MARIA LUISA FIUMI-PETRANGELI

Nel Silenzio
NOVELLE PROVINCIALI
Con illustrazioni di UMBERTO PRENCIPE

PRESSO
A. F. FORMIGGINI EDITORE IN ROMA

PROPRIETÀ LETTERARIA

Ogni esemplare deve portare impressa a secco nel frontispizio l'impresa dell'editors
Copiryght 1917 by Contessa M. L. Fiumi-Petrangeli.



A Luigi Mancinelli

Franco Stènelo, benchè giovanissimo, era già molto noto.

La critica, unanime, aveva riconosciuto una forte promessa artistica nel giovane scrittore, tributando larga messe di elogi a l' ultimo suo volume.

Stanco de la vita intensamente vissuta durante l'inverno, ne la grande città; partita l' ultima amante (una dama intellettuale e matura) egli pensò di ritemprarsi l' anima in un bagno luminoso di purezza e di serenità, e intraprese una lenta peregrinazione attraverso le quete cittadine umbre.

Ne l' affocato meriggio estivo scese a la stazione d' Orvieto, e mentre la funicolare s'inerpicava sul fianco del masso enorme, egli osservava la rocca tufacea tutta vibrante, arsa di luce nel sole morente, eretta ne la pianura dove già s' addensavano le prime ombre de la sera, simile ad un altare splendido di ceri ne la navata oscura d' un tempio.

La piccola città lo avvinse subito con la malìa silenziosa de le stradette deserte, la voce suadente e sognatrice de le fontane ne le piazzette erbose; le antiche mura dei conventi fasciati d' edera e di tempo, la tenerezza vespertina de le campane mormoranti nel cielo parole di pace; il sorriso fuggevole degli orti chiusi, dei quali non s' intravedeva, passando, che un oleandro in fiore, la chioma cadente d' un salice, la mite chiarezza degli ulivi, i lunghi tralci verdi de le viti, l' ombra discreta di un pergolato, e rose e rose ricadenti a fascio su le vecchie mura, come una carezza morbida su le asprezze rudi del tufo.

E ovunque qualcosa che appassionava l' artista: la bifora snella, la torre trecentesca, le figurine silenziose ravvolte ne lo scialle nero, le piccole chiese deserte, racchiudenti gelose come scrigni tesori d' arte, e orti dovunque: per ogni casupola un sorriso di verde, per ogni piccola finestra una cornice di fiori.

Tutte le sere, al tramonto, egli si trovava dinanzi a la Cattedrale, contemplando estatico il miracolo luminoso de la facciata, scintillante al sole nel sorriso degli ori, ne la fulgida fioritura dei mosaici. Vi giungeva percorrendo una via deserta, cui alcuni cipressi altissimi e le mura antiche di un convento, chiuse in una linea severa di clausura, davano un aspetto meditativo e raccolto.

Una sera, egli fu attratto da un canto dolcissimo che pioveva da un balconcino: la voce velata di malinconia moriva nel silenzio religioso.

Stènelo guardò la creatura che vibrava tutta nel canto come un' allodola: ella arrossì e tacque, chinando la testa sul lavoro. Ne l' atto, egli osservò la grazia infantile de le spalle un po' magre: gli piacque la morbida bianchezza del volto, chiusa fra due seriche bende di capelli neri e il profilo purissimo di madonna, che per un attimo gli ricordò la deliziosa visione quattrocentesca de la Vergine di Gentile da Fabriano.



Egli passò ancora e sempre, a sera, per la strada deserta e vi s' indugiò a lungo in un godimento raffinato d' artista.

Il sole baciava le punte dei cipressi; le ombre mobili di alcuni alberelli s' allungavano su le mura del convento, donde veniva a volte, sommesso, un canto religioso, e ne lo sfondo del paesaggio mistico, la figurina jeratica al balcone.

La piccola cucitrice incontrò una sera lo sconosciuto, che la trattenne lungamente a parlare: egli, incalzante, ella, schermendosi dolcemente, rossa, confusa.

— Il vostro nome?…. — ella balbettò.

Egli rise.

— Il mio nome… che v' importa, bambina? Io sono l' Ignoto, per voi, che spaventa ed attrae: sono la vita che vi chiama, il grido istesso de la vostra giovinezza. Madonnina bella, io vorrei adorarvi in una piccola chiesa molto deserta, molto silenziosa…. San Giovenale, per esempio: domattina a le undici, verrete?…


***


Pioveva mite la luce nel silenzio mistico de la chiesa: dilagava ne la navata romanica, carezzava lungo le colonne gli affreschi antichi, e moriva pallida sul sepolcro monaldesco.

Stènelo aspettava già, e mentr' ella s' avanzava verso di lui, egli analizzava con curiosità d' artista il corpo lungo e sottile ravvolto ne lo scialle nero.

— O dolce creatura, siete voi forse una madonna discesa da qualche tela maravigliosa, per lasciarsi adorare più umanamente? Non abbassate gli occhi così, guardatemi invece: v' è tanta dolcezza ignara ne gli occhi vostri!…

Ella tremava a la voce di lui, una voce velata e strana che strisciava su le anime femminili come una lenta carezza.

— Oh le piccole mani!… — ed egli ne afferrò una tepida e tremante — le piccole mani che sanno creare su la tela lunghe teorie di fiori!….. Perchè piangete?…

Ella s' era nascosto il viso ne le mani e fra le dita stillavano le lacrime. Egli le prese il mento fra l' indice e il pollice, le sollevò a forza il viso come ad una bimba imbronciata.

— Perchè piangete?…

— Non so: voi dite de le cose tanto belle!…

— Io sono un sognatore, piccina, un po' malato. Ho il gusto de le penombre mistiche e silenziose, de le rose sfogliate, de le immagini d' altri tempi, de le cose che non sono più. Forse non m' intenderete sempre: spesso io parlo solo per alimentare il mio sogno. Mai mi sembrerete più bella: questa cornice squisitamente fine di cose un po' stinte, un po' corrose dal tempo, s' adatta mirabilmente a la vostra bellezza.

Ella tormentava con le mani nervose le cocche de lo scialle.

— Ne la penombra io vedo le vostre labbra così rosse, che sembrano zuppe di sangue: forse, tutto il sangue del vostro viso troppo bianco, è raccolto ne le vostre labbra come in una coppa che io penso debba



avere molta soavità… E se chiudo gli occhi e v'accarezzo così, assaporo anche meglio la vostra bellezza…

La fanciulla rovesciava piano la testa, appoggiandosi a la colonna istoriata con tutto il peso di un languore sconosciuto e su lo sfondo de gli affreschi antichi il viso smorto sembrava scolpito nel marmo.

Bruscamente la porticina si aprì ed un raggio di sole segnò una lunga striscia d'oro su l'umidore de l'ammattonato: una devota entrò, trascinando il passo.

— Lasciate che me ne vada… — disse la piccola cucitrice racchiudendo il viso bianco ne lo scialle, come in una pesante cornice.

— Ci rivedremo ancora?

— Si.

La porta si schiuse cautamente e la figurina avvolta nel manto nero s'allontanò e scomparve nel gran sole de la via.


***


Poi, vennero le dolci peregrinazioni a sera, ne la penombra de le stradette misteriose: i lunghi silenzi, ascoltando l'uno, il respiro monotono dei grilli, la voce de l'acqua su le pietre, un passo dileguante lontano, lo stormire de le foglie negli orti, un nulla. L'altra, il battito precipitoso del cuore e il rombo del suo sangue in tumulto.

L'umile creatura era per l'artista l'anima di tutte le cose belle d'intorno.

— Dammi le tue dita, così; lascia che io senta fluire in me tutta la vita tua…

— Vi stancherete — mormorava l'altra, triste e rassegnata — io non so dire tante cose belle!…

Una sera narrò di sè: viveva sola, con la mamma costretta a letto, inebetita dal male e lavorava per provvedere anche a la vecchia.

Sténelo l'ascoltava un po' distratto.

— Voi mi siete vicino, eppure vi sento così lontano!…… — sospirò la ragazza col fine intuito de la donna che ama.

Il giovane buttò la sigaretta.

— Senti, piccina, io vorrei liberarti da tutto ciò che vi è di volgare intorno a te; vorrei averti vicina ne l'istesso paradiso di sogni.

Tacque un istante, poi disse:

— Vuoi venire lontano, con me?

— Oh signore, no, no… — e la voce tremava d'angoscia e di passione — no, mai…

Egli tacque contrariato e per la prima volta, dopo un lungo mese, quella sera s'annoiò.

Ma le parole dolcissime dette da la strana voce velata s'erano impresse ne l'anima di lei come stigmate roventi: — Vuoi venire con me?…

— No, mai… — smaniava la creatura ne le notti insonni. Ma v'era qualcuno, ne l'ombra, che ripeteva insidiosamente l'invito: che glielo alitava in faccia, sul collo, a l'orecchio, mentre lavorava.

— No, mai… — e il povero viso impallidiva sempre più, le mani gracili s'appoggiavano stanche al lavoro e gli occhi sembravano più grandi, nel cerchio azzurrognolo che vi tracciava intorno l'insonnia.

L'anima bizzarra di Franco Sténelo non poteva restare a lungo imprigionata fra le vecchie mura dei conventi, nè la piccola e deliziosa provinciale poteva incatenarvela.

— Dev' essere molto rigida la cattiva stagione, qui! — egli disse in una sera malinconica di settembre, che aveva il presentimento de l'inverno prossimo.

Aveva piovuto tutto il giorno: il tufo bagnato, appariva più nero, più tetro. Le rare fiammelle dei fanali, fasciate di vapori, sembravano piccole stelle sperdute in un cielo di nebbia. Tutta la città silenziosa, cupa, non viveva che ne la squilla de la vecchia torre, vigilante dai quadranti luminosi de l'orologio.

Sténelo ebbe un grido de l'anima.

— Dio, come tutto è lugubre!… Ho bisogno di sole, di vita, io!… Parto: vuoi venire con me?

La ragazza non rispose subito: nel dolce viso un po' abbassato gli occhi si dilatavano in uno spasimo acuto. Poi disse come interrogando sè stessa (e la voce moriva d'angoscia fra le pieghe de lo scialle:

— E la mamma?

— Non temere, bambina, penserò io a tutto. Non ti conosce più.

La fanciulla esitava e due lacrime le scendevano in silenzio sul viso pallido. Sténelo l'afferrò per un braccio, scuotendola forte.

— Di': non mi vuoi dunque bene?

La mano gracile si protese verso di lui…

— A le dieci, domani sera… Verrai…?

Ella balbettò senza voce, solo con un tremito de le labbra smorte: — Si…

Ma quante volte in quella giornata di febbre ripetè a sè stessa, smaniando: — No, no…

La madre si lamentava nel suo letto…

— Non parto, no — le gridava forte l'anima.

Discese ne l'orto, toccò tutti i fiori senza coglierli, accudì a le faccende domestiche distratta, febbricitante.

Venne la sera. Oh la tristezza de le campane!…

Accese la lucerna, aprì la finestra, chiamò una vicina che, sempre, quand'ella era fuori assisteva la vecchia.

— Maria, volete venire domattina? Vi lascerò aperto l'uscio de l'orto.

— Va bene — gridò la donna da la strada.

L'altra fece l'atto di ritirarsi, ma s'affacciò di nuovo e chiamò ancora:

— Maria…

— Che volete?

— Mi raccomando…

— State tranquilla.

— Grazie.

Buona notte!

Buona notte!… lo ripete lentamente, assaporando le parole, come una dolorosa ironia.

La vecchia tossì e la fanciulla accorse, l'accomodoacute; sui cuscini, aspettò immobile presso il letto finchè quella s'addormentò tranquilla. Allora si chinò su quel viso grasso e floscio, che nel sonno non aveva alcuna espressione di sofferenza e rimase immobile a guardarlo, quasi aspettando che la malata riaprisse gli occhi, la riconoscesse, la chiamasse a nome, ancora almeno una volta!

La lucerna crepitava presso a spegnersi e l'ombra invadeva poco a poco la povera stanza.

Forte, imperioso come un brusco richiamo, l'orologio battè le ore: — Le nove… — e la ragazza fu assalita da un tremito così forte che dovette appoggiarsi al muro.

Trasse la roba dal cassettone a la rinfusa, senza vederla; ne formò un piccolo involto che s'annodò al braccio e dischiuse piano le imposte del balcone, guardando, cauta, se il vicolo fosse deserto.

Un uomo s'avvicinava, portando a tracolla la chitarra: si fermò sotto il fanale, traendo lentamente qualche accordo e la ragazza sporse il viso ne la luce.

— Gigetto… Dio, la serenata! — e il cuore le si gonfiò di un'onda di tenerezza e di pianto.

La serenata!… Quante ne aveva ascoltate dietro le imposte dischiuse di quel balcone! Quante erano salite fino a lei, lungo il muricciolo fiorito de l'orto, ne la quiete deserta de la stradetta ed avevano cullato i suoi sogni ne le notti serene e tranquille! E sempre quella voce ben nota che sapeva modulare tanto bene le canzoni del suo paese; quella voce dolce e grave, chiedente ne la notte stellata l'elemosina d'un po' d'amore.

« Vorrei baciare i tuoi capelli….

Oh la vecchia canzone de la sua infanzia, i primi sogni vissuti al ticchettio de l'ago!…

E fu come se al ritmo de l'aria antica, dissepolta nel cuore fra le cose dimenticate, ella vedesse venirsi innanzi sè stessa d'una volta.

Fu come se tutte le povere, vecchie memorie d'intorno volessero trattenerla con un grido di rimpianto, con un richiamo disperato e ne la penombra de la stanza passasse un'ondata fresca di risa infantili, di serenità puerile ed ignara; il profumo de le rose ne l'orto tranquillo, il suono de la campanella del convento a sera, un volo di rondini nel cielo, tutti i pallidi sorrisi di quelle primavere vissute ne l'anima, lavorando, al balcone.

Lentamente le braccia erano scivolate lungo i fianchi de la creatura silenziosa e l'involto era caduto in terra: oggetti e vesti s'erano sparsi sul pavimento.

« Vorrei morire…. »

Giù nel vicolo la voce maschia sembrava ora velata di pianto e tremava in una tenerezza accorata.

La lucerna s'era spenta e ne la stanza non v'era altra luce che quella del fanale, penetrante da le imposte dischiuse.

La donna, come un automa, s'avvicinava lentamente là, dove si vedeva appena biancheggiare il triste letto de la malata.

Di schianto cadde a ginocchi, s'avvinghiò tutta a quel povero corpo disfatto e baci, singhiozzi e lacrime piovvero insieme sul viso de la vecchia, in una furia disperata;

— Mamma, svegliati!… Mamma sentimi… resto con te… Non dormire così, mamma… mamma mia!…

Ne l'aria purissima de la notte, veniva intanto da la pianura il fischio acuto de la vaporiera che fuggiva lontano.

Ombra e silenzio, nel vicolo.

L'uomo s'allontanava a malincuore con la chitarra a tracolla.

A l'improvviso si fermò, si battè forte la fronte col palmo de la mano e scosse la testa, sfiduciato:

E nun ciò coraggio… nun ciò coraggio!… Lei nun lo sa, quanto je vojo bene!…



Per Ada Negri

Ne la bottega piccola e bassa, la lampada a petrolio appesa al soffitto mandava un odore acre, e da la fiamma troppo alta saliva il fumo a spire verso le vecchie travi, ove l' intonaco sgretolato appariva qua e là in chiazze biancastre e donde veniva, nei silenzi, lo stridore breve e monotono del tarlo.

Poichè la fiamma rossastra guizzava, strani giuochi di luci e d' ombre passavano sui volti de le persone sedute in crocchio, e su le cose dintorno.

In un angolo, sopra una sedia spagliata e zoppa, il gatto faceva le fusa vicino ad un grosso gomitolo con quattro ferri da calza, che attendeva l' opera paziente di mani femminili; ne la penombra occhieggiava la brace di uno scaldino abbandonato.

Il merciaio, in piedi dietro al banco, raccontava agli amici qualcosa che doveva farlo fremere di rabbia, battendo forte il pugno stretto nervosamente sopra un fascio di giornali. Gli occhi piccoli, da le palpebre arrossate, lampeggiavano; la bocca si contraeva a quando a quando in un riso maligno che scopriva i denti giallastri.

— Ladro, capite, ladro… A questo è arrivato quel ragazzaccio! Prima gli oggetti, mi sono mancati, poi i danari dal cassetto… Ma chi poteva pensare a lui? A questo s' è ridotto, per quella sgualdrina!…

— Era un ragazzo tanto buono… Ha perduto la testa, povero figliuolo!… — disse con indulgenza don Luigi, il vecchio curato.

— Certo, è una gran bella donna, colei! — affermò il segretario comunale che aveva fama d' intendersene.

— Altro che bella, è un boccone da re! — gridò entusiasta il medico, con la rude schiettezza del campagnuolo. — Anzi, a questo proposito si dice… — e abbassando la voce forte e grossolana, si curvò a l' orecchio del segretario, ove si perdette il resto de la storiella piccante.

Don Luigi trasse da la tasca profonda la tabacchiera, annasò forte, e spiegato il grande fazzoletto rosso vi soffiò rumorosamente il naso, e lo passò con ogni cura su l' abito talare per cancellarvi le traccie del tabacco.

Il merciaio non parlava, ma nel viso irsuto di vecchio satiro, dagli zigomi accesi e sporgenti, gli occhi bruciavano, arsi da la febbre d' un desiderio brutale.

— E così, dite, Mecuccio, lo denuncierete proprio?… — domandò il prete.

— Certo che lo denuncierò, e domani, subito… Me la pagherà cara, lui!… — e stese, minacciando, la mano ossuta e vellosa. — E poi, dove lo trovo, lo voglio svergognare!… Ladro!… Glielo dirò finchè mi resterà il fiato… Ladro!…

***


— Avete ragione, signor Domenico, avete ragione… Ho fatto male, ma non mi rovinate, per carità… Il danaro ve lo riporterò, state tranquillo!

— In faccia a tutti, te lo voglio dire… — gridava il merciaio infuriato, battendo forte il bastone su l'acciottolato del vicolo — ladro… ladro!…

— Non dite così… mi fate morire di vergogna! Vi giuro che non so neanch'io come ho potuto….

— Ah, ma lo so io!… — e l' uomo rise, aspro e perfido — Bella roba, davvero, rovinarsi per quella…

— Ma che c'entra, lei?… Non la nominate nemmeno…

— Sei cotto, ragazzo mio, ma bada…

— Signor Domenico non v' immischiate dei fatti miei….. Ho fatto male, è vero, ma voi non avete il diritto…

— Bella roba, bella roba!… — seguitava l' altro in una cadenza monotona — Di che cosa sei stato capace… E non pensi a quella vecchia di tua madre….

Il merciaio aveva forse colpito giusto. Come se il giovane avesse ricevuto un urto in mezzo al petto, indietreggiò barcollante, portandosi le mani al viso, in uno scoppio di pianto: un pianto accorato di fanciullo.

L' altro si tirò con forza il cappello su gli occhi, quasi gli desse noia la luce fioca de la lampada sotto la quale i due uomini s' erano fermati a parlare, sul cantone del vicolo.

— Senti, basterebbe una mia parola, lo sai, per mandarti in galera; ma quella vecchia di tua madre mi fa pena, vedi!… — e l'uomo abbassava sempre più la voce falsa e stridula — T' ho detto così, ne l' impeto de la rabbia,.. ma non ti voglio rovinare…

Esitò un istante, mentre gli occhi torvi scrutavano sospettosi le ombre dintorno, poi battè una mano su quelle spalle giovanili, scosse dal tremito dei singhiozzi.

— Senti, ragazzo, dammi retta: lascia quella donna… Giura che la lascierai, e io non ti denuncio…

— No, mille volte no! — urlò il giovane — Ma che v' importa? Vi sta tanto a cuore?…

— Peggio per te, ragazzo mio… Io ti volevo salvare! Per chi ruba, lo sai, c'è la galera…

D' un colpo la porta d' una prossima osteria si spalancò, ed un raggio di luce rossastra dilagò nel vicolo e investì i due uomini. Il merciaio si ritrasse, cauto, ne l' ombra, strisciando lungo il muro.

Da l' osteria uscì, schiamazzando, un gruppo di giovinastri: uno di loro, con una voce roca da ubbriaco, intonò una canzone; gli altri risposero in coro.

Da un lato si udiva il colpo secco e ritmico del bastone che il merciaio, camminando in fretta, batteva su l' acciottolato: da l' altro le voci degli uomini si spegnevano in lontananza, ne l' ultimo ritornello de la canzone.

Il giovane era rimasto inchiodato al suo posto, sotto il fanale, stringendosi le tempie fra le mani convulse.

Ora nel vicolo tetro non s' udiva che l' ansare affannoso di quell' ombra immobile, addossata al muro come una vecchia cosa inutile, con l' abbandono di un povero mucchio di cenci.

***


Su la piccola città placidamente addormentata, era discesa la notte: una notte limpida di primavera, fulgida di stelle e ricca di profumi.

Ne la piazzetta silenziosa s' adagiava l' ombra lunga e fantastica de la torre, avente a lato il palazzo trecentesco de' Ranieri, ov' è ora un convento.

Presso a le vecchie mura, ne l' umidore de l' angolo erboso, la fontana narrava, sommessa, istorie di tempi lontani.

Veniva, portato dal vento, l' odore acuto dei gelsomini in fiore, che ricadevano a fasci lungo il muro d'un orto.

Come un grido lugubre ne la notte, la voce severa de l' orologio, vibrava nel silenzio greve.

Presso la fontana, un uomo vegliava, ne l'ombra: passavano lente le ore e la scarna figura giovanile, ne l'immobilità assoluta, non viveva che in una tensione spasmodica di tutti i nervi.

Nel vicolo, presso al convento, un uscio cigolò, dischiuso con precauzione…. Da la stretta apertura un uomo sgusciò fuori. Le falde del cappello, abbassate, nascondevano la fronte e gli occhi: la parte inferiore del viso s'affondava nel bavero de la giacca, rialzato.

Si fermò un istante, scrutando intorno, poi scivolò rapido lungo il muro, finchè ne l'angolo, presso la fontana, i due uomini si trovarono di fronte

Quello che aveva atteso immobile, balzò da l'ombra come una tigre in agguato: l'altro, sorpreso, indietreggiò.

— Ah, cane, ti ci ho colto!… per questo m' hai mandato in galera… Per godertela, eh?!…

— Lasciami, lasciami… — ansava l'altro, tentando svincolarsi, indietreggiando sempre, finchè con le spalle si trovò addossato al muro del convento.

Solo la vecchia torre, spalancando ne l'ombra le occhiaie paurose de le finestre vuote, udì l'ansare dei due corpi avvinghiati, e da lontano, ne l' orto, dietro il cespuglio dei gelsomini in fiore, un urlo soffocato di donna.

Fu un attimo: l'uno scivolò su le pietre umide, presso la fontana: l'altro gli fu sopra d'un balzo selvaggio, pigiandolo sul petto con i ginocchi, stringendogli il collo rantolante con le mani nervose, forti come tanaglie.

Fu un attimo: poi, ne la piazzetta silenziosa piena d'ombra e di mistero, la fontana continuò placidamente a narrare le vecchie istorie…

Lontano, in fondo al vicolo, un uomo fuggiva barcollando, senza volgersi indietro.

Ne l'ombra lunga e fantastica de la torre, gli occhi del morto, spalancati, sembravano contemplare fra le stelle la serenità di nuovi orizzonti, in una pace sconosciuta oltre la vita.

A Luigi Barzini

La sora Nena era in faccende.

Mariuccia, su la scala a pioli, col busto ricolmo proteso in avanti, toglieva cautamente i veli verdi che proteggevano le specchiere da le insidie de le mosche e li porgeva a la padrona, ritta in fondo a la scala, pronta a riceverli e a ripiegarili con cura.

Il lampadario di Murano, in mezzo al salotto, ne era già spoglio e appariva tutto lucente nel riflesso dei cristalli, con le lunghe candele ingiallite, che non s' erano più accese dai tempi beati in cui Toto viveva. Non si sarebbe acceso più, il lampadario, in segno di lutto, così come la sora Nena non avrebbe più abbandonato le lunghe gramaglie.

Toto!… La figura de l' amato scomparso troneggiava dovunque: su la parete, in un' ampia cornice dorata, vivo, grasso, parlante; il carnio lucido cinto da una coroncina di capelli grigi, il naso aquilino che sembrava toccare il labbro superiore, il faccione sereno e gioviale, come a' bei tempi « quando stava bene ».

E accanto a lui la sora Nena nei vivaci colori del suo vestito di broccato rosso, ritta, ossuta, il busto attillato emergente da la linea goffa de la crinolina, le mani appoggiate l' una su l' altra in una mossa di placido abbandono che ricordava quella de la Gioconda di Leonardo. Solo, le mani de la sora Nena, non avevano la classica nudità di quelle, ed erano invece ornate di mezzi guanti neri: la destra, stringeva una rosa.

Così, per pochi scudi, l' aveva immortalata su la tela, presso l' amato compagno, un pittore di passaggio per la piccola città.

E Toto dovunque: su la scrivania, sul tavolo, fra le bomboniere vuote ed i fiori di carta velina: vicino a la campana di cristallo che ricopriva l' orologio dorato sempre fermo, fra gli Album, i ricordi di Sorrento, i ninnoli di conchiglie, i vasi di fiori contenenti penne di pavone, appoggiato agli alti lumi a petrolio, Toto, sempre.

Dovunque il faccione ridente dal naso aquilino, e il cranio pelato con quella povera coroncina di capelli grigi.

Tutto era rimasto come a la morte di lui: cosî voleva la vedova inconsolabile.

Pareva che ogni cosa, ne la vecchia dimora, fosse rimasta impietrita da lo stupore a la scomparsa del vecchio, conservando sempre quell' aspetto melenso di maraviglia.

Il letto altissimo, che sapeva i casti amori tranquilli, serbava l' impronta del corpo enorme nel punto ove le molle affondavano.

Su la scrivania, le sue carte in bell' ordine: il libretto de' conti giornalieri, il calendario ove segnava in margine gli onomastici dei parenti; il calamaio con l' inchiostro disseccato, la penna arrugginita, la piccola lampada con il paralume di carta velina verde, la Voce de la Verità di quell' ultimo giorno, e un po' nascosta (com' egli soleva tenerla quando la moglie s' avvicinava) la tabacchiera.

Così, su la scansia presso il tavolo da pranzo, era ancora un lungo cartone col quale sventolava la scodella de la minestra; le appendici de' giornali intagliate con ogni cura, un' ampia ciotola di legno con le scatole de' fiammiferi vuote…

Tutto, la sora Nena aveva conservato, fors' anche con l' istessa polvere d' allora: fino nel corridoio stretto, rischiarato solo dal lume fioco che ardeva dinanzi alla Madonna, pareva risuonasse come un tempo il passo greve e trasciante del vecchio.

Non v' era più Tancredi, che un anno dopo aveva voluto seguire il padrone, ma v' erano i due gatti che il povero Toto amava tanto: Miss e Brighella. Vero è che Miss trascinava le zampine posteriori e Brighella era cieco da un occhio; ma vivevano ancora, povere bestiole, e s'accoccolavano facendo le fusa insieme in grembo a la padrona, quando si metteva a pranzo sola e sconsolata: l' altro posto era vuoto, e non v'era più Toto per fargli la prima parte d'ogni pietanza…. Non v' era più lui che agitasse il piccolo campanello per chiamare Tancredi, ogni volta che aveva il piatto vuoto, con lo stesso fervore con cui lo agitava al mattino, servendo la messa.

Dieci anni soli d' amore, poichè s' erano sposati molto maturi; dieci anni di pace, senza mai un segreto, mai un bisticcio.

Cioè, una volta, si, s'erano bisticciati e quanto!…

Toto le aveva fatto un torto così grave, che a ricordarlo la sora Nena si faceva rossa ancora, da la rabbia.

Ella aveva un' avversione istintiva: bastava che sentisse, da lontano, l' odore de la cipolla per esserne tutta disturbata, al punto da venir meno o da farsi cogliere da una crisi nervosa, lei, povera donna, che (lo diceva a suo vanto) i nervi non sapeva proprio quel che fossero.

E aveva confessato quella debolezza a lo sposo, il quale aveva promesso solennemente di rinunciare per sempre all' abborrito odore, in ogni vivanda, in ogni intingolo.

Ma un giorno in cui ella s'era recata in campagna dal fratello, il curato, dicendo che sarebbe tornata a sera e per un caso imprevisto aveva dovuto anticipare il ritorno, trovò, entrando in casa, la scala, il salotto, la cucina, il tinello, tutto pieno d'un odore… di quell'odore!… Toto, con gli occhietti lucenti di ghiottoneria (cercando prendere un' aria disinvolta e distratta) si leccava i baffi spioventi, dov' erano ancora le ultime goccie de l' intingolo proibito.

Che furie, la sora Nena, che scuse umili del colpevole, e infine… che pace tenera, quella sera!


***


Adesso, ella era in faccende, poichè per il suo onomastico riceveva le amiche.

Mariuccia, arrampicata lassù, aveva finito di togliere i veli verdi, e la padrona, ritta in fondo a la scala, ossuta, giallognola ne l' ampia mantiglia nera, ripeteva trepidante ad ogni mossa di quella:

— Piano, Mariuccia, piano, per carità…

Avevano già tolto le federe ai vecchi mobili, scoprendo il broccato verde a fiorami gialli de le poltrone e dei divani; i cuscini gonfi, ricolmi, ricamati a colori ed a perline.

La ragazza era discesa da la scala.

— Signora, deve mettere i fiori? — e fece l'atto di prendere in mano uno dei vasi pieno di penne di pavone.

— No, no, niente fiori, da quando non c'è più lui!

— Devo spolverare, signora? — e la servetta guardava il tavolo pieno di ninnoli antichi e polverosi.

— Lascia fare… lascia fare… Romperesti qualcosa, tu!… E poi tutto deve restare come allora…

Nel pomeriggio, la prima ad arrivare fu la sora Assunta; le amiche si baciarono fra i convenevoli e gli auguri.

— Vi trovo molto bene!

— Eh! così, capirete, dopo la disgrazia…

Poi arrivò il fratello, giunto allora sul biroccino da la sua parrocchia di campagna.

— Eh, fratello mio, grazie, ma non ci sono più feste, per me!…

Poi, il nipote Ottavio, il signor Manfredi con la moglie e le figliuole (due piccole oche docili e graziose che ridevano ed arrossivano insieme come ad un segnale convenuto) un po' goffe, nei vestitini bianchi drappeggiati su le anche, secondo la moda.

E i conversari si svolgevano placidi nel salotto verde, dove era un sottile odore di chiuso, di cose vecchie e di stoffe stinte.

Il curato parlava col sig. Manfredi de la campagna:

— Va male, creda pure, se non piove…

Le ragazze tendevano l'orecchio, curiose, ai racconti de la sora Assunta.

Tutto, ella sapeva e ripeteva: gli amoretti sgattaiolanti ne le ombre dei vicoli, le punture velenose de le male lingue, le piccole perfidie abilmenté nascoste, le meschine invidie femminili pronte a colpire e a celarsi ne l'ombra; i dubbi, i sospetti temerari sussurrati prudentemente a fior di labbra, fra amiche, a l'uscita da le funzioni; la grassa maldicenza maschile al Caffè e ne le farmacie. Tutto sentiva, entrando in tutte le botteghe, correndo da una casa a l' altra con quel suo passo breve e nervoso, un po' incerto sui tacchi altissimi.

E la signora Manfredi, donna austera e virtuosa, s'agitava ad ogni momento su la sedia. Che diavolo, c'erano le figliuole, e quella benedetta lingua andava come il vento…

La sora Nena parlava de' bei tempi passati.

— Sì, hanno fatto il Papa, ma così, a la buona… Vi ricordate, eh, Manfredi, che entusiasmo per Pio IX! Quelle, erano feste!… E poi, era venuto di moda: tutto si portava a la Mastai…..

—… chi, la Sereni? poveretta! Ma doveva esser vecchia, perchè quando entrarono gli Italiani io ero bambina e lei, invece, era già ragazza fatta… Ti ricordi don Antonio quando ci rifugiammo in campagna, e al ritorno trovammo che avevano abbattuto tutti gli alberi di Porta Romana, per far le barricate?

— Signore, che tempi!…

— Il povero Toto dice che era…

Mariuccia passava adesso con un largo vassoio.

Sora Assunta un po' di Mandarino… Fa bene. E lei, signor Manfredi… Quà, figliuole, prendete le paste!… Fratello mio…

— Grazie, sorella, è venerdì… — e il curato allungò un'occhiata di rimpianto sul vassoio, ricolmo d'ogni ben di Dio.

— Ottavio, aiuta la Mariuccia…

Il ragazzo non chiedeva di meglio, e versando il rosolio un po' dentro, un po' fuori dai bicchieri, trovò il modo di sussurrare a la servetta:

— Quanto sei carina!…

La ragazza lo squadrò, seria, con gli occhioni furbi.

— Sapete? — strillò la vocetta de la sora Assunta così stridula da far pensare a lo scampanìo festivo d'una campanella petulante — Ier sera al Circolo hanno ballato…

— Di quaresima?!…

— Mezza quaresima… — azzardò indulgente l'Abbate.

— Eh! fratello, a tempo mio la quaresima era sempre quaresima!…

— E poi!… — strillò quella più forte — Che balli!… Dice che la Stefanelli ha ballato il Tango!…

— Gesù! che sfacciata!

—… uno scandalo!… La Meschini portò via le figlie!… Dice che c'è una figura……

La sora Assunta abbassò la voce: le ragazze allungarono il collo, e il curato sbagliò forse la risposta che doveva dare al sig. Merelli, perchè quello gli piantò in faccia due occhi maravigliati; ma l'altro che capì, si riprese subito con un vigoroso: — Lei dice benissimo!…

Però, la sora Assunta dovette averla detta grossa, perchè la Merelli, col viso in fiamme, s' alzò di scatto da la poltrona, dicendo grave: — Sarà meglio di levare l' incomodo……

E ne l'anticamera si rinnovarono gli auguri e i convenevoli: la sora Nena accompagnava fino a la porta i suoi visitatori.

— Ho dimenticato la borsetta! — disse la Merelli.

— Corro — rispose Ottavio.

— Vado io, signora!… — e Mariuccia scappò nel salotto.

Il ragazzo l'aveva preceduta; tutti e due avevano afferrato la borsa e tiravano, ridendo.

— Quanto sei carina!…

— Mi lasci passare che quella aspetta…

— Mariuccia, senti!…

— Se ne vada o gli tiro questo!… — e la servetta aveva afferrato, sui vasi di fiori, un enorme uovo di struzzo.

— Mariuccia….. — e Ottavio l'afferrò a la vita, scoccandole un bacio sul collo.

Ella dette un balzo e nel gesto di difesa l'uovo le sfuggì davvero di mano, andando in mille frantumi su l'ammattonato.

— Madonna santa, s'è rotto!….

Su la soglia, come un giudice austero, era comparsa la padrona.

Da la parete oscura del salotto verde, anche il viso rubicondo del povero Toto osservava i due giovani, e gli occhi socchiusi parevano avere quell'espressione di furba ghiottoneria, che la sora Nena gli aveva veduta una volta sola…..

Quel giorno in cui, tornando a casa a l'improvviso, colpita a le nari da l' odore de la cipolla e al cuore da l'inganno coniugale, aveva sorpreso sui baffi spioventi del colpevole, le ultime stille del saporoso intingolo proibito.

A Mariano Falcinelli Antoniacci

La piccola stazione di provincia era deserta, in quella notte invernale. Dintorno, ne la nebbia, le fiammelle dei fanali sembravano pupille luminose, vigilanti sinistramente fra quella marea biancastra di vapori.

Un solo viaggiatore aspettava rassegnato l' ora de la partenza, passeggiando, le mani affondate ne le tasche del soprabito, il bavero rialzato per difendersi da l'umidore che penetrava fino a le ossa.

Un fischio lontano, un rombo incalzante: il treno. Ne la stazione silenziosa un risveglio improvviso di vita, la voce stridula de la campanella di partenza, un agitarsi d'ombre e di lanterne fra la nebbia.

— Signor dottore, venga, c' è posto… — gridava l' impiegato ferroviario al viaggiatore che camminava in fretta su la ghiaia scricchiolante.

— Grazie! — disse il giovane, e salì, rapido, poi voltosi di nuovo a l' altro gli stese la mano: — Salutami la mamma, dille che stia tranquilla, scriverò presto…

— Non dubiti, buon viaggio, dottore! — e l' impiegato chiuse con forza lo sportello.

Lento, poi con rapidità crescente, il treno riprese ansimando la corsa ed il silenzio di quella notte invernale avvolse di nuovo la stazione solitaria.

I due compagni di viaggio del dottor Franci, disturbati nel sonno dal suo arrivo, s'addormentarono di nuovo profondamente. Egli guardò l' orologio, trasse di tasca alcuni giornali e li posò, distratto, vicino a sè; poi arrovesciata la testa a l'indietro chiuse gli occhi come per dormire, o concentrarsi meglio ne' suoi pensieri.

La luce mite de la lampada carezzava le linee forti del volto olivastro. Egli poteva avere trent'anni: bruno, snello, vigoroso. Abituato fin da bambino a la lotta per l' esistenza, aveva saputo conquistare palmo a palmo il suo posto ne la vita, passando attraverso ad ogni amarezza, lasciando ne la lotta ineguale brandelli d'anima.

Ora, ne la penombra, egli evocava i ricordi di quei giorni trascorsi ne la sua piccola città così tranquilla, presso a la madre. Vi tornava ogni volta che il lavoro glie lo consentiva e s' indugiava in quella calma austera, semplice, buono come un fanciullo che torni di lontano ne la vecchia casa, per lasciarsi cullare ancora da le braccia materne.

Oh la sua mamma, la sua santa mamma!… Portarla con sè, appena lo potesse e non sentirsi più così solo ne la grande città! Ritemprarsi l' anima in lei e dopo la lotta d'ogni giorno, d'ogni ora, rifugiarsi stanco nel quieto asilo de le sue braccia!

E nel torpore che gli invadeva le membra in quell'oscillamento monotono, i chiari occhi di lui, fissando distratti la lampada, inseguivano il loro sogno di lavoro e di pace, lontano.

***


— Buon giorno, signora: eccomi qua!… — diceva il dottor Paolo a la padrona di casa, affacciandosi sorridente a l' uscio di cucina.

— Ben tornato!… Dicevo bene, io: ma il nostro dottore torna o non torna? — e la signora, sospendendo l' esercizio de le sue funzioni domestiche, gli tendeva cordialmente la mano. — Grandi novità, dottore mio! abbiamo un' altra inquilina, sa?

Franci s'accigliò leggermente, seccato al pensiero di trovarsi con persone sconosciute.

— Capirà… — continuava la signora, aiutandolo ad infilarsi il soprabito — Ho dovuto affittare un'altra camera; le pigioni crescono sempre!… Una brava signora… Se sentisse come canta bene!…

— Hum!… — borbottava fra sè il dottore, scendendo le scale — Non ci mancava che questa!… Una signora, poi!… Stavo così bene solo!

Quel giorno istesso egli conobbe la nuova inquilina.

Freddo e riservato per quel fondo di ritrosìa che formava la base del suo carattere, si lasciò vincere senza avvedersene da lo spirito arguto e fine di lei.

Ella era giovanissima: vestiva un semplice abito nero che s'adattava mirabilmente a la grazia flessuosa del corpo. Nel viso pallido di bionda, un viso da malata, risaltavano le pupille profonde. E mentre ella parlava, Franci s'abbandonava inerte a la carezza dolcissima di quella voce che gli dava al cervello sensazioni deliziose.

In quel pomeriggio, per la prima volta, gli parvero lunghe le ore di servizio a l'ospedale e i suoi malati lo trovarono nervoso e distratto.

Egli non seppe o non volle analizzare da principio il sentimento che l' invadeva, così nuovo per la sua forte ed arida giovinezza.

Chi era Elena Folgani? Egli conosceva de la sua vita solo quel poco ch' ella stessa gli aveva narrato.

Non aveva parenti: da sei anni aveva intrapreso la carriera artistica. Ora, dopo una grave malattia, i medici le avevano proibito per qualche tempo di cantare in teatro.

Franci era scomparso da la comitiva degli amici e passava le lunghe sere d' inverno nel piccolo salotto, cui il gusto volgare de l'affittacamere aveva dato l' impronta banale d'una stanza d'albergo, e che s'animava ora per lui d'una grazia nuova, d'un sapore d'intimità deliziosa.


***


— Oh partire!… — diceva a sè stesso, smaniando, il dottore — Guarire di quella febbre!…

Egli vedeva ora chiaramente in sè stesso e sembrava ridestarsi in lui la forte volontà sopita: ma la passione per la Folgani aveva messo salde radici ne l' anima e domava la volontà ribelle.

Anche la donna sembrava piegarsi a l' impeto di quell'amore violento.

Una sera, in un abbandono improvviso, narrò l' istoria de la sua vita. Bambina ancora aveva incominciato a cantare nei caffe-concerto; poi, non potendo vivere di quella triste esistenza, s'era messa a studiare ed era passata a le scene del teatro.

Parlando, ella tormentava distratta con le dita sottili, la tastiera un po' ingiallita del vecchio pianoforte. Di scatto, lasciò cadere in grembo le mani pallide.

— E così, la vita mi strapperà anche a questo sogno breve… Che giova, mio povero amico, ribellarsi al destino?

Egli la guardò e gli morse l' anima, ancora una volta, il desiderio folle di chiudere quella piccola rondine sperduta in un nido tepido e raccolto.

— Non posso vivere così… Sono guarita, ormai, tornerò al teatro…

Allora Franci parlò, in un trasporto d' amore: disse tutto ciò che da tanti e tanti giorni formava il suo pensiero unico e santo:

— No, Elena, non mi lasciate….. Siete la vita, siete tutto, per me… Vi amo tanto, Elena, mi piegherò a qualunque lavoro per voi, mia moglie, e per mia madre!…

Ella s' era coperta il viso con le mani e piangeva d' un pianto silenzioso e accorato.

— Non posso… non voglio…

Franci le afferrò i polsi:

— Perchè dite, perchè? Non m'amate, dunque?

— Quanto male mi fate!… — ella mormorò piano, curvando la testa, chiusa in quel suo dolore muto che sembrò avvolgerla tutta come la lunga veste nera.

S' allontanò un poco, appoggiandosi ai mobili, più esile, più stanca; ma quando fu presso a l' uscio, vacillò, piegandosi sui ginocchi…

Egli d' un balzo le fu vicino, l' avvinse a sè perdutamente…

— T' amo!… — ella gemette estenuata e abbandonò la testa bionda sul petto di lui.


***


Quando il dottor Paolo uscì, la mattina seguente, non vide la Folgani.

— Sta male — disse la padrona — tutta la notte l'ho sentita smaniare e lamentarsi…. Ma ora è tranquilla e riposa.

Franci uscì a malincuore, si trascinò svogliato per le corsie de l'ospedale, affrettò l'ora di tornarsene a casa, stretto al cuore da un senso d'inquietudine.

A l'angolo de la via guardò la nota finestra: Elena non era là ad aspettarlo.

— Certo, deve sentirsi male, ancora… — pensò il dottore e affrettò il passo.

Ecco, v'era qualcuno dietro ai vetri: la padrona di casa… Ma egli non capiva quei cenni, da la via…

Infilò di corsa la porta, salì le scale tutte d' un fiato fino al pianerottolo ove la vecchia signora l'aspettava già. Ella tremava e non riusciva a parlare.

— É partita… — balbettò — Che scena!.. Povera creatura!

— No!… — urlò Franci, respingendo la signora — non è vero…

Entrò in casa, piombò come un pazzo ne la camera de la Folgani… L' uscio era aperto, il letto disfatto, tutto in disordine. Uscì di nuovo nel corridoio, s' imbattè ne la signora che l' aveva seguito, l' interrogò con gli occhi dilatati… Un sudore freddo gl' incollava i capelli a le tempie.

— Ma che cosa è accaduto, dottore?… È voluta partire ad ogni costo!… L' avesse veduta… M' ha dato questa…

Franci afferrò la lettera, si chiuse ne la piccola stanza vuota che serbava il profumo di lei e lesse:

« Paolo, vi amo, eppure fuggo per non vedervi più… Non posso essere vostra moglie… Non mi seguite, Paolo… non insistete… Sarebbe inutile. Io so che devo andarmene, per sempre… »

La lettera non era finita.


***


Le ultime luci del tramonto inondavano d' un pulviscolo d' oro lo studio di Paolo Franci.

Il dottore era assente: egli tornava a sera, stanco dal lavoro e si rifugiava ne la quiete di quella stanza, presso la vecchia mamma.

Avevano preso in affitto, ne la grande città, quel piccolo appartamento in una via remota, vicino a l'ospedale ov' egli passava le lunghe ore di servizio; vi avevano portato da la provincia alcune di quelle povere cose a le quali eran legati tanti ricordi e pochi mobili troppo grandi, troppo pesanti, che abituati a la spaziosità de le volte ampie, ne la vecchia dimora, sembravano trovarsi a disagio in quelle stanzette basse.

Ora la piccola casa appariva modesta e tranquilla, sperduta in quel mare fremente di vita come un'isola di pace, come un angolo delizioso de la loro città di sogno, che dà a' suoi figli lontani l'acuta nostalgia del silenzio.

La madre aspettava, lavorando, vicino a la finestra aperta ed un raggio di sole le scherzava tra i capelli bianchi. Di quando in quando levava la testa, guardando giù ne la via o nel cielo purissimo, ove le prime rondini tessevano una rete trasparente di voli intorno ad un campanile. Forse, gli occhi stanchi, sognavano un altro languore vespertino non così greve di porpora e d'oro, ma più dolce, più pallido… L' ultima luce dei tramonti umbri, dileguante ne la pace glauca de gli uliveti.

Da cinque anni ella viveva insieme a suo figlio. Era accorsa presso a lui allorchè, dopo la partenza de la Folgani, una violenta febbre cerebrale lo aveva ridotto in fin di vita: aveva vegliato al suo capezzale notte e giorno, morente d'angoscia… — Non mi lasciar più, mai più….. — egli aveva detto, tornando in sè dopo la crisi tremenda; e d' allora vivevano insieme.

— Mamma… — chiamò il dottore da l'anticamera.

— Sono qui — ella disse, riscuotendosi a la voce di lui.

Franci entrò ne lo studio. Egli appariva cambiato, in quegli anni di vita. Sembrava che il tempo con dita inesorabili si fosse indugiato su le tempie di lui, lasciandovi traccie d'argento…

S' avvicinò a la scrivania ed incominciò ad osservare la corrispondenza giornaliera, distratto e noncurante, mentre continuava a parlare con la madre.

Ma d' un tratto la voce gli morì in gola per l'emozione violenta….. Perchè la Folgani, dopo cinque anni, veniva di nuovo ad impossessarsi di lui?…

Sono tanto ammalata… — ella scriveva — Venite, Paolo… Devo parlarvi, e temo di non averne il tempo… — seguiva un indirizzo.

Franci si sentì morire ne l' impeto de l'antica passione mai spenta, mai domata…

— Paolo!… — chiamò una voce triste e la madre che l'aveva osservato in silenzio, gli posò una mano su la spalla:

— Mamma!… — singhiozzò il dottore, scuotendosi a la timida carezza — oh mamma…

Quella sera istessa egli partì.

Muoio — aveva scritto la Folgani.

— No, io saprò salvarti… — gridava il dottore a se stesso, ne l' illusione che l'amore e la scienza avrebbero operato il miracolo.

Albeggiava, quand'egli giunse disfatto da l'agonia di quella notte. A l' indirizzo indicato trovò una vecchia casa, un'andito buio, una scala viscida e tetra.

— La Folgani?… Non è più qui… L' hanno portata a l'Ospedale.

Appoggiandosi al muro egli discese lentamente la scala dove era passato il corpo consunto di Elena e si trascinò per via, seguendo il cammino di lei verso l'ultima stazione del loro calvario.


***


— Numero quindici?… È quì, signore.

Oh la tristezza desolata di quel nome che aveva racchiuso per lui tutto un poema d' amore, nudo, a capo d' un povero letto, come il marchio de la miseria!

Egli tremò tutto in un singhiozzo soffocato…

Una suora vegliava e tese la mano ad implorare silenzio:

— Riposa, adesso…

Il lieve sussurro giunse a l'orecchio de la malata che si volse lentamente, guardando… Forse, ella credette che la cara imagine non fosse che un'allucinazione e richiuse gli occhi per continuare il suo sogno…

Egli si curvò, sfiorandole l'orecchio con le labbra:

— Elena!…

No, non sognava, aveva sentito la sua voce… Riuscì a levare le braccia, s'aggrappò a lui e stette a guardarlo muta, l'anima raccolta ne le pupille in un bagliore intenso e febbrile.

— Non v'agitate, così… — raccomandava la piccola suora, parlando sommessa come ad una bimba.

Franci volle toglierla subito a la triste corsia e la fece trasportare in una stanza separata. La deposero nel nuovo lettuccio, sfinita, dopo la crisi violenta.

Annottava: nel corridoio un odore greve di farmachi e di quando in quando un fruscìo, un passo lieve e l' infermiera, vigile, s'affacciava a l'uscio socchiuso.

Nel silenzio non s' udiva che il ticchettio de l'orologio come quello di un cuore solitario, ne la notte.

Franci ascoltava da quella voce morente una pagina di vita che aveva sempre ignorato.


***


Quando la donna aveva respinto l' amore di lui che le offriva il suo nome, le era mancata l'anima di dire che, ricordo vivente del suo triste passato, v'era al mondo una bimba… Una dolce creatura affidata ad una nutrice.

Elena sentiva che anche se il dottore vinto da la pietà, avesse aperto le braccia a la piccina, questa sarebbe stata sempre un' intrusa e non avrebbe potuto avere la sua parte d'affetto, nè vivere un giorno l' istessa vita dei figli di lui.

Afferrando egoisticamente la felicità, ella sacrificava la bimba…

No: vivere, lavorare per lei fino a che un giorno le fosse dato di tenersela vicina, questo essa volte, soffocando l'unico, grande amore de la sua vita, ne la maternità.

Ora l'ultima crisi del male l'aveva sorpresa e la piccina era così lontana!…

Ansando, ella disse il pensiero che la tormentava:

— Io so che cosa sia esser poveri bimbi, senza nessuno… e lei resta sola… com'ero io…

Giunse le mani e sul viso bianco passò l'angoscia di un' ultima preghiera:

— Proteggetela voi, Paolo… Oh se aveste il tempo di condurmela qui!

Franci si strinse le mani di lei sul cuore e disse calmo e solenne, con la forza d'un giuramento:

— Elena… io sarò il padre de la vostra bimba… Riposate tranquilla!…


***


Quando il dottore tornò ne la quiete de la sua casa, curvo, invecchiato ancora, in quei pochi giorni, non era più solo: aveva con sè una bambina esile, vestita a lutto…

Ne lo studio inondato di luce si trovarono a fronte la madre di lui e la bimba timida e smarrita.

La vecchia signora dovette leggere nei limpidi occhi del figlio una preghiera… Stese le braccia, avvinse a sè la bambina, così che i ricci biondi ed i capelli bianchi si confusero insieme.

Quando levò la testa due lacrime scendevano, lente, su quel viso di donna stanca:

— Senti, Paolo… — mormorò, piano — Io sono vecchia, ma fino a che Iddio mi darà vita… saremo in due, a volerle bene!



A Clarice Tartufari

Su la piazza del Duomo gremita d' una folla varia e irrequieta, si spandeva nel limpido mattino di primavera la voce de la campana trecentesca, avente a lato la statua di bronzo che il popolo chiamò Maurizio, poichè tale forse fu il nome de l' artefice che la fuse. Voltandosi sul perno sopra il quale è bilicata, la statua fa vibrare con il martello che impugna il richiamo bronzeo de la squilla, battendo le ore. Su la fascia che le cinge la vita, sta inciso ancora il motto antico:

« Da te a me campana fuoro pati:
« Tu per gridar et io per fare i fati ».

E su la campana era la risposta, illeggibile ormai, poichè l' opera sottile e paziente del tempo ha distaccato le lettere non fuse ma incastonate entro il listello che la circonda.

Ne la piazza, le contadine mettevano qua e là rudi pennellate di colori ardenti, con le vesti rigonfie, i larghi fazzoletti a fiori, sostituiti a gli antichi manti rossi dei taccolini. I loro bimbi vestiti a festa, dai visetti bruni e lucidi di sudore, sballottati da la folla, tenendosi aggrappati con una manina a le vesti materne, agitavano con l' altra i campani di coccio che le mamme avevano comperato per loro ne le baracche improvvisate, o soffiavano a perdifiato ne' fischietti variopinti.

I venditori ambulanti attiravano la folla con alte grida: alcuni s' aggiravano con mazzi di palloncini rossi, verso i quali si tendevano, avide, mille piccole mani.

Le sartine, vestite in gala, prive del lungo scialle nero che le rende tanto simili a le veneziane, piccole, in genere, carine, le capigliature abbondanti artisticamente pettinate (pare sia questa un' arte gentile così ben nota a le donne orvietane) pispigliavano, gaie, come nidiate di passeri. E su quel mare di teste, lungo le gradinate del tempio, un ondeggiare d' ombrellini d' ogni colore.

Scintillavano al sole gli ottoni del concerto in una ridda di note allegre, ne l' attesa de la Palombella, primitiva rappresentazione di una scena biblica: la discesa de lo Spirito Santo sugli Apostoli, adunati nel cenacolo.

I volti protesi spiavano se in mezzo a la corona di nuvole posta su l' alta impalcatura in fondo a la via di San Francesco, spuntasse la colombella bianca con le ali aperte, fra un nimbo di raggi d' oro.

Fra poco lo Spirito Santo sarebbe disceso lungo il filo da l' impalcatura fin dentro il cenacolo dipinto, posto su la porta centrale del tempio, fra un crepitio assordante di razzi e le invocazioni de la folla. I contadini da l' esito de la cerimonia avrebbero tratto l' oroscopo per il raccolto: se la colomba si brucia le ali, la campagna va male.

Un tempo veniva offerto a la nobile sposa più giovane quel piccolo animale stordito da la nuova e strana missione, spaventato da tutto quello scoppiettio e molte volte bruciacchiato e sanguinante; lo Spirito Santo entrava così ne la famiglia, apportatore di pace e di felicità.


***


— Maurizio ha suonato le undici — disse la Mimì — Fra poco andrà la Palombella

— Maurizio? Sapete che ho fatto buona conoscenza con questo vostro concittadino? — rispose Lanfranchi, ridendo.

— Povero, vecchio fantoccio!…. — sospirò la Mimì — Suonare e sempre suonare!… Non credete, Lanfranchi, che un giorno debba stancarsi del suo brutto mestiere?

— Signorina… — rise il giovane — Questo caso non l' abbiamo contemplato ancora!…

— Elviruccia, stai ne le nuvole? — e la Mimì ficcò il visetto birichino sotto il cappello de l' amica.

— Signorina Elvira — disse Lanfranchi, abbandonando il tono frivolo che adoperava sempre quando si rivolgeva a l' altra — soffrite?

— Non so: la folla mi toglie il respiro…

— Tiriamoci in disparte: da quì si vede benissimo — e s' allontanarono un poco verso il fondo de la piazza erbosa.

Lanfranchi apriva il varco coi gomiti fra i contadini, a l' Elvira: la Mimì era rimasta un po' indietro bloccata da la folla, ma seguiva con gli occhi i due giovani vicini e nel visetto capriccioso passavano lampi cattivi.

— Ecco, ecco!… — gridò l' Elvira.

Infatti la folla ondeggiava, ma non si vedeva nulla ancora. La Mimì, più piccola, s'appoggiò a l'amica per vedere meglio e Lanfranchi osservò il contrasto fra le due ragazze.

L' una magra, tutta nervi, la bocca troppo ampia e le labbra sottili, il viso un po' macchiato di lentiggini. Aveva di bello le ciglia lunghissime che s' abbassavano troppo spesso su le pupille luminose, come a celarne l' intimo pensiero e gli occhi azzurri un po' attoniti; due occhi di bimba ignara, maravigliata di tutto.

L' altra, l' Elvira, bruna, bellissima di quella bellezza serena de le donne umbre su cui s' effonde un velo dolcissimo di malinconia, tenue come la luce di certi lenti pomeriggi, sul pallore degli oliveti. Una bellezza che aveva un sapore nuovo per Lanfranchi, abituato a ben altro genere di donne e de la quale era rimasto preso appena giunto in permesso ne la piccola città dove il padre era sottoprefetto.

Uno scoppio improvviso li fece sobbalzare: ne la folla, fra l' ondeggiare degli ombrellini, i bimbi vennero sollevati a braccia. Sul filo teso la colombella bianca, fra i raggi d' oro, scendeva lentamente, con l' ali aperte, fra un crepitio continuo di razzi e quando fu giunta sopra a la Vergine ed agli Apostoli il Cenacolo s' illuminò come per incanto, arse tutto in mille fiammelle d' ogni colore.

I contadini s' accalcavano fin sotto la pioggia ardente dei bengala.

— È andata bene?

— S' è bruciata l' ali…..

— Guarda le penne!… — e per iscongiurare con la preghiera il triste presagio, entravano a larghe ondate ne la Cattedrale, vibrante di luci e di suoni.

— Presto, Lanfranchi… — gridava la Mimì, correndo verso una de le porte laterali del tempio: ma quello s' era avvicinato a l' Elvira e le parlava sommesso.

Ferma, tenendo aperta la porticina con ambo le mani, ella non udiva le parole del giovane, ma vedeva il viso de l'amica raggiante di felicità. I piccoli denti felini morsero a sangue le labbra sottili e gli occhi azzurri balenarono in un lampo d' odio… Poi, la voce di lei suonò gaia e squillante:

— Ohé…. svelti!…

La raggiunsero di corsa. Il viso bianco d' Elvira risaltava come un giglio ne l' ombra del cappello. Assorta in un sogno dolcissimo, ella guardava l' altare luminoso che al di sopra de la folla genuflessa, s' ergeva su lo sfondo del finestrone trecentesco a vetri policromi (l' opera maravigliosa di frate Francesco da Orvieto) e più in basso si profilava fra le ombre del coro, nel semicerchio degli scanni, su la leggiera fioritura d'intarsi e d'intagli.

— Lanfranchi — disse la Mimì — avete osservato i bassorilievi degli altari cinquecenteschi?

— Non ancora: permettete? — e il giovane s'allontanò un poco da le ragazze, avanzando cautamente tra la folla.

— Elvira… T' ha parlato?… — e la voce sommessa tremava un poco.

— M'ha domandato se gli voglio bene…

— E lui?…

— Dice che me ne ha voluto sempre… da quando m' ha conosciuta…..

L' altra ebbe uno strano sorriso su quella bocca che sembrava una larga ferita sanguinante, ma riprese subito l' attitudine di preghiera, poichè la gente dintorno teneva d'occhio le due fanciulle che bisbigliavano.

— Mi dirà il vero?… Ne morrei se non fosse!…

— Tanto, ti piace?…

Elvira abbassò la testa senza rispondere.

— Sei tanto bella, tu! — sospirò l' amica, accarezzandola con quegli occhi azzurri di bambina.

— Pare che tu sia brutta!…

— Oh per me, cara, è un' altra cosa!… Ognuno di noi ha la sua missione, al mondo: tu sei fatta per l'amore, ed io… Io per suonare la campana… come quel povero fantoccio di Maurizio!… — e premendosi il fazzoletto su le labbra, soffocò un riso breve e nervoso.

Lanfranchi tornava verso le amiche.

— Avete tesori d' arte, ne la vostra città! Io benedico il giorno in cui mio padre fu destinato qui, e vorrei non partire mai più. Vivere un sogno, in Orvieto, fino a la morte!….. — e accarezzava con lo sguardo umido di passione il viso de l' Elvira, che sbiancava più ancora sotto quella carezza.

— E gli affreschi del Signorelli, li avete veduti? — chiese bruscamente l'altra, come per rompere un incantesimo.

— Andiamo insieme?

— Aspettate… — e s' inginocchiò devotamente fuori de la cappella di San Brizio, ove freme, raccolta ne la potenza drammatica de la più profonda verità, l' anima vigorosa e rude del precursore di Michelangelo.

La messa finiva, la folla si riversava verso le porte spalancate del tempio, dilagando in un torrente bruno ne la piazza splendida di sole e la piccola figura, il viso nascosto ne le mani, era sempre inginocchiata dietro a quei due che bisbigliavano, immemori di tutto ciò che non fosse il loro amore; fra le dita sottili, guizzava la fiamma cupida di due occhi che nessuno le conosceva.

Lentamente, ella tolse dal viso la maschera de le mani e apparve calma, serena, come un'anima mistica che si fosse a lungo ritemprata ne la preghiera.

Si segnò molto devotamente (v'era sempre intorno qualche occhio pronto a spiare…) poi disse, scherzosa:

— Andiamo pure, se volete, ad ammirare il Signorelli!…


***


— Via la mano dal viso, Lanfranchi…

— Ci siamo?

— Un momento… — e Landucci, curvo su la macchina fotografica, osservava al mirino.

— È fatto!

— Finalmente!…

— Landucci, ci sono anch'io? — domandava un giovanotto grasso e biondo da l'alto di una scala a pioli, addossata ad un rudero de l'antica Abbazia.

— Tutti, ci siete!

— Ne facciamo un'altra, Landucci?

Egli era il fotografo de la comitiva. Non aveva che una passione: la sua Kodak, da la quale era indivisibile. E non gli davano pace:

— Qui, Landucci, è così bello!… — e Lanfranchi osservava il rudero cadente ov'era forse il refettorio de' frati Benedettini, i forti uomini d' armi e di fede che ospitarono un tempo, ne la quiete austera de l'Abbazia, Matilde di Canossa.

— Più tardi, signori…

E la comitiva si sparpagliò, portando un' ondata garrula di vita fra le rovine severe.

Ne l'ombra si profilavano le colonnette snelle de le bifore. Cresceva l'erba sotto il portico deserto, sbucavano a ciuffi le viole a ciocche da ogni fenditura e l'edera distendeva un manto verde sui ruderi, penzolando come una chioma scomposta nel vuoto triste di ogni finestra.

L'acqua mormorava, sommessa, l'eterna sua leggenda, ne la bellissima tazza di granito orientale.

— Lanfranchi… Siete in colloquio con l' anima de la contessa Matilde? — e la Mimì s'avvicinava, ridendo, al giovane che pareva contemplare l'antica torre campanaria. Una ruga profonda come un solco si disegnava fra le sopracciglia di lui, aggrottate.

— Vedete quegli anelli lassù? Ne le sere di festa i monaci vi ponevano de le fiaccole. Come doveva esser bella, la torre, eretta verso il cielo con quella corona di fiamme!… Lanfranchi, non mi sentite?…

Il giovane fissava adesso l' erba del prato, senza vederla, come prima, forse, aveva guardato la torre.

— Dite, Mimì…

Ella si volse ed ebbe tale un riso ne gli occhi, che l'altro la guardò un istante, sorpreso.

— Non ridete: vorrei… — esitava: pareva che le parole gli facessero groppo in gola.

— Ma che volete, Lanfranchi? — e, torcendo un ramoscello d'edera, ella teneva le ciglia abbassate su quelle pupille che lampeggiavano troppo.

—….. domandarvi una cosa: permettete?

— Secondo!… — disse l'altra, ridendo di quel suo riso breve che le usciva da la gola a scatti, come in piccoli singhiozzi.

— Da quanto tempo conoscete la signorina Elvira?

— Mah!… credo di averle voluto bene da quando sono nata.

— E dite… — esitò ancora un istante — è vero che ha avuto un amore… un amore… — Tacque di nuovo, cercando la parola meno cruda per esprimere il suo pensiero e fissò la ragazza che parve turbarsi. — Rispondetemi, per carità, se sapeste quello che soffro!…

— Lasciatemi andare, Lanfranchi!…

Il giovane le afferrò invece il lembo di una manica:

— No, Mimì… Siate una sorella buona, per me… Non potrei domandare di lei ad estranei!…

Ella abbassava la testa sempre più.

— Vi pare che se anche fosse vero, verrei a dirvelo? … Lasciatemi, Lanfranchi…

L' ampia manica svolazzante sfuggì a le mani del giovane: egli le afferrò allora il braccio nudo:

— Mimì, ditemi la verità! Ieri m' hanno scritto una lettera anonima… Oh! una cosa orribile… Se potessi scoprire…

— Non sarà facile! — ella disse storditamente.

L'altro, ne l'angoscia, non rilevò la frase.

— È vero?…. È vero?…. — e le stringeva con ambo le mani il braccio, come per strapparle con la forza il segreto: di colpo ella dette un grido e il giovane la lasciò bruscamente.

Ne la penombra de l'arco era apparsa l' Elvira: bianca, immota, senza parola, ella sembrava una statua dolorosa addossata al muro.

L' altras d' un balzo le fu vicina, cingendole il collo con le braccia: — Elviruccia….. — ma essa restava inerte, gli occhi chiusi, la testa arrovesciata sul manto verde del rudero: solo, sembravano vivere in lei le dita convulse, che brancicavano due tralci d'edera.

Lanfranchi s'era allontanato dal lato opposto.

— Elvira, senti… — balbettava la Mimì sospesa al collo di lei. Lentamente, essa aprì gli occhi.

— Che ti diceva? — e le sembrò che un'altra avesse parlato: quella voce rauca e sorda non era la sua.

— Elviruccia!…

— Che ti diceva?… — ripetè aspra, imperiosa, strappandosi quelle braccia dal collo e respingendo bruscamente l'altra, che teneva gli occhi bassi come una dolce bambina sorpresa in un suo fallo puerile.

— No… Non voglio darti dispiacere, io!…

— Che m'importa? — ella rispose, fasciata nel suo orgoglio come in una corazza d'acciaio — Credi ch' io non mi sia accorta ch'egli mi sfugge? Ha cambiato di gusti, a quanto pare…

— No, no… — balbettava l' altra col viso fra le mani, ne l' attitudine d' una colpevole che confessa.

— T' ha detto che ti vuol bene, non è vero? Come a me!…

Silenzio…..

— A questo è arrivato, dunque? Vigliacco!…

— Si, vigliacco!… — singhiozzò la Mimì — Due amiche come noi credere che… Non piangere, Elviruccia!…

— Non vedi come sono calma?… — e il viso bellissimo si contraeva ne lo sforzo per trattenere le lacrime.

Giungevano di lontano, le risa de la comitiva sparpagliata su l'erba. Una voce di donna chiamò, forte.

— La mamma…

Elvira si passò il fazzoletto su la fronte, madida d' un sudore freddo.

— Aspetta…

Strinse le labbra, inghiottì con forza un groppo di pianto, poi, levando la bella testa bruna in atto di sfida, disse risoluta:

— Andiamo.


***


— L'amica le avrà certo raccontato ch' io so… — pensava Lanfranchi ed un' ondata d'amarezza e di disgusto gli saliva dal cuore… Ella era così gaia, quella sera!…

Tornarono lentamente verso la città, ove già brillavano sui bastioni le piccole stelle de le lampade elettriche.

— Oh dolcezza del ritorno ne la sera tepida, tanto inutilmente sognata!… — pensava l' Elvira — Oh essere sola, ne la campagna deserta e buttarsi a terra e urlare, per non morire di spasimo!…

Ma l' orgoglio le impietrava le lacrime sul cuore e per non sentire la voce de l'anima che le singhiozzava a fior di labbra, parlava, nervosa, febbrile e motti e risa s'incrociavano senza tregua.

Lanfranchi meditava, rodendosi, le parole che quella bambina de la Mimì s'era lasciata sfuggire: — Vi pare che se anche fosse vero…

Non v' era più dubbio: l' anonimo non aveva mentito.

E una rabbia folle lo prese contro sè stesso, per essersi lasciato giuocare da quella provinciale che aveva nel viso la casta dolcezza d' una madonna e pensò che tutta quella gente, ch'egli non conosceva, doveva certo aver riso di lui…

In un lampo gli attraversò la mente il ricordo d'una parola oscena, colta a volo da una piccola bottega da calzolaio: rivide l'occhiata insolente e cupida che aveva avvolto la ragazza, il viso scaltro di quell'adolescente, curvo sul deschetto come se nulla fosse, appena egli l'aveva guardato. Tutto ricordava: un bisbigliare sommesso in un crocchio di ragazze, al loro passaggio; un' occhiata canzonatrice, una risatina breve soffocata da le cocche d' uno scialle nero…



Ora, la funicolare, mostro enorme e pesante, arrancava sul fianco de la roccia e parve a Lanfranchi che ne l'ondulamento del carrozzone quasi buio, con quei due poveri lumicini rossastri, le risa e il motteggiare dei giovani avesse qualcosa di falso, più triste del silenzio.

Via Soliana, deserta, li accolse ne la quiete austera, fra le mura dei conventi, le porticine misteriose sbarrate e gli orti addormentati ne la limpida serenità.

Come un volo improvviso di rondini, le voci squillanti salirono e si dileguarono ne la pace solenne, fra il pesante palazzo de lo Scalza e le belle trifore trecentesche del palazzo dei Papi, così vicini che sembrano protendersi l' uno verso le altre in misterioso colloquio.

Su la piazza del Duomo la comitiva si fermò: ne l' ombra, la Cattedrale levava al cielo il grido magnifico de le guglie snelle. Su la scalata del tempio erano sedute molte donne: un'antica consuetudine fa di quegli scalini (che il popolo chiama le schiacie) un modesto ritrovo serale.

Sembra che gli orvietani, artisti inconsapevoli, vigilino gelosi, ne la notte, il tesoro fulgido del loro tempio, nato ne la fantasia sovrana de l'artefice senese e fiorito superbamente dal vivo sangue del popolo.

E la Cattedrale avvolge tutta quella piccola vita ne la carezza fresca de l' ombra, che s' allunga più densa verso il Vescovado.

Alcuni visi sbucarono curiosi da gli scialli, osservando quella comitiva chiassosa di signori e parve a Lanfranchi che, ancora una volta, gli alitassero in faccia un'ondata fredda di scherno.

— Andiamo a casa….

— Che ora è?

— Bisogna guardare la Torre, chè Maurizio s'è guastato…..

Tutti si volsero ad uno scoppio di risa folli, aspre; la Mimì, premendosi il fazzoletto su le labbra, singhiozzava nel suo riso convulso.

— Lanfranchi, ve lo dicevo io… Il povero fantoccio s' è annoiato di suonare…

— Beata te, che hai voglia!… — disse contrariata l' Elvira.

Landucci arrivava ultimo, stanco morto, asciugandosi il sudore col fazzoletto, la fida Kodak a tracolla.

— Signori…. — e Lanfranchi s' inchinò freddo, corretto — Permettetemi di salutarvi: domani parto.

— Come mai?…

— Un telegramma mi richiama in ufficio!…

L'ombra de la piazza velò, pietosa, il viso bianco de l'Elvira; Mimì, abbassando prudentemente le lunghe cortine de le ciglia su le pupille splendide, stese la mano, in un infantile: — Buon viaggio!…

Sotto lo sguardo vigile de' buoni amici, Lanfranchi sfiorò appena l' altra mano di donna e fu così forte il sussulto de le dita nel breve contatto, ch'egli credette d'aver toccato il cuore de la ragazza: piccolo cuore, freddo come quello d'una morta.


***


L' indomani, strappata quella povera larva d' orgoglio, dove l'anima soffocava come il viso d'un paziente



sotto la maschera del cloroformio, l'Elvira piangeva fra le braccia de l'amica fedele, accorsa a consolarla.

— Fatti coraggio, cara!… Questi bellimbusti vengono fra noi per divertirsi…

Lanfranchi, solo, nel suo ufficio, fra un monte di carte che non leggeva, le tempie strette fra le mani, pensava:

— Chi l'avrebbe detto!… Pareva una madonna… E poi andate in provincia… Però, la bontà esiste ancora … — e ripensando agli occhioni ingenui de l'altra, esclamò forte, con una punta di rimpianto: — Oh Mimì!… Cara, dolce bambina!…

A Giovanni Diotallevi

Quella sera, il vento, aveva note dolorose e profonde di voce umana. Mugolava forte a le imposte con un grido lungo, schiaffeggiava i vetri con quel nevischio fitto, gelato; penetrava ne la stanza da le vecchie imposte, da le connessure de le porte e sembrava recare suoni lontanissimi e lugubri di campane, fremiti sonori d' ignote arpe eolie, e fischiava, animando paurosamente d' una vita sconosciuta tutte le cose dintorno.

Le portiere si sollevavano, spinte da una mano invisibile; la porta chiusa tremava, come se alcuno dal di fuori la scuotesse forte e a momenti dava l' illusione che una mano misteriosa ne girasse la maniglia.

La luce fioca de le alte lucerne d' argento moriva a la vampa rossastra che si spandeva ne la stanza dal grande camino, animando d' un riflesso ardente i quadri appesi a le pareti. Figure un po' velate d'altri tempi, pallidi visi, ne la luce ondeggiante de la fiamma, parevano distaccarsi da le tele, bevendo l' alito d' una vita nuova.

Un tizzone ardente cadde, crepitante, oltre gli alari, sollevando fumo e scintille.

A Giovanni Diotallevi



Quella sera, il vento, aveva note dolorose e profonde di voce umana. Mugolava forte a le imposte con un grido lungo, schiaffeggiava i vetri con quel nevischio fitto, gelato; penetrava ne la stanza da le vecchie imposte, da le connessure de le porte e sembrava recare suoni lontanissimi e lugubri di campane, fremiti sonori d' ignote arpe eolie, e fischiava, animando paurosamente d' una vita sconosciuta tutte le cose dintorno.

Le portiere si sollevavano, spinte da una mano invisibile; la porta chiusa tremava, come se alcuno dal di fuori la scuotesse forte e a momenti dava l' illusione che una mano misteriosa ne girasse la maniglia.

La luce fioca de le alte lucerne d' argento moriva a la vampa rossastra che si spandeva ne la stanza dal grande camino, animando d' un riflesso ardente i quadri appesi a le pareti. Figure un po' velate d'altri tempi, pallidi visi, ne la luce ondeggiante de la fiamma, parevano distaccarsi da le tele, bevendo l' alito d' una vita nuova.

Un tizzone ardente cadde, crepitante, oltre gli alari, sollevando fumo e scintille.

— Dio! che freddo…. — e Gioietta allungava i piedi dentro il camino, fin quasi a bruciare la punta de le scarpette.

— Bada…. Guarda come oscilla la fiamma, al vento!… Ti brucierai, figliuola… — e la nonna curvandosi un poco nel seggiolone antico, guardava impaurita il piede irrequieto, che giuocava con quel tizzone fumante. — Vienmi vicina: così… Raccontami qualcosa, bimba, stasera… Tante cose, hai veduto pel mondo, tu!… Ma io pensavo sempre: Tornerà, chè il cuore de la nonna non lo ritrova!…

Gioietta, rannicchiata sul piccolo sgabello, presso a la vecchia, le aveva avvinto amorosamente le ginocchia con le braccia, nascondendovi la testa bruna.

— Smetti di far la calza!… — e la nonna, docile, aveva riposto il lavoro, infilzando i quattro ferri sottili nel grosso gomitolo.

— Così: va bene?… — ed aveva incrociate placidamente le mani sul vecchio scaldino, aspettando….

La vedevo tutte le sere.

Arrivava sempre a la stessa ora, col medesimo cappellino contornato di rose e messo un po' di traverso su l'aureola dei ricciolini posticci; lo stesso boa di coque da le penne arruffate, che diveniva d' un bianco sempre più incerto.

Dietro a la figurina saltellante, ne l'onda del suo profumo troppo acuto, la madre dondolava la persona maestosa. E la vaporosa figliuola ordinava i soliti pasticcini à la crème, che sgretolava fra un' occhiata e un sospiro: la madre sorbiva lentamente un caffè e fra un sorso e l'altro, abbassando un po' la testa, le ciglia aggrottate, sporgeva il labbro inferiore, stringendoselo con le dita grasse e scrutava dintorno con gli occhi rotondi.

Oh un marito per Ninì!…

Un marito, impersonato nel brillante ufficiale che sbircia, in fondo a la sala, di sotto a la lunga visiera; o nel signore che sorseggia voluttuosamente il suo chope di birra; o in quel grasso mercante di campagna che osserva trasognato quello sfolgorio di luci e di specchi… Oppure in ultimo, proprio in ultimo… Perchè no? Infine è un bel giovane quel cameriere da la lucida testa ben pettinata!

Più tardi entrava il padre, un vecchietto calvo, magro, chiuso nel soprabito logoro e abbottonato. Sedeva, pagava i pasticcini e il caffè, sempre silenzioso. Si diceva che fosse molto sordo, per natura, e un po' cieco… per necessità.

Ed uscivano insieme: avanti la figurina saltellante, dal piccolo capello messo di sghembo; poi la madre, maestosa e vigile; ultimo, il vecchietto silenzioso.

E su la porta le tre teste si voltavano, e sei occhi scrutavano ancora i tranquilli frequentatori del grande caffè, fino a l'elegante cameriere da la lucida testa ben pettinata.

Oh un marito, Signore, un marito per Ninì!…

Entrò dal libraio, camminando frettolosa, nel fruscìo de le gonne.

Era piccola, magra, vestiva un abito nero (di quel nero rossiccio particolare agli abiti logori) che doveva aver subìto chi sa quali trasformazioni, seguendo la moda bizzarra e chiedeva ora un onorato riposo.

Una bizzarra Charlotte nera ugualmente, messa insieme chi sa con quali ingegnose combinazioni di vecchi nastri e vecchie trine, incorniciava in un'ampia aureola svolazzante il viso troppo bianco, dagli occhi cerchiati di bistro. Stretto fra le mani, insieme a la borsetta, a l' ombrellino, al ventaglio, un piccolo involto: la carta lacera e sanguinante lasciava vedere un brandello di carne cruda, che forse rappresentava la cena.

La figurina frivola e volgare balzava fuori, stridente, da lo sfondo severo de le pareti coperte di libri. E fra tutta quella valanga di lettere, di scienze, fra i migliori frutti de l' ingegno umano che il grande negozio del libraio accoglieva e accumulava, ella chiese semplicemente il Segretario galante.

Pagò, raccolse fra le mani chiuse ne' guanti logori, da cui sbucavano le unghie orlate di nero, l'ombrellino, la borsa, il piccolo involto da la carta strappata, dove quella miseria di carne cruda s'ostinava a farsi vedere, e da ultimo il libro…

Il libro dove forse domani avrebbe mendicato una frase d'amore, in aiuto al suo cervello vuoto e stanco, per adescare ancora e lottare contro il fantasma de la vecchiaia e de la fame.

S'allontanò, frettolosa come era venuta, nel molle fruscìo de le gonne, così sfinita, così vizza fra le trine e il belletto.

Ne la penombra del negozio, ove era rimasta la scia del suo profumo greve, il libraio la seguiva con l'occhio e sogghignava…

Bastava passare per il Corso a qualunque ora, per vederlo fermo al solito posto, fuori del grande Caffè, impettito ne l' alta figura che aveva serbato ne gli anni la magrezza giovanile.

A volte si curvava, appoggiando sul pomo d' argento del bastone le mani bianche da le unghia smaltate, che rivelavano le cure raffinate del manicure, e protendeva il viso un po' sbilenco a causa di quel monocolo troppo grande, che gli faceva tenere il ciglio rialzato e l' occhio spalancato, in una strana fissità.

Vicino a le tempie, agli angoli degli occhi, si diramavano in una rete fitta, intricata, le pieghe de la pelle vizza; quelle pieghe sottili e pur profonde, ove s' annidavano e prosperavano tutti i peccati mortali. Gli occhi piccoli, fra quelle pieghe divergenti, facevano pensare a due buchi malfatti con un ferro non bene accuminato, in un tessuto troppo forte che resista e s' increspi.

Quando sbirciava qualche bella donnina, si raddrizzava su l' alta persona, fremente come un buon cane da caccia su la pista de la selvaggina, spalancando più che poteva quegli occhietti cupidi e lascivi, la bocca arrotondata sotto i baffi grevi di tintura, in un lungo — Oh!… — ammirativo.

E ficcava il naso sotto i larghi cappelli per osservare da vicino un bel visetto, allungava il collo per dominare da l' alto una camicetta scollata, si curvava tutto attratto da un piedino ben calzato; comprava i giornali senza leggerli, man mano che uscivano e se ne andava con le tasche piene di carte, come un uomo di affari.

Tutti lo conoscevano e tutti conosceva: i camerieri del Caffè, che nei momenti critici gli eran larghi di sovvenzioni… a caro prezzo; i vecchi avventori, coi quali cercava intavolare rumorose discussioni su temi d' attualità: i pezzi grossi ai quali s' appiccicava, assumendo con gli umili un' aria di strano sussiego: i novellini, che lo guardavano con quel misto di curiosità e di rispetto che incute sempre loro un vecchio avventore; e tutto quel mondo falso, torbido, nervoso, gaio, arteria enorme pulsante di tutte le febbri e di tutte l' energie, che affluisce al grande Caffè, come il sangue d' ogni vena affluisce al cuore.

Tutta la sua vita non era stata che uno studio lungo e paziente: apparire precisamente il contrario di quel che era.

Così, aveva sprecato quel po' di danaro messo a parte dal commercio di papà per fare il signore; e andava al Costanzi e dormiva in soffitta, frequentava il pesage e non aveva pranzato; annunciava la sua partenza per una qualche stazione climatica più in voga e si tappava in casa per due o tre settimane, senza un soldo, limitandosi a prendere un po' d' aria su la terrazza de l' ultimo piano, fra i panni di bucato stesi al sole.

S' era formato una modesta fama d' intellettualità, senza aver mai capito niente in fatto d' arte: e correva a tutte le premières, mettendosi bene in vista. Se gli domandavano il suo parere, si guardava bene dal dire che non ne aveva, e si limitava ad alzare gli occhi al cielo, stringendo le labbra in una mimica dubbia, che tanto poteva significare — Che cane!… — quanto — Che artista!… — oppure si passava la mano su la fronte, che pareva carica di pensieri e diceva solenne: — Ho bisogno di raccogliermi… — o affrettava il passo avanti a l'amico interpellante, come chi è oppresso da un gran da fare e: — Ciao, caro… Domani…

E il giorno dopo, quando aveva letto ben bene la critica dei giornali, s' appigliava al parere di uno di loro e lo faceva suo.

Un tempo, quando era giovane e forte, s' era tirato addosso ogni sorta di malanni immaginari, per avere il fascino languente di un esausto de la vita: adesso invece, che era vecchio, camminava impettito per non far capire che soffriva di gotta e ostentava gli ultimi resti di una giovinezza che non c' era più.

Quando aveva i capelli, diceva agli amici, noncurante: — Se ne vanno… — e adesso che se n'erano andati davvero, con una sola ciocca lunghissima tentava in mille, ingegnosi raggiri, di coprire tutto il luccicore del cranio.

E poichè gli avevano detto che era molto snob era voluto passare per un debosciato, lui che era nato, invece, per essere un buon figliuolo: s'era ostinato a restare uno scapolo impenitente e avrebbe potuto essere un' ottimo padre di famiglia; s'era fatto una gran fama di giuocatore, correndo da una bisca a l'altra, lasciandosi pelare quei quattro soldi del commercio di papà, senza appassionarsi al giuoco, nè subirne il fascino.

Diceva di avere tre passioni: la sigaretta, l'absinthe e l'wisky. La prima, contratta ne' suoi viaggi in Oriente, la seconda a Parigi, la terza nei lunghi soggiorni a Londra. Ma fumava sigarette solo quando gliene regalavano gli amici; beveva wisky al caffè. tra il fumo e le discussioni, ma appena era solo e ben sicuro d'essere in incognito, in qualche luogo ove i motteggi degli amici non avrebbero potuto raggiungerlo, preferiva ristorarsi con un buon litro di vino de li castelli, piuttosto che bruciarsi lo stomaco con un pessimo absinthe.

Al mattino si trovava al suo posto in abito da cavallerizzo, con gli alti gambali, la cravache in mano; ma i maligni dicevano che il cavallo non l' aveva mai avuto.

A sera, irreprensibile nel frak, entrava e usciva da le vetrate del Caffè: poco importa se poi, invece del Tabarin o del Regina, l' aspettava solo la piccola soffitta ospitale. Inezie!… E a forza di fingere non ritrovava più sè stesso, non ci si raccapezzava più neanche lui, e sempre, quando mentiva, aveva finito col convincersi che diceva la verità.

Una volta sola fu sincero. In un uggioso martedì grasso, mentre il carnevale morente sbadigliava nei lazzi de le maschere e trascinava la decrepita allegria, come un manto sbiadito e troppo usato, sul fango de la strada, pigiato contro il muro al solito posto, da una folla senza creanza che gli piantava i gomiti ne lo stomaco, egli vide ballare a l' improvviso carrozze e maschere in una ridda infernale e scivolò giù pian piano in quel piccolo spazio, accovacciandosi fra il muro e le sottane profumate d' una Pierrette.

Si formò subito un circolo di curiosi. Egli era rimasto lì, accovacciato, la testa penzoloni sul petto. Il cappello gli era caduto, sollevando la lunga ciocca di capelli tinti; il monocolo era rimasto fermo, stretto ne l'orbita contratta.

— È ubbriaco…

— No, gli s'è fatto male…

— Alzatelo…

Ci provarono in due, in tre, ma il corpo ricadde inerte e intorno a lui, in quel piccolo cerchio di curiosi sperduto ne la marea de la folla, si fece silenzio: un gran silenzio…

— Andiamo via — disse la Pierrette.

Ed egli rimase lì, fra quegli sconosciuti che non sapevano che fare, bruttato di fango, il viso terreo contratto in una smorfia melensa di vecchia bertuccia, e sincero, finalmente, apparve quel che era sempre stato: una povera cosa inutile e grottesca.

Così, ne l'ultimo giorno di quel carnevale morente, ebbe fine la volgare mascherata de la sua vita.

— È femminista, lei?…

La domanda mi fu rivolta da un signore, in mezzo a la gaia conversazione femminile raccolta nel salotto elegante, ne l'ora deliziosa del thè.

— Si — risposi placidamente.

Egli s' inchinò, beffardo, piantandomi in faccia due occhi scrutatori.

— E dica, è anche medichessa, avvocatessa, o qualcosa di simile? — e fece due passi indietro comicamente spaventato, con grave pericolo de la tazza fumante che oscillò forte sul piatto.

Risi: — No, stia tranquillo e segga qui vicino; le dirò, se vuole come io sento il femminismo.

Sedette, diffidente e canzonatorio, s' appoggiò ben bene a lo schienale de la poltrona, e, fra un sandwich e l' altro: — Sentiamo…. — sospirò compiacente.

— Dica un po' — l' interrogai a mia volta — ha mai pensato, lei, che esiste al mondo una falange di donne, forzatamente destinate al…. diremo così, al celibato, in mancanza di mariti? No… non rida, e mi risponda, piuttosto. Le donne costrette a rinunciare al vero scopo de la vita femminile, la famiglia e la maternità, che cosa dovrebbero fare secondo lei?

Egli non rispose subito: depose cautamente la tazza vuota, chiese il permesso di fumare una sigaretta, poi si strinse ne le spalle, indifferente… — Mah… rassegnarsi, mi pare e restare in casa.

— No, signore: no, restare in casa come dice lei, vecchi mobili ingombranti che alcuni fratelli collocherebbero tanto volentieri in soffitta….. Mi lasci dire: non protesti, sa, in favore de l' egoismo maschile…. La sorella, o, peggio ancora, le sorelle, sono un grave peso…

Questa volta egli sospirò e approvò con la testa, seguendo, distratto, il fumo de la sigaretta.

— Dunque, passato il periodo de la caccia al marito, se il vizio non afferra le giovani vite, restarsene in casa e chiudersi in sè stesse, senza affetti, senza ideali e invecchiare a poco a poco, inasprite da l' inutilità de l' esistenza… Ma, dica, non ha mai pensato, lei, che questi vecchi mobili, hanno pure un cuore, un' anima, sensi di donna? E non le pare che sarebbe tanto giusto e umano se, mancato loro il primo scopo de la vita, cercassero la quiete, se non la felicità, nel lavoro? Se una sana e pratica educazione abituasse la donna fin da bambina a saper bastare a sè stessa? Senta, io pure detesto quelle donne che hanno pose da letterate (Dio mi guardi!) o da sapienti e sembra facciano uno studio particolare per soffocare in loro ogni traccia di femminilità. No: il mio femminismo vagheggia la creatura che sappia mantenersi soprattutto donna, serbando l' incanto de la grazia e del sentimento, anche in mezzo a la sana attività del lavoro; la creatura che, libera e forte, sappia combattere per la vita e vivere del suo ingegno: la donna che non avendo nè un marito, nè un bambino da amare, sappia farsi uno scopo nel lavoro. Poichè questo, io credo sia veramente necessario: avere uno scopo, ne la vita… Ou quelque grand amour ou quelque grand labeur

Il mio avversario aveva buttato la sigaretta… Di scatto m'aveva teso la mano, e non rideva più.

La chiamavano così; forse perchè si diceva che un tempo, quando era giovane e bella, era stata l'amica di un noto principe romano: fors'anche perchè quel suo aspetto ridicolo e pietoso di miseria vestita a festa ne le foggie più strane, con vecchie sete stinte e logore, con vecchie piume che ostentavano ancora al vento la gaiezza del colore, doveva avere ridestato ne l'animo di chi le aveva imposto il pomposo nomignolo, quella punta di sarcasmo che ogni buon romano porta, inconsapevole, in sè.

Ella era tanto nota in quel dedalo di viuzze che serpeggia nel cuore di Roma, incrociandosi fra il Corso, Piazza di Spagna, San Silvestro, che i passanti spesso l'apostrofavano, ridendo: — A principè

Mai più povera cosa si era trascinata ogni sera con maggiore insistenza, per i marciapiedi del Corso, sfidando tutte le intemperie: quando la pioggia fitta, minuta, s' aggirava intorno a le lampade elettriche, come un pulviscolo sottile, formato da miriadi d' insetti: quando scrosciava, impetuosa, dilagando in un torrente di fango e le inzaccherava l'orlo de la gonna, che, battendo contro le calze glie le infradiciava: quando il vento le faceva fluttuare la veste, scoprendole la caviglia ossuta o glie la incollava a le gambe, rivelando tutta la brutta magrezza di quel vecchio corpo.

Il cappello, che portava sempre un po' a sghimbescio, scopriva da un lato qualche ciocca di capelli giallastri, bruciata da gli acidi de le pessime tinture; camminava d' un passo un po' incerto e tentennante sui tacchi troppo alti.

Nel viso consunto, dove la bocca sempre semiaperta aveva un'espressione di volgare sensualità, risaltavano stranamente gli occhi, che attraverso tutte le oscene vicende di quella vita avevano serbata intatta la loro dolce purezza; lembi di cielo che si velavano a volte ne l' ombra de le ciglia, quasi in un senso d' improvvisa vergogna; grandi corolle azzurre sperdute nel fango; occhi di bimba sognante, in un viso disfatto dove i cosmetici non riuscivano più a celare le stigmate violacee de l' alcool e le impronte bestiali del vizio.

Quando le grandi lampade elettriche piovevano a fasci l' onda di luce scialba su la città, ne l'ora in cui più intensa divampa la vita, ella appariva sul Corso da la viuzza oscura; si fermava, scrutando, ne l'ombra d' un crocicchio e continuava il suo inutile giro, fino a quando le lampade chiudevano i grandi occhi luminosi e l'ultimo guizzo rossastro dei fanali si perdeva nei primi bagliori de l'alba.

Allora quel povero fantoccio imbellettato, cui la foggia strana de le vesti dava l'aspetto di una lugubre mascherata, ricercava il suo covo, inseguita da le risa degli ultimi nottambuli o dai lazzi turpi di qualche ubriaco e scompariva ne l'ombra de la stretta via, trascinando ne la povera carne indolenzita il suo triste fardello di vizio e di miseria.

Nel silenzio, intanto, Piazza di Spagna sognava ancora al ritmo de l'acqua, ne la dolce nenia de la fontana, il suo morbido manto di fiori intessuto di luci e di profumi.

Su la grande scalea di Trinità de' Monti, oscillavano nel brivido de l'alba le ultime luci dei fanali, simili a torcie votive su di un immenso altare e le campane cantavano le prime, dolcissime note de l'Angelus.



A la memoria di Vittoria Aganoor Pompili

Tutte le sere era la solita istoria.

Quando rincasavano da l' osteria, il vicolo risuonava de le grida che uscivano da la vecchia e lurida casetta: bestemmie, minaccie, strida di donna, il tonfo di qualche stoviglia buttata con rabbia sul pavimento, poi una vocina che piangeva e pregava: — No babbo, no babbo….

Ne la cucina affumicata, la bimba (una pallida creatura un po' gibbosa e malata) s' addormentava sola, il corpicino esile tutto rannicchiato e la testa bionda poggiata al gomito, sul vecchio tavolo. Nel chiarore oscillante de la lucerna, non si scorgeva altro di lei che la massa arruffata dei capelli d' oro.

Il focolare era spento e la piccola, respirando appena da le pallide labbra semiaperte, sognava le fate buone; le fate consolatrici dei bimbi poveri. Si svegliava in un sussulto, quando sentiva il padre e la matrigna per le scale.

L' uomo, Pietro, poteva avere quarant' anni: la donna, molto più giovane e bella di una procace bellezza di popolana.

Egli era stato un tempo ottimo operaio; poi gli era morta la moglie, dando a la luce una figliuoletta rachitica e malaticcia e s' era invaghito pazzamente di quella donna fresca e vigorosa che aveva in sè un profumo acre di giovinezza e di salute. E ossessionato da la torbida passione per lei, trascurava il lavoro, s' era fatto manesco, violento e dedito al vino.

Tornavano tardi, da l'osteria: lui, ubbriaco sempre; lei più volgare, più sfacciata che mai. A volte, la bimba, prima che cercassero a tentoni il saliscendi de la vecchia porta, si raggomitolava su le foglie secche che formavano il suo giaciglio; ma quando i due incominciavano a leticare, quando le strida de la donna si facevano più acute e l' uomo s' avanzava minaccioso, coi pugni alzati, essa balzava in piedi, tremando in tutte le gracili membra, e si frapponeva con le braccine spalancate:

— No, babbo, no, babbo…

Tutte le sere era la solita istoria.


***


Da tanti anni Don Umberto viveva fra quella povera gente (la sua parrocchia era forse la più misera de la città) fra le nere casupole aggruppate nei vicoli tortuosi e su la via scoscesa, verso Porta de la Cava.

Aveva benedetto l'amore dei giovani, battezzato i loro figli, confortato con la semplice parola buona tutte le agonie: aveva dato l' ultima preghiera ai loro morti. Tutti gli volevano bene.

A volte, da le piccole finestre, dietro i vasi di margherite o di geranii in fiore, squillava un allegro: — Buon giorno, don Umberto! — e un visetto ridente faceva capolino ne la cornice fiorita.

A sera, quando passava, le donne sedute su gli scalini fuori degli usci, lavorando la calza, s' avvicinavano a lui e gli narravano le loro miserie, le malattie, le impertinenze de' bimbi; e parlavano de la campagna e dei raccolti, poichè la maggior parte de' suoi parrocchiani erano contadini che lavoravano le terre al piano.

Una sera, il vecchio curato tornava verso la chiesa: dinanzi a lui una bimba che era stata ad attingere acqua ne la piazzetta, camminava a stento, portando una grossa brocca su la testa. Il peso era troppo forte per il corpicino gracile, la testa tremava, non riuscendo a mantenerlo in equilibrio, e il collo esile, ne lo sforzo, rientrava tutto ne le spalle gibbose.

Era giunta quasi davanti a la sua povera casa, quando incespicò in un sasso: le braccia annasparono, cercando un appoggio, la brocca oscillò forte e cadde con un tonfo sordo, andando in frantumi e spargendo un rivolo d'acqua ai piedi de la bimba.

La matrigna stava su la porta con altre donne: al tonfo si volse, vide la brocca in terra, la bimba rossa, tremante, con i lucciconi agli occhi e balzò inviperita.

— Stupida… sbadata… — afferrò la piccina per le braccia, e giù, colpi, su le spalle, su la testa.

Don Umberto, in un impeto di pietà, si frappose fra la donna e la bimba.

— No, Teresa, non la battete… è stata una disgrazia…

In un bisogno istintivo di protezione, la piccola gli s'era aggrappata a la sottana. La donna rimase un po' interdetta, poi si mise a ridere.

— A vete paura che le faccia male, reverendo?… Le botte, ci vogliono, per quella stupida!…

— Non la battete, Teresa: tenete per la brocca… — e le mise in mano alcune monete. L'altra, allora, cambiò tono.

— Credete, io le voglio bene, ma è una testarda!… Senza le botte non s'ottiene niente!

Il sacerdote guardò la bimba che levava verso di lui gli occhi tristi e supplichevoli, dove le lacrime rilucevano come stille di rugiada su grandi corolle azzurre.

— Sentite, Teresa, da parecchio tempo volevo dirvi….. che se credeste di mandarla a la dottrina, poi, potrebbe far la comunione…

— Noi siamo poveri — disse aspra, la donna, fissando il vecchio con gli occhi scaltri — per farla comunicare ci vogliono le scarpe, il vestito, e con questa po' di miseria…

— Se Dio vuole, tutto s'accomoda, Teresa: ditelo a vostro marito e io, per quel poco che posso, v'aiuterò.

— Per conto mio, Don Umberto, pigliatela pure!…

Fu così che la bimba, divenuta una piccola fonte di guadagno per i suoi, che sfruttavano la pietà del sacerdote, andò a la dottrina.

La matrigna non chiedeva di meglio che liberarsi il più possibile del noioso fardello d'una bimba gobba e sempre malata.

Da principio si recava solamente a sera, in casa del parroco, con le altre bambine: poi vi andò anche



il giorno, passando le ore con Nazarena, la vecchia domestica, cercando di rendersi utile, correndo da la cucina a la dispensa, garrula, felice, lei, povera bimba che non aveva riso mai!

Ma il corpicino non rifioriva: la rachitide aveva deformato le ossa e nel sangue povero essa portava tutto il veleno ed il peso di colpe e di vizi non suoi.

Nel pomeriggio, il vecchio parroco scendeva ne l'orto tranquillo, presso a la chiesa; e mentre egli mormorava al buon Dio consolatore degli umili, le sue preghiere, la bimba correva fra le piante, sotto i mandorli in fiore, scompariva come una farfalla fra i lunghi filari degli ulivi e tutta la dolcezza serena di quella primavera umbra le rideva ne gli occhi puri e luminosi.


***


In quel giorno di festa, Don Umberto aveva curato e diretto egli stesso l'addobbo de la sua chiesa; un piccolo tempio edificato la prima volta nel secolo X e ricostruito nel secolo XVII.

Ne la luce rossigna dei ceri si profilavano su le pareti frammenti di marmi scolpiti ed iscritti, forse avanzo di qualche costruzione romana, forse residui del tempio antico.

Nel centro de l'abside, la Madonna de la Fonte; la dolce imagine tolta da la sua povera chiesa, fuori Porta de la Cava, distrutta allorchè il rude bastione del Sangallo fortificò le vecchie mura.

Nellina aveva colto fiori ne l'orto e ne aveva portati a la Madonna tanti e tanti che le braccia esili non potevano neanche reggerne il peso.

Ora il profilo purissimo de la Vergine, si disegnava in alto, dietro il cristallo, in una gloria di rose, d'incensi e di fiammelle, mentre su la piazzetta la folla de' parrocchiani assisteva a lo sfilare de la processione.

Alcune donne facevano l'infiorata spargendo petali di rose ne la via: da le finestre pendevano coperte d' ogni colore. Su tutte le cose il tramonto d'aprile distendeva un velo d'oro e ne l'aria vibravano e si fondevano il brusìo de la folla, il lento salmodiare dei preti, lo scampanìo continuo ed assordante e le note marziali del concerto.

Venivano innanzi i chierici con la croce, poi l'antica compagnia del Sacramento, da le cappe bianche e l' ampie pellegrine rosse; i bimbi vestiti a festa, formanti brevi catene di piccoli amori; il clero e sotto l'ampio baldacchino, don Umberto, più bianco, più curvo nei ricchi paludamenti sacri.

In mano del vecchio sacerdote, l' Ostensorio sollevato su la folla genuflessa scintillava ne le ultime luci del tramonto, come una fiamma purissima.

Seguiva il gruppo candido de le comunicande: ultima fra loro, Nellina, così pallida ed esile ne la semplice veste bianca, che Nazarena aveva cucito per lei.

I capelli biondi disciolti nascondevano la miseria de le spalluccie gibbose e formavano intorno al viso smorto de la bimba una corona di luce simile a quella che alcune vergini hanno sugli altari: corona di martirio.


***


Annottava: ne la chiesa si spegneva l' eco dei canti e vibravano le ultime, frementi, note de l'organo. A le finestre s' accendevano file di lampioncini d'ogni colore.

D' un tratto, da un lato de la piazzetta gremita di gente, verso l' osteria, un vocìo confuso sempre più forte; scocciolio di bicchieri, accorrere affannoso di gente, strida altissime di donna da l' interno de la cantina, un agitarsi ed un protendersi ansioso di volti, di teste.

I bianchi veli de le comunicande si vedevano svolazzare qua e là per la piazza.

Da la caserma dei carabinieri, presso la chiesa, uscirono correndo due militi. In un baleno tutti s'accalcarono a l' uscio de l' osteria e ne l' urto de la folla due archi trionfali di fiori e di verde, precipitarono al suolo con i lunghi tralci di mortella.

A stento i carabinieri tentavano d' aprirsi un varco, trascinando un uomo, orribile nel parossismo de la collera e de l' ubriachezza. Per tutto il corpo aveva le traccie de la rissa: il viso bruttato di sudore e di sangue, una manica de la giacca a brandelli, la camicia strappata sul petto velloso. E sangue e sangue ancora, su le mani, su la giacca.

Fra i gendarmi egli ruggiva e si dibatteva rabbiosamente, tentando svincolarsi.

— Madonna mia!… L' ha ammazzato! — urlava una donna, coprendosi gli occhi con le mani.

— Presto, un medico…

— Don Umberto… dov' è don Umberto?… quello muore….

— Ma che è successo?… — domandò Nazarena comparendo su la porta.

— Giocavano a la morra….

— Han leticato…

— Pietro ha ammazzato il Moretto…

— Per quella sfacciata…..

La donna non finì la frase… Nellina aveva dato un urlo solo, come uno schianto:

— Babbo mio… — e si slanciò, correndo, verso la piazza, con tutta la forza de l' esili gambine, la traversò in un lampo, raggiunse il gruppo di gente che s' affollava intorno a l' arrestato.

— Babbo mio… — e si gettò dinanzi a l' uomo, gli s' avviticchiò a le ginocchia, gli s' aggrappò a le braccia insanguinate…

La staccarono a forza e la portarono via di peso, la testa arrovesciata, i capelli d' oro penzolanti nel vuoto.

La povera veste bianca s' era macchiata; su la spalla e sul petto aveva due larghe chiazze di sangue.


***


Venne la febbre altissima e il delirio.

La communione e la rissa si confondevano ne la povera testina malata. L' avevano distesa sopra il letto di Nazarena ed era rimasta lì, vegliata notte e giorno da la vecchia domestica e da le vicine.

La matrigna era scomparsa.

E don Umberto più stanco, più triste, continuava a compiere la sua missione d' amore, recando fra le mani tremule la luce d' un conforto soavissimo, da la piccola chiesa ove l' altare appariva adesso spoglie di fiori, a le stanze mute ne l'orrore de l'agonia.



Quando la bimba si spense, in una dolce sera d' aprile, il suo vecchio amico volle comporla egli stesso ne l'ultimo nido…

Le misero indosso la sua veste bianca; tutta bianca, poichè Nazarena aveva lavato con ogni cura le macchie del sangue.


***


Don Umberto si trascinò fino al camposanto, dietro a quella piccola bara dimenticata, cui solo dagli orti, qualche mandorlo in fiore, sembrava accennare nel vento, un timido addio.

Quando tornò, annottava: la vecchia campana dava, malinconica, il saluto de l'Angelus.

Egli entrò ne la chiesa, trascinando il passo lento…. Abbassò la lampada dinanzi a la Madonna, vi aggiunse l'olio, la fece risalire pian piano. Poi si curvò sul vecchio inginocchiatoio, incrociò le braccia sul cuscino logoro e v' appoggiò la testa bianca che tremava forte, forte…

In terra erano alcune rose sfogliate: le piccole rose de l'orto che don Umberto aveva colto per la bambina.

Ai lati ardevano ancora, fumando, e gocciavano, lenti, due ceri.

A Felice Tonetti

Che la sora Peppa fosse gelosa di suo marito, tutti lo sapevano e ne ridevano.

Eppure che cosa di più naturale, per una buona donnina, che d' esser gelosa del proprio marito? Tanto più ch' ella s' era invecchiata precocemente e il sor Giggetto era ancor un bell' uomo più giovane di lei, cresciuta ne la vecchia casa senza sole in una rigidità claustrale: di lei, che aveva portato nel matrimonio quell' austerità eccessiva, assimilata inconsciamente dal piccolo cervello in quell' ambiente gretto di beghine.

E dal viso giallognolo, chiuso tra due fascie di capelli untuosi, da tutta la persona ossuta, vestita con lunghe maniche chiuse e colli rigidi e abbottonati; con vesti rigonfie, e busti altissimi che costringevano il corpo come una corazza d' acciaio, pareva venisse quell' odore particolare d' incenso, di vecchio e di muffa, che esalano certi inginocchiatoi tarlati, sepolti in fondo a qualche umida sagrestia.

Le vicine, quando la vedevano uscire insieme al marito, con l' alto cappellino che si lasciava dietro ad ogni cenno del capo una scia minuta e svolazzante di piume tarlate, ridevano e le cantavano fra i denti lo stornello motteggiatore:

E sete la più bella mentovata
più che nun è de Maggio rosa o fiore
più che nun è d' Orvieto la facciata….

e se la vedevano smaniare a la finestra, ne l' attesa, si divertivano ad attizzare il fuoco:

Sola sola sora Pe'?

Nun c' è l' avete 'l sor Giggetto?

E che fa a st' ora benedett' omo?

Quella stringeva le labbra, masticando amaro e inveleniva sempre più.

E quando quella pasta di miele tornava placidamente a casa, lo aspettava da capo a le scale, lo investiva d' un fiume di parole e, sbatacchiando la porta, s' impadroniva de la vittima mansueta e melensa.

Giù ne la piazzetta le vicine ammiccavano fra loro e stavano in orecchio.


***


Come fece il sor Giggetto per ottenere la libertà provvisoria, in quella sera di carnevale, non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui.

Dal campanile di Sant' Andrea la squilla ammoniva gravemente: un' ora di notte.

Il vicolo era già immerso nel silenzio quand'egli uscì, chiudendo forte il portoncino di casa sua. Aspirò lungamente l' aria fredda; si stropicciò le mani e si abbottonò il soprabito, quello buono che sua moglie teneva sempre riposto e che spandeva intorno un odore sottile di naftalina. Poi, si frugò in fondo a tutte le tasche: i guanti, perbacco, li aveva dimenticati!

Sul cantone del vicolo facevano capolino gli amici:

— Ce l' hai fatta!…

— Be' come è andata?…

— L' hai passata liscia, eh?…

Egli si portò l' indice al naso, intimando silenzio, con un occhiata spaurita verso quel portoncino chiuso.

Sua moglie era stata così buona!… Gli aveva permesso di prender parte a quella cenetta, per dare l' addio al Segretario…..

— Va pure, non far tanto tardi….. — E il sor Giggetto aspirava adesso a pieni polmoni, il vento de la libertà.

I quattro amici imboccarono allegramente il Corso, mescolandosi a la folla carnevalesca che, sotto una rete multicolore di stelle filanti, ondeggiava e si pigiava ne la via troppo stretta. Le ultime maschere distribuivano motti e carezze a le sartine spettinate e ridenti.

Da l' alto, ne l' ombra densa de la notte invernale, la Torre del Moro fissava con le grandi pupille di fiamma, sbarrate, quella moltitudine ebra e schiamazzante.

Ne la piccola città, addormentata per tutto l'anno in un torpore di sogno, il carnevale è uno scoppio improvviso d' allegrezza, una folata di vita che passa come un turbine. E bene lo sanno le mille giovinezze che lo aspettano, ne la pace monotona e le manine umili ed alacri che cuciono al chiarore de la lucerna i semplici domini, che i sogni abbelliscono d' un velo d' oro.

Passa il carnevale, che cercò ne la provincia l'ultimo rifugio; passa, come meteora luminosa in un cielo novembrino e lascia dietro di sè una scia sottile di ricordi e di piccole lacrime ignote.


***


La sora Peppa non aveva fame: s' era scodellata la minestra ed un buon odore saliva inutilmente nel fumo a vellicarle le nari.

I gomiti appoggiati al tavolo, ella guardava distratta innanzi a sè, stringendosi le tempie fra le dita. Più d' una volta premette una mano su la tovaglia, ne l'atto di chi sta per levarsi di tavola: finalmente s' alzò, risoluta.

Prese il mazzo de le chiavi che le tinniva a la cintura: ne cercò una, vi soffiò dentro ben bene (che per quella benedetta abitudine di smuovere con le chiavi la brace de lo scaldino, le trovava sempre piene di cenere) e, la lucerna in mano, s' avviò verso una vecchia cassa.

La chiave arruginita stridette ne la serratura e dal coperchio sollevato venne fuori un tanfo di chiuso, e di stoffe vecchie.

Deposto il lume su l' ammattonato, la donna, in ginocchio, doveva cercare qualcosa, poichè scialli, corpetti, vesti di seta dai falpalà spiegazzati, armature di crinoline, pantaloni maschili a quadri e camicie femminili di mussola nuova, ampie e caste, s'affastellavano sul pavimento.

La scodella de la minestra ancora colma, si raffreddava a poco a poco sul tavolo ed alla superficie-cominciavano a galleggiare le prime stelluccie di grasso, gelate.


***


Quando quel povero domino nero, messo insieme Dio sa come, entrò nel vestibolo del teatro, si fermò un istante, incerto e dietro la maschera due occhi batterono forte abbarbagliati da la luce.

Veniva da la sala un'ondata d'aria calda e greve, uno schiamazzo, un incrociarsi di risa e di grida in falsetto, il trepestio di quelli che ballavano e lo stridore stonato dei violini nel ritmo di un waltzer.

Il piccolo domino, spaurito, si fermò presso a la porta, sballottato da le coppie che entravano e uscivano, così silenzioso, così sperduto, che parve, mancandogli il coraggio d'entrare, volesse tornare indietro; ma ne l' atto di voltarsi si trovò faccia a faccia, fra le portiere di velluto rosso, con una comitiva d'amici che entrava. Quelli ridevano di un riso schietto e sonoro e si spingevano a le spalle fra la ressa, con la mano aperta.

Dietro a la maschera, gli occhi che erano stati sempre socchiusi, infastiditi da la luce, si spalancarono, lampeggiando, come quelli d' un gatto in agguato, nel buio.

Il sor Giggetto, rosso per la cena succulenta e le abbondanti libazioni, entrava fra gli amici: erano quattro o cinque grassocci e non più giovani, come lui, e presero posto fra quella fila di persone addossate al muro, sotto i palchi. Ogni tanto le maschere, passando e ripassando nel giro continuo, si fermavano a scherzare con uno di loro, trascinandolo nel ballo fra le risa e le spinte.

Il domino nero era rimasto fermo ne l' ombra de le portiere: le mani guantate ne brancicavano il tessuto molle e se ne riempivano, tirando forte, come avessero voluto strapparlo. Pian piano si distaccò dal nascondiglio, inoltrandosi a stento fra le coppie danzanti.

Il sor Giggetto veniva perdendo, adesso, la sua buona calma ridanciana, sotto la furia di moine silenziose che gli prodigava la piccola maschera. Gli amici lo incitavano ridendo: pian piano egli si lasciò vincere e i due incominciarono a passeggiare insieme.

Egli s' era sfilato il soprabito e lo portava sul braccio sinistro, ripiegato con ogni cura (forse la naftalina gli richiamava a la memoria alcuno de' saggi avvertimenti di sua moglie…) e rideva e ci pigliava gusto, offrendo il braccio con una certa galanteria a la donna: ma, di colpo, si raddrizzò impaurito, stropicciandosi gli occhi con le dita come chi, appena desto, è ancora sotto l' incubo di un brutto sogno.

Dal cappuccio del domino nero un piccolo orecchino ben noto, un orecchino salvatore, era riuscito a farsi strada ed occhieggiava lucente.

Egli si sentì tremare le ginocchia…

— Vieni più vicino!… — diceva la vocetta melliflua; ma l' uomo stava adesso in guardia.

— Cara, devo andarmene, sai… ho lasciato mia moglie sola…

— E che t' importa?…

— Oh bella, m' importa, perchè le voglio bene… — e si batteva la mano larga sul petto, come avesse voluto dire invece « mea culpa… »

Un'ora dopo, quando il sor Giggetto rientrò timidamente in casa fra le risa omeriche degli amici, trovò la moglie che pareva dormisse placidamente.

Ne la stanza tutto era in ordine; ma quando egli s'avvicinò al letto, una cosa molle gli s'impigliò fra i piedi scalzi. Abbassò la lucerna e vide in terra, presso a la frangia de la coperta, le occhiaie vuote d'una maschera nera.


***


Ma quell'affermazione solenne di fedeltà, fatta in pubblico ad una maschera provocante, gli valse il perdono tacito de la scappatella al veglione.

Non una parola fra loro: solo quell'imbarazzo gelido che grava su persone che pensano la stessa cosa de la quale non vogliono parlare.

Dopo qualche giorno, però, una lettera anonima fece rialzare il diapason de la tensione coniugale: la donna continuò a leggerla e rileggerla in segreto, assimilandone tutto il tossico nel cuore.

— Certo è stanco di me… certo m'inganna… — e diveniva più gialla, più scontrosa che mai.

E ricominciò la solita vita di litigi e di piccole miserie: ella più vigilante, egli più ipocrita.

Un giorno la posta recò la buona novella…

Il vecchio curato, loro parente, li lasciava eredi di quel po' di danaro messo a parte con l'aiuto del Signore. E il sor Giggetto partì per andare a raccogliere l'eredità, col pieno consenso de la moglie, contenta a l'idea ch'egli sarebbe tornato con un buon gruzzolo.

Ma, poichè le pratiche andavan per le lunghe, il demone accovacciato in quel petto magro si ridestò improvviso ne la solitudine e incominciò a sussurrare a la donna strani propositi… Ella pensò e ripensò a lungo, rannicchiata su lo scaldino come una piccola belva meditante.

E fu così che il sor Giggetto, ne la calma serafica de la lontananza, si vide arrivare un telegramma: « Vostra moglie colpita malore, gravissima » e si precipitò in treno con una grande compunzione in viso ed una più grande speranza in cuore.

Fu così, che giunto a casa se la vide invece davanti in gioconda salute, pronta a spiargli in viso l'effetto de la ferale notizia.

Egli spalancò le braccia senza parola, lasciandosi sfuggire di mano, valigetta, soprabito e carte, afferrò la moglie, cingendole forte il collo, se la sbattè sul petto, alzando il pugno minaccioso su quelle spalle ossute…

Ma la mano grassa rimase in aria senza colpire e la donna, svincolatasi da l'abbraccio, recando su la guancia l'impronta dei bottoni de la giacca di lui, balbettò mezzo soffocata:

— Calmati, caro, è stato uno scherzo, sai…

Uno scherzo!… Egli s'era fatto rosso, tremava trattenendo il respiro, e le vene del collo gli s'inturgidivano.

Di schianto si lasciò cadere su d'una sedia con impeto tale che il corpo grasso sobbalzò tutto, e mordendo il fazzoletto si mise a piangere forte con grandi singhiozzi rumorosi.

E la sora Peppa gli accarezzava il testone irsuto, pian piano…

— Caro, che impressione t'ha fatto… Caro, come sei commosso… Adesso ci credo, sai, che mi vuoi bene… Me ne dai la prova, finalmente!…

Ad Augusto Jandolo

— Ti dico di sì: è tornata da un mese.

— Ne parlavano anche al Circolo, iersera.

— E Silvestri l' ha ripresa?

— Sicuro!

— Povero professore!

— Dice che a scuola i ragazzi gli han disegnato su la lavagna una testa ben fornita, sai…

— E lui? figurati!…

— Hanno avuto paura che gli prendesse un male: s'era fatto livido, ma neanche una parola….

— Che babbeo!

I quattro giovanotti, parlando forte, erano giunti a l'angolo de la via. Ne la tristezza di quel pomeriggio invernale San Domenico s'ergeva cupo da uno sfondo di nubi grigiastre. Intorno a la piazza alcuni arberelli stecchiti stendevano ne l'aria fredda la triste nudità de le rame sottili, intorpidite dal lungo sonno sotto il gelo e la brina.

In fondo, poco lontano da la chiesa, il « palazzo » del professore: una casa vecchia, immensa, da le imposte cadenti, da le larghe fenditure lungo le mura sgretolate. A fianco, l'orto spoglio di tutto, silenzioso, malinconico come un piccolo cimitero, con un solo albero: un mandorlo che apriva le braccia nodose verso il cielo grigio in un' invocazione inutile, nel desiderio nostalgico de la primavera lontana.

E ne l' orto una porticina così nera, così tetra come quelle cadenti di alcune sagrestie, schiudendo le quali si respira subito un tanfo asfissiante di chiuso e di umidità.

Il professore correggeva pazientemente i compiti di scuola ne lo studio ampio e freddo, da le pareti tutte ricoperte di libri, esalanti un odore sottile di cartapecora e di muffa. Presso a lui, su l'ammattonato corroso dal tempo tutto buche e crepacci, un vecchio scaldino ove egli cercava ogni tanto, interrompendo il lavoro, di sgranchire le mani intirizzite.

Giorgetto, curvo sopra un libro studiava. Gli occhi stanchi del professore, sollevandosi dai quaderni, cercavano quella testolina bionda e vi s' indugiavano a lungo, in una tenerezza dolorosa. Presso la finestra Gabriella cuciva in silenzio una camicina nova.

Qualcosa di tragico, d' intimamente doloroso, gravava come un incubo nel silenzio de la stanza.

— Giorgetto — chiamò, timida, la donna.

Il bimbo la guardò, interrogando: aveva gli stessi occhi del padre, ma più grandi, più neri e con una luce di fierezza che quelli non conoscevano.

— Vuoi venire un po' fuori, con me? Tutto il giorno hai studiato… Magari ne l'orto, se vuoi, a respirare un po' d'aria.

— No, no, resto qui… — esitò un istante, poi aggiunse svogliato — mamma… — e parve che quel nome non volesse uscirgli di bocca.

Gabriella abbassò di nuovo la testa sul lavoro.

Il professore non aveva smesso di scrivere e se



ne udiva nel silenzio lo scricchiolio de la penna su la carta: ma forse l' indomani i bimbi non avrebbero compreso le correzioni, poichè la mano tremava e non riusciva a tracciare le parole.

Da la cucina venne un acciottolio di stoviglie e la voce di Reginella squillò, garrula e fresca come un richiamo lanciato pe' campi, al sole: — Fior di gaggia…

Ne lo studio, di nuovo un silenzio lungo. Poi qualcuno bussò a l'uscio:

— Signor professore, me ne posso andare?

Il bimbo, di scatto, s'era levato in piedi:

— Babbo, mi mandi con Reginella?…

I buoni occhi tristi del professore guardarono la moglie che si mordeva forte le labbra per trattenere il pianto: ella sentì lo sguardo e abbassò anche più la testa sul lavoro.

— Va… va Giorgetto.

Il bimbo chiuse il libro.

— Addio, papà… Reginella aspettami…

E scappò, senza volgersi verso la madre che sembrava così occupata a cucire quella camicina nova.

Giù ne la piazza, appena fuori da la vecchia casa in rovina, s' udì la voce di lui trillante come un' allodola:

— Reginella, fa presto…

La camicina tremava così forte ne le mani di Gabriella, ch'essa non riusciva ad infilarvi l'ago. Ancora un poco le mani scarne accarezzarono nervosamente la tela; poi la donna si lasciò cadere il lavoro su le ginocchia e chiuse gli occhi in un singhiozzo soffocato:

— E sarà sempre così?… sempre così?…

Per le scale risonava, intanto, il passo greve de la contadina che seguiva il bimbo e la voce forte di lei stornellava ancora: — Fior di gaggia…

Il professore scriveva, scriveva sempre…


***


— Entra… — aveva detto semplicemente Silvestri quando Gabriella, disfatta da la passione, era tornata a la vecchia casa.

— Entra… — e la donna aveva trovato aperto l'uscio cadente, come il vecchio cuore di lui, pronto ad accoglierla ne la malinconica dolcezza del perdono.

Ma una piccola porta restava chiusa al tocco de le sue dita, inesorabile: un piccolo cuore, giudice inconsapevole e tremendo, che non conosceva il male ma lo intuiva, ne la lucida intelligenza del bimbo precoce, non sapeva perdonare nè amarla più.

Quale fondo inesplorato d' amarezze non dette e di lagrime non piante v' era dunque nel cuore del bimbo, piccolo cuore fiero e selvaggio?

Invano le braccia s'erano stese nel grido de la maternità redentrice: — Figlio mio!…

Invano gli occhi de la donna sembravano gridare in ogni attimo: — Bimbo, guardami, son tornata per te… Bimbo, baciami, perchè senza di te non vivo!…

Il silenzio suggellava la pallida bocca dolorosa e il fanciullo s'ostinava in un rancore muto, inconcilibile.

Perchè la mamma, un giorno, l' aveva lasciato? Tutti i suoi compagni l'avevano sempre vicina e lui, no. Reginella sola l'aspettava a l'uscita di scuola, chè il babbo non era mai libero, a quell'ora!…

E quel cattivo ragazzo col quale egli era sempre in lite, che una volta gli aveva domandato: — Ma è dunque morta, tua madre?… — E quando s' erano bisticciati e quello gli aveva dato uno schiaffo, dicendo: — Vallo a raccontare a la mamma, va… — e aveva riso tanto….

E quel giorno in cui il babbo s'era messo a letto accusando un po' di febbre e gli aveva detto: — Giorgetto, vai a giocare… Chiudi le imposte, prima, che mi dà noia la luce… — Egli aveva obbedito e s' era allontanato di qualche passo; ma era subito tornato indietro in punta di piedi e nel buio aveva sentito uno scoppio di singhiozzi così disperati, che aveva avuto paura, povero bambino!

Era corso a la finestra, l'aveva spalancata, aveva visto il babbo che nascondeva il viso sotto le lenzuola… E piangeva davvero, il babbo, quel giorno… Egli l'aveva baciato tanto e aveva avuto tutto il viso bagnato di quelle lacrime!…

Perchè?.., Giorgetto s'ostinava a pensare e a ricordar con la lucidità terribile dei bambini.

Quando vide Gabriella la prima volta, dopo un anno di assenza, non la riconobbe subito; la mamma sua era tanto giovane e bella, rideva e giocava con lui come una bimba… Quella signora pallida e magra, vestita di nero, che aveva i capelli bianchi su le tempie e tossiva sempre, era invece tanto seria!…

***


Una sera, tornò da scuola rosso in viso, con gli occhi lucenti.

— Dio, come brucia!… Ma questo bambino ha la febbre! — disse Silvestri, tastandogli la fronte.

Il medico venne e si fece grave: — Diferite: coraggio…

Allora la madre riprese il suo posto.

Notte e giorno presso a quel letto, dove la povera testina s'agitava nel delirio, soffocando. Notte e giorno senza cibo, senza riposo, senza respiro, in una veglia tacita e febbrile in cui quei due poveri esseri dimenticavano tutto il passato, uniti in una sola agonia, in una sola angoscia senza nome.

Solo quando il medico disse: — È salvo — e Silvestri si chinò su quel piccolo viso esangue, ricoprendolo convulsamente di baci e di lacrime, la donna senza un lamento scivolò piano, lunga, distesa in terra come una morta.

La misero in letto e non s'alzò più.

Ma ancora la povera testa si sollevava ansiosa ad ogni istante sui guanciali, per ascoltare la voce debole del bimbo ne la stanza accanto. Una notte volle alzarsi, sentendo che il piccolo si lamentava, ma le gambe non la ressero e rimase lì, aggrappata a la spalliera del letto…

Silvestri la sollevò su le braccia come una bambina e abbrividì al contatto di quel corpo consunto.

Quando le portarono Giorgetto convalescente, si trasfigurò tutta per la felicità. Il bimbo scarno, pallido, somigliava ora anche più al padre. Stese le braccia così esili ne l'ampia camicina da notte: — Mamma…

Ella si protese avida su i guanciali, gli bevve la parola dolcissima col fiato su le labbra e fu un abbraccio eterno, disperato.

D'allora, Giorgetto, sentendosi rinascere a la vita riempì di risa e di trilli la triste camera de la malata ed ella stendeva le braccia avide di stringere quel piccolo corpo e chiedeva sempre con un' ansia nova in quella sua voce che sembrava venirle di lontano:

— Giorgetto, mi vuoi bene?…

— Mamma, guarda… — disse il bimbo, aprendo la finestra: — È primavera… Son tornate le rondini sotto le grondaie!…

L'altra taceva.

— Mamma, senti come suona San Domenico? Domani è festa: se tu stai bene andiamo a messa insieme?…

— Sì piccolo, sì figlio mio…

— Sai, mamma? — e il bimbo si sporse un poco fuori da la finestra — ne l' orto il mandorlo è tutto in fiore… ma un ramo, il ramo più bello è spezzato…

Infatti, in una giornata burrascosa di quel marzo bizzarro, un colpo di vento aveva schiantato un ramo de la vecchia pianta. Ora ne l' orticello inondato di sole quel ramo penzolava triste con l'abbandono de le cose morte, toccava la terra, mentre tutta una flora strana lo allacciava tenace, traendolo sempre più giù, verso la fine.

— Mamma — chiamò ancora in una sera non lontana il bimbo.

Ella non rispose.

— Mamma!…

La testa bruna pendeva fuori del guanciale e i capelli disciolti velavano in parte il viso.

Giorgetto si fermò, incerto, su la soglia: la mamma dormiva e intorno a lei era un gran silenzio, un silenzio infinito. Solo Reginella, da l'altra stanza, lanciava gaia l' ultimo stornello d'amore ne la pace del tramonto.

Il bimbo scese a malincuore ne l'orto per aspettare il babbo, ma non potè giocare: le gambine di convalescente gli tremavano forte, aveva nel cuore una gran voglia di piangere, senza saperne il perchè… Guardò in alto, verso la casa e qualcosa di morbido, di bianco, gli cadde sul volto: davanti a la finestra de la stanza ove Gabriella dormiva, s' agitava nel vento il ramo in fiore spezzato e le corolle avvizzite cadevano lentamente a terra.

Giorgetto si mise a piangere a l'improvviso con le manine su gli occhi, sotto quella pioggia lenta di farfalle morte. Poi ebbe paura e guardò ancora verso quella finestra…

Qualcuno aveva chiuso dolcemente le imposte ed ora i vetri ardevano d'una fiamma viva di tramonto.

Ne l' aria limpida il triste ramo spezzato non si moveva più.



A Salvatore Di Giacomo

Il vicolo era così stretto e tortuoso che il sole non vi discendeva mai. Agli angoli fermentavano mucchi d'immondizie; sul viscidume de le pietre stillava da le vecchie mura miseria e umidità.

Breve, era il vicolo; silenzioso nel giorno. Non v'era vocio di donne o bimbi: pareva deserto.

Povera gente viveva in quell'ombra: contadini che lavoravano al piano e rientravano a sera. Allora per le casette brune era un risveglio, un fumare di comignoli, un vago agitarsi di lucerne che faceva pensare a fantastici voli di lucciole in una notte senza luna.

V'era la porticina sgangherata d'una stalla ove rientrava a notte un cavallo magro, trascinando su le pietre gli zoccoli schiodati: lo seguiva il carrettiere con la frusta alzata, i finimenti de la bestia su le spalle e la testiera che gli penzolava, carica di sonagli. Quando era ubbriaco s'inteneriva parlando al cavallo come a vecchio compagno di lavoro; chiudeva la stalla salutandolo da lontano, commosso e grottesco.

Tutte le sere l'uomo si fermava in mezzo al vicolo e fischiava forte: allora la finestrella vicina al fienile s'apriva e una testina bionda si sporgeva, ciondolava giù: — Nonno…. — I capelli disciolti avevano guizzi di luce nel chiarore del lampione: se il vento li agitava, gonfiandoli, sembravano uno stendardo luminoso. Nel giorno, quei capelli, erano l'unico raggio di sole del vicolo.

La bimba, zoppa e rachitica, non usciva mai: trascinava una sedia vicino a la finestra, s'arrampicava sù a stento e lì passava le ore tagliando figurine di carta; o cuciva cenci per un suo bastoncello imbottito, lo cullava come una bambola con piccoli atti materni pieni di grazia.

Da la finestra di fronte nonna Luigia guardava, alzando la testa dal lavoro e ascoltava la nenia infantile. Seduta su la poltrona a braccioli, essa appariva in tutta la sua misera vecchiaia: un involto di scialli neri da cui emergeva la testa piccola e dondolante di tartaruga, dagli occhietti vivi dove brillava ancora la luce di una tenace volontà. Essa non vedeva quasi nessuno: diceva di essere monaca di casa. Veniva solo qualche beghina imbacuccata ne lo scialle nero e narrava i pettegolezzi del paese: la vecchia prestava volentieri orecchio a quel sussurio profano.

Con lei viveva una serva robusta e brontolona, che sfogava la noia di quella vita da reclusa cantando a sguarciagola in cucina, ove la voce si perdeva fra le travi affumicate. Ogni tanto qualche gatto s'affacciava da la grata de l'alta finestra che s'apriva sui tetti: tastava il muro con le zampine per discendere, scivolava e si tirava indietro impaurito.

Ne la stanza dove nonna Luigia lavorava e diceva orazioni, tutta chiusa nel rigore de la sua religione, v'era un Ecce-Homo di legno, con certi buoni occhi dolorosi che mostravano tutto il bianco guardando in sù. Fissandoli, pareva che il Cristo li muovesse: tanto grande era il dolore di quegli occhi che sembrava distendersi come un'ombra su tutta la stanza.

V'erano a le pareti uccelli favolosi con ali aperte e becchi lunghissimi; fiori che parevano di legno, dipinti da chi sa quale antenata: una fotografia de la famiglia con romantiche fanciulle in crinolina; il caminetto sempre spento, un divano grandissimo a fiori gialli. Sul tavolo, presso la vecchia, un orologio d'argento, la corona, il giornale, il cestello da lavoro. Ogni tanto ella s'alzava a fatica, appoggiando forte sui braccioli le mani aggrinzite, dove le vene serpeggiavano grosse e bluastre; guardava, attraverso i vetri, i tetti e la bimba: altro non vedeva, oltre il largo davanzale di pietra, ove un vasetto di maggiorana agonizzava a l'acqua e al vento.

Venivano da lontano i colpi di un telaio e il canto de la tessitrice che intrecciava stornelli a le trame de la sua tela. Da mane a sera il telaio batteva batteva in un ritmo lento, come fosse il cuore del vicolo. Fra le rozze mura non passava mai nessuno: ma una strana vita fremeva sui tetti. Era, ne l'inverno, un gorgoglio d'acqua spiovente ne la grondaia, un crepitio di goccie uguale, fitto, monotono. La tramontana fischiava rabbiosa, sbatteva l'erba penzolante dai crepacci, turbinava intorno al comignolo da cui il fumo saliva denso, a groppi e ne strappava nuvolette cineree che disperdeva lontano come lembi di veli.

A volte un passero sbalestrato dal vento si buttava sul tetto squallido, scuoteva le penne arruffate e volava via a fatica. A tramonto il sole accendeva fra le tegole muscose riflessi gialli e luccichii di gocciole cadenti.

Poi, veniva la prima neve e i tetti scomparivano nel soffice silenzio. Intatta e pura, la neve restava per lunghi giorni lassù: le tegole s'ornavano di monili di ghiaccio che cadevano in lunghi pendagli trasparenti come stallattiti di cristallo.

Lentamente la vita dei tetti fioriva ancora più intensa in un verdeggiare di pianticelle, un tremolio giallo di viole a ciocche, come se dal cielo fosse caduta una pioggia di stellucce d'oro; uno stridio festoso, un guizzo, un batter d'ali: la prima rondine. E tutta la distesa disuguale dei tetti, su le casupole brune, pispigliava coi vecchi nidi ridesti, cantava con le campane a vespero, quando su la torre vicina le monache salivano a pregare e andavano e venivano, lassù, agili, irrequiete come rondini in cerca d'un nido sperduto.

Allora la bimba zoppa sporgeva la testa da l'abbaino e dava al vento di primavera lo stendardo luminoso dei capelli. Nonna Luigia apriva la finestra, socchiudendo gli occhi al chiarore e sul vicolo stretto s'incrociavano due sguardi, due sorrisi diversi. La vecchia ammiccava di sopra gli occhiali e rideva mostrando le gengive vuote in una smorfia che le aggrinziva la pelle del viso, facendole scomparire gli occhi fra le rughe. La bimba abbassava la testa vergognosa e sbirciava di sotto in sù, tra l'arruffio dei capelli, quella vecchina tremante.

Così si facevano amiche senza parole. L'una dimenticava di pregare e osservava le figurine di carta, ascoltando la timida ninna-nanna: l'altra posava il fantoccio su le ginocchia, guardava le pallottole del ro sario che scorrevano fra quelle dita magre; e si facevano il segno de la croce insieme.

In fondo al vicolo, ne l' orto del « Sor Checco » vicino a la casa tutta bianca con le persiane troppo verdi, era una piccola nuvola di rosa: il pesco tutto in fiore, che sembrava carico di farfalle.

Il « Sor Checco », dopo pranzo, passeggiava in lungo e in largo: le mani dietro la schiena, il collo rientrato ne le spalle, un gran giogo di carne rossiccia sotto il mento. Appariva a tutte le finestre, appoggiando al davanzale la pancetta rotonda su cui luccicavano i grossi bottoni di metallo del gilet. Guardava sù e giù nel vicolo, stropicciandosi la testa con la berretta marrone che produceva sui capelli cortissimi e duri un rumore simile a quello del gatto che fa le fusa. Quando si voltava per andarsene, quella berretta irrequieta pareva un gran girasole venuto sù chi sa come ne la stanza, fra le candide tende a l'uncinetto.

Quella casa bianca era l'ultima del vicolo: faceva angolo su la piazza ove si fermavano i carri che recavano al « Sor Checco » le dovizie de la sua terra. Sacchi di grano, biconcie d'uva, ceste di frutta dorate dal sole sparivano nel vano de la grande porta verniciata a novo. Tutta quell'abbondanza s'annunciava con un rotolio lento, pesante dei carri; un vocio di villani che a fatica si traevano dietro per le corna i buoi tardi e paurosi; uno schiamazzare di monelli che sbucavano a frotte da ogni lato, si stringevano intorno ai carri, s'arrampicavano agili, scaltri, per rubare una mela o carpire una manata di chicchi d'uva.

Nel vicolo, la tessitrice usciva su la porta e guardava facendosi schermo a la luce con la mano: nonna Luigia e la zoppina s'affacciavano, curiose. Su la piazza il bifolco con la frusta alzata teneva testa al piccolo sciame petulante che il « Sor Checco » minacciava da la finestra con le braccia tese: — Indietro, birboni!… — e quelli, non potendo rubare, si sfogavano a far beffe e sgambetti.

Nulla mancava in quella grande casa di ricco borghese: v'erano tanti sacchi dritti nel granaio, che lo stanzone n'era pieno: da le tine capaci, dove i villani con le gambe nude immerse ne la poltiglia attaccaticcia de l'uva pigiavano di tutta la forza, stillava il mosto dolce e profumato, color d'ambra e di miele: v'erano, ne la cantina, le botti colme ancora di vecchio vino e la dispensa ben fornita odorava di leccornie, per il piacere di due serve bellocce e maleducate.

Giovani, il « Sor Checco » le voleva e passava le ore in cucina covandole con lo sguardo, una somorfia di melensa beatitudine su la bocca sdentata, dal labbro inferiore rovesciato e cadente. Quando faceva freddo, in quelle lunghe contemplazioni stringeva fra le ginocchia uno scaldino di coccio giallo pieno zeppo di brace, che gli bruciacchiava le mani e i calzoni senza che se ne accorgesse. Sotto le ciglia grige, tanto ispide e lunghe da sembrare due baffi appiccicati per ischerzo su la fronte, gli occhi nuotavano ne la dolcezza di un ebete sensualità.

Le colmava di regalucci: pettini, dolci, grembiali di rigatino, ciondoli d'argento. Le circondava di tutta la gelosia puerile de i suoi settant'anni galanti, sequestrando la corrispondenza amorosa. A volte, la notte, s'alzava pian piano, camminando scalzo sul pavimento, a rischio di buscarsi un raffreddore, per sorprendere i colloqui furtivi da le finestre. Quando tornava a letto aveva la bocca amara e starnutava rabbiosamente.

Giovani e belle, le voleva: e gli ridessero pure sul viso per le sue debolezze senili, ostentando la sfacciata nudità de le braccia da le maniche arrovesciate; vuotassero barattoli di conserve e bottiglie di rosoli, saccheggiando la dispensa, sudice, ghiotte, ladre: mentissero pure senza pudore, rubando a piene mani dagli armadi le morbide tele che ave vano formato tutto il candido tesoro di sua madre e le trine e gli ori di lei per ornarne le avide arche nuziali. Purchè gli apprestassero il pranzetto succulento e ne l'inverno il buon letto caldo ove affondava tutta la sua pinguedine freddolosa, non lasciando fuor de le coltri che il pennazzo de la berretta, che s'agitava come un serpentello sul cuscino. Purchè gli sgonnellassero intorno con risa sguaiate, battendo forte i tacchi pesanti, alitandogli in faccia, dai corsetti troppo ricolmi, quel profumo acre e violento di giovinezze gagliarde che lo deliziava più che il fumo de la sua pipa, più che il miglior bicchiere del suo vecchio vino.

Quando, sul vicolo, scendeva la sera malinconica, la finestra del « Sor Checco » splendeva tutta per il passatempo serale. Ad un piccolo tavolo il brav'uomo, con la pipa spenta che gli pendeva a l'angolo de la bocca, giocava l'eterna partita con le due furbe avversarie.

Su la torre vicina le monache andavano e venivano mute, assorte ne la preghiera intima che le labbra non dicevano più. A volte, quando le altre sorelle erano già scomparse, una di loro indugiava ancora lassù; tutta nera, con il soggolo candido, somigliava una rondine che avesse raccolto il volo entro la torre quadra; un fiore sperduto in una grande coppa di bronzo antico.

Sola, eretta ne l'ombra, pareva stringere fra le braccia chiuse in croce il sogno mistico de la piccola città, che su la roccia fulva placidamente s'addormentava.

A Saverio Kambo

Quando Gaston d'Amour discese dal trenino che l'aveva sballottato per tante ore in quella lurida carrozza di terza classe, si stiracchiò ben bene le membra indolenzite.

Quanto tempo era rimasto appollaiato fra la vecchietta che stringeva, gelosa, con le ginocchia il suo fagotto di stracci e quegli uomini che, discutendo a gran voce di raccolti e di bestiame, avevan riempita la vettura d' un alitare greve di fumo e di vino? Quante volte s' era rannicchiato ancor più, temendo che l'olio, stillante da la lampada fumosa su lo schermo di vetro, potesse trovare una via d' uscita negli sbalzi continui e piovergli addosso?

Orvieto sonnecchiava ne l' uggia de la notte decembrina: la roccia, sotto la pioggerella eguale, fitta, appariva nera come un masso enorme di basalto. Le luci fioche dei bastioni sparivano a tratti in un lento fluttare di vapori, come fuochi fatui su di un cimitero.

La tristezza più cupa filtrava ne l'anima dal lento stillicidio di quel cielo lattiginoso: la noia sbadigliava ne le larghe pozzanghere ove si rifletteva il chiarore sanguigno dei fanali, ne le voci rauche e sonnolente degli uomini.

Gaston D'Amour, il danzatore parigino, si chiuse il soprabito sul petto con un brivido:

Sainte Vierge… e chi stà là ncoppa?

Per un attimo fu tentato di tornare indietro e proseguire il viaggio, ma le dita nervose esplorarono inutilmente il fondo d' ogni tasca:

Pas d'argent…

Il carrozzone sgangherato, rimbalzante con gran fragore su i ciottoli de la via in un continuo tintinnio di vetri, lo depose mezzo stordito a la porta chiusa di quel piccolo albergo.

Ah mon Dieu!… — sospirava l'uomo battendo i denti, ne la stanza fredda e quasi buia — Leçons de ballo ne troverò? Messieurs… io sono un ballerino parisieeenn… — e si raggomitolò fra le lenzuola ruvide — Ca nce sta tutt' a museca che nce vole… Tango Pegoud-pegoud, Roulli-roulli… Ah la guerre!… — e sbadigliando s'alzò a sedere sul letto e spense la candela — Josette… che peccato! Pas d'argent ma mie!… — e si voltò sul fianco indolenzito — Josette… burro!… — e s'addormentò.


***


Brutta cosa pas d' argent, uno stomaco sano ed un appetito formidabile… Brutta cosa!

— Signore non vuol vedere nemmeno il Duomo? — e l' albergatore guardava con una certa curiosità diffidente quello strano viaggiatore in smoking, appena alzato: un miscuglio d'eleganza e di miseria.

— Il Duomo? Voyous… — e s'incamminò per la lia indicata ne la speranza di trovare il suo uomo, v'allievo, u turso, pronto a fiutarlo da lontano.

Ma era dunque deserta, la città, oppure gli abitanti, quegli uomini torpidi e sonnacchiosi di cui aveva udito l'idioma strascicato appena giunto, dormivano ancora?

— Il Duomo… ah sì!… gentil!…

Ma quel che gli rimase bene impresso di quella sua escursione mattutina fu un buon odore d' umido che veniva a zaffate da una piccola trattoria.

E pioveva: la stessa acquerugiola che gli roteava dinanzi agli occhi come uno sciame d'insetti al sole: la stessa noia che stillava da le mura decrepite, s'annidava tra le fenditure, scorreva in rigagnoletti melmosi per i vicoli deserti, trascinando cumuli d'immondizie: lo stesso abbandono che ravvolgeva nel silenzio le porte un po' sconnesse de le casupole nere, i cancelli degli orti ove l' erba sbucava tra le sbarre e s'adagiava su le soglie in freschi e morbidi grovigli, da lungo tempo, forse, non violati da piede umano.

Nudi, squallidi, erano gli orti e una tristezza accorata veniva dai pergolati che mostravano l'ossatura fradicia e sbilenca; dai viottoli che scomparivano quasi sotto una flora grassa, verdastra, germogliata da le pozzanghere nel viscidume de le acque morte; dai salici, le cui rame sottilissime prive di foglie ricadevano da ogni lato in agili curve, come zampilli d'acqua cristallizzati.

Una campana sonava lentamente, monotona, eguale: nel silenzio rimase a lungo la vibrazione lamentosa, il fremito cupo de gli ultimi rintocchi…

Gaston D' Amour tornò a l'albergo fradicio e sccrato

Pardon… ma i Signori addò stanne?

— Al Caffè: non vede come piove?

L'uomo s'incamminò di nuovo, sguazzando ne la mota con quelle scarpette da ballo mezze sfondate.

Il calore e il fumo distendevano un velo opaco su le vetrate del piccolo caffè: egli s'avvicinò scrutando ne l' interno…

Intorno ad un tavolo un gruppo di uomini stava assorto al gioco: altri in piedi, vicini, osservavano la partita e scommettevano forse fra loro. Qualche solitario leggeva il giornale: in un angolo, sul largo divano di velluto rosso, un uomo era seduto placidamente, il sigaro spento penzolante a l'angolo de le labbra, senza leggere, forse senza pensare nemmeno.

— No, quello no… — disse fra sè Gaston D'Amour — un uomo panciuto, con una pesante catena d' oro su lo stomaco non impara il Tango…

L'altro che mangiava paste su paste, sprofondato negli alti stivaloni… No, neanche quello!… Ancora, ancora, più in fondo… — Oi'ca l' homme, u sculare!… E vide in un lampo un viso d'adolescente roseo e paffuto, una mano grassoccia carica d' anelli, una testa lucida da la scriminatura impeccabile. Entrò sicuro, impettito nei panni zuppi che gli s'incollavano addosso.

Pardon, monsieur… io sono un maitre de danses parisieeennes… Ah la guerre!…


***


Fu proprio un fanatismo: trovato il primo allievo gli altri vennero a frotte e l'argent piovve come la manna ne le tasche vuote.

Uno… due… Un due tre… — tutto il giorno si sfiatava. Tutto il giorno era una lotta faticosa fra quelli composti, duri, e l' altro che tentava piegarli ne l'agili movenze de la danza parigina.

E avvenne una cosa strana: quel tango di tabarin e di gargotte si trasformò poco a poco, si plasmò a l'ambiente. La provincia gli s' infiltrò pian piano, lo fece suo e ne trasse fuori un' impasto di semplice, d'onesto, di grave, come una qualche vecchia cosa dissepolta da le cassapanche domestiche, fra i panni candidi profumati di lavanda, o fra le vesti antiche odorose di pepe e di canfora.

Lulù Landolfi, il primo allievo, era il più esperto e ci si appassionava, si metteva giù a capo fitto per imparare; ci fiutava dentro l' aroma del peccato, in quelle danze, qualcosa di delizioso e di perverso che la semplice gioventù non aveva conosciuto mai. Su lo smoking logoro di quel miserabile ballerino la polvere di tanti piccoli palcoscenici aveva formato uno strato speciale emanante profumi acuti di donna, quel sentore di folla, di sigarette, quel non so che di snervante che fluttua ne l'aria dei caffè-concerto.

Gaston D'Amour l'impietosiva con il racconto de le sue miserie, in quello strano gergo di pessimo francese ove l'idioma natio si ripeteva con un ritornello incessante, ne la parola volgare de' bassi fondi di Napoli.

— Nel Belgio, giocavo, a l'Elyseum de Louvain… c'era Mam'zelle Josette e danzavamo Pegoud-pegoud, le dernier cri de Paris… Ma un giorno fu cumme na cannonata: les boches! les boches!… Sauve qui peut… Peggio d' o' terremoto… Corro: l'albergo fermè, il padrone s'è squagliato, vestiari, robbe, currele appresso!… Io fuggo in smoking… Josette con un cappotto de soldato ncuolle…

A poco a poco lo rivestirono tutto: ed egli apparve allampanato, sperduto entro quei panni non suoi ne la giacca troppo larga, ne le maniche corte donde uscivano i polsi ossuti, villosi; nei pantaloni ampi che gli ciondolavano su gli stinchi come fossero vuoti: un insieme grottesco di miseria scapigliata, chiusa in quegli abiti di saggi borghesi.


***


Lulù Landolfi, tornando a casa frettoloso per la cena di Natale, incontrò presso l'albergo il maestro di ballo che doveva partire l'indomani. Gli fece pena, quel pover'uomo sperduto nel mondo, solo in un paese ove non aveva nessuno; solo, la vigilia di Natale… Gli fece pena…

— Andiamo, Gaston, venga a casa mia…

Comment?

— Venga a cena con me!

— Io?… oh grazie, signor Landolfi!… — e gli occhi vivaci di meridionale ebbero un lampo di gratitudine sincera.

Quando egli entrò ne la vasta sala da pranzo la fiamma crepitava, allegra, nel caminetto e da la lampada sospesa veniva un chiarore mite.

L'uomo restò su la soglia imbarazzato, in un improvvisa timidezza, mentre Lulù parlava sottovoce con la madre. Meglio — pensò — trovarsi dinanzi al publico sul piccolo palcoscenico, ben mascherati dal belletto, che ne l'intimità di quel nido raccolto, in quel profumo di pace, di purezza, di serenità ov'egli si sentiva così estraneo. Ambienti simili Gaston non ne conosceva… Ebbe il desiderio di tornarsene indietro, ma quel senso di laguido torpore che invade le membra di chi, tremante di freddo, si trovi finalmente dinanzi al fuoco, lo assaliva pian piano e gli toglieva ogni energia.

Le ragazze lo guardavano curiose, strette fra loro, allacciate a la vita con le braccia, formando una catena di giovinezza ove i visetti accesi, un po' abbassati, spiccavano come rose.

Il vecchio gli stendeva la mano — Venga avanti signor… signor… Scusi, come si chiama?

— Gaston D'Amour — disse il ballerino, inchinandosi e mai quel pomposo nome d'arte gli era sembrato più falso, più ironico.

— E così, dunque, la guerra eh?…. Racconti un po'… Segga vicino al fuoco: è tutto fradicio, santo Dio!

Egli narrò la sua odissea, ma brevemente, timidamente, quasi: aveva de le esitazioni strane, quella sera… Non parlò di Josette.

Una luce vaga sorgeva dal fondo di quella coscienza addormentata: qualcosa di tanto dolce che gli faceva bene e male insieme…

Ora la tavola candida era cinta di bimbi, come un prato di neve chiuso da una siepe di fiori. L'infanzia, garrula, squillò tutte le sue campanelle d'argento: le manine s'agitarono sul biancore de la tovaglia come petali di rose.

Gaston si guardò i polsi nudi, scarni, che s'ostinavano a venir fuori da quelle maniche troppo corte e n'ebbe vergogna…

— Ma non ha nessuno, lei? — chiese storditamente Rosetta, la maggiore de le figliole, bruciando dal desiderio di far parlare quel vagabondo. La madre le lanciò un'occhiata severa di rimprovero.

— No, signorina: non ho che la matrigna…

Un silenzio penoso passò come un'ombra su la tavola bianca e lucente: poi i bimbi trillarono in un nuovo scoppio d'allegria: — Mamma… i dolci!…

Oh il buon odore di quelle vivande casalinghe semplici, sane, gustose!

Ma Gaston D'Amour, calmato il primo impeto di quella fame, accumulata ne lo stomaco avvezzo a le lunghe astinenze, mangiava piano e non parlava… Inutilmente Lulù lo incitava, ridendo.

Quella pace gli sfiorava l'anima come una carezza morbida di piume e tutto il suo piccolo mondo, chiuso fra la miseria di quattro scene dipinte, dileguava lontano lontano… Un'amarezza nova gli serrava la gola in un rimpianto acuto, nostalgico.

Oh la sua vita inutile di cane randagio…


***


Tornò solo verso il piccolò albergo, mentre vibrava ne l'aria il primo squillo de le campane: il Mattutino.

La piccola città appariva raccolta, muta, trepida in quella notte santa, come una vergine che attenda il miracolo.

Il Mattutino… Un lume brillò a le piccole finestre: disparve. Un chiavistello arrugginito stridette, fioco: qualche uscio cigolò ed un chiarore tremulo di lucerna, allungandosi su le pietre bagnate de la via, frugò incerta su la parete di fronte…. Gli scialli neri, silenziosi, scivolavano ne l'ombra verso la chiesa, nel molle ritmo del passo leggero.

L'uomo sentì il desiderio d' indugiarsi in quella pace infinita, d'abbeverarne l'anima: s'inoltrò per una stradetta buia, strisciò lungo le mura d'un convento… Un canto dolce e triste saliva lentamente ne l'immensità, lieve come una nube d' incenso. Egli si fermò, avvinto da la malia del sogno… Labbra di donne, di bimbi, o d'angeli?

Qualcosa di puerile, d'infinitamente buono, gli germogliò improvviso da l'anima, come una ninfea candida su le acque torbide d' uno stagno.

Da la porta dischiusa s' intravedeva la povera chiesa bianca, le donne prostrate nel manto nero de gli scialli, l'altare splendido, ove i ceri sembravano fasci di steli recanti a la sommità corolle luminose. E da l'alto, fra le ruvide sbarre de le grate, stillava la nenia dolcissima come una pioggia lenta e ritmica di fiori.

Il vecchio muro del convento vide l'uomo appoggiare lentamente un braccio a le pietre sporgenti, abbandonarvi la testa pian piano e seppellì, geloso, quel piccolo segreto tra le fenditure, sotto le chiome de l'erba.

Il vagabondo aveva pianto.


***


A l'alba, quando quel carrozzone sgangherato, nel tintinnio assordante dei vetri lo trascinò di nuovo verso la stazione, Gaston d'Amour sporse, piano, la testa dal finestrino.

La strada si perdeva tortuosa, biancastra fra le casupole addormentate, ne la tenerezza scialba de la prima luce. E l' uomo che riprendeva la via verso l'ignoto, guardò quelle mura assorte in un grande sogno di pace con una tristezza accorata… Come si guarda un amico che, forse, non si vedrà mai più.

A Giuseppina Locatelli Mosconi

Zia Gigia era la provvidenza de la casa.

Nessuno s'accorgeva di lei umile, silenziosa, che giungeva sempre inavvertita con quel suo passo leggero di donnina magra.

Zia Gigia faceva miracoli: cuciva, vestiva bambole, componeva liti nel branchetto turbolento dei nipoti, impediva per quanto poteva le scorrerie di quei monelli maleducati negli orti vicini: rassettava gli armadi, metteva un po' d'ordine dovunque.

In casa nessuno le badava: ella dava tutto e non chiedeva nulla. Da la cantina al solaio, da l'orto a la cucina, risonava sempre quel passo rapido, uguale come il ticchettio di un metronomo in un agitatissimo presto.

V' era in casa la cognata pingue, sciocca; una massa di carne mal coperta su cui galleggiava lo scapolare benedetto, che veniva fuori dal vestito sudicio e slacciato. Aveva fatto tanti figlioli che tutta quella po' di vitalità concessale da Dio l'aveva trasmessa in loro: adesso troneggiava grassa e placida su la tribù dei marmocchi come un Budda familiare o s'aggirava per le povere stanze con un passo da pachiderma ammaestrato, che faceva tintinnire i vetri a le finestre.

Il capo di casa faceva il bagarino; batteva tutto il giorno la campagna, incettando generi su cui speculava con ogni mezzo. Tornava a casa stanco, sudicio di mota, di sudore, con un tanfo di stalla ne gli abiti e di cattivo tabacco ne la barba incolta.

Aveva un modo di camminare tutto suo, con quelle gambe arrembate da le ginocchia in fuori; arrancava forte con le braccia arcuate, troppo lunghe per il corpo tozzo: pareva ad ogni movimento le volesse buttar via lontano. Lavorava tutto il giorno come un bue: parlava troppo forte, con grandi gesti di quelle braccia da quadrumane che arrivavano sempre troppo in là. Gli occhi rotondi sporgevano da due borse di pelle floscia che gli scendevano fino ai pomelli. Se s' arrabbiava, quelle pallottole lucenti pareva schizzassero fuori: allora guardava losco. Quando lo sentivano per le scale, il branchetto turbolento dei monelli se la dava a gambe, lasciando ancora qualche traccia vandalica al passaggio.

In gioventù aveva letto i « Miserabili » e malgrado le proteste del parroco aveva voluto chiamare i due primogeniti Valjean e Cosetta. L'uno era il ritratto del padre: un corpo tozzo, un testone dagli orecchi a ventola e gli occhi rotondi: prepotente, screanzato. L'altra morbida, piccina, una statuina di Sèvres, una manata di piume, un nulla. I polsi e le caviglie sottili: il visetto lungo e pallido sempre un po' inclinato. La bocca pensosa, semiaperta le dava una grazia semplice e triste come quella che hanno gli angeli doloranti del Bonfigli.

Tanto diversa era la bimba da gli altri figlioli, che le buone comari del vicinato non sapevano darsene pace. Ma il veleno che schizzava da le linguette viperine non faceva presa su l'unto de la melensa onestà materna e scivolava giù pian piano su la pelle lucida, come su pavimento insaponato.

Zia Gigia si moltiplicava, ma non aveva il dono de l'ubiquità; a volte, mentre essa cuciva o correva a sedare una rissa infantile, la cognata s'addormentava vicino al fuoco. L'eterna calzetta da i ferri un poco arrugginiti le cadeva in terra; il gatto ruzzava col gomitolo, arruffandolo e il pranzo bruciava allegramente sul focolare.

Allora davanti a gli occhi attoniti de i piccini l'uomo s'abbandonava a scene violenti e disgustose. Stoviglie che volavano in frantumi, male parole, lacrime de la pingue metà che colavano giù lente lente, come gocciole di sego. Spesso, un ceffone chiudeva la baruffa coniugale e poichè il marito lo dava di cuore, con la mano aperta, le dita discoste si riempivano di quella carne molle come bambagia.

I figlioli guardavano e imparavano tutto, con l'avidità dei bimbi che hanno i sensi protesi come uccelli da preda, pronti a ghermire a volo tutto ciò che non conoscono ancora.

Le anime infantili sono tavolette di cera segnate appena di pallide tracce: foglie tenere nate al vertice d'una pianta altissima, che sanno la sola limpida serenità del cielo. Poi la vita v'inciderà le prime parole: quelle che riposeranno dimenticate ne l'intimo, ma saliranno sempre a le labbra, come bolle di saliva, quando un soffio impetuoso di passione ve le sbatterà, calde ancora del nostro sangue che le accolse, ignaro e le serbò nascoste.

Improvvisa, la vita, afferra le anime dei bimbi ed esse perdono ne la prima stretta tutta la fresca luminosità, come quelle farfalle che lasciano fra le nostre dita un polviscolo d'oro e volano via a fatica con le alucce deturpate che non risplenderanno al sole mai più.

Cosetta, fine, delicata, ne la sua sensibilità un po' morbosa e precoce, aveva un disgusto invincibile per le escandescenze paterne. Nascondeva la testa sotto il grembiale nero di zia Gigia; così le sembrava di essere al sicuro, in un rifugio d' ombra immune da quell'alito d'uomo avvinazzato che appestava la casa.

Valjean respirava invece la brutalità paterna che accoglieva già tutta a lo stato latente ne l'anima giovane. Teneva a memoria atti e parole, ripetendoli a la sorellina minore quando giocavano « a marito e moglie ». La bimba fingeva di preparare il pranzo, prendendo inconsciamente gli atteggiamenti materni: egli entrava con fiero cipiglio, misurando la stanza a gran passi. Faceva il « marito inquieto ». Allora la bimba si metteva a piangere e lui s'infuriava e la batteva davvero. Infervorato de la sua parte di maschio prepotente finiva per viverci dentro, come certi uomini che si montano da bravi istrioni ed amano racchiudersi in una rete d'inganni ove l'anima brancola, cieca, senza la luce del vero e si contorce e soffoca, simile a l'insetto che chiuso in un cerchio di fuoco si dà la morte con le sue stesse branche avvelenate.

Zia Gigia era per Cosetta la mamma vera, quella che ne curava il corpicino delicato e l' anima irrequieta; l'altra non era che la femmina feconda che le aveva dato la vita.

L' addormentava a sera con certe povere fiabe dolcissime che sapeva lei sola; le creava per la sua piccola regina; le cercava in sè, nel fondo del cuore, in quel piccolo scrigno che racchiude i gioielli de l'anima: sogni che non abbiamo vissuto, parole belle che non abbiamo detto. La conduceva in chiesa a le funzioni, poi le faceva fare il giretto serale per il Corso: la bimba s'incantava a guardare le belle signore.

Ve n'erano, allora, di due specie: le orvietane vere e quelle che per essere maritate in provincia, ma native di una grande città, coglievano ogni occasione per fare tutto l'opposto de le altre.

Fra cittadine e provinciali era una schermaglia di piccole malignità, un incrociarsi di sottili ironie sussurrate a bassa voce, come si conviene a persone distinte e bene educate.

Le une giravano tutto il giorno, entravano e uscivano dal Caffè; facevano sfoggio de le prime mode, le più bizzarre, con quella sicurezza di donnine belle ed eleganti che sanno il fatto loro.

Le altre le canzonavano, poi tentavano imitarle: uscivano tutte guardinghe come uccelli notturni e sgattaiolavano per le chiese finchè c'era luce. Quando erano accese le lampade, cominciavano a far la spola da la Torre del Moro a la Piazza: le figliole tessevano onestamente sotto i vigili occhi materni le prime trame dei lacci matrimoniali. Non entravano mai al Caffè (régno maschile, regno di vizio) con grande soddisfazione degli uomini che giocavano impunemente ne gli angoletti nascosti.

Cosetta se ne andava a malincuore da quella via luminosa e tornava ne la penombra del suo vicolo lontano, sognando di avere anche lei, come quelle signore belle, un cappello grande con le piume.

Poi, zia Gigia accendeva lentamente la lucerna, con quelle mani pallide che tremavano sempre un poco. I bimbi sudici, stanchi, s'aggiravano intorno a la tavola, chiedevano mille cose tutte insieme: il più piccino piangeva, stropicciandosi gli occhi, in un lamento monotono di bimbo assonnato.

A volte, fra tutto quel guazzabuglio di risse infantili e di bestemmie paterne, si levava limpida la voce di Cosetta: zampillo d' acqua in un raggio di luna; pioggia d'estate su foglie riarse; mormorio spumoso di cascatella che s' infrange fra i sassi. Allora nel rombo de la macchina da cucire era un tintinnio di cristalli, una squilla d'argento; una trama sottile di melodia che s'annodava sul davanzale, tra i geranii in fiore, oscillava ne l'aria e pioveva giù, leggera, da l'umile finestra di zia Gigia in un rivolo di luce: come certi fili visibili appena sospesi fra i rami de le piante, limpidi monili ove ogni gocciola di brina è una gemma che risplende nel sole.

A Grazia Deledda

— Dodici… dodici e venticinque. Ecco qua.

Santa consegnò al cartolaio i danari contati; prese l'involto dei quaderni, incrociò lo scialle rosso sul petto, fermandone le cocche a la cintura e uscì fuori sul Corso affollato in quel mattino domenicale.

Camminava adagio, con indolenza, facendosi largo fra i crocchi dei contadini piantati in mezzo a la via come pali: lo scialletto rosso la stringeva ne le spire di fiamma, modellava la magrezza pieghevole, armoniosa e animava d'un riflesso caldo di tramonto il pallore opaco del viso. I capelli neri, alzati semplicemente su la fronte, erano raccolti a la sommità del capo in un casco pesante: gli occhi scuri, fasciati d' ombra sotto le ciglia foltissime e diritte, molto aperti in un'espressione di stupore infantile; lo sguardo incerto, vagante, velato di sogno.

Passione, dolore, vizio, tutto ciò che incide rughe profonde, che affina lo spirito e macera la carne, che distrugge e crea, era scivolato senza sfiorarlo su quel viso di statua classica, placido e bianco come marmo levigato.

Ella attraversava adesso la piazza: una larga macchia di sole nel brusio mattiniero del giorno di festa. S'inoltrò ne l'ombra del palazzo d'Ippolito Scalza; scomparve sotto l'arco del Municipio.

Ora la strada bianca di luce non era più ingombra e la donna procedeva sollecita: il buon sole di primavera le batteva in piena faccia ed ella abbassava un po' la testa, socchiudendo gli occhi al chiarore.

Giunta al bivio svoltò sotto un'archetto bruno fra due case patrizie.

Santa era servigiana de le monache. Sua madre aveva disimpegnato per molti anni lo stesso ufficio e la bimba era cresciuta ne la quiete contemplativa di quel mondo claustrale carica di santini e di medagliette, tra la gaiezza fiorita de l'orto e la penombra mistica de la chiesa, fra zuccherini, carezze e baciamani; fragile e bianca come una damina del settecento.

Ella era il sorriso e la tenerezza di tutte le monache; la volevano sempre in parlatorio (chè nel monastero v'era clausura per chi non frequentava la scuola) e l'accarezzavano attraverso la grata, mentre forse ne le pupille buone tremava un sogno di maternità.

Santa ricordava quelle mani pallide venate d'azzurro, sperdute ne le ampie maniche nere; mani di cera odorose d'incenso, tese fra le sbarre a la carezza come certe rose scolorite che fiorivano sul muro del convento e sembravano protendersi avidamente verso il sole.

Per qualche tempo la bimba si recò a la scuola, ma solo per il lavoro: diceva sua madre che ad un'umile creatura come lei, non era necessario saper leggere e scrivere. Imparò tante piccole poesie che diceva a Natale davanti al presepe, dove erano Re Magi adoranti, prostrati ne' mantelli orientali: mandre di pecore piantate nel muschio; pastori barbuti, angeli sospesi con l' ali chiuse e la tunica cosparsa di stelle d'oro: un piccolo mondo di leggenda che seguitava lungamente ad aleggiare ne' sogni infantili.

E tante dolci canzoni, imparò: tutte quelle che scendevano da le grate del coro ne la chiesa, ove sola, essa, ascoltava. Era il suo regno quella povera chiesa sempre deserta: ne conosceva e ne amava ogni angolo, ogni pietra. Rimaneva lungamente estatica davanti a la nicchia dove sorrideva la Vergine con le mani chiuse sul petto, come due gigli. Una volta le era venuto in mente di scrivere una lettera a la Madonna: aveva scarabocchiato un foglio, impostandolo ne la cassetta de l'elemosine. I santi, d'intorno, le ispiravano più confidenza: erano i suoi amici. Narrava loro a bassa voce, con aria di mistero, tutti i suoi crucci infantili.

Le piaceva, nei vesperi, indugiare ne la chiesa silenziosa; restare così, inerte, fantasticando, i grandi occhi di sogno vaganti fra le ombre che s'addensavano. Fuori, stridevano le rondini in un turbinio di voli fantastici, intorno a le torri antiche che ardevano di riflessi cuprei nel sole. La campana del convento chiamava e i tocchi lenti erano per la fanciulla parole di voce amica. In quell'ora le monache scendevano in confessione: ad ogni numero di tocchi corrispondeva un nome.

— Suor Maria Saveria…. — chiamava la vecchia voce un po' velata. — Maria Cecilia… in confessione!

Venivano le monache da le celle luminose che accoglievano in quell'ora tutto il tramonto; sfilavano lente nel coro, ove un ultimo raggio piombava giù da l'alta finestra in una striscia d'atomi lucenti, che faceva pensare ad una scala d'oro lanciata attraverso la grata, verso il cielo. A poco a poco quello splendore si velava di viola e per tutto il coro era una dolcissima chiarità incerta. Le monache s'inginocchiavano in silenzio presso gli stalli: ne lo sfondo biancheggiavano i soggoli.

Silenzio: mistico silenzio.

Fruscii di gonne lievi come frulli d'ali; ombre scivolanti senza rumore; un bisbiglio sommesso, pagine sfogliate nel libro di preghiere, uno svolio di veli, l'oscillar di una lampada, l'agonia di qualche rosa su l'altare.

Così passava per la donna la giovinezza malinconica: senza gioie, senza dolori, come una verde acqua stagnante. Quando sua madre le propose a marito un uomo non più giovane, ma buono e danaroso, Santa accettò con la sua placida indifferenza e unì inconsapevole il fresco rigoglio dei suoi diciott'anni a quella maturità che già declinava.

Dopo qualche tempo l'uomo era morto, la madre di lei quasi cieca dagli anni l'aveva seguito, ed ella, per non vivere sola, aveva chiamato presso di sè un suo nipote: Alberto. Guercio, mezzo scemo, egli faceva da sagrestano, fabbricava gabbie e accecava uccelli in barba a la legge, vendendoli a caro prezzo per le cacce autunnali.


***


Ne la stanza piena di luce Santa cuciva vicino a la finestra aperta, dove i fringuelli del sagrestano cinguettavano in coro ne le gabbiette appese al sole.

Intorno, poche suppellettili: sul piano del cassettone la toletta, con due mappe rosse di carta velina appese fra la cornice de lo specchio e le aste di legno lucido de la pettiniera. In un angolo, un tavolo e sopra una lampada a petrolio con la figuretta di una ballerina appesa al globo opaco; alcune frutta d'alabastro, un astuccio da lavoro.

A le pareti oleografie de le stagioni, cartoline, ritratti: il Sacro Cuore chiuso fra un tralcio di rose rosse ricamate su raso bianco e intorno altre immagini di Santi, una piccola acquasantiera, la plama benedetta.

Vicino a l'uscio, il campanello, richiamo petulante del convento, squillò forte in un tintinnio improvviso. La donna depose il lavoro, discese le ripide scalette di pietra.

— Presto, vi cercano — e il faccione ridente de la portinaia apparve a lo spiraglio de la porta.

Santa entrò nel parlatorio ed attese. Da la finestra entrava il sole fra le tende di mussola bianca, che si gonfiavano come vele al vento. Saliva da la piazzetta un allegro vocio di bimbi, i colpi sonori di un martello su l'incudine. Attraverso l'invetriata interna, oltre la grata, ella vide venire una monaca lungo il porticato. Camminava svelta, lasciandosi dietro la scia palpitante del velo nero. Entrò senza rumore, nel leggero dondolio del rosario che le pendeva al fianco.

— Sentite, è venuto il medico, adesso… Agnesina sta proprio male: ne avrà per un pezzo!

L'altra non si scosse: le era antipatica quella vecchia signorina con gli occhiali a stanghetta, le spalle piatte che pareva le bucassero i vestiti, i capelli tirati a le tempie e raccolti su la nuca in un nodo a punta dove teneva sempre infilzato qualche ferro da calza. Unica insegnante secolare, essa accompagnava dovunque le educande.

Santa l'aveva avuta a maestra di lavoro giovanissima; ringhiosa contro le sue piccole suddite impaurite, cui fioccavano strane penitenze: baciare la terra, tracciare croci con la lingua sul pavimento.

La Superiora, quel giorno, pareva preoccupata.

— Anna Sciarra deve tornare in famiglia: poichè Agnesina sta male l'accompagnerete voi, questa volta.

La donna piegò la testa ubbidiente, ma seccata. Poi il pensiero di essere messa a la pari de la bisbetica signorina le fece piacere.

— Quando, Madre?… Domani?… sta bene!

Il giorno dopo, allorchè una carrozza nera simile a quella che conduceva Monsignore in visita al Convento, si fermò su la piazzetta, Santa aspettava già pronta, con la sua piccola valigia, in un semplice vestito nero che ne affinava la dolce bellezza.

— La vettura è a la porta…

— … e scrivi subito…

— Signori è tardi!

— Un altro bacio, così: e Dio t'assista, figliola!

La vettura alta e pesante, tirata da due piccoli storni che il cocchiere arrampicato lassù pareva non dovesse ritrovare nemmeno con la frusta, partì al trotto in un gran rullio di ruote. Le due viaggiatrici sballottate per l'ineguaglianza dei ciottoli, s'urtavano a vicenda in un curioso dondolio. L' educanda, con il nasetto rosso per qualche lagrimà recente, perdeva tutta la grazia vivace de l'adolescenza sotto il cappellino antiquato e nel mantello troppo ampio che l' infagottava tutta. Santa, le mani raccolte placidamente in grembo, pensava e le ciglie diritte si congiungevano quasi, divise solo da una ruga sottile che si disegnava in mezzo a la fronte.

Forse ricordava che un' altra volta quella stessa carrozza l'aveva portata verso la stazione, in un gran strepito di rote e di sonagli: allora era vestita di bianco ed aveva vicino lo sposo debole e infermiccio, impacciato negli abiti di festa. Ma il ricordo del breve viaggio di nozze non le accese nessuna fiamma nel sangue, poichè il pallore opaco del viso non si colorì e l'olimpica serenità di bella statua non ne fu turbata.

Ora, la piccola ruga era già scomparsa e ne l'abbandono de la sua dolce indolenza, la donna, forse, non pensava più.


***


Faceva caldo lassù, al quinto piano, in quel piccolo salotto borghese carico di tappeti e soprammobili, dove alcune amiche de la famiglia Sciarra s'erano riunite per festeggiare il ritorno de l'educanda.

Qualcuno accennava un motivo al piano forte; v'era intorno un sottile odore di cipria, uno svolio di merletti e di gonne leggere, un fruscio di sete: risa, trilli e lunghe esclamazioni gioconde nel ritmo dei ventagli.

Santa, appoggiata a la porta, guardava con gli occhi attoniti quel mondo frivolo e gaio che le cinguettava d'intorno.

L'avevano accolta con simpatia, battezzandola subito « la monachella » per il suo vestito nero, per quel viso dolce e bianco, per la timidezza puerile che la faceva stare tutta raccolta in sè come una sensitiva.

Anna Sciarra aveva ritrovato subito fra le pareti domestiche quell'esuberante vivacità di fanciulla sana e intelligente, che due anni di educandato avevano cosparso appena d' un po' di cenere e che in convento aveva fatto esclamare una volta ad una vecchia monaca francese: « Ma fille, vous aimez trop la vie!… ».

— Signorina, io parto domani — disse piano Santa a la fanciulla, quando questa le passò vicino, ridendo.

— Non voglio, sai…. Resta qualche giorno con noi. Sono tanto contenta d'avere te invece di quella mummia!…

Risero insieme allegramente al ricordo de la brutta signorina lontana: Santa si rinfrancò un poco. Anna Sciarra l'osservò un'istante:

— Come sei pallida!… Dì: ti senti male?… La stanchezza, forse… Eppoi fa caldo: non si respira, qui!… Vieni fuori — e le afferrò le mani, trascinandola: — Vieni a godere quel che si vede di quassù! — Spalancò l'invetriata, uscendo su la terrazza, l'attraversò di corsa fino al parapetto, appoggiandovi la personcina fremente.

— Guardala dunque, Roma, tutta bella, tutta mia!…

Santa non era colta, ma possedeva quel dolce privilegio che hanno ne l' Umbria anche le umili creature: quel raffinamento del senso estetico che fonde in una sola armonia sorrisi di madonne e di cieli; arditezze di guglie e trasparenze d'alabastri; ubertà di vigneti e languori d'ulivi; fulgori di mosaici nei vesperi, candori di marmi in chiarità mattinali; ne la terra vestigi rudi d'una morta civiltà; ne l'azzurro musiche d'acque e di foreste al vento.

Ella aveva in sè tutta quella profonda religione del bello, che forma ne la quiete provinciale l'intensa vita de l'anima.

Senza parola, aveva giunto le mani in muta adorazione. Saliva da la città l' ansimare d' un mondo sconosciuto; urgeva la grande sinfonia de la vita con le sue mille voci discordi, mugghiava come turbine che scrolli le chiome d'immense boscaglie. Nel cielo l'ardente primavera romana sfogliava tutte le sue rose.

Erano nel tramonto tremolii d'atomi d'oro, un vago fluttuare di veli purpurei, bagliori d' incendi: Roma, laggiù, viveva forse un gran sogno d'impero.

Qualcuno rise forte su la terrazza altissima, vicino a quella fragile donna estatica che si volse di scatto e sentì sul viso un alito caldo, odoroso di sigaretta, di salute, di gioventù: vide guizzare il riso in un luccichio di pupille e di denti, agli angoli d'una bocca bellissima e un po' beffarda, in un viso scarno, segnato di passione e di volontà.

— Mario… Mario curioso!… Ci hai seguite?… — diceva scherzando Anna Sciarra al fratello.

Egli rise ancora con gli occhi socchiusi, la testa abbassata contro gli ultimi bagliori del giorno che gli accendevano riflessi di rame fra i capelli castani: le nari del forte naso aquilino, dilatate, fremevano come aspirando un profumo violento.

— Guardi, dunque, laggiù…. — e la mano di lui si posò leggera sul braccio di Santa, cercò il polso nudo oltre la manica, strisciò lenta da le vene su l'anima.

Il pallido viso femineo s' accese in un baleno, come un'umile vetrata che accolga l'estrema luce del sole. Santa non vide più che la dolce insidia di quella bocca bellissima vicino a lei: tutto scomparve, d'intorno, in un mare d'oro, su cui vagava un suono dolcissimo di campane.

— Guardi ancora… — e il viso scarno, segnato di passione e di volontà, si curvò su di lei in atto di dominio — Questa è la vita!… —


***


Così la semplice creatura, arse nel risveglio improvviso dei sensi e de l'anima in un impeto selvaggio di primitiva e la sua carne giovane, macerata in digiuni, penitenze, preghiere non fu che un grido solo di ribellione inconsapevole.

Quando quel viso scarno protese ne l' ombra la dolce insidia de la bocca ardente e due forti braccia la ghermirono, ella fu tutta uno spasimo da la nuca al tallone, tutta una fiamma. Cuore, sangue, offrì su la bocca al dominatore violento e non fu che la sua dolce preda ne l' ombra dei capelli disciolti, esile e bianca come i suoi gigli, che laggiù, lontano, agonizzavano ancora su l'altare.

L'indomani lasciò quella casa ove le avevano strappato le bende dorate del suo placido sogno. — Guarda… — aveva detto la voce maschia con richiamo imperioso — Questa è la vita!… —

Ma non partì: le monache nel silenzio grigio del convento non la videro tornare.

Qualcuno l' aspettò per via e la condusse con la sua piccola valigia in una casa troppo elegante, fra gente ignota. Ella si ribellava appena, debole, immemore: una povera cosa senza volontà in quella gran fiumana che la travolgeva.

— Domani me ne andrò… — si diceva per calmare il suo male, il tormento di quella voce che gridava forte e non voleva tacere, non voleva morire. Non seppe mai quanti giorni, quante notti passarono: fu un lampo, un'eternità.

Venne una sera in cui attese invano con l'anima sospesa, serrando i denti per l'angoscia come per non lasciarsi sfuggire la vita, senza più battito nei polsi.

Saliva da la strada il tintinnio de la campanella d'un tranvai, lo stridore di saracinesche che s'abbassavano su vetrine luminose, un frastono continuo, assordante. Il chiarore d'una lampada ad arco entrava ne la stanza, dilagava sul tappeto in una luce bianca di plenilunio.

Santa si ripiegò lentamente vicino a la finestra; s'accovacciò in terra con i gomiti appuntati su le ginocchia alzate, il viso stretto ne le palme ardenti, fra i capelli sciolti. Sola, era, fra gente ignota… Che aveva fatto?… Perchè?… E la mente si smarriva in un tumulto di pensieri tronchi, che balenavano appena come lampi di luce e si perdevano subito in un gran buio.

Che avrebbe detto? L'aspettavano, laggiù!… Tornare in quella pace di sogno: bendarsi gli occhi per non vedere più quella bocca dolcissima e beffarda; chiudersi gli orecchi con le mani per non sentire quel riso di scherno ne l'ombra. Dannata, s'era: perchè?… Chi aveva bestemmiato l' amore?… Chi aveva maledetto il piacere?… Perchè?… E tutti i terrori di quella sua religione chimerica si levarono senza pietà contro il sangue ribelle, contro la pallida carne che aveva peccato.

Furono atrocità di demoni fra bagliori di fiamme: grovigli di corpi umani stretti insieme dal cerchio ferreo di una stessa tortura: il castigo senza fine, senza perdono. Tutte le visioni che, bambina, l'avevano atterrita ne la cappella tragica del suo Duomo lontano, tornarono a la mente sconvolta in una tregenda paurosa.

Ora, tutto era silenzio ne la via: qualche voce, un fischio, un passo pesante ed eguale che si perdeva ne la notte.

Ne la stanza troppo elegante, in quella luce pallida che pareva chiarore di plenilunio, la creatura rannicchiata in terra non si moveva più. Fra l' ombra densa dei capelli che lambivano il tappeto veniva un lamento dolce e monotono: una parola sola, breve come un singhiozzo infantile: — Perchè?… —


***


Quell' alba tardiva di primavera sembrava non riuscisse a penetrare attraverso lo strato di nebbia densa, lattiginosa, ove tutte le cose scomparivano.

La chiesa era ancora immersa ne l'ombra: biancheggiava nel fondo la Vergine fra i raggi d'oro. Una lampada le oscillava davanti e tingeva di rosa l'orlo de la tunica e il piede nudo che ne usciva fuori. V'era, ne l'aria, odore d'incenso, di fiori: in terra gocciole di cera e larghe chiazze di musco che vegetavano negli angoli.

Il sagrestano, poichè ebbe finito di mettere in ordine seggiole e panche per la pulizia mattutina, entrò ne la sagrestia buia, tetra, ove un Crocifisso agonizzava su la parete verdastra e s'aggrappò con le mani a la corda de la campana. Fra poco sarebbe uscita la messa del mattino. La squilla vibrò in un suono ottuso che sembrò venire di lontano, tra i vapori densi de l'aria.

Alberto rimase un momento aggrappato a la fune che oscillava, voltandosi a guardare verso la chiesa ove gli era parso di sentire un fruscio. Don Angelo anticipava, quella mattina: eppure era così buio che pareva notte ancora. S'avvicinò a l'inginocchiatoio, vi dopose un vecchio cuscino, preparò ampolle, camice, stola per il Sagrificio. Forse le monache aspettavano già, con le braccia in croce, dietro la grata che s'apriva, pronte a ricevere la comunione.

Ma Don Angelo non compariva in sagrestia: certo era là ne la chiesa e pregava.

Alberto sporse la testa, guardando verso l'altare. V'era una figura nera, distesa bocconi su la panca davanti a la Madonna: il viso schiacciato contro il legno era nascosto dai capelli, le braccia pendevano giù dai lati e le mani aperte, rigide, sfioravano il pavimento. Egli ebbe paura: s'avvicinò, urtando una sedia per far rumore, ne la speranza che quella si movesse. Nulla: le mani stecchite sembravano quelle di una morta.

Vincendo la ripugnanza, il sagrestano le toccò una spalla: essa tremò in un brivido di ribrezzo e si rannicchiò spaventata su la panca.

Egli la scosse più forte, finchè quella alzò la testa di scatto, piantandogli in faccia due pupille torbide ove balenava la follia. Ne l'atto brusco i capelli si sciolsero, penzolarono giù come una grande ala nera spezzata.

— Santa… — Gridò il sagrestano: — Santa!

L'altra non rispose e continuò a fissarlo con quei poveri occhi sbarrati, tutta raccolta e vibrante come un arco teso nel disordine de la veste nera.

A l'angolo sinistro de la bocca aveva un po' di sangue aggrumato: chissà come, s'era fatta male.

— Santa, che avete?… — ma la donna con una voce rauca che egli non le conosceva, non disse che una parola breve come un singhiozzo, secca come uno schianto. — Perchè?… —

Le anime si pesano nel silenzio
come l'oro e l'argento si pesano nell'acqua
pura.
M. Maeterlinck.

La mamma non mangiava. Accadeva sempre così ne le malinconiche cene in due — la signora e la bimba - con quel terzo posto vuoto a la piccola tavola familiare. Il vecchio servo immobile, ne l'attitudine corretta di domestico signorile, guardava la padrona con un'espressione di tristezza, di pietà e la testa bianca tremava.

Ella teneva il viso chino; un dolce viso stanco, un po' malato, come quello che hanno le pallide madonne del Francia.

La fronte ampia viveva ne la luce che pioveva da l'alto e il pensiero vi traspariva come la fiamma da l'alabastro. Una mano abbandonata in grembo stringeva il fazzoletto: l' altra giocava, distratta, con un coltello d' argento su la tavola, nel breve cerchio di luce de la lampada.

Il vento urlava per ogni connessura, per ogni crepaccio del vecchio palazzo e gemiti, schianti di vecchie cose squassate con furia, passavano ne la selvaggia rapsodia.

La mamma taceva: pareva tutta raccolta ne l'angoscia di quel posto vuoto: aspettava sempre, volgendo gli occhi verso la porta ad ogni più forte scricchiolio.

Le lacrime scivolavano giù dal viso bianco su la veste nera, grosse, lente come un rosario di perle che si sgrani. Cadevano su la mano che stringeva il fazzoletto: bagnavano la bocca chiusa, ove le labbra sottili accennavano appena una riga rosa come l'orlo d'una cicatrice recente ancora: morivano fra le pieghe del viso, quasi che la pelle bevesse l'amara rugiada del le ciglia. Quelle pieghe parevano fatte apposta per trattenere il pianto: erano le rughe precoci d'un viso giovane ancora, visibili appena, che facevano pensare a le venature che hanno i sassi levigati da i torrenti: ai brividi che increspano la superficie d'un acqua immobile se una foglia morta vi cade.

Nulla era più doloroso di quel pianto materno senza singhiozzi: muto. Il silenzio, quel suo silenzio triste le chiudeva la bocca come un bavaglio d'oro.

La piccola Vanna cinguettava malinconica col vecchio cane che le appoggiava il muso su le ginocchia. Vicino a quella pallida donna silenziosa la bimba cresceva gracile, senza amiche, ne la solitudine de la casa patrizia, ove l'ombra s'indugiava sui grandi mobili un po' tarlati, accarezzava fredda memorie lontane e quasi spente; e il silenzio formava un soffice strato che spegneva l'eco de le volte altissime e istoriate.

Vanna somigliava a la madre: aveva la stessa bocca sottile, lo stesso viso spaurito di bimba malata. Gli occhi infantili avevano guardato troppo presto la vita: tutto ciò che la muta rassegnazione materna non diceva, la bimba aveva intuito. Essa era l'ultimo frutto tardivo d'un vecchio albero: la famiglia si spegneva con lei.

Tante volte, inosservata, aveva sentito dire da suo padre che un maschio ci sarebbe voluto. Che farne d'una bimba malaticcia e bruttina? Un maschio forte e bello, aspettavano da quella piccola donna le ricche sale deserte e il nome patrizio che non voleva morire.

E l'erede, l'atteso venne, ma non fu che una povera cosa informe, incompleta: il fragile grembo materno non aveva saputo dargli la vita. E scomparve in una calda notte di luna, mentre da la finestra aperta saliva il profumo de l'orto tutto bagnato di luce, che odorava forte come un turibolo d'argento; e un fruscio lievissimo di fronde che accennavano appena tra loro, sotto a quella finestra illuminata: — Piano… Lassù c'è un bimbo in agonia… —

Era morto così, l'erede, mentre una civetta sghignazzava sul tetto ne la mistica serenità di quel paesaggio di presepe, immoto come le ciglia de la madre ne l'attesa.

Una pace solenne saliva ne la notte: un profumo di sogno e di leggenda, un respiro calmo di cose addormentate. Sola, vegliava quell'angoscia muta di mamma presso a la culla che oscillava appena, come una piccola barca che un fiume silenzioso trascini.

Passò, ne l'orto, un frullo d'ali: sopra una rama tremula squillò la diana a la luce il primo cinguettio.

L'alba trovò la mamma che componeva in silenzio due manine in croce…


***


Per volontà del padre, Vanna fu messa in collegio e non ebbe più vicino a sè la mamma piccola e buona. La vide solo ogni domenica. Essa arrivava sempre troppo presto, un po' ansante, prima de l'ora stabilita e si prendeva avidamente la bambina. Rannicchiate ne l'angolo d'un grande divano, fra la penombra del parlatorio, le due povere anime ritrovavano l'intimità del loro nido e si dicevano tante piccole cose carine: tutte le parole prive di senso, fatte di baci e di pianto, che scendono lente, dolcissime da la bocca sul cuore, come i petali di velluto d'una rosa in agonia.

Vanna ricordava la tristezza di quelle sere di Domenica, quando la mamma se ne andava e pareva chiederle, senza parlare, la forza di vivere ancora tutta una settimana di solitudine.

In collegio, le compagne le volevano bene: un bene scialbo di piccole educande molto devote, le cui anime semplici erano sempre vicine e si rincorrevano leggere nei primi sogni, come quelle farfalle bianche che folleggiano al sole.

— Vanna Ranieri?… Caruccia tanto… bruttina però —, dicevano l'educande fra loro.

Essa lo sapeva e non aveva ambizioni: non invidiava a le altre la florida, esuberante giovinezza.

Era timida: a volte sembrava sciocca. Ne l'austerità de la sua casa aveva imparato a tacere. Portava i capelli tirati e lisci come piaceva a le monache: un largo grembiule e al collo la medaglia de le figlie di Maria. Non seguiva le compagne, a ricreazione; si stancava troppo: essa giocava con le piccine.

Bruttina… era vero! L'aveva detto una sera anche Papà… Che poteva farci, lei?… Un bel maschio forte doveva essere, che avesse ereditato nome e ricchezze. Invece non portava in sè, ne la grazia stanca de le spalle cadenti, che tutta la dolce e muta rassegnazione materna.

Un giorno le dissero: — Vanna, bisogna tornare in famiglia…. Il babbo sta male —, ed ella riprese più triste la via del suo vecchio palazzo, in un mattino un po' grigio; i limpidi occhi velati di pianto e il suo fardello di tenerezza e di bontà ne l'anima.

Trovò il babbo immobile in una poltrona: inginocchiata in terra, la mamma gli avvolgeva le gambe in una coperta di lana, con umile premura. Nel pianto muto, ella sgranava in silenzio ai piedi di lui il dolce rosario di perle che le fluiva da l'anima.

Vanna guardava. Chi aveva cambiato quel volto maschio e imperioso, che una razza di dominatori aveva plasmato con pollice di ferro, in una maschera tragica di malato?… Gli occhi d'aquila, da le fredde iridi d'acciaio, che sfidavano la vita con sicura baldanza, ora scomparivano quasi ne l'orbita profonda.

La mano poderosa abituata al gesto del comando pendeva inerte. Per la prima volta padre e figlia si trovarono a fronte, gli occhi ne gli occhi, l'anima ne l'anima. Per la prima volta la voce del sangue ebbe lo stesso grido d'amore ne le loro vene:

— Babbo… —

— Figlia mia… povera figlia!… — e la testa del paralitico tremò, nel desiderio impotente di stringere la sua creatura fra le braccia con una tenerezza accorata, come non aveva fatto mai: come non avrebbe potuto fare mai più.


***


Così, Vanna, tornò nel suo palazzo antico. Il silenzio la fasciò di novo in una dolce malinconia: il buon silenzio che chiude le palpebre de le creature dolorose con dita delicate, affinchè vivano tutta la loro vita intima e pura, sole con una luce: sole con l'anima.

Le due donne non vissero allora che in una tenerezza infinita per il malato, ne l'amara voluttà del sacrificio vigile, senza tregua. Su l'ampia poltrona a rote quell'uomo giovane ancora, il padrone che tutto aveva saputo piegare a la sua volontà, non era che un ingombro di povera carne dolorante. Tutto, la vita gli aveva dato e tutto s' era ripresa nel flusso de la torbida marea, lasciandolo a riva come una vecchia barca sfasciata.

La malattia gli inchiodava su la bocca un povero sorriso che scopriva la lingua enfiata: gli vuotava le occhiaie pian piano, reggendogli le palpebre bene aperte perchè guardasse in faccia la sua miseria di sopravvissuto. La mano forte e delicata, ov'era l'impronta di tutta la sua razza, che aveva stretto nel pugno la fiaccola de la vita come cosa tutta sua, ora lasciava cadere anche il sigaro spento. Vinte le prime crisi di disperazione, egli s'acquetò pian piano nel tepore de l'umile tenerezza che lo circondava. Allora la testa tremula e scarnita, ove il teschio sembrava trasparire sotto la pelle, parve quella d'un martire, d'un santo.

Notte e giorno gli furono vicine per contenderlo a la Nemica in agguato. Nei vesperi sereni lo conducevano fuori ne la carrozza di famiglia: i due vecchi sauri da la coda lunga trotterellavano pian piano, come sapessero di portare a passeggio gente che non aveva fretta di tornare.

La mamma, invecchiata ne lo stesso tormento di quel suo povero grande amore, taceva. Vanna guardava la valle tutta chiusa ne la chiostra azzurrina dei colli: il fiume tortuoso che aveva, ne la luce morente de la prima sera, bagliori d'acciaio: la striscia bianca de la ferrovia che si perdeva in fondo al piano e le dava a l'anima non so che vaga nostalgia di paesi lontani: la torre d'un antico castello che ardeva come una fiaccola nel sole. La vedeva palpitare ogni sera in quell' ultima luce, poi farsi tutta smorta, coprirsi di cenere, tra la distesa degli ulivi.

Tornavano al passo, chè i vecchi sauri ansavano per la salita e già li opprimeva la malinconia del ritorno, al vecchio palazzo deserto.

La mamma volle andarsene per prima: dolcemente, nel silenzio come era vissuta, come era scomparso il suo povero bimbo malato in una notte di luna, ella si spense.

Vanna ricevette in ginocchio da le mani di lei, ostia consacrata, la piccola lampada del sacrificio muto.

E la seguì lungo la strada polverosa, tra le siepi fiorite, fino al recinto quieto che aspettava, adagiato sul colle.

I grandi cipressi erano pieni di nidi: i rosai, tutti in fiore. La primavera sbocciava da le tombe.

Vanna pensò che la mamma aveva forse già ritrovato, ne l'ombra, il suo piccino: il suo povero piccino malato, cui aveva composto le manine in croce.

E tornò sola, per la via polverosa, verso il palazzo antico, dove il paralitico, ignaro, aspettava…..

La serenata Pag. 1

Ladro Pag. 19

Il salotto verde Pag. 27

Anime buone Pag. 39

Da te a me Pag. 53

I racconti di Gioietta: Pag. 75

Al caffè Pag. 79

Figurina Pag. 81

Sincerità Pag. 83

Una vittoria Pag. 88

La principessa Pag. 90

Fra gli umili Pag. 93

La prova pag.109

Ramo spezzato Pag. 121

Nel vicolo Pag. 131

Il vagabondo Pag. 145

Una famiglia Pag. 157

— Perchè?… — Pag. 165

Nel silenzio Pag. 181