membri offesi e tronchi Ove giacquero? ove son? L'onda infranta, che si chiuse Sul caduto, e l' inghiottì, Col tuo nome si confuse Che morente ei proferì. O miserrima donzella, Che dolore il tuo non fu Quando corse la novella: «L'amor tuo non vive più!» Pur serena nell' aspetto Seppe il duolo altrui celar, Chè versandolo dal petto Lo temea di profanar. E se mai parola ardita Le offerìa la mano e il cor, La sua guancia impallidita Non tingeasi di rossor.— «Ben lo amò di poco amore (Più d' un labbro bisbigliò); Ha costei di gelo il core, Chè d' un tratto l' obliò?» Oh crudele chi s' attenta Ne' segreti penetrar D' uno spirto, ed argomenta Dentro sia, qual fuori appar!— Già la veste a fior tessuta Spiega maggio, e copre il suol, Strugge intanto quella muta La pietosa opra del duol. Mentre placida e serena Il suo fin godea veder, Sopra un fior dischiuso appena L' occhio fisse ed il pensier. Era quello il Ciclamino, Ma cangiato di color; Bianco al par del gelsomino Le splendea l' amato fior. Un mestissimo sorriso La dolente irradïò, E: «T' intendo! in paradiso Presto, disse, il rivedrò.» Poi tornando all' ora bruna Quel fioretto a visitar, D' altri mille, a'rai di luna, Vide il monte biancheggiar. Ne raccolse, e fe due serti; L'uno ai venti confidò, E dell' altro i crini inserti, Chinò il capo, e sospirò. Pari al fior delle sue chiome Di quel volto era il pallor; Solo un nome, un caro nome Dal suo labbro uscía talor. E li stette in muta calma, Gli occhi aperti e fitti al suol; Finchè fredda, immota salma La trovò, sorgendo, il sol.— Il suo calice vermiglio Or riprese il Ciclamin; Ma più d' un ne alletta il ciglio Bianco al par del gelsomin. Tu che letta or n' hai l' istoria, Quando trovi il bianco fior. Deh ti reca alla memoria Quella martire d' amor! La sua terra, la sua madre, L'amor suo Guido lasciò. De' Crociati fra le squadre Voce interna l' appellò. «M' odi, o Berta: il sangue mio Dee l' avello imporporar Dove l' ossa dell' Uom-Dio Per tre giorni riposâr. Se il pugnal d' un musulmano I dì miei non troncherà, No, mia Berta, questa mano Nissun' altra impalmerà.» Guido tacque, e il cor tralisse Dell' amante acuto stral. Pur credea dal ciel venisse Quella voce a lei fatal: Nè parlò; ma d' un veggente Che leggea nell' avvenir Tutta in pianto la dolente Cadde a' piedi, e prese a dir: «Padre, padre, una parola! L'amor mio ritornerà?»— «Dio per poco a te l' invola, Figlia mia; tel renderà.»— «Oh gli dona un amuleto Che lo torni illeso a me!»— «Di che brami il farò lieto, Purchè viva in lui la fè.» Del vegliardo gli occhi stanchi Ad un vase si drizzâr Che di fiori azzurri e bianchi Gli fregiava il sacro altar. Poi che n' ebbe un fior reciso, Ei la fronte al ciel levò, E d' angelico sorriso Quella fronte lampeggiò. Era il fior della speranza; Fior gentile, e caro al ciel. Berta il prese, e con fidanza Ne fe dono al suo fedel. «Serba ognora, o Guido mio, Sul tuo petto questo fior. Ti sarà (me'l dice Iddio) Un amico, un difensor.» Dal quel giorno i sogni suoi Guido sempre rallegrò; Collo stuol de' santi eroi Cento volte a lei tornò. E tornar di Palestina Ben si vede ogni guerrier; Ma non riede alla meschina Chi governa il suo pensier. Ore, giorni e mesi interi Pazïente l' aspettò: Duchi, conti, cavalieri, Tutti invano interrogò. Un mattin, l' usata inchiesta A un romito proferì. Ei guatolla in aria mesta, Scosse il capo, ed ammutì. Ammutì: ma qual favella Dirle, o ciel, potea di più? Nulla occulto alla donzella Del suo Guido allor si fu. L' infelice oppressa e vinta Sotto l' impeto del duol, Susurrò con voce estinta: «Io ti seguo!…» e cadde al suol. Cadde, e giacque.—Il veglio intanto Vide un fiore illanguidir; Poi d' un verde e tenue manto Le sue foglie rivestir. Tale i due che trasgrediro Immolandone al dolor, Verecondi si copriro Al cospetto del Signor. Dunque il dir dell' inspirato Fu presagio menzogner? No, quel labbro intemerato Non velò d' un' ombra il ver. Non parlò di gaudj umani Quando a lei porgea quel fior; Ma di nodi eterni, arcani, Ma di gioja che non muor. Del futuro agli occhi santi Si squarciava il negro vel, Si ch'ei vide i fidi amanti, Anzi tempo. uniti in ciel.

FINE.

Al lettore Pag. 1

Giovanni, Canti sette 1

Rosa e Stella, Novella 161

Maria, Canti tre 199

Liriche.

A' miei parenti 309

Versi a persone illustri 317

Versi di vario argomento 327

Affetti 333

Arte 347

Melodie 353