DOMENICO GNOLI

I POETI
DELLA SCUOLA ROMANA
(1850—1870)

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFr-EDITORI-LIBRAI
1913

Stanca son'io di mesti giorni, e il passo Solinga muovo per deserti campi Ove tace natura, e nulla ascolto Fuor che il romor dell'acque e delle foglie. Allor più forte il sen palpita, e vola Più fervido il pensier dove lo appella Un arcano desìo. Voto sublime Della vergine età, come un baleno Tu allor colpisci la mia mente, un foco Nelle vene mi spargi, e m'apri il core Ad ineffabil voluttade e pura. Delle ruote il fragor, delle felici Turbe il vano gioir, le vie di folto Popol gremite, e i varî ammanti e i suoni, Qui non veggo e non odo, e dalle stolte Gioie quest'alma disdegnosa abborre. Non liete danze di fanciulle, o accorte Parolette e sorrisi, e non sospiri D'ignobil turba adulatrice in questa Sacra dimora: qui sol piange il bruno Passer dal ramo, e placida sull'erbe La giovenca riposa, ed il bisolco Da lunge spinge tacito l'aratro. Me non lusinga di bugiarda lode Cieco desìo, nè il cor mi punge vile Di tesori speranza e di grandezze. Nomi fallaci, ignude larve! in mezzo Ai tumulti e alle grida e fra la polve De' veloci destrieri, ivi travolte Con gli erranti mortali in giro andranno, Come pe' campi del deserto il nembo Ch'eternamente si ridesta, e passa. Oltre quel ciel che mi sorride, e queste Fortunate campagne, una sol'una Speme lusinga il mio pensier. La fronte Pallida inchino nella destra: il guardo Nell'aere affiso: per le gote il pianto Placidamente mi discorre: un velo Tutte m'asconde le create cose. O desìo de' miei giorni, a te la mesta Alma sospira nelle valli: io veggo Qui l'immagine tua che si rivolve Fra il silenzio de' campi. Ti sillevi Dal calice de' fior come il profumo Di lor foglie odorate: nel torrente Miro, e fra l'onde tu rimbalzi, e sorgi Misto alla nebbia delle bianche stille Che tra i sassi rigonfia: per le oscure Vette de' monti tu discendi e lieve Come fumo svanisci: in mezzo all'ombre Ti raffiguro nell'errante stella Che percorre il creato, e l'universo Dell'immagine tua sempre è dipinto. Allor mi aggiro sospirando, e un voto Si diparte dal cor: quando il mio stanco Pensier rapito in più beato cielo Vivrà vita novella e un nuovo sole Ridesterà le mie cangiate forme, E più vera esultanza, e più solenne Pace godrò? quando il mio corpo all'ombra Riposerà della magion di Dio, E lo spirto beato nell'eterna Sua patria assorto calcherà le nubi? Oh felici convalli! al ciel più accanto Esser qui parmi, e del monte la cima Sovente ascendo ad appressarmi al cielo: E quando al rieder della notte il passo Verso il piano ritorco, la serena Volta saluto, com'esul che mira La sua patria da lunge, e sull'estremo Confin si arresta taciturno e piange. 1885 Già l'alba nascente del patrio Appennino D'un raggio più vivo le cime vestì; Per l'italo cielo d'innalza il mattino, Beato foriero d'un limpido di! Dal sacro paese leviamo la fronte Recinto dal mare, diviso dal monte; Un inno di gioia festeggi l'albòre, Oh terra d'amore! La patria, la patria! Dell'alme è desio, La patria è sorriso, dolcezza del cor! De' beni è la fonte, del' mali è l'oblìo, È scuola alla mente, è campo al valor. Dell'esul ramingo sospiro e memoria, Del giusto corona, del forte vittoria, È affetto che oppresso diventa furore, Oh terra d'amore! Qui tutto al pensiero sorride e risponde, Ogni erba del campo, ogni onda del mar; Han voce que' fiori, favellan quell'onde, D'ogn'italo in petto l'Italia ha un altar. Qui tanti vestigi di fasto e di guerra, Qui l'ossa de' padri che dormon sotterra Qui cento memorie ne parlano al core, Oh terra d'amore! La fiera, l'augello vagheggia il suo nido Che in grembo alla selva, che al ramo affidò; Da lunge il saluta con l'ale e col grido, E geme e s'affanna se più nol trovò. L'incolta sua terra vagheggia il selvaggio Dipinta dal sole d'un languido raggio, E sclama, lasciando que' campi d'orrore, Oh terra d'amore! La patria, la patria! Ne infiora la cuna, Fanciulli ne instilla coraggio e virtù; Fra' colpi ci regge d'avversa fortuna, E tutta ne segna la vita quaggiù. Degli egri è il ristoro, de' mesti è l'affetto Degli orfani è madre, de' poveri è tetto, Soave a chi nasce, soave a chi muore, Oh terra d'amore! La tua dimora bruna Sorgeva in mezzo ai campi: io la rammento. Al raggio della luna, Quando taceva il vento; L'acque parean d'argento, Biancheggiavan confusi a noi dinante I sentieri e le piante! Qual teatro, qual danza È gradita così come in quell'ora La tua vaga sembianza, La tua mesta dimora, I tuoi campi, i tuoi colli? A te l'arcano Della mia mente apria, Ch'è un oblio della vita, un pianger vano, Un sogno, un'armonia. Venisti un'altra sera Meco alla danza, e tremolava un fiore Sulla tua chioma nera. Ne'tortuosi giri La tua veste leggera Parea di perle tutta e di zaffiri. Fra il gaudio e lo splendore, Fra l'alternar de' fragorosi balli Forse obliammo il tacito chiarore De' monti e delle valli. Ma quando al tuo soggiorno Stanche rendute, i fiori e gli ornamenti Ci toglievam d'intorno, Compagna mia, rammenti Che dal veron dischiuso Rivolgendo uno sguardo alla natura Dicemmo in suono tenero e confuso: —Come quest'aria è pura!— Poi meditando insieme All'ombra de' viali Le umane gioie e le mestizie umane. Vedemmo ch'è una speme Fallace de' mortali Quella che non conforta e non rimane. E dolenti e lontane Questo principio n'è rimasto in petto, Cresciuto in noi possente Dalla calma innocente Del loco e dell'affetto. La tua dimora grave Sempre io rammento, e nuovo ardir m'infonde Quella luce soave Che biancheggiar fa le campagne e l'onde. Taccion l'aure e le fronde, Tutto è silenzio il bosco e la montagna… Io te fra lor ravviso Dal celeste sorriso, Unica mia compagna! V'è un fior cilestro, umìle, Simbol d'amore, di fè; È il nome suo gentile Non ti scordar di me. Due giovinetti amanti Ivan fra l'erbe e i fior; Eran gli estremi istanti D'un benedetto amor. Spirava intorno affetto L'aria, e parea gioir, E volta al giovinetto Prese la donna a dir: Oh il vago fior romito Che in ripa al fiume sta!… Ei corse ratto al lito, Dicendo: tuo sarà.— La pianticella colse, Ma il passo gli mancò; L'irata onda lo avvolse, E via se lo portò. I fior gittò a la sponda L'incauto, e si perdè, E mormorò fra l'onda: Non ti scordar di me. Su quest'aerea culla che leggier vento innanzi e indietro porta, rimanti, o mia fanciulla, fra le mie braccia morta; all'albero t'affido ove l'augello in primavera ha il nido. I tuoi biondi capelli carezzi l'aura fresca pellegrina, e gli amorosi augelli vengano alla mattina pe' nidi a far tesoro di quelle fila inanellate d'oro. Chi ti vedrà passando senta nella commossa alma una brama di mirarti piegando la punta de la rama, e posi lieve lieve un bacio sulla tua fronte di neve. Non dien sospiri e pianto le madri, e i vivi lor pegni felici lascin venirti accanto come soavi amici, che mostreran desire di ridestarti o di così dormire. Amor novo e dolcezza ti rechin l'ore, e mai non venga meno il fior di tua bellezza ch'i' mi nutriva in seno, e ch'or l'Eterno vuole che su l'albero affidi all'aure, al sole. Ma se, tornando il verno, desìo ti punga del primiero tetto, all'amplesso materno, fanciulla mia, t'aspetto; scendi dai rami, e torna dove la mesta tua madre soggiorna. O Vergine Maria, Innalza l'orfanella A te della romita alma il saluto; Pensando il ben perduto Si reca al tempio in povera gonnella, E dice: Oh madre mia! Le compagne giulive Vide in adorni manti; Venian poscia i garzoni favellando; S'udieno a quando a quando Subite risa e lascivetti canti, E suon di flauti e pive. Nelle deserte mura Niun altro a lei rimane Ch'una mendica vecchierella stanca: Talor la chioma bianca Bacia e carezza, e le partisce il pane Con amorosa cura. Oh miei passati giorni! —Languidamente dice— Chi de la rimembranza mi consola? E move al tempio sola Volgendo in mente il bel tempo felice, Che più non fia che torni. La madre un giorno avea E il genitor diletto, Che si struggean per quel capo innocente: Le turbe fise e intente La vedean snella in bianco guarnelletto, E ognun le sorridea. Oh speranze terrene! Or la polve rinserra De' vacillanti suoi passi le scorte: Tra le famiglie morte Talor s'aggira e dice: Avara terra Ch'ascondi ogni mio bene! Gli angioli de la sera Le fan de l'ale un velo Sì che la stanca mente si riposi, Gli sguardi lacrimosi Chiude, e dormendo pur sospira il cielo; Oh sonno di preghiera! Orfanella beata, Se in quel dolce sopore L'anima tua sospinta da vaghezza Poggiasse a tale altezza, Che si covrisse di freddo pallore La salma abbandonata! Una madre immortale, Oltre ogni madre amante, Ti schiuderìa le sue braccia divine; E sull'incolto crine, Scendendo, poserien l'anime sante Un serto virginale. O fosse arte o destino O legge d'armonia, Si riscontrâr per via Nel soggiorno divino Laura ad un punto e Bice: Lieto incontro felice! E per quel senso arcano Che le bell'alme accosta E senza altra risposta Fa che si dien la mano, L'una all'altra cortese La sua destra distese. Di Beatrice il volto Era qual fiamma ardente; Il suo sguardo possente Stava al Grifon rivolto: Venìa cinta di fiori, Raggiante di splendori. Laura men grande e altera Stava nel vel rinchiusa Che già tenne a Valchiusa Fra la giovane schiera, E il lauro in sulle chiome Ne ricordava il nome. —Vale, intuonò la prima, O sorella immortale, Che per destino uguale Meco trionfi in rima: Non trapassarmi accanto Senza l'addio del canto. Ispiratrici un giorno Di carmi unici e veri, Que' nobili pensieri A noi fanno ritorno; Chè noi li abbiam destati Ne' petti innamorati. Ah! quante prove e quante Nel suo viver sostenne Dal dì che in me s'avvenne Il mio fedele amante, A cui l'occhio sereno Mostrai come un baleno. Di Fiorenza diletta Io m'era il più bel fiore, Nè ancor sentiva amore Quest'alma giovinetta, Nè amar Dante io potea Perchè amar non sapea; Dal mio campo paterno Anzi tempo mietuta, Ei mi sognò venuta A questo guadio eterno, E per trovarmi imprese La via che sommo il rese. Me fra l'esilio e il grave Salir dell'altrui porta, Me non più fredda e morta Ma in caro atto soave Vedea nel divin regno Del creatore ingegno: Perch'io, dolce sorella, Lieta di tanto omaggio, Gli ricordo il vïaggio Ch'ei fe' di stella in stella, Lasciando la digiuna Fiera e la selva bruna.— Laura così rispose: —Anch'io nel mondo amata Vissi in patria beata Fior di leggiadre spose; Amar, Bice, io sapea, Ma celarlo dovea. E per sì lunga etate Celar seppi il mio foco, Che giammai non fu roco Di lodar mia beltate E chiamarmi curdele Il mio cantor fedele. Alla superna sfera Anch'io levata un giorno A lui feci ritorno Più bella e meno altera, E dissi: Aspetto in cielo Te solo, e il mio bel velo. Egli or con me sì duole Che nel suo lungo pianto Al mio terreno ammanto Volgea tante parole, E non diè lode uguale Al mio spirto immortale.— Con un gentil sorriso Passò la coppia onesta, E le fe' plauso e festa D'intorno il paradiso: Così duo soli ardenti Fan muti i firmamenti; Chè l'una all'altra stella Copre passando il raggio; Poi seguono il vïggio A questa parte e a quella, Nova tracciando via Di luce e d'armonia. In gravi cure e meste Traggo, o diletta, i giorni, Nè bramo gioie o feste, Bramo che a noi ritorni Quella involata speme Di viver sempre insieme. Inutile speranza Dei sogni giovanili! Dolcissima costanza Degli animi gentili, Che per nimica sorte Sempre divien più forte! Il tuo colle natio Ricordo, e nella mente Mi suona il mormorio Della chiara sorgente E veggo i bei vïali Da folti alberi uguali. Oh che vasto orizzonte Di laghi e di campagne! Stanno schierate a fronte Le altissime montagne, L'immensa vôlta pura Dipinge la Natura. Tempra la luce ancora Degli uomini i pensieri, E in quell'alta dimora Si apprendono i misteri Di mille gioie arcane Chiuse alle menti vane. Ch'è mai questo incessante Fremir, questo passaggio Di tante schiere e tante, Di vesti e di linguaggio, Di costumi e di riti Diversi ed infiniti? Ch'è mai la storia e il vasto Campo dischiuso all'arte? Che son le glorie e il fasto E le vergate carte S'io riguardo le cime Del tuo monte sublime? Par che l'orgoglio abbassi La fronte ove s'aggira Fra gli scoscesi massi Il tuono e il nembo spira; Nè mai curvan la testa La rupe e la foresta. Quando una pace immensa Su quei gioghi si spande, L'alma s'aggira e pensa E impara a farsi grande, E il falso e il ver discerne Nelle bellezze eterne. In care opre, in soavi Studi il giorno divide; In dolci affetti o gravi Ora è mesta or sorride; Ma sempre il valor sente D'una tranquilla mente. Vale! il gentil verone Apri e l'alba saluta, E ascolta la canzone Che libero tributa Da la pianta sicura L'augello a la Natura. Così verso l'albore Dall'acque e dalle fronde Sorge un disio d'amore Che al tuo disio risponde, E imìta le parole Che tu sollevi al Sole. O luce, o meraviglia Cui l'ugual non conobbe unqua il pensiero, Se un tempo invan le ciglia Vêr te dischiuse Omero E vide a se d'intorno Fatto tenèbre il giorno, Con qual estro sublime Levando al ciel le inutili pupille, Non con guerriere rime Priamo cantando e Achille, Ma con meste parole Avrà sclamato:—Oh Sole! O tu che in Orïente Di nuovo imprendi, e non per me, vïaggio, Alla pupilla ardente Perchè dinieghi il raggio, Perchè di lui mi privi, Tu che sei scorta ai vivi? La mattutina sento Aura che desta le animate cose: Già col pastor l'armento Al tuo venir rispose. E per l'erto cammino S'inoltra il pellegrino. Così il mortal s'avanza Pel breve calle che alla morte adduce, Fidato alla speranza Che infonde in sen la luce; Tu lo percoti, abbassa Lieto ei la fronte, e passa. Sol'io piango, e alla bruna Nebbia che gli occhi attoniti circonda Ravviso ad una ad una Errar per questa sponda Le antiche ombre de' forti Bruni pur essi e smorti. Veggo di lungi il serto Che la gloria al mio crin tesse e prepara, Non più bello e coverto Di nova luce e chiara, Ma pallido qual suole Fronda a cui tolto è il sole. A quanti invan risplendi, A quanti invan dal ciel sorgi e sorridi, E i lor campi difendi, E lor dipingi i lidi Che non ne avrai tributo D'un guardo e d'un saluto! Te nume il vate appella, Fonte di gioia, ispirator di carmi, Di Giove opra più bella Guida alle imprese e all'armi; Lo ascolta il volgo e allora Ti contempla e ti adora. Or ti dipinsi in fronte Degl'immortali sfolgorando un lampo, Or dall'alto d'un monte Destando a guerra un campo, Ed or tornando in seno D'un mar vasto e sereno; E del tuo raggio privi Me che declino invèr gli anni cadenti, Nè più ne' dì festivi Vedrò turbe fiorenti Farmi corona immote Quando un'Iddio mi scuote? A te pur sempre onore, O Sol, ch'eterna avrai la vita e il foco, Mentr'io fra tanto orrore Muto starò fra poco Lasciando un'orma appena Di mia luce terrena.— Così l'antica etate Udìa per l'aria andar forse il lamento De l'altissimo vate, E in quel mesto concento Forse le turbe assorte Ne lacrimâr la sorte. Ma il Sol d'un'improvviso Splendor tutto avvivò l'ampio sentiero, E dir parve in quel riso: —Più non dolerti, Omero, Se il mio raggio non scerni: Sarem del paro eterni.—

Hierusalem civitas et ornamentum
martirum Domini
(1) Queste parole son tratte da un'iscrizione che trovasi nell'ingresso della stanza sotterranea ove riposano i papi del secolo III.

Luce di Dio che sulla terra informe Prima scendesti e all'increate cose Desti vita, color, movenza e forme, Per taciturne volte tenebrose Vidi il lampo di tua gloria immortale Rischiarar le ruine in pria nascose! Con pensoso drappello il disuguale Labirinto scendea sparso d'avelli; Pur niun timor nel rimembrar m'assale, Se ben l'accessa fantasia su quelli Mi appresentava i corpi inanimati L'un con l'altro dormir come fratelli. Pargoli, donne e vecchi addormentati Stavano all'ombra placida e secura Co'lor flagelli di sangue bagnati. Come fanciul che per foresta oscura Timido avanza e all'improvviso ascolta Il materno parlar che lo assecura, Io fra il silenzio dell'antica volta Vedea la Fè de' padri miei scortarmi Presso la gente in sua città sepolta. Chè non fra molli cure e lieti carmi Surse la Fè di Cristo, e andò raminga Fin dal principio, fra gl'insulti e l'armi. In questo asil poi ricovrò solinga, E serbò eterna e serberà se stessa Contro i colpi di tal che la respinga. Una facella tremolante e spessa Il sentier rischiarava a parte a parte, E apparian d'ogni lato innanzi ad essa Arche dischiuse, e tombe, ed ossa sparte, Cisre ed altari, e intorno a lor pietose Sembianze pinte in sul languir dell'arte. Fra quest'ombre Calisto in pria nascose L'insidïato gregge, e qui le care Vittime nelle brevi urne compose, Celle formando monumenti ed are, E dir soleva alle sue turbe unite: Non siate a Dio del vostro sangue avare, Chè a voi per una largirà più vite, Per fugaci tormenti un regno eterno Ove asceser consorti alme infinite.— Della nave di Dio molti al governo Segnâr col sangue il patto lor solenne, E i sacri nomi fra quest'anche io scerno. Quivi entro Ponzïan, qui Antèro venne, E Fabïan su cui dall'alto mosse Una colomba angelica le penne. Lucio ramingo, e Stefano, che scosse D'un cenno e rovesciò l'idol bugiardo In fra le turbe a sua virtù commosse. Quivi entrò Sisto, che morendo il guardo A Lorenzo volgea, che solo e mesto Dicea da lungi: Ove ten vai, gagliardo? O padre mio, strano vïagio è questo! Fummo ai cimenti e alle vittorie insieme, Or tu movi al trionfo, ed io qui resto?— E Sisto a lui con le parole estreme: Le tue dovizie, o mio fedel, raduna E le dispensa al poverel che geme; Chè l'aria si farà tre volte bruna, E il quarto dì verrai dove è tesoro Cui non invola il tempo e la fortuna.— Giacque, e primo ebbe onor fra il santo coro. Salve, o Sisto; salvète, o venerande Alme, o città de' martiri decoro, Gerusalemme benedetta e grande Colà nel ciel dove trionfi, e in terra Dove col sangue il nome tuo si spande! O picciolo sepolcro, ti disserra E a noi disvela le leggiadre forme; Se in te vestigio alcun pur si rinserra. Scritto è sul marmo: Prezïosa dorme Degli anni suoi nel dodicesmo aprile Vergine eletta ed al Signor conforme; Nel vel si chiuse ed ebbe il mondo a vile, E di sue genti fra il dolor smarrita Forse volgea la nova alma gentile All'esultanza dell'eterna vita; Mancò la spoglia giovinetta, e quivi I mesti la recâr cui fu rapita (1) Si allude ad un epitaffio dell'anno 401, nel quale è scritto: Pridie (Kalendas) Iunias pausabet (pausavit) preiiosa annorum puella virgo XII tantum, ancilla Dei et Christi, Flavio Vincentio et Fravito viris clarissimis consulibus..— —Vivi, Sofronia, in Dio! Sofronia vivi!— Scritto vedemmo in su le antiche mura, —Dolce Sofronia, fra i beati e divi.— Quel mesto addio per la cittade oscura Tornava in mente l'ultimo disio D'uno spirto che piange e s'infutura. Viva è Sofronia eternamente in Dio!— Poi vi leggemmo col sicuro accento Cui la fede trasporta oltra l'addio (1) Un pio pellegrino scrisse più volte sulle pareti del cimetero di S. Calisto, ch'egli veniva visitando, Sophronia in Domino: alfine, quando era sull'uscire da quelle sacre grotte, scrisse l'ultimo addio alla sua Sofronia in queste parole: Sophronia dulcis semper vives Deo: Sophronia vives Deo.. Allor parea cangiarsi in un momento, In gioia il pianto, e ne surgea nel core Della prece il disio dopo il lamento, Per le memorie che in lui desta amore, Ed alcun nome invocavam raccolto Segretamente in lagrime d'onore. Al ciel levando mestamente il volto Altri pensava al padre, altri al fratello, Dicendo:—Vivi in Dio, spirto a me tolto!— Ed ecco inceder d'uno in altro avello Io vidi un'ombra lucida e leggera Che si rivolse al tacito drappello. Io la conobbi, e per la vòlta nera L'accompagnai con l'alma al ciel superno Rinnovellando la dolce preghiera: Diletta madre, in Dio vivi in eterno!