LETTERE INEDITE E SPARSE
DI
Costanza Monti Perticari
RACCOLTE ED ORDINATE
DA
MARIA ROMANO

ROCCA S. CASCIANO
LICINIO CAPPELLI
Libraio-Editore di Sua Maestà la Regina Madre
1903

Proprietà letteraria.

Rocca S. Casciano 1903.—Prem. Stab. Tip. Cappelli.

Il nobile ingegno, la svariata coltura, l'incomparabile bellezza di Costanza Monti Perticari, l'amicizia che la strinse ai letterati del tempo e sovra tutto le private sventure che funestarono la sua vita e le orribili accuse che si addensarono sul suo capo, fanno di lei una figura interessante e degna di studio: ed io nel raccogliere nel presente volume le lettere di lei che, inedite o sparse, mi fu dato rinvenire, ho inteso di porgere i documenti nei quali direttamente si potesse studiare il suo carattere, conoscere l'animo suo e scoprire il dramma intimo che si svolse nella sua agitata esistenza.

Queste lettere famigliari, scritte agli amici ed ai parenti, che, nella loro spontanea semplicità, sono prezioso documento della sua coltura e del suo ingegno, lumeggiano le vicende della sua vita e, comunque ce la rivelino, o dominatrice e regina di una società di dotti, capricciosa e leggera nella spensierata felicità dei primi anni del suo matrimonio, o vittima dell'altrui malvagità, disprezzata e vilipesa nell'angoscia della più orribile delle accuse e nella dolorosa difesa della sua innocenza, da esse emana un tale fascino di bontà, di gentilezza, di generosità d'animo, di abnegazione di se stessa, spinta alcune volte fino all'eroismo, che ci avvince a lei col sentimento della più viva ammirazione e del più sincero compianto. In altro volume ho raccolto le notizie intorno alla sua vita, accontentandomi di dare quegli schiarimenti che servissero di complemento e di legame a queste lettere alle quali solo affido la sua rivendicazione.

Sarebbe stato mio desiderio presentare un'edizione completa delle lettere di Costanza e nulla ho trascurato per raggiungere l'intento: ma molte difficoltà hanno attraversato il mio disegno; e, tralasciando dell'impossibilità di conoscere tutte le collezioni private nelle quali potrebbero trovarsi autografi di lei, non mi fu dato averne tra mano altri di cui sapevo con certezza l' esistenza, come molte lettere alla famiglia Monti di Ferrara la quale rifiutò concederle per la pubblicazione e quelle a G. B. Niccolini, già possedute da Corrado Gargiolli, che dopo la sua morte non furono più ritrovate.

Pur tuttavia questa raccolta basta a riabilitare la memoria di Costanza e a farcela conoscere sotto un aspetto ben diverso da quello che i suoi nemici con le loro infami calunnie si sono sforzati di farci apparire: e se, dopo questo mio studio, altre notizie usciranno a completarlo, sarò ben lieta di avere contributito alla sua intera riabilitazione.

Le indicazioni delle stampe da cui ho tratto le lettere che furono già pubblicate e quelle degli archivì privati e delle biblioteche ove si conservano gli autografi, ho creduto bene porre a piedi di ciascuna di esse, anzichè in elenco separato, per maggiore comodità e chiarezza. Nella pubblicazione mi sono attenuta fedelmente agli originali; ho tolto però qualche virgola inutile e corretto qualche menda ortografica sfuggita nella fretta dello scrivere. Nelle note ho dato brevi notizie e solamente quelle che potessero servire all'intelligenza delle lettere, non avendo creduto opportuno ripetere quanto si trova già esposto nella vita.

Ed ora, dopo quanto ho detto per chiarire lo scopo dell'opera mia, non mi resta che a rivolgere sentiti ringraziamenti alle cortesi persone che in un modo o nell'altro mi hanno aiutato nella ricerca dei documenti; al professore Tomaso Casini, al marchese Ciro Antaldi-Santinelli, al Cav. Carlo Cinelli, al prof. Patrizio Antolini, alla contessa Luisa Rasponi, alla signorina prof. Elisa Provenzal, ai signori professori G. Mazzatinti, G. Bonamici, G. Agnelli, A. Garavini, i quali tutti, per la gentilezza senza pari con la quale mi hanno prestata l'opera loro gradita, ricordo con sentimento di viva riconoseenza.

M. R.

Faenza. 16 novembre 1811.

Pregiatissima Signora Contessa.—Io ignorava che dopo tante e tante prove di tenerezza, ricevute da mio Padre, una ve ne fosse maggiore di tutte, e che sola saprà farmi sentire il prezzo dell'esistenza che gli debbo. Questo segno dell'amor suo io l'ho nella scelta dello sposo che mi destina. Ei non poteva meglio interpretare il mio animo, ed io mi stimerò felicissima s'ella non isdegnerà di ricevermi nel suo cuore qual figlia, e compire colla sua materna benedizione l'opera intrapresa dall'amoroso mio Genitore. Nutro lusinga ch'ella non si niegherà ai miei desiderii, e tenga sicurezza che portando sempre scritta nell'anima questa prova di sua benevolenza, mi studierò di meritarla a tutto potere.

Riceva dunque l'assicurazione più viva e più sincera di questi sentimenti e mi permetta di esserle con un puro e figliale rispetto

Um.ma Dev.a Serva
Costanza Monti.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana in Pesaro, fondo Perticari.

La contessa Anna Cassi-Perticari era madre di Giulio Perticari, allora promesso sposo a Costanza Monti.

Fusignano, 27 aprile 1812.

Signore.—Mi è giunta la vostra gentilissima grata oltre ogni dire, e mi reputo a somma ventura, che l'amico il più caro del mio Giulio onori me pure della sua amicizia. Ho letto e riletto tutto che mi dite del medesimo e me n'è venuto, vel giuro, Signore, infinito contento. Io non dubitava già della tenerezza di Giulio, che nol potea senza mia bruttezza, ma l'assecurazione che con tanta energia voi stesso me ne date, mi ha fatto versare lacrime di consolazione. Giulio sicuramente ritroverà in me il più tenero riscontro di amore, nè questo cesserà, polchè, lo spero, non cesserà in lui. La delicatezza de' suoi sentimenti, la purità de' suoi costumi, e sopra tutto la benevolenza che gli hanno accordata i miei diletti Genitori, mi erano diggià sicuri garanti della felicità che attendo al suo fianco; ora si aggiunge a tutte queste certezze una non minore, nè men cara per me, ed è quella che voi stesso non isdegnate di darmi. Sì, io conserverò la vostra lettera, non perchè tema di vederla un giorno smentita dall'evento, ma perchè, sicura che questo corrisponderà nel tutto ai vostri detti, avrò nel vostro foglio un eterno motivo di stimarvi, e riguardarvi (permettetemi che lo dica) come il più leale de' miei amici, siccome lo siete del mio Giulio.—Nè manco sono grata a tutta la rispettabile vostra famiglia, la quale vivo vaga di abbracciare, avendo già preso ad amarla senza conoscerla. Pregovi, Signore, di far palesi alla medesima questi sincerissimi miei sensi, pregovi di aggradirli voi stesso, e tener per fermo ch'essi partono dalla verità del cuore mio.

I miei genitori sono tenuti infinitamente alle gentili vostre espressioni, e stanno essi pure ansiosi di ag giungere a' legami di stima che vi professano, quelli del sangue e della più tenera amistà.

Di nuovo aggradite, Signore, i sentimenti del mio rispetto affettuoso, e credete che non resterò mai di essere

di voi Signore gentilissimo
Um.a Dev.a Serva ed aff.ma cugina
Costanza Monti.

L'autogr. è nell'Oliveriana in Pesaro, fondo Cassi.—Francesco Cassi, pesarese (1778—1846), appartenne alla bella scuola di letterati e poeti fioriti nella sua città.—Scrisse più cose originali, ma l' opera a cui è affidata la sua fama è la versione della Farsaglia di Lucano.

Fusignano. 6 maggio 1812.

Gentilissimo Signore.—Non minore è la stima ch'io porto in Lei di quell'amicizia, che la sua lettera con tante e così gentili espressioni mi promette. Ne riceva i più vivi ringraziamenti del mio cuore e faccia aggradire i medesimi alla sua rispettabile famiglia, della cui benevolenza ella non isdegna assicurarmi. Certamente cercherò ogni modo per non demeritarla, amandola diggià teneramente, e bramando ansiosamente l'istante in che potrò chiamarla mia.

Accolga, signore, questi sincerissimi miei sensi e permetta che raccomandadomi alla di lei bontà io mi dica

Sua Um.a Dev.ma Serva
Costanza Monti.

L'autogr. è nell'Oliveriana in Pesaro, fondo Perticari.—Gordiano, colonnello della guardia nazionale, era fratello di Giulio Perticari.

[Savignano, 1813].

Caro amico.—Vi ringrazio della premura colla quale avete adempito le date incombenze: nondimeno ho gran collera con voi giacchè avete dimenticato il capo essenziale; parlo della vostra testa. Per penitenza me la porterete voi stesso e soffrirete (per la prima volta) questo peso enorme ed insolito. Addio, mio caro, salutami tua moglie e la Ninina. Vieni presto.

Giulio e Marchino ti salutano.

La tua aff.ma cugina ed amica
C. Monti Perticari.

L'autogr. è nell'Oliveriana in Pesaro, fondo Cassi, La data è incerta, ma riannodandosi la lettera alla seguente, si può, quasi con certezza, argomentare che sia del 1813. La moglie del Cassi era la Maddatena Briganti. la Ninina era la figlia di lui.

Savignano, giugno 1813.

Mio caro cugino.—Io non voglio la tua lettera, voglio la tua persona. Nessuno di noi ti mena buona questa tua lontananza, ed io meno degli altri. Tu devi venire, e tosto; giacchè la tua presenza è quì assolutamente necessaria. Vieni, che se non vieni mi dai diritto di pensare gran male di te. Salutami caramente tua moglie e la Ninina. Addio.

La tua amica vera
Costanza.

L'autogr. è nell'Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi.

Savignano. 1813.

Mio caro cugino.—Io ti ho scritto pregandoti di venire a Savignano, ma le mie preghiere nulla ponno sul tuo cuore. Ecco quel che avevo dimenticato nello scriverti l'ultima mia. Ora non son io, è mio Padre, è il tuo amico, il tuo Giulio che ti prega: verrai tu?

Salutami tua moglie e tua figlia. Addio

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi.

Savignano, 1813.

No, il tuo procedere non è quello di buon amico; tu non ami più nè mio Padre, nè mio marito, nè me medesima. Tutti ci hai dimenticati per una donna che però non ha per te nessuno di quei teneri sentimenti che ti consacriamo. Mio Padre, mio marito si lamentano della tua debole amicizia: io nulla dico, perchè tutto che potrei dire non esprimerebbe il mio giustissimo risentimento. Non affretto più la tua venuta, ti aggiungo soltanto che i tuoi più cari amici non meritano di essere sacrificati ad una vile…

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi.—Senza firma, ma tutta autografa della Costanza. La persona a cui allude è la Nazarena, venditrice di frutta a S. Costanzo, amata dal Cassi ed alla quale fu dedicata dagli amici del Cassi la seguente memoria: A Nazarena Pampili nata in Jesi—nel 15 agosto 17…—venuta a Pesaro nel 5 aprile 1800—a muovere colla sua rara bellezza invidia nelle donne—fuoco nei petti dei giovani—e versi immortali nell'ingegno poetico—dell'Italico Lucano—questa memoria è sacra.

Si riferisce pure a questa lettera il seguente scherzo, edito dal Mazzatinti, che si trova fra le carte del Cassi e che fu spedito da Savignano il 29 giugno 1813.—Eccellenza Serenissima—Conciosiacosacchè i fervidissimi voti dei vostri umilissimi servi si veggiano fraudati del sospirato onore del vostro chiarissimo aspetto e siano gite a voto le promesse dell'eccellentissimo labbro vostro, confermato dall'illustrissima penna vostra, abbiamo fermato di pregarvi e scongiurarvi per mezzo di questo rispettosissimo foglio, onde vi piaccia beatificare col screnissimo vostro sguardo queste miserabili campagne, che attendono da quello ristoro e vita; imperocchè l'Eccellenza Vostra si compiaccia d'inchinarsi alle preci devotissime dei suoi servi fedelissimi, obbedientissimi ed ossequiosissimi, che lungi dall'Eccellenza serenissima vostra non sono altro che chiacchere, chiccheri, chiacchieri, chicchi, bicchicchi e ciamengola—V. Monti—B. Borghesi—Costanza e Giulio Perticari—E. Bignardi—M. Gregorini.

Pesaro, 15 settembre 1814.

Mio caro.—Non ho risparmiato indagini per poterti prestare alcun lume sull'ufficiale che passò da Pesaro, ma ho avuto iì dispiacere di non ricavarne nulla più di quanto già ti ho scritto.

Credo impossibile scoprire il nome dell'Ufficiale e credo più impossibile ancora che vi sia in tutto l'Universo una bestia più bestia del Signor Conte Annibale Cassi. Se questo nome non fosse il tuo, egli mi saria divenuto. odioso dopo l'accaduto. Perdonami questo sfogo, e convieni che t'amo molto. se per sola tua grazia risparmio a tuo Padre tutte le mie maledizioni. Onde non esserti affatto inutile, mi sono data mille brighe per secondarti nella ricerca del tuo Luigi. Il domestico d;Antaldi (presente e testimonio dell'inaudita barbarie del Signor Annibale) non ha saputo altro ridire se non che tuo fratello è stato fatto prigioniero a Vilna, che presentemente trovasi in una città il cui nome non ricorda, che l'Ufficiale incaricato della lettera di Luigi aveva una croce, o un ordine… ma quale e di che Regno?… egli non lo sa. Tutte queste nozioni valgono come il gettar sale nel mare; io ne gemo per te, non potendoti dir di più.

Nel mezzo di simili dolorosi pensieri m'è venuta un'idea, e l'ho prontamente secondata. Ieri corsi dalla Gennari; le domandai di suo fratello, e se aveva modo alcuno per essere informata del di lui destino. Ella mi disse che Felici si era incaricato di scrivere o far scrivere a Pietroburgo a tal uopo. La scongiurai quindi di unire il nome di tuo fratello a quello del suo, e non risparmiare nessuna istanza per ottenere da Felici questo servizio.

Ella me lo promise, ma non contenta della sua promessa, domattina (giorno di posta) mi porterò da lei, e non la lascerò ch'ella non abbia adempito il suo impegno. Forse questo maneggio non è gran cosa, nondimeno è meglio che nulla, e spesso la pianta che promette meno dà migliore frutto. Non ho manco trascurato di scrivere a mio Padre: egli ha degli amici che probabilmente potranno prestargli alcun lume, e tosto ch'io ne sappia te ne scriverò. Ecco quanto ho operato a quete dell' animo tuo e duolmi non aver mezzo di scriverti più di così. Tu dal canto tuo cerca, prega, fa di tutto per riparare alla crudeltà del Signor Annibale, che da ora in avanti mi permetterai di non chiamare più nè Cassi, nè tuo Padre.

Consegnai ad Antaldo una lettera per Carafa; tu me lo saluta. La nostra gita a S. Angelo è differita a motivo della stagione. V'è stata una grandine terribile. L'anno scorso Napoleone, quest'anno Domineddio… Dove la va, la viene, dice mio marito, e dice benissimo. Mandami lo specchio e i libri; m' impaziento della tua flemma. Addio; mille baci a tua moglie e all'Elena: mille rispettosi saluti ai coniugi Ferrari, e mille cordiali cose a Carafa. Addio. addio. Amami sempre.

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. fondo Cassi.—Luigi Cassi, guardia d'onore, aveva preso parte alla spedizione di Russia, nè dopo quella terribile disfatta si erano sapute novelle di lui.—Il marchese Antaldo Antaldi (1770—1847). il migliore amico di Costanza, fu gentiluomo noto per le sue private e cittadine virtù e per l'amore dei buoni studi.—Il domestico era certo Tommaso Ricci, credenziere di casa Antaldi.

Pesaro. 15 [septtembre 1814].

Amico mio.—Non so se tu sappi che da qualche tempo son divenuta il segretario intimo di mio marito: ecco perchè rispondo per lui alla tua lettera. E per lui e per me ti ringrazio che le noie de' noiosissimi finanzieri pel trasporto delle cose nostre non ti facciano perdere la pazienza.

Prova di amicizia vera, non però meravigliosa venendo dal tuo cuore. Io, nel mio particolare, poi ti ringrazio del libro che mi hai regalato, e ti ringrazierei maggiormente se ti fosse piaciuto di accompagnarlo con alcune linee tutte per me. Non so se mi spiego: voglio dire che le tue lettere mi sono e mi saranno sempre più care d'ogni più caro dono.—Ti ho scritto alcun che di tuo fratello. Hai ricevuto la mia lettera? spero di aver fatto tutto quello che per me si poteva, onde convincerti del sommo interesse che prendo ad ogni cosa tua.

Ti mando in nome di mio marito due libri che, a vero dire, mi hanno scandalizzata: poichè non so se la novella della mia conversione sia giunta fino a te. Tutto frutto delle saggie e persuadentissime impertinenze di fra Gaudenzio da Rimini.

Chi non saria tocco da quel soavissimo fiume di eloquenza?

Voi altri profani non sapete nulla. Filosofastri senza un'oncia di giudizio! Ma ve ne accorgerete quando la vostra anima si scotterà le gambe a casa del diavolo!—Insomma io ti mando questi libri a male in corpo, perchè finiranno di guastarti la buona coscienza. In questo punto ricevo una lettera di Antaldo, il quale ha mosso da qualche giorno per Bologna. Egli mi scrive che forse tuo padre non ha avuto il torto di scacciare l'ufficiale incaricato della lettera di tuo fratello; perchè qualcuno è stato ingannato da certi bricconi, i quali. portando delle lettere finte, hanno finito di chiedere dei soccorsi per loro medesimi. In ogni modo la condotta di tuo Padre è infame, e sulla supposizione che l' accaduto fosse vero. o falso. io non resterò di continuare le indagini che nell'altra mia ti ho promesso. e tu da buon fratello mi seconderai.

Sono in infinita amarezza per la malattia di Carafa. Desidero che il suo incomodo abbia un presto termine; sì perchè la di lui buona salute mi sta a cuore, sì perchè bramo di tosto rivederlo. Il nostro Casino a S. Angelo ha sofferto danno dai turbini de' passati giorni. Se i ripari che è forza farvi andranno per le lunghe e che il tempo continui a mal menare le strade. noi faremo le corna al tempo. come dice mio marito, e verremo a S. Costanzo.—Ci vuoi? In questo caso spero di aver colà il bene di riveder Carafa e di fargli certi rimproveri che avrà la pazienza di ascoltare… come tu hai quella di soffrire le noie dei finanzieri.

Ma eccoti infinite ciance. Sarebbe un far torto all'uso introdotto se non terminassi questa lettera, come tutte le lettere terminano sempre. Addio dunque: alla chiusa «t' abbraccio e sono»

la tua Costanza.

P. S. Fa fretta a tua moglie che venga a Pesaro. Potresti bene accompagnarla. cattivo! Che fa la Ninina? Dalle un bacio tenerissimo per me. Te lo restituirò poi a tempo debito poichè sono nemicissima di farmi de'creditori. Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi.—Non v'è data, ma alludendo Costanza alla sua divozione, a cui pure accenna il Monti in una sua lettera diretta a lei, del 4 agosto 1814, possiamo arguire che sia del settembre del medesimo anno.

Pesaro, 1 ottobre 1814.

Caro mio.—Resta finalmente fissato che il giorno 8 della settimana ventura moveremo all'amenissimo tuo S. Costanzo. Quanta dolcezza me ne prometta, lo puoi tu ben intendere dal sapermi tanto affezionata tua e di tutta l'amabile tua famiglia. Alla qual cosa aggiungi il desiderio di rivedere il nostro general Carafa, che siccome mi fai sperare verrà egli pure in S. Costanzo. La mia salute non mi ha prima d'ora permesso di affrettare questi beati momenti, ed anche presentemente non mel permetterebbe forse, se il grido del cuore non prevalésse sopra quello della prudenza.

Una tosse ostinata mi tormenta: io tengo lusinga che la dolce tua compagnia arriverà a dissiparla, ed ecco perchè mando al diavolo ogni riguardo. Addio, abbracciami tua moglie e l'Elenina. Mio marito è tutto tuo. Addio, addio.

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi.

S. Costanzo. Martedi sera, ottobre 1814.

Mio caro amico.—Ho letto il Camillo e sembrami che tu abbia ragione di dire ch'egli è privo di quel mirabile che dev'essere in ogni poema epico. A dirti il vero, toltine alcuni pezzi, che veramente son belli, il rimanente mi pare una seccatura. L'arringa del tribuno ha del buono, ma è priva di energia e di poetica imaginazione. Camillo non ispira nessun affetto: egli sembrami un sant'uomo, piuttosto che un eroe.

Bella è la descrizione della distesa delle Alpi, ma piena d'idee ripetute e troppo sminuzzate. Quel parlare ad ogni momento di destrieri la è pure una gran noia. Quell'inno alla natura è insipido, come il personaggio che lo pronuncia. In generale m'è parso di scorgere uno stile assai snervato, pieno di parolone insignificantissime, appena forse perdonabili ad un improvvisante, quale mi dicono che egli sia. Vi sarebbero delle ottave bellissime, ma sono ammazzate da pessime chiuse. Se non m'inganno l'autore ha tolto molti pensieri da Omero e da Virgilio ed alcune volte felicemente. Insomma, malgrado le bellezze di che è sparso questo poema, non so se i moltissimi difetti che vi si incontrano ponno farlo giudicare per buono.

A me certamente non è sembrato tale; e parmi che questo signor Biamonti invece di accrescere un poema epico all'italiano Parnaso, abbia accresciuto una tal droga alle spezierie da disgradarne tutti gli opuscoli del mondo. Quando Giulio l'avrà letto ti saprò dire il suo parere, che di certo ti riescirà più soddisfacente del mio, perchè più giusto, perchè egli si mischia di queste cose.

Carafa è arrivato questa mattina e avendo in oggi ricevuta la tua lettera gli ho consegnato e raccomandato la tua diretta a Napoli. Egli ti saluta e mi ha promesso di servirti. Cassi t'abbraccia, e t'invita a venirlo a trovare. Io conto sempre di partire Giovedì; nondimeno se mi darai avviso della tua venuta mi fermerò ancora alcun tempo onde godere della tua compagnia.

Borghesi e mio marito ti salutano. Fai i miei complimenti a tua moglie ed ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Nelle opere precettive, oratorie e poetiche di Giuseppe Biamonti, (Parma 1841, 3 volumi) non si legge il Camillo; il quale poema fu pubblicato in due volte: i primi cinque canti in Milano dallo Stella nel 1814, altri quattro nel 1817, ma non fu finito. Nella lettera inedita di G. Biamonti alla Contessa Teresa Malvezzi edita da Stefano Grosso (che vi premise un bel ragionamento biografico) si parla spesso del Camillo e il 26 novembre 1817, egli le accenna l'invio del 2o volume.—Stante la menzione del Carafa, la lettera sembra doversi assegnare al 1814; sì che Costanza si riferirebbe al solo 1o volume.

Mi rallegro del felice sgravo di tua moglie, poichè spero che a quest'ora ella sia in buono stato. Gradirò che tu me ne dia novella e che la riverisca in mio nome. La intenzione mia è di non fermarmi più che due giorni in Urbino; non so però se mi accaderà di accontentarmi.

Fa che al mio ritorno abbia il piacere di rivederti. Sta sano ed amami.

Costanza tua.

P. S. Di Giulio nulla a dirti, chè so che t'ha scritto. Salutami la Zannucchi.

L'autogr. è nell'Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—La data è incerta.

Pesaro, 21 ottobre 1814.

Mio caro amico.—Con i miei più cari io non uso complimenti, perciocchè a fare una lettera piena di cerimonie vi va poca spesa ed è cosa a tutti comune. Vero è, che l'obbligo mio sarebbe stato di scriverti appena posto piede in Pesaro, per ringraziar te e tutta l'amabile tua famiglia delle tante gentilezze usatemi in tua casa: ma desidererei piuttosto servirti co'fatti che passarmela in parole, e con quelli, più che con queste, mostrarti il mio cuore. E tali veracissime proteste, voglio che tu creda essere pur quelle di mio marito, il quale con Borghesi ti abbraccia e ti saluta.

Fa che sappia le tue novelle, quelle di tua Moglie, della Ninina; scrivimi insomma, e scrivimi a lungo, perchè le tue lettere mi riescono sopra ogni cosa soavissime.

Non ho notizie di Carafa, e ciò mi grava perchè lo amo e lo stimo infinitamente. Se tu ne sai, me ne scrivi.

Addio, mio caro amico: abbraccio tua moglie e tua figlia, e ricordo loro, siccome a te, la promessa di venire per alcuno tempo a Pesaro. Addio, voglimi bene, e ricordati della tua

Costanza.

P. S. Antaldo ti saluta.

L'autogr. è nell'Oliveriana di Pesaro, fondo Cassi, e quantunque manchi di data è certamente del 1814.

Pesaro, [1814 ?].

Amico caro.—Leggi l'acclusa per tua norma e se non muovi a Caprile, rimandamela che farò fare la pantomima a Cassi.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Caprile era la splendida villa del Marchese Bendedetto Mosca con teatro diurno formato dalle piante.

Pesaro [1815 ?].

Caro amico.—Ti prego di spedirmi qualche Romanzo che sia però breve e il meno noioso, giacchè ho d'uopo di distrarmi e non ho capo a nessun'altra occupazione. Addio, ama la tua

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1815].

Caro, amico.—Fatemi sapere se questa sera andate in casa Macchirelli, nel quale caso me ne vado a letto, perchè mi sento veramente male, ed ho il capo che non mi regge. Se mi favorite, temo che non potremo studiare e vi farò più trista compagnia che sono solita a farvi. Amate

Costanza vostra.

L'autogr. si trova nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1815].

Mio caro amico.—Fammi il piacere di osservare nel tuo codice di Dante, se nel Canto IX verso 70 sta scritto: Li rami schianta, abbatte e porta fuori, oppure: Li rami schianta, abbette e porta i fiori. Addio, riveriscimi tua moglie ed ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1815].

Amico caro.—Non ho potuto adempiere ieri la mia promessa, inviandovi li acclusi fogli, poichè mio marito li aveva smarriti. In verità fra la sua e la mia testa vi sarebbe materia per farne una la più originale del monde. Perdonate l'involontaria mancanza e credetemi

Vostra amica vera Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1815].

Caro amico.—Bastianino ti recherà la presente, pel quale ti prego scrivere una lettera al Vescovo di Loreto (che mi è detto essere tuo amico) acciocchè lo ammetta al concorso de'cantanti della Cappella. Il resto intenderai da Bastianino medesimo, e siccome ti conosco tanto cortese da non negarmi questo favore, te ne ringrazio anticipatamente. Addio, amami e credimi per sempre

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro, agosto [1815 ?]

Caro amico.—Se io avessi potuto prevedere la tua lunga dimora in Osimo, questa non sarebbe certamente la prima mia lettera che tu riceveresti: ma la promessa che mi facesti a voce di ritornare fra pochi giorni, ed in seguito la prima tua lettera, ove mi assicuravi di essere in Pesaro Lunedì scorso, mi hanno tenuta dall scriverti facendomi ogni giorno sperare di rivederti. Non attribuire dunque a tristo cuore questa mancanza, ed invece fatti certo che il male che soffri e la tua lontananza m'affannano nel più vivo dell'animo. Consolami dunque. se nol puoi colla presenza, almeno con qualche dolce notizia, la quale mi assicuri di tua buona salute e di tuo pronto ritorno. Io pure da qualche giorno ho un dolore in un occhio, non so dirti da che cagionato: certo però che il diavolo deve esservi dentro perchè ci soffro un tormento grandissimo. Iddio voglia ridonarci la vista, della quale, come io credo, appena sarebbe giusto prezzo l'ingegno di Omero e di Galileo.

Ti scrivo in fretta, essendo sulle mosse per un gran viaggio. Questa sera vi è festa da ballo a Rimini, e la Clarice m'ha indotto a vincere questa volta la mia poltroneria: ma ci vado più per disperazione che per voglia di divertirmi.

Se Donnismondi è teco, recagli i miei saluti ed i miei ringraziamenti per la sinfonia che m'è pervenuta in seguito delle gentili sue cure: attendo di saperne l'importanza, e ringraziamelo nuovamente a voce.

Addio, mio dolce amico. Abbi riguardo prima alla tua salute, poi al desiderio vivissimo che ho di rivederti.

La tua Costanza.

L'autogr. è nell'Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.—Clarice Viviani, urbinate, moglie di Giuseppe de Praetis, spesso veniva a Pesaro, dove avevano casa i De Praetis, ed era intima della Costanza.—Il Donnismondi era parente di Antaldo.

Pesaro. agosto 1815.

amico caro.—Ti scrivo dal letto urlando e spasimando a non ne poter più. Il Curato del Duomo mi ha fatta avvertita che domani cioè Sabato è il giorno decisivo per quell'affare suo che ti raccomandai. Disgraziatamente sei lontano, e non so quanto possa pregiudicargli la tua mancanza. In ogni modo te ne scrivo, perchè tu veda di aiutarlo, se non colla persona, almeno collo scrivere a chi potesse far le tue veci. Addio. Portami un bel burattino che mi guarisca dei dolori.

Amami e credimi sempre
la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

[1815 ?]

Mio caro amico.—Ieri sera al mio ritorno dal passeggio trovai il vostro cortese viglietto e la bellissima musica che vi è piaciuto farmi tenere. Le quali cose tanto maggiormente mi sono riuscite grate in quanto ch'erano accompagnate dalla soave notizia del vostro ritorno. Questa dolcezza però m'è stata amareggiata dal sentirvi incomodato. Per mia quiete voglio lusingarmi che in oggi vi troviate meglio. Io pure da qualche giorno soffro di un ostinatissimo mal di gola, e ieri sera mi era tanto cresciuto che mi tolse di potervi scrivere i miei ringraziamenti, obbligandomi a letto appena arrivata a casa.

Vivo impaziente di sapere lo stato di vostra salute; datemene pronta novella. Riveritemi vostra moglie e gradite i saluti di mio marito. Addio: tenete memoria della vostra

Costanza.

P. S. La Zannucchi qui presente vi saluta e vi prega saperle dire se vi siete scordato dei margheritini d'acciaio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1815 ?]

Amico caro.—Fin qui il mio Giulio; e qui farei punto anch'io se la vostra sperimentata indulgenza non mi facesse ardita ad aggiungere alcune mie osservazioni intorno al passo suddetto, sponendo colle medesime le risposte di mio marito, che forse non vi graverà d'intendere. E primieramente, messa da banda la mia religione pel divino poeta, dico che questo luogo mi sa pieno di difetti, e pe'suoi strani modi, e per l'oscurità sua: nella quale sentenza Giulio meco s'accorda. Imperocchè non mi par propria e lucida questa forma: La notte area fatti due de' passi con che sale, dove si dovea semplicemente dire che aveva fatti li due passi con che sale: e, a mio credere, quel modo è equivoco, e pare che voglia darsi a intendere che la notte salisse con più passi, che due; dove provasi che, essendo partita in quattro parti, doveva salire con soli due. e cogli altri discendere. Alla quale obiezione Giulio rispondemi: che il modo è certamente indegno della precisione dantesca: ma che di tali equivoci son pieni gli scritti anco degli ottimi antichi autori: e che si potrebbe con simiglianti esempi difendere.

E dice che forse si avrà qualche codice in cui sia scritto:

«Ma la notte de' passi con che sale «fatti avea i due nel loco ov'eravamo.

Lezione che si avrebbe a costruire: la notte arera fatti i due de' passi con che sale: e la ragione grammaticale allora non sarebbe offesa. Offesa però ell'è pur sempre la ragione rettorica (se non erro) da quel passo che inchina l'ale. Perchè dovremo confessare che bello è il concedere i passi alla persona della notte, ma bruttissimo è poi il dare figura a essi passi e il dar loro figura colle penne. Nè so fantasia del Callotta che si possa dire più bizzarra e inverosimile di questa. E a tale osservazione Giulio non fa replica. La terza mia difficoltà tocca l'astronomia qui seguitata: intorno alla quale è a chiedersi, perchè alle 9 della notte diasi il nome del mattino. Ed eccovi la risposta di Giulio. La quarta vigilia de'Romani e il mattutino de'chierici avanzava di quasi tre ore il pieno spuntar del sole; cioè alle 9 della notte a punto; ed il mattino cominciava veramente assai prima dell'alba.

A conforto poi della sposizione che Giulio dà a tutto questo passo, mi sovviene di aver letto nel Convito che Dante narra che i quattro cavalli posti al carro del Sole altro non significano che le suddette quattro partizioni del giorno e nomina a punto terza, sesta, nona e respro, alle quali corrispondono le quattro della notte: primo notturno, secondo, terzo e mattutino, siccome mio marito afferma. Di grazia, leggete questo luogo del Convito, e vedete se potete trar nulla di buono che vi giovi. Non saprei di presente citarvene con precisione la facciata, ma sono sicura di non errare nella sentenza; e certamente so ch'ella si trova là ove parla delle quattro divisioni dell'età dell'uomo, circa il fine dell'opera.

In ultimo mi sia concesso confessare che nè la vostra, nè la disposizione di Giulio affatto affatto mi garba: e forse ciò m'accade più per colpa del poeta ohe per quella degli spositori, poichè è forza convenire che questo passo è molto scuro. Quella Concubina di Titone per accennare l'aurora, anzi per accennare piuttosto l'alba (poichè si parla dell'ora del mattino che precede l'alba); quel salto che fa il poeta dall'Avemaria (mi sia concesso esprimermi co'termini del secolo) al mattutino, senza dirne nulla di ciò che gli seguisse durante tutta la notte, cosa insolita alla diligenza di Dante nel seguire l'ordine dei fatti; quel non addormentarsi che sull'alba, tuttochè egli avesse con sè di quel d'Adamo, mentre in circostanza simile nel 27 del Purgatorio appena chianto il Sole e spuntate le stelle ei sia vinto dal sonno,

«E pria che in tutte le sue parti immense fusse orizzonte fatto d'un aspetto E notte avesse tutte sue dispense. Ciascun di noi d'un grado fece letto»

sovra il qual grado, dopo pochi versi, dice chiaramente che rimirando le stelle fu preso dal sonno, tutte queste considerazioni in somma mi tengono ancora in forte dubbiezza e mi fanno sospettare che forse altra sentenza si chiuda in que versi del nono, che quella da voi e da Giulio esposta. Ho dichiarato simili obiezioni a mio marito, e mi ha imposto di scriverle, acciocchè vediate di solverle. Egli pure ci penserà, secondo che promette, e se gli si affaccerà qualche buon pensamento, ve ne scriverà.

Vorrei ora dirvi dell'artefice. di che già vi pregai; ma sono le 11 di sera, e per aver lungamente scritto, come vedete, la mano quasi non regge più la penna, e sento che anche la mente ha bisogno di riposo. Siccome però non si tratta che di fermare il modo della sua venuta, nel venturo ordinario sarò in tempo a parlarvene. Vi ringrazio intanto dell'ufficio che ne avete fatto. Addio, mio buono amico: vi avviso che non ho campo di rileggere quanto ho scritto, perchè il tempo stringe e mi conviene mandare il plico al Conte Paolo Macchirelli per iscanso di spesa. Se dunque troverete alcuna parola o espressione che non corra, supplite voi colla pazienza. Salutatemi Giuditta e la Contessa Serpieri, ed abbiatemi sempre per la vostra affezionatissima

Costanza.

Da Lettera di Giulio e Costanza a Paolo Costa in nozze Giovanardi-Bersani, Bologna, Tip. Annesio Nobili, 1840.

Savignano [1816 ?]

Mio caro Giulio.—Avrai inteso dire da Giovanelli che sto bene e che sono arrivata felicemente. Se vuoi farmi star meglio vieni tu pure a respirare un po' di quest'aria balsamica, e vieni presto, giacchè ho molta malinconia e tu solo puoi dissiparla. Va a trovare per me la Zannucchi e dille che si serva dei nostri cavalli quando vuole andare a trottare. Le ho scritto, ma mi sono dimenticata di parlargliene: d'altronde è meglio così, giacchè se hai qualche che in contrario, non le dirai nulla. non volendo far cosa che ti dispiaccia. Addio, saluta la mamma, amami e ricordati della

tua Costanza.

P. S. Mandami delle lettere della posta se ve sono per me, e mandami della polvere da scrivere.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana in Pesaro. fondo Perticari.

Savignano. 9 maggio [1816 ?]

Mio Giulio.—Mandami il calamaio della scrivania che sta nel mio gabinetto, giacchè quello che ho portato meco non mi fa bene. In oltre mandami il Dante ed il Dizionario che ho dimenticato. E tu che fai che non vieni? Or ora perdo la pazienza e torno a Pesaro. Sai nulla di mio padre? Carnevali non ti portò di lui alcuna lettera? Come va la tua salute? Quella della mamma, della Zannucchi? Vedi quante dimande.

Rispondimi: anzi, fa meglio, vieni tu stesso. Addio. Ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana in Pesaro, fondo Perticari.

S. Angelo. giovedì mattina [1816 ?]

Carissimo Antaldo.—Vengo avvertita da Pierino che il progetto di Zannucchi per la sua ringhiera va di buone gambe. Questa notizia mi ha fatto ascendere la bile fino alla cima de'capelli. Ho scritto amichevolmente alla Zannucchi mostrandole tutte quelle ragioni che dovrebbero trattenere suo marito dall'usarci questa nuova soverchieria. Dopo la mala condotta da lei meco praticata in quest'affare, faccio miracolo a tenerle un pacifico linguaggio. Pregoti però di parlare ad essa ed al marito cercando di condurre a gentilezza coteste scortesissime bestie. Col ritorno di Mariano attendo che tu mi scriva le ultime determinazioni dei medesimi, ed acciocchè tu mi possa dare qualche sano parere. t'avverto che (secondo che mi scrive Pierino) l'affare sarà rimesso al consiglio. Vedi dunque di convertire questo indiscreto servo di Dio, altrimenti egli troverà macigno per pan duro.

Riveriscimi tua moglie e sta sano.

Sempre Costanza tua.

P. S. Mariano sarà di ritorno da costì domani mattina. È dunque necessario che tu parli questa sera; acciocchè tu conosca meglio le ragioni per le quali non posso compiacere cotesto asino santissimo, ti mando la lettera diretta a sua moglie. Curerai di sigillarla e la consegnerai tu stesso.

Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi. Zannucchi Giuseppe, proprietario della casa vicina a quella dei Perticari, era conosciuto come religiosissimo e bigotto.

S. Angelo [1816].

Antaldo carissimo.—A quest'ora mi sarei recata a Pesaro, se una forte flussione di denti non me lo avesse impedito: e veramente sono stata malissimo, e tuttora non istò bene: nondimeno è deciso che moverò dopo domani in compagnia della Lazzari, che ieri mattina arrivò in S. Angelo. Se siete nella medesima cortese intenzione di venirmi incontro, siccome mi scrivete, ve ne sarò grata, altrimenti vi prego di avvisare Pierino, acciocchè faccia attaccare la posta, e mandi il legno fino a Forcivia, se la strada lo permette.

La vostra aff.ma amica
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi. La Lazzari era la Contessa Gertrude Cassi, sposa al Conte Lazzari di Pesaro, cugina di Giacomo Leopardi, che il giovine poeta amò è per la quale scrisse «Il primo amore».

Pesaro [1816].

Amico coro.—Mi scrive la Giovanelli di S. Angelo chiedendomi se tuttora sei nella caritatevole intenzione di tenerle a battesimo il suo bambino, come lo scorso estate le promettesti. Siccome sapeva che l'altro ieri e ieri escisti, sperava poterti fare l'imbasciata a voce ieri sera, tanto più che tutti m'assicurano che stai benissimo: ma, non vedendoti, mi risolvo a scrivertene e ti prego di rispondermi subito, perchè questa mattina appunto scrivo a S. Angelo.

Ho anco lettera della Clarice, la quale m'avvisa che suo marito non migliora punto; la notizia è ben triste!

Addio, mio caro amico, spero rivederti in breve, poichè la tua salute ora ti permetterà di farmi questo regalo; se no, fa di averti cura e guarisci presto. Addio.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.

Bologna, 27 settembre [1816].

Mio caro amico.—Avrei dovuto scriverti ieri sera perchè questa mattina è partita la posta: ma non essendo pratica dell'orario della partenza dei corrieri in questa città, ho lasciato correre un ordinario inavvertentemente. Finora il nostro viaggio è stato ottimo, ma di una lentezza tale che sembrami viaggiare in compagnia di tartarughe.

Arrivammo Mercoledi sera in Bologna, ove ci tratterremo sino al termine della settimana ventura; giacchè a motivo dell'opera, che va in iscena questa sera, Sgricci non può prima del prossimo Mercoledì dare la sua accademia. Imagina la mia impazienza e come io mi viva proprio sulle spine tra il desiderio vivissimo di riabbracciare la mia cara madre e la noia noiosissima di trovarmi in mezzo ad una locanda, senza un comodo immaginabile, se ne traggi quello di non avere mai un solo momento libero, per lo che almeno non ho tempo di considerare la mia penosa situazione e quindi non ho quasi neppur tempo di arrabbiarmi. In mezzo a tante disgrazie m'è dolcezza il pensare ai miei cari amici, a te specialmente il quale io amo con sì vivo affetto, e dal quale spero non essere meno amata e desiderata.

Scrivimi dunque e dimmi come te la passi, cosa fai la sera, come t'è grave la mia partita, come bramato il mio' ritorno.

Fra Savignano e Cesena incontrai la Teresina Gennari, la quale si portava a Pesaro; desidero sapere come sia giunta, giacchè mi spiacerebbe assai che il viaggio le avesse dato qualche incomodo a motivo della sua gravidanza. Onde, per non moltiplicar lettere, le dirai per me mille tenerissime cose, e me la saluterai tanto, chiedendole sue notizie, le quali mi scriverai.

Salutami pure la Lazzari, Molinari, Donnismondi, i Morosi e tutti quelli che ti chiederanno di me. A te poi mi raccomando particolarmente e pregoti a non inquietarti se forse fino al mio arrivo in Milano non avrai più mie lettere, giacchè se tu vedessi come sono assediata dalla mattina alla sera, stupiresti della mia sofferenza. Finora tutto il tempo se n'è ito in pranzi e cene, talmentechè m'aspetto di giungere a Milano gonfia come una zoccolante. Basta, Iddio me la mandi buona, e mi conservi nel tuo cuore, come tu per sempre sei nel mio.

La tua Costanza.

P. S. Pregoti di far giungere a mia suocera i miei saluti e quelli di mio marito. Nello stesso tempo farai sapere alla bella Maria che Mariano sta bene. Addio, mio carissimo.

Riapro la lettera per pregarti di porgere i miei saluti al conte Paolo. Era mia intenzione di scrivergli, ma la posta sta sulle mosse e mi toglie questo piacere; onde mi ricorderi a lui e gli dirai che appena giunta in Milano adempirò all'obbligo mio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.— Senza data, ma certamente de! 1816, quando Costanza e Giulio si recarono a Milano.—Il Conte Paolo Macchirelli era figlio del Conte Vincenzo che fece l'eredità di Olivieri. Morosi, avvocato, era uno dei pezzi grossi tra i Carbonari, molto leggero però di carattere. Molinari era maggiore di finanza del governo pontificio ed amicissimo di casa Perticari.

Milano, 18 ottobre 1816.

Antaldo caro.—Per questo medesimo ordinario scrivo al Conte Paolo circa Bonetti, onde: vedendo tu quest'ultimo, lo farai di ciò avvisato. Circa la commissione di Baldassini troverai risposta di mio marito in fine alla presente. Aggiungerai alla medesima i miei saluti e dirai che prepari la sua particella per il mio ritorno, giacchè sto raccogliendo musica a precipizio. Gradirei sapere alcunchè circa l'affare che ti raccomandai nell'ultima mia, intorno il permesso di quella benedetta riffa di che Gennari prese cura. Abbi pazienza di raccomandargli questa feccenda e pregalo che la sbrighi. Mille saluti a Molinari ed agli amici.

Lu tua Costanza.

(di mano di Giulio segue:)

Giulio ti saluta e ti abbraccia anche per parte del Francesconi e del Trivulzio. Intorno al pittor Marconi, ecco come la va. Costui è interino Segretario dell'Accademia di belle arti. Teme di perdere quel posto contrastatogli giustamente dal nostro Costa. Nè abbandona Bologna finchè la lite pende.

Ha però detto di venire a Pesaro in ottobre; egli associerà al lavoro un tal Ceni, ch'è abilissimo artiere, e che vale, in delicatezza d'ornare, molto più del Marconi stesso. Ma visti i miracoli di questi pittori teatrali in Milano, io non voglio lasciare dal sentire anche le pretensioni loro perchè se i Bolognesi alzassero di troppo le loro fantasie, noi avessimo un bel modo da mandarli a far… dico io bene? a me pare che sì. Ho fatta inchiesta del Dante presso gli eredi Borsi. Comperarlo non saria possibile per far esso parte della collezione rarissima di tanti e tanti Danti raunati per tanti anni, che fanno una sì bella catena da non potersi spezzare un anello senza togliere una gemma da una collana. Saria quindi mestieri il ricuperar quel libro, come cosa pienamente tua e solo imprestata al Borsi.

Ma per far questo ci vorrebbe o qualche lettera del Borsi stesso o qualche forte contrassegno che giustificasse gli esecutori testamentarii avanti gli eredi. Tu conosci come queste cose sono delicate nè saprai condannarli. Fa dunque di porre in mano a'tuoi agenti qualche arma per fare questo riacquisto e sii certo che saranno adoperate di tutta forza.

L'avvocato Reina ancor egli sarà tuo campione e ti saluta.

Vedrai nel futuro fascicolo della Biblioteca Italiana un tratto della vita di Guido Feltrio scritta dal Baldi e trascritta dal tuo bel codice. Cotesti compilatori mi si sono messi attorno e non ho saputo escirmene.

Non saprei dirti quanta festa qui si è fatta sul Collenuccio; talchè lord Byron, il primo poeta vivente dell'Inghilterra, l'ha tradotto tutto in Inglese e l'ha mandato alle stampe di Edimburgo. Sono certo che il luogo da me scelto nel Baldi non avrà minor fortuna, trattandosi del colloquio tra Guido e il Valentino in Roma, quando, morto Alessandro e mutato l'aspetto della fortuna, quello sventurato non avea altra salute che quella della disperazione d'ogni cosa. A questo succederà l'altro luogo pietosissimo della morte di Guido, perchè i leggitori conoscano gli autori in ogni sua maniera, e ti so dire che farà un bel contrasto la forza e l'ardire machiavellesco di quel primo passo colla dolcezza e la malinconica soavità di questo secondo.

Insomma io farò lode al suo possessore per quanto è in me, essendo ben persuaso che questo pregustamentò desterà la fame di molti e che assicurerà l'esito del libro quando ci piaccia di pubblicarlo, potendo questa chiamarsi una ragionata notificazione: e null'altro. Il nostro Sgricci ha cantato in casa Crivelli con quanta meraviglia può destarsi in queste menti, che colano tutte di burro e strutto.

Ho fatto qui venire il mio amicissimo Marchese Del Negro di Genova, il quale lo porterà seco a Genova ed a Torino ed ecco assicurata la sua fama e la sua fortuna per quanto era in me.

Così vorrei ch'egli sapesse conservarsi un nome intatto da ogni altra menda. Lo spero: ma non ne sono ben certo.

Ama il tuo amico sincero e sta sano.

Salutami Cassi, Molinari e gli amici tutti.

Giulio Perticari.

Tu puoi ben credere che nel leggere questo lungo paragrafo del mio Signor marito io mi sono arrabbiata mortalmente.

Come! egli viene a Milano per terminare il suo Dittamondo e si mette a scrivere a comando di questi giornalisti? Indovinerà Cristo quando avrà finito di torturarmi con questi maledetti indugi. Intanto quando rimpatrieremo? e quanto tempo dovrò io bestemmiare in questo maledetto paese?

Io maledico questo viaggio, maledico il momento che mi son mossa.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Tommaso Sgricci di Castiglion fiorentino (1788—1836) fu celebre improvvisatore non solo di poesie, ma anche di tragedie sopra un dato soggetto. Vedi Giordani—Dello Sgricci e degli improvvisatori in Italia (1816); M. Missirini nel Giornale scient. e lett. di Perugia L. Carrer nel De Tipalo Vol. 30 pag. 404 e seg.

Milano, 29 ottobre 1816.

Sei pure il grand'imbroglione mio caro amico!

Per tuo cenno prima della presente ho dirette due mie lettere a Firenze, ed ora mi vai contando di rimanere in Pesaro.

Sià pure nel nome d'Iddio, ma giacchè vi sei rimasto fin'ora, differisci, te ne prego, cotesta tua partita fino al mio ritorno, il quale sarà in breve, avendo già fermo di movere la settimana ventura.

In risposta all'ultima tua debbo dirti, che sempre ti ho tenuto ed ascoltato come il migliore amico mio, e però i rimproveri di che mi carichi mi piombano sul cuore, siccome quelli che so di non aver meritati. E perchè io non temo per la mia coscienza di entrare in questo argomento, primieramente m' è duopo il mostrarti che entrambi abbiamo dei falli a purgare. Ma dimmi, ho io mai perciò cessato di tenerti pel primo nel mio cuore? ti ho mai ingannato, e non ho io preferito farmi bersaglio dei tuoi rimproveri, piuttosto che un solo moto nasconderti dell'animo mio?

Mio caro amico, egli è pure difficile che una donna della mia età, e colla fervida fantasia che la natura mi ha data, abbia a farsi meno rimproveri di me: ed è più difficile ancora che, trasportata dalla falsa dolcezza di una lusinghiera passione, abbia, non solo la forza di superare se medesima, ma altresì la generosità di non celare il suo stato al proprio amico. Nè però ciò essendo, io stimo aver fatta opera maggiore del dovere; che l'ingannare altrui è segno di un animo vile, e allora solo l'uomo è veramente colpevole, quando non ha più il coraggio di mostrarsi apertamente. Ma voglio ben che tu conosca come a torto m'accusi; convenendo che perchè io m'abbia più veementi passioni, non perciò io merito biasimo; giacchè deesi prima esaminare se a vili passioni io ceda, o se le opere mie ponno in alcun modo meritarmi nota di doppia, o malvagia femmina. Il che, se per me stessa solo si potesse mettere in dubbio, vorrei colle mie stesse mani trarmi l'anima, onde non vivere in dispregio a me medesima, avendo più a cuore la mia propria stima che l'altrui.

D'altronde non è virtù ove il grido della passione non si fa sentire, e l'uomo veramente virtuoso è quello che più dee e sa combattere se medesimo. Le quali cose tutte meglio si ponno per te intendere e spiegare; e però non devi tu aggravarmi di quei rimproveri che per certo non merito, non avendo io contro te niuna colpa: ma piuttosto mostrarmi che rendi giustizia al mio cuore, e lo sai apprezzare, siccome quello che non è assolutamente volgare, ed è tutto pieno di quella santa amicizia che a te lo stringe. Ma già io mi vergogno di aver tanto cianciato di me medesima e tu pure forse ne bestemmi.—Perdonami dunque se avendo in sommo pregio la tua stima, ho cercato appo te giustificarmi di quelle accuse le quali, benchè nella tua lettera pienamente chiare non appariscano, pure abbastanza palesi mi si mostrano nel tuo cuore. Mi resta solo ad assicurarti che t'amo veracemente; e che se tu mi togliessi la tua amicizia, mi priveresti di cosa carissima, ma non perciò cesserei io di esserti amica verissima. Onde chiedi prova di quest'amor mio, e mi sarà gratissimo mostrarti la di lui pienezza.

Ho parlato colla persona delle gioie che tiene Gennari: ella è contenta di lasciare il tutto pel prezzo di scudi 82: onde non credo difficile quest'affare, poichè la persona che aveva esibito a Gennari scudi 80 potrà ben essere disposta a spenderne 82.

Non ho potuto indurre la padrona delle suddette cose a lasciarle per minor prezzo. Ciò dirai a Gennari, che se poi non si potesse conchiudere il negozio, vedrò al mio ritorno di farne tante tombole e levarmi questa spina, non dal cuore, ma…

Addio, amami, se non ti grava, ma se non mi conosci abbastanza per potermi stimare, cessa pur anco d'amarmi, giacchè un amore non fondato sopra una piena stima m'avvilirebbe, e vi rinunzio.

La tua amica.

P. S. Rispondi alla presente a Bologna; ferma in posta.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.

Milano, 6 Novembre 1816.

Mio caro amico.—Mio padre ti ringrazia dell'avviso che gli hai dato circa il codice Vaticano, il quale trovasi anche qui e gioverà moltissimo per quanto consigli nell'ultima tua. Circa i disegni di Borsi sarà difficile servirti, perchè si cerca di venderli tutti uniti, ma Reina ha dato espressa paroda che se ne venderà uno diviso, sarà per te.

Anche pel codice tuo ci siamo adoperati onde ti venga restituito; non so pero se ci riuscirà contentarti.

Godo che Lazzari si mostri di migliore umore, giacchè sono certa che tutto il suo male si dissiperà tosto che egli avrà scacciata ogni melanconia. La Gertrude però è una briccona, perchè io le ho scritto ed ella, forse per scamparsi dal rispondere, dice di non aver ricevuta la mia lettera.

Falle noto che non ho mai cessato dal ricordare l'affare di Siepi scrivendo a Macchirelli ed anche in questo ordinario gliene fo parola. Noi dovevamo partire entro la settimaua, ma mio marito ha operato da vero poeta e mi ha mancato.

Ora mi promette di muovere Martedi prossimo, ed io sarò contentissima se almeno Sabato lo potrò strappare da questo maledetto paese, dopo il qual giorno ti giuro che farò tanto rumore che, se non per libera volontà, almeno per forza sarà costretto a contentarmi. Onde, se vuoi fare opera per me dolcissima, rimanti in Pesaro fino al mio ritorno il quale sarà certo in breve. Fa che al mio giungere in Bologna trovi tue lettere, le quali mi racano sempre infinita consolazione.

Se Clarice si trova costà, salutamela le mille volte. Poverina! ella deve essere in grande amarezza per la perdita fatta, ed io pure ne sento vero dolore. Consolala ed abbracciala per me.

Salutami Cassi il quale mostra veramente essersi in tutto dimenticato di mio marito e di me.

Salutami pure la moglie e la figlia di lui; salutami insomma tutti, tutti coloro che si ricordano di me, particolarmente i Morosi e Molinari.

Addio, mio dolcissimo amico, amami e credimi sempre.

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Bologna. 20 novembre 1816.

Mio caro amico.—Lunedi venturo saremo in Pesaro, e però puoi dare questa notizia al conte Paolo Macchirelli, il quale gentilmente mi si offerisce, in una sua, di venirmi incontro; ma nello stesso tempo digli che mediante i casi (i quali non sono pochi specialmente quando si viaggia con poeti come accade a me), in considerazione dissi di questi casi, amerei ch'egli non si movesse da Pesaro, per non avermi a rimproverare questo suo inutile incomodo. Ti scrivo in fretta, e da Bologna: la posta sta per partire, onde non posso rispondere alla tua qui direttami. A voce ci spiegheremo meglio e conoscerai che se merito la tua stima, merito altresi quella di tutte le persone dabbene, e chiunque pensa diversamente è un impostore che io non curo, bastandomi per garante della mia condotta il mio cuore e la conoscenza che ho di me medesima.

Addio, ti lascio colla dolce lusinga di presto riabbraciarti.

Amami, salutami gli amici e specialmente il Conte Paolo al quale non iscrivo per mancanza di tempo.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro. novembre 1816.

Mio caro amico.—Mando il mio domestico per sapere le vostre notizie. Io sono arrivata in questo momento, e felicissimamente. Questa sera, o quando a voi piaccia, spero d'aver il piacere di riverirvi.

Frattanto mi protesto sempre

la vostra Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro. [1817].

Amico caro.—Io parto a 22 ore precise, e però ti mando queste due righe per salutarti. Se vuoi farmi compagnia mi favorirai sommamente: in questo caso vieni subito, se no, addio, voglimi bene e ricordati di

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

[S. Angelo. 1817].

Caro Antaldo.—Del libro ti scriverà Giulio; però non mi resta altro a dirti se non che del cavallo fui contenta, ma più d'una volta ebbi a confessare, con piena persuasione, che ell'era cavalcatura di tuo fratello. Questo non m'impedì di venire il più sollecitamente che si potè, e per le salite, e per lo buio avanzato della notte, poichè quando scesi dal legno a Calibano tramontava appunto il sole; anzi era già tutto all'occaso. Se vedi il Conte Paolo digli per me mille tenere cosette, e fra queste, che sono mortificata perchè ieri non potei fargli i miei dovuti ringraziamenti, mediante il cavallo che appena montato prese la via senza più fermarsi: ed egli fu di ciò testimonio: onde spero di ottenere il suo perdono. Addio, vienr tosto, e se tosto non puoi, scrivimi almeno e dammi anche novelle di Molinari. Addio.

La tua Costanza.

(di mano di Giulio segue:)

Va bene quello che m'hai scritto intorno il teatro: ed io ne scriverò al Bianchetti le tue parole. E così mi pare prudentissimo il consiglio che hai tolto pel fatto di Conciani. Veramente gl'infermi sono in guardia di genti infermissime più di loro: se è vero che è preggiore l'infermità della mente che quella delle membra. Il libro che ti chiedea la Costanza e che brama ardentemente, senza averlo conosciuto neppure di nome, è Aphtonio: il quale ne' proginnasi ha una cotale storiella, che farebbe molto al caso per uno studio di lei. Tu perdonami tante noie: anzi rimproverane la tua cortesia. Saluta gli amici, ed ama il tuo tristissimo

Giulio Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi. Senza data, ma pare debba essere del 1817 perchè in quest'epoca il Perticari si occupava delle decorazioni del teatro di Pesaro.

S. Angelo [1817].

Caro amico.—Quanto tu e Pierino mi scrivete di Molinari mi pone in troppo travaglio, perchè non abbia a pregarti di visitarlo e consigliarlo caldamente e quanto credi opportuno per la di lui salute. Fallo adunque sì per l'amicizia che vi stringe entrambi, sì per quella che gli porto io stessa e ch'egli merita per le eccellenti sue doti morali. Domani ti attendo infallantemente, fallantemente, e spero mi recherai alcuna migliore notizia del medesimo.

Ti ringrazio del libro, e più di avermi segnato il passo che desiderava: ma mi sembra assai poca cosa per il mio piccolo studio, e di nessun aiuto.

Se domani non vieni bestemmio tutti i santi e non ti dò più mie notizie per quindici giorni. Addio.

P. S. Domani ti verrò incontro verso Ginestreto.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.

[S. Costanzo, agosto 1817].

Caro amico.—Ti raccomando quel povero storpio. La di lui moglie è stata quest'oggi a Pesaro, ma (non so per quale strana legge) non lo ha potuto vedere, ond'è tutta sconsolata ed in dubbio. L'ho rasserenata alquanto con dirle che tu ne avrai tutta la premura, e però fa che ciò sia in verità, che te ne avrò obbligo infinito. Se fosse possibile attendere Gattei, sarei più quieta, giacchè l'abbandonarlo a Lorenzini sembrami che sia un volerlo storpiare di bel nuovo. Basta, fa il meglio, te ne prego.

Aveva pregato le Cassi che prendessero a prova un orologio da donna fino all'arrivo di mio marito, ond'essere sicura che andasse bene, ma veramente bisogna che abbiano temuto di non essere pagate, il che sarebbe uscito dall'ordinario come anche esce dall'ordinario che una persona si prenda degli impegni che non ha poi mente di attenere. Tu vedi bene che ho motivo d'inquietarmi, giacchè v'ha rischio che nel breve spazio che Giulio dimora in Sinigallia, non abbia tempo di far prova dell'orologio, e così mi porti un canchero che Dio mandi a tutti coloro che escono dall'ordinario per siffatte scortesie. Addio: sono sola, faresti ben opera pia a venirmi a visitare.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi. Senza data, ma la frase uscire dall'ordinario, contenuta nella lettera, fa supporre che essa sia del 1817. In quell'epoca infatti, nei ricevimenti della Principessa di Galles, la Costanza era oggetto della critica femminile per la foggia ricercata delle sue acconciature che uscivano veramente dall'ordinario.

[S. Costanzo, 1817]

Amico caro.—Ti mando la lettera per Solustri, e se non hai pronta occasione puoi impostarla Domenica; basta che tu sappia che mi preme, onde fa che gli giunga il più presto. Dello storpio parlerai con Giulio che domani sera muove per Pesaro.

Mi sono dimenticata di scrivere a Solustri che la teletta non mi piace, però puoi dirlo a voce a Bischi, o fare in altro modo che lo sappia, perchè mi parrebbe uscire dall'ordinario vestendo ad uso dei materassi. Addio, scrivo in fretta, però fo punto: anco perchè ho una rabbia maledetta colle Cassi alle quali avevo dato varie commissioni, e per Dio, pare che abbiano temuto di non essere pagate, giacchè se la sono sfuggita facendo le stordite. Ma dice bene il proverbio: Chi ruole vada e chi non vuole mandi. Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.

[S. Costanzo, 1817].

Caro amico.—A vero dirti ho di che lagnarmi di Paolino Giorgi per la sua mala lingua; e tempo fa essendomi stata riferita cosa detta da lui in mio danno, liberamente, com'era mio dovere, gliene feci parola. Egli si scusò, negò, protestò e disse tutto ciò che in simili circostanze si usa dire, o innocenti o no che si sia. Io quasi gli credetti e lo trattai colla stessa amorevolezza di prima; di che tu puoi essere stato testimonio ogni volta ch'egli si è mostrato in mia casa. Ma egli diradò da quell'epoca le sue visite e le troncò infine; nè io pensai a fragliene rimprovero, perchè non ho mai chiesto per questo mezzo la compagnia d'alcuno, e perchè ho per massima di non farlo. Però tutte le volte che m'è accaduto incontrarlo o per istrada o in altro luogo, gli ho sempre fatto buon viso, malgrado che la sua condotta m'abbia chiarita ch'egli realmente ha alcun torto a rimproverarsi contro di me. Tutto questo cred'io è avvenuto perchè niun uomo soffre ripulsa di donna in materia di galanteria, senza trarne vendetta come meglio può; e nol potendo coi fatti si scatena con la lingua. Questo che ti dico resti chiuso nel tuo cuore, e solo serva a farti conoscere di che poco momento sia tutta la questione. Dirai dunque a Giorgi ch'io non ho nulla contro di lui, ch'egli ha volontariamente lasciato di visitarmi, e volontariamente può rientrare in casa mia, ove mi sarà caro il vederlo, ed ove spero non troverà cosa ond'abbia a lagnarsi, ed aggiungerai quanto credi di melgio, purchè non tocchi quanto di sopra ti ho detto, perchè desidero (se sia possibile ottenerlo) un termine ai pettegolezzi i quali pur troppo m'hanno abbastanza amareggiata per lo passato, nè si accordano colla vita che ho fisso di tenere.

Se sai d'alcuno che muova a Senigallia, pregoti a incaricarlo della compera di un temperino, ma lo desidero di tempra la più perfetta, altrimenti non mi accade. Addio, domani è sabato e t'attendo a rallegrarmi un poco della trista penitenza che ho fatto colle Cassi in questi due giorni, giacchè non ho potuto in tante ore scrivere una sol riga di studio, e quel ch'è peggio, m'hanno costretta a ritirarmi la sera verso la mezzanotte. Vedi rabbia, vedi malanno!

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— Allude alla famosa fiera estiva di Sinigallia che allora era, senza dubbio, la più nota e più importante in Italia per il concorso d'ogni ceto di persone, per il grande emporio di merci e di navi mercantili d'ogni nazione e per gli stupendi spettacoli e gli svariati divertimenti a cui interveniva la brillante gioventù delle vicine e lontane città.

[S. Costanzo, 1817].

Amico caro.—Ti ringrazio dei temperini, i quali mi sono riusciti abbastanza buoni, ma però mi è convenuto mandarli a Pierino perchè li faccia arrotare. Ciò non monta, purchè siano di buona lama. Attendo che mi accenni il loro importo.

Spiacemi che tu non ti senta di perfetta salute, ma voglio sperare sia più malinconia, che vero male codesto tuo: scrivimene novelle e fa che siano le migliori.

Giulio ti ha scritto pei libri, onde altro non ho da aggiungere che raccomandarmi all'amor tuo.

La tua Costanza.

Ti attendiamo.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

[S. Costanzo, 1817].

Amico caro.—Vi aveva pregato di far ricerca in Senigallia, per mezzo di persona fidata, della scatoletta contenente le granate che già spedii a Solustri e che tuttora si trovano in sua casa, unitamente ad un taglio d'abito che pure desidererei ritirare. Siccome non me ne avete più fatto parola, nè a voce, nè in iscritto, desidererei intendere se ve ne siete preso carico, onde, in caso contrario, rivolgermi ad alcun altro, presso cui le mie preghiere abbiano migliore uscita. Perdonate il disturbo e, se non vi grava, favoritemi di pronta risposta.

La vostra aff.ma amica
C. M. Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.

Pesaro, agosto [1818].

Caro amico.—Desidererei sapere se per questa sera ti desse fastidio la mia persona nel Palco dei Deputati fino dopo il ballo. Qualora tua moglie vi andasse o altra ragione t'impedisse di favorirmi, fammelo pur sapere liberamente, e senza complimenti.—Addio. Sta sano e credimi

Costanza tua.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— Senza data, ma dalle note del Cinelli nella sua Cronistoria del teatro di Pesaro rilevo che si diedero spettacoli di opera e ballo nel carnevale 1814, nell'estate 1818, nel carnevale 1819 e 1821, nell'autunno 1826; quindi senza alcun dubbio deve riferirsi all'estate del 1818.

Pesaro, agosto [1818].

Caro amico.—Ti ringrazio della tua cortesia ma non posso più approfittarne, avendo questa sera nel mio palco la Gennari. L'avviso della medesima m'è venuto un momento dopo averti spedito il mio biglietto.

Un'altra volta mi prevalerò della tua gentilezza. Duolmi del tuo mal di testa. Questa disgrazia è però in te buon segno.

Non so se m'intendi, ma io ti capisco. Addio, abbiti cura.

Costanza tua.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1818].

Caro amico.—Non ho risposto subito al vostro cortese viglietto perchè era in camicia quando l'ho ricevuto. Il mio piede mi dà pace, finchè nol premo. Ma al ballare tornerà a dolermi, nè per questo mi darò vinta, permettendo che un piede mi soverchi.

Veramente il Belzoppi è nostro commensale. Ma sento ripugnanza nel menar meco una sì gran turba. M'acqueto però nela vostra voglia, specialmente pensando che il Belzoppi v'è amico.

Addio, la prova del ballo m'aspetta, talchè non mi è dato di tutta dedicare a Morfeo questa santa giornata come vorrei.

Amate la vostra

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [1818].

Amico caro.—Mi meraviglio che possiate credermi capace di fare cosa alcuna contro il volere di mio marito. Quando proposi la cavalcata di oggi e la gita di domani dovevate bene immaginare che non era punto in opposizione al mio dovere, e mio dovere chiamo io il non associare alcun mio amico ad imprudenti risoluzioni. Se vi piace di accompagnarmi quest'oggi e domani lo riceverò per grazia, se poi ciò deve costarvi il minimo sacrifizio persuadetevi pure che non intendo d'incomodarvi. Attendo qualche riscontro e sono

vostra amica vera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— La data è incerta.

Pesaro. 1818.

Mio caro amico e maestro.—Le tue lodi farebbero superba la greca Saffo, non che la povera Costanza: anzi ti confesso che dopo quella gentile e dolcissima lettera tua, il mio poema della rosa se già mi parea tollerabile, ora sembrami quasi buono. Ma guarda però che l'amore di maestro non ti faccia velo alla mente: e che tu non sia come alcun padre al quale i proprj figli paiono vaghissimi mentre agli occhi altrui sono orrendi: poichè l'affetto è talora una sì forte cosa, che vince il vero. Ma intanto queste tue lodi che non merito mi saranno stimoli perchè io sudi a meritarle quando che sia. E di questa sola ed alta speranza mi vo pascendo. Questa mi tiene di continuo fra i diletti miei libri e specialmente fra quelli de'latini divinissimi padri nostri, spregiati solo da quella vigliacca plebe di romantici, che squarciano la bocca a bestemmiare ciò che non intendono, anzi che non sono nè pur degni d'intendere. Ed è caso veramente non tollerabile che gli uomini del settentrione cerchino ora di farsi barbari colla penna, come già negli andati secoli il fecero colle spade. E che v'abbiano de' nostri così vili. così dimentichi di loro stessi che s'inchinino a tanta servitù! o mio Lampredi, il mio cuore è gonfio d'ira: toccando di queste cose, tu mi fai bollir l'animo. Qui è necessaria una guerra secura: tu puoi, tu devi esserne gran campione: e fare che almanco in Napoli e in Roma non penetri questa pestilenza di che già in Lombardia ammalano molti e molti: e sarà grave il danno ove non si metta pronto il rimedio.

Oh quanto sarei felice, se potessi averti a maestro, come già t'ebbi ne'più giovani anni! ma se la mala fortuna non mi concede di vivere nel luogo stesso, in cui vivi, io farò almanco d'esserti meno lontana.

Perchè in quest'autunno verrò in Roma, nella mia dolce patria, ove penso di meglio istruirmi nelle cose latine e di venerare quelle sante reliquie della nostra grandezza.

Ivi tutta romita nell'ozio degli studi, ivi tutta chiusa t'aspetterò: perchè tu mi conforti col tuo consiglio: perchè tu sappia com'io t'amo, e come il tempo abbia in me cresciuta la riverenza e la gratitudine che mi ti stringe. Il mio buon marito che sempre mi parla di te, come d'uno dei più grandi e rari letterati d'Italia, non cape per la gioia in sè stesso veggendo che tu approvi le sue dottrine. E veramente egli ha ragione: nè so qual frutto magliore poteva attendere dalle sue fatiche che questo: di vedere i dotti più celebri e gravi plaudire a tanto forte ed ardita impresa. Non può quindi saziarsi dal lodare quella tua squisita comparazione del palagio: e dice che solamente secondo que' tuoi or dini architettonici potrà ora edificarsi nobilmente in terra italiana. Anzi vuole ch'io ti prieghi per l'amore che hai alla tua discepola, che tu lo voglia aiutare col tuo voto, co'tuoi soccorsi, e colle tue emendazioni in tutte quelle cose che ti sembrassero degne di riprensione.

D'una cosa finalmente dovete saziar l'onesto nostro desiderio: ed è di spedirci, quanto prima il vostro volgarizzamento del Pluto d'Aristofane. Io mi consumo di poter leggere queste greche delizie delle quali in Italia non abbiamo alcun esempio, colpa gl' inetti volgarizzatori; chè non ho veduto mai strazio più so lenne di quello che que'signori Rostini già fecero sopra Aristofane: il quale mi pare in mano a coloro una vera Gerusalemme in man de'cani.

Siatemi adunque cortese di tanto, e siatemi almen maestro colle vostre scritture, giacchè nol potete colla viva voce. Che tutto quello che mi viene da voi mi sarà grand'esempio al ben fare ed acuto stimolo per correre in questa via, per cui voi mi avete messa. E per ciò scrivetemi sovente e a lungo, e amate me e il mio Giulio, che meco vi saluta e v'abbraccia.

L'autogr. in mala copia si trova nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.—Urbano Lampredi, nato in Firenze. (1761—1838) compilò in Monitore romano; è celebre la sua contesa col Monti che poi aiutò nella traduzione dell'Iliade. Tra i molti suoi scritti ricordiamo le Lettere filologiche e le Note alle opere del Monti. I fratelli Bartolommeo e Pietro Rostini tradussero le opere di Aristofane.

Pesaro [1818].

Caro amico.—Se tacqui ieri sera la causa della mia tristezza, non credo debbasi perciò argomentare ch'ella fosse lieve, e ch'io sia stata una pazza ad affannarmene. Vi dissi ch'ella dovea sembrare assai leggera a tutt'altri fuori che a me, poichè io sola ne soffriva e ne soffro le dolorose conseguenze, però amava meglio tacermi, che recarvi noia con inutili lagnanze. —Ora la mia mente è più calma, non già più raddolcita, chè nol potrebbe essere in vedendomi attraversare quella via. la quale sola può condurmi alla meta d'ogni mio desiderio, da que'medesimi che dovrebbero aiutarmi a percorrerla.

Questo che vi dico, spero, basterà a meritarmi il vostro compatimento pel mio silenzio d'ieri sera; chè se non presi parte a'vostri ragionamenti, le lagrime e le mie triste considerazioni sull'avvenire me lo impedirono. Aggiungo poi, che appunto perchè sono in caso di giudicarmi da per me stessa debbo affannarmi maggiormente del doloroso contrasto in che mi trovo. Non vi dico di più, per non tediarvi, e di più non mi spiego per non amareggiare me stessa.

Addio, amatemi ed a voi mi raccomando.

La vostra Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— Senza data, ma probabilmente del 1818. La malinconia di Costanza pare si possa attribuire alle difficoltà che Giulio opponeva al desiderio di lei di recarsi a Roma.

Pesaro 1818.

Caro Giulio.—Non ti ho scritto perchè contava venirti a visitare in breve, ma a dirti il vero ho ritardato di qualche giorno questa visita per non recarti il malumore di che ogni dì più ammalo. Se dunque il tuo lavoro è a buon termine io ti attenderò qui in Pesaro per accompagnarti poi a Savignano, altrimenti verrò a S. Angelo in sul finire della settimana, quando non ti spiaccia però l'avermi così triste e malcontenta come sono: E ti giuro che ardo di riabbracciarti e di versare nel tuo cuore tutta l'amarezza del mio e tengo per fermo che tu saprai consolarmi.

Il conte Paolo è partito questa mane per Savignano, ma ritornerà fra giorni, quindi se il ritardo non pregiudica manderò al suo ritorno lo spartito senza che tu abbia a spendere nel corriere. La spilla resterà a noi, almeno finchè non te ne ho detto il motivo, chè dopo ne farai ciò che meglio credi, essendone tu il padrone.

Mi scriverai intanto come debbo spedire l'attestato di Fusignani.

Ti prego di farmi due righe di risposta a De Breme (il ritardo comincia a diventar villano) e me le accompagnerai anco colla soprascritta perchè non so come si scriva il suo nome.

Addio, mio caro marito, mio buon amico, mio tutto. Ti bacio, ti abbraccio le mille volte.

La tua Costanza.

P. S. Non mi dici nulla di Roma: pazienza!

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Pesaro. 1818.

Giulio mio.—Savignano mi ha premurosamente spediti dei deputati per lo che non posso abbandonare gli affari urgentissimi che il bene della patria mi incombe di trattare e condurre, se mi sarà possibile, a buon fine. Sappi pertanto che Borghesi ed il fratello di Gregorio sono giunti questa mattina e si tratterranno fino domani, però non posso, nè voglio abbandonarli qui soli. Non m'è stato possibile convertirli a venire in S. Angelo e ne adducono politici motivi, che a dir vero non mi hanno punto persuasa. Essi ti salutano e salutano Costa, il quale riverirai pure per me. Addio, ti abbraccio e sono

Costanza tua.

P. S. Mandami il Donato, poichè dovendomi trattenere domani non moverò che lunedì e però voglio ripassare le mie lezioni.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.— Bartolommeo Borghesi, celebre numismatico, storico ed epigrafista (1781—1860) nato a Savignano in Romagna, fondò l'Academia savignanese che prese il nome di Simpemenia Rubiconia. I membri dell'Academia avevano adottato il calendario greco e assunto nomi greci. Il Borghesi si chiamava Paleotimo Steleo; il Perticari, Alceo Compitano; l'Antaldi, Alfesibeo Apsio ecc.

Pesaro, 1818.

Mio Giulio.—Buone nuove. La Violante ha riposato questa notte abbastanza placidamente e l'assalto delle convulsioni è stato assai mite e questa mattina le è sopraggiunta una crisi di sudore, che Fusignani giudica salutevolissimo. Tengo queste notizie dal medico il quale molto per tempo è venuto a portarmele mentre io era ancora in letto. Insomma, se la mala nostra fortuna non farà accadere altro, Fusignani crede l'ammalata fuori di pericolo. Consolati, mio Giulio, e godi con noi di queste buone notizie. Se accadrà altro ne sarai avvertito. Addio, ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari. —La Violante è la Perticari Giacchi, sorella di Giulio, per la quale il Monti scrisse il sonetto: De' miei mali al pensier ecc.

Pesaro, 1818.

Mio Giulio.—Questa sera la Violante continua a star benino e dopo un lungo riposo pare che ora si trovi più sollevata. Fusignani, qui presente, assicura che il caso non è disperato ed anzi ha buone speranze. Domattina ti saprò dare più certe notizie, perchè se questa notte la passerà con alquanto di quiete più che non ha passato la giornata, pare che avremo vinto la causa. Datti pace, mio Giulio, ed ama sempre

la tua Costanza.

Antaldo ed il conte Paolo ti salutano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Mio Giulio.—La nostra Violante comincia a migliorare veramente e quest'oggi è quasi senza febbre. Il giorno decimoquarto (che fu l'altro jeri) cominciò a dar segni assai buoni, il che i medici riguardano come un sicuro indizio della sua guarigione. Veramente ella ci ha fatto tremare, ma in oggi viviamo quieti: onde tranquillizzati e sta di buon animo, poichè ella assolutamente è fuori di pericolo e spero questa sera trovarla senza febbre affatto.

Il marito, i cognati e noi tutti le facciamo quella assistenza che per noi si può maggiore.

Se vi saranno altri cangiamenti ne sarai avvertito. Io sto bene. Addio, Giulio mio, amami e credimi

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Se ho dubitato e dubito della tua promessa sono ben degna di scusa, poichè il passato mi è maestro. E tanto maggiormente cresce la mia diffidenza quanto che cotesta tua opera pare non sia per terminarsi così in breve ed intanto il tempo stringe.

Di ciò non accuso te, ma il mio maledetto destino, e il lamentarsi, quantunque a nulla giovi, è la consolazione dei disperati. Intanto anche la Gennari va a Roma ed io che non ho mai sofferto il morso dell'invidia per le altrui fortune, ora mi sento rodere da questa vipera, pensando che anco le più sguaiate donnicciuole godono di quel bene che tu finora mi hai impedito. La Martinetti moverà sulla metà di ottobre per essere in Roma alla venuta del re di Napoli: a me non importa un fico nè delle feste, nè di tutti i Re, Papi e Imperadori della terra, ma per Dio, credo di avere un diritto, dopo tante promesse che mi hai fatto, di rivedere la mia patria. Scriverò dunque a mio cugino e prego il cielo che me la mandi buona.

Ti scrivo dal letto dove mi tiene un fortissimo mal di gola da più giorni strapazzato il quale finalmente mi ha cagionato anco un po' di febbre. Sono quindi arrabbiata doppiamente. Il resto ti dirò a voce, quando avrò la fortuna di vederti. Nardi è qui fino da ieri e parte domattina. Addio.

P. S. Nardi è in casa tua, ore era venuto fin da ieri e domani parte. Il pseudo Verdoni rimandalo ch'io non hollo nè compro, nè pattuito. Fa buona villeggiatura. Studia, sta sano ed ama il tuo Nardi.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Il conte Paolo non muoverà per Roma che dopo Carnevale, nè io ho insistito maggiormente per fargli affrettare questo viaggio per quel forte e forse troppo vero motivo che voi sapete. Intanto se le vostre occupazioni vi daranno un momento di tempo, vi prego scrivermi se posso sulla vostra parola richiedere mio cugino dei suoi uffici per far ricerca della casa: giacchè non so quali siano le vostre ultime determinazioni, nè oso sperare che vogliate cambiare la fertilissima aria di S. Angelo con quella (forse ora divenuta per voi troppo malsana) di Roma. Addio, state sano e continuate a divertirvi anco a mie spese, che in quanto a me mi stimerò felicissima se potrò in qualche modo, quantunque lontana, contribuire alla vostra felicità, il che credo già di operare colla medesima mia lontananza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Mio Giulio.—Ho avuto una seconda tua lettera ieri sera, della quale ti ringrazio, perchè è piena di buone speranze. Ho scritto a mio cugino e gli ho mandato un indirizzo di una casa che aveva in vista il conte Paolo e che appunto si ritrova nella situazione che desideri; ma ho raccomandato a Giovannino che non si fermi a quella sola, anzi ne veda più che potrà e ci scriva a posta corrente il loro prezzo. Tu sceglierai.—Quest'oggi ho voluto alzarmi, perchè mi pareva di star meglio, ma ora che sono in piedi sento molto più il male.

Addio, sta sano tu almeno ed ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari. Il cugino del quale parla Costanza è Giovanni Monti, che dal 1812 si trovava a Roma dove si segnalò per la sua abilità nella pittura di paesaggio.

Pesaro, 1818.

Mio caro Giulio.—Io pure sto male e quindi così fisicamente come moralmente abbisogno della tua com pagnia, chè se il mio male non è grave l'ho però perso, come appare, per tua cagione, pel desiderio di venirti a vedere; perchè dopo la mia tornata ho sofferto e soffro di un grandissimo raffreddore di testa e di petto e certamente questo è la conseguenza del caldo sofferto in Savignano. Onde se la Cassi non migliora, non potendo tu giovarle in modo alcuno, vieni almeno a visitare me, cui certo gioverai molto colla sola tua presenza. Anco Antaldo ha il medesimo incomodo; egli ti saluta ed io ti abbraccio, ma piena di malumore.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Mio caro Giulio.—Per amor di tutti i santi muoviti una volta: possibile che più valga appo te la compagnia di tre pettegole che quella di tua moglie? quella della tua Costanza? e non pensi che, te lontano, io non posso più nulla? Una prova te ne sia che i miei studi languiscono, ho mille dubbi che nessuno mi solve, perchè nessuno ha la pazienza tua e d'altronde in nessun altro potrei porre la fiducia, perchè so che nessuno così mi ama come tu fai. Or vieni dunque se non vuoi recarmi troppo gran danno, vieni perchè v'ha rischio che le più care speranze del povero mio babbo vadano in fumo e perchè anche tu ci perdi, e chiaro ne è il motivo se vuoi por mente al tuo cuore e all'amor tuo. Se tanto operi ed affatichi per chi non t'è nulla, che non devi tu fare per me che ti son tutto? Per ora non ti dico di più, se non che i miei libri son chiusi e non li riaprirò se non all'apparire del mio Apollo.

Oggi ho ricevuto per la posta un improvviso, stampato in Bologna, della nostra Rosina, che mi è sembrato buona cosa se considerasi come improvviso: ma ecco un punto di più per scoraggimento per me. A tanto riescono gli altri senza niuna fatica ed io nulla so fare malgrado tutta la mia assiduità. Oh, son pure meschina! ti giuro che mi ammazzerei dalla rabbia. Addio, amami e aiutami; se no, sono spedita. Addio; non saluto nessuno, perchè ho collera con tutti quelli che ti tengono da me lontano; ma altresì se tu vi puoi stare senza dispiacere è gran segno del poco amor tuo.

P. S. Il conte Paolo, Antaldi e Fusignani qui presenti ti salutano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari. Rosa Taddei (1799—1869) fu valente poetessa estemporanea, ascritta all'accademia degli Areadi col nome di Licori Partenopea.

Pesaro, 1818.

Mio caro Giulio.—Dall'acclusa vedrai che non resto di mettere in moto quante persone posso perchè tu sia soddisfatto: aggiungi che ho fatto anco scrivere ad un Sig. Panzieri il quale mi è stato indicato come molto adattato a tale sorta di affari. Insomma io brigo per ogni verso, ma mi sembra di combattere contro il destino, a cui converrà finalmente (così preveggo) piegare il capo e contentarsi di vivere e morire in questa sepoltura. Non credere che ciò sia detto contro di te, mio caro Giulio, chè anzi ti ringrazio di quanto operi per amor mio: ma tutto il mio buon volere nulla vale a fronte di questa infamissima fortuna che ho al finaco e sempre ho avuta da quel giorno che fui creata figlia a mia madre. Questa strega mi ha pe' capelli ed io mi dibatto inutimente per uscirle di mano. Intanto a me pare (se a te pare) che l'ultima proposta di mio cugino non sia da rifiutarsi così leggermente; poi, pagando Borghesi la sua camera, noi avremmo di nostra parte scudi 25. Questa somma sarebbe forte per le mie finanze se si trattasse di adoperarcela per molto tempo, ma per una volta sola non mi pare gran sacrifizio: intendo dire che durante il mese che abiteremmo nella casa suddetta, cercheremmo da noi stessi l'appartamento che tu desideri, senza mobilia, e tu sai che chi fa da sè fa per tre; aggiungi che essendo là di persona, si potrebbe anche contrattar meglio col padrone della casa ed averla forse a miglior prezzo: e dopo il primo mese passeremmo al quartiere che noi medesimi avremmo scelto. Insomma pensaci bene e ricordati quell' antico proverbio: che chi non vuole mandi, e chi vuole vada.

Debbo anche avvisarti, per giustificazione di mio cugino, che veramente sono divenuti carissimi gli appartamenti in Roma. Ho fatto ricerca di quanto pagava l'Almerici nella sua antica dimora (e tu sai ch'ella era in cattivo luogo) ed ella medesima ha risposto che le costava scudi 2) mensili. Ora si trova ad un migliore alloggio (poichè nel primo non ha potuto dimorarvi a cagione delle camere e della cattiva educazione) e paga scudi 35 mensili e sono stata assicurata che possono essere anco 40: tutto ciò senza la stalla, senza la rimessa, senza biancheria ecc. ecc. E per assicurazione dell'Almerici medesima m'è detto che gli appartamenti vicino al centro e nel corso costano fino a 200 e 300 scudi al mese. Dunque mio cugino non ha torto.

Io ti prego, mio caro Giulio, a fare tutte le debite considerazioni, e se non puoi disloggiare per sempre da Pesaro, fa almeno che io respiri per qualche mese e poi mi contenterò di tornare in sepoltura e qui morire. Tu sai che ho sempre fatto mio ogni tuo volere, quindi puoi essere tranquillo anche per l'avvenire e sapere che al momento che mi dirai: torniamo a Pesaro, io no farò contrasto alcuno, e so che di ciò puoi contentarmi se lo vuoi.

Poichè sei in Savignano ti rammento anco una volta che siamo poverissimi qui di biancheria, che nella visita che ho fatto ieri al guardaroba ho trovato non esservi più nè lenzuoli nè asciugamani ed il nostro letto ha appena due mute di foderette, cioè una alla lavandaia ed una al cuscino.

Se da un momento all'altro bisognasse mutare il letto, ci converrebbe farcene senza foderette, finchè la lavandaia le avesse lavate.

Anche a questo mi adatterei senza far parola, se così volsse la necessità, ma poichè la roba vi è, perchè non la godiamo? a che la lasci marcire in Savignano? Per chi la guardi tu? per gli eredi o per i sorci? Mi pare che tu voglia simigliare l'avaro che seppellisce il suo tesoro ed intanto egli se ne va lacero e mendico, essendo così cattivo agli altri, cattivissimo a sè medesimo.

In ultimo ti prego di aprire ben gli occhi su'tuoi interessi: e pensa che la bontà è virtù e la dabbenaggine è vizio massimo. Ti sei lasciato pelare abbastanza e sarebbe tempo, a mio credere, che tu mostrassi i denti a cotesti tuoi carnefici. Di più non dico e mi ti raccomando. Addio, mio buon Giulio. Amami ed abbraccia

La tua Costanza.

P. S. Per amor di Dio vieni presto.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 1818.

Mio Giulio.—Dal conte Paolo ho fatto scrivere anco all'abate Guidi per questa benedetta casa, il quale per essere ozioso, come son tutti gli abati, ed assai esperto di Roma, mi è sembrato molto a proposito a tale faccenda. L'ho quindi indirizzato a mio cugino, perchè di conserva pratichino di contentarci. Martedì attendo riscontro da entrambi e mi gioverebbe che tu ti trovassi a Pesaro almeno giovedì, perchè ti determinassi prima che partisse la posta. Altrimenti per via di lettere l'affare cammina lentamente troppo e prima che io ti abbia scritto e tu mi abbia risposto, può perdersi il buon partito. Amerei anco ti trovassi in Pesaro pel giorno suddetto, in cui attendo i Martinetti, ai quali non potrei fare tutta l'accoglienza e la compagnia che vorrei, trovandomi qui sola sola. Vieni dunque e conduci teco il nostro Borghesi. Ho ricevuto la medaglia di papà ed anco questa ti chiama: ma più di tutto ti chiama il mio cuore che per assai troppo tempo hai abbandonato. Vieni dunque e dà sesto brevemente a coteste tue faccende: se non, dirò che più ti stanno a cuore gli amici che tua moglie, la quale però è la migliore delle tue amiche.

Salutami Borghesi e Roverella cui, spero, avrai consegnato il manoscritto che ti raccomandai.

Vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, subito, e che Dio ti benedica. Addio.

la tua Costanza.

P. S. Il suddetto ab. Guidi ha trovato due buone camerette per Felici, bene ammobigliate, servite di lume e più una saletta in comune con altri forestieri, il quale appartamentino trovasi in eccellente luogo e tuttociò indovina per quanto? per otto scudi il mese. Io credo che mio eugino abbia perduta la testa, giacchè non v'è giusta proporzione tra le sue esibite ed i suoi prezzi a questo partito. Insomma io mi trovo come un pulcino fra stoppa e se tu non vieni presto la va male. Anco Martinetti potrebbe giovarci di persona ora che si porta colà: ma converrebbe che tu medesimo gli parlassi.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari. —I Martinetti, di cui parla Costanza, erano il Cav. Giambattista, valente ingegnere, e la sua bellissima moglie, la contessa Cornelia Rossi di Lugo, la Venere bruna del Giordani e una delle tre Grazie del Foscolo, donna piena d'ingegno e di grazia che usava accogliere in casa a geniale ritrovo cittadini illustri e il fiore dei letterati.

Roma, 18 ottobre 1818.

Mio caro Antaldo.—Due sole righe perchè ho faticato tutt'oggi per assestare un poco le cose mie, e sono stanca stanchissima. Arrivammo ieri sera dopo un felice cammino ma noioso tanto da far fuggire la pazienza ai santi, nonchè a me. Finora non sono nè lieta, nè malcontenta poichè non ho veduto nulla, e solo sento profondamente il dolore di essermi allontanata da' miei buoni amici e da te principalmente che mi sei il carissimo di tutti.

Addio, mio caro, avrai più lunghe lettere da me quando sarò un po' riposata. Amami e credimi per sempre

la tua Costanza.

P. S. Ti prego di far sapere alla Bettina Morosi le nostre notizie e dirle che le scriverò nel ventuno ordinario. Salutami anco Paoli, Baldassini e gli amici tutti. Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— Il conte Domenico Paoli, illustre scienziato, nobile esempio di costanza nello studio, incominciò a studiare a trent'anni e si distinse nella chimica e nella geologia.—Alessandro Baldassini, pesarese, letterato di qualche pregio, compose diverse opere in prosa e in verso, fra le quali è notevole La prima e la seconda patria, ove cantò con molto affetto gl'illustri pesaresi del suo tempo.

Roma, 23 novembre 1818.

Mio caro amico.—Ti scrivo stanca morta da non poterne più: ho girato tutt'oggi; sono stata a S. Pietro, ho girato il museo, la libreria, la chiesa ecc. Ma a dirti il vero nulla ha vinto la mia aspettazione. Insomma se le opere antiche non avanzano le moderne, il che credo (la sola Rotonda, che ho veduto, mi ha sorpreso più di S. Pietro), Roma era più bella nella mia immaginazione che in realtà. Domani anderò allo studio di Canova: dopo domani mi porterò alla parte più antica di Roma e certamente non poserò finchè non avrò veduto dal primo all'ultimo sasso di essa. Dopo, raccoglierò le varianti del codice di Dante scritto dal Boccaccio, che Borghesi ha trovato nella Vaticana; ed anco di un altro scritto dal Bembo. Finito questo lavoro farò di tutto per tornarmene a Pesaro, poichè sono troppe le cose che qui mi arrabbiano. Tutto ciò resti fra noi: anzi se alcuno ti chiedesse di me, di' pure che sono lietissima e contentissima. Non ho ancora potuto occuparmi nella ricerca di un Ariosto di mio genio; ritengo dunque il tuo, finchè non mi accade di trovarne uno simile: alla più lunga spero di riportartelo io stessa, persuasa che un tal ritardo non ti sia grave. Ti scrivo alla balorda e te ne avvedrai anche troppo, ma devi perdonare al sonno, alla stanchezza che mi opprimono.

Addio, mio ottimo amico, dammi presto tue notizie e dimmi che mi ami, e che m'amerai sempre. Se tu fossi qui meco, forse Roma non mi spiacerebbe, o almeno mi sarebbe meno odiosa, ma poichè mi sei lontano, consolami colle tue lettere e ricordati della tua

Costanza.

P. S. Avvisami se hai ricevuta un'altra mia che ti scrissi non appena giunta in Roma.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 1818

Mio caro Antaldo.—Non ti ho scritto finora perchè mi sperava che quello stordito di mio marito ti avrebbe salutato per me e date mie novelle: e di' che l'aveva caldamente pregato: ma non è la prima volta che egli mi burla sì screanzatamente e fa nascere di me anco più trista opinione che non merito. Da tutto ciò intenderai che ho letto la tua lettera e questo siami di scusa e serva di risposta alle tue giuste lagnanze. Ora che ho fatto i miei convenevoli m'è duopo importunarti seriamente, per ottenere una ricetta di quel famoso cerotto, che è qualche tempo mi mandasti per li calli. Conta che questa preghiera ti sia accompagnata dalle più fervide istanze ecc. ecc. e dai più vivi anticipati ringraziamenti ecc. ecc., insomma da tutti quei cerimoniali che sogliono accompagnare la lettera di supplica.

Avrei anche un'altra grazia a chiederti; ma mi vergogno a metterla in seguito della suddetta, quasi fosse da meno della ricetta di un cerotto. Comunque sia ecco di che si tratta. M'è d'uopo che tu veda quale chiosa fa il Portirelli a quel passo di Dante nel XXI del Purg.o, v. 34:

Ma dimmi se tu sai perchè tai crolli Diè dianzi il monte, e perchè tutti ad una Parver gridare insino ai suoi piè molli.

Siccome non sono d'accordo con la chiosa del Lombardi, bramo sapere se il Portirelli ha inteso meglio questo passo. «Perchè il monte die' tai crolli infino ai suoi pie' molli» così il Lombardi, ov'io invece credo che quell'infino a' suoi pie' molli debba unirsi al tutti; cioè tutte le anime insino quelle poste a' pie' milli del monte gridassero ad una ecc. Quando il poeta ha detto che il monte diè crolli già s'intende che crollasse fin dalle fondamenta, tanto più che ne ha fatta una tal descrizione nel canto precedente che a nessuno viene in capo che quella immensa montagna crollasse solo nella cima.

Quand'io sentii come cosa che cada Tremar lo monte; onde mi prese un gelo, Qual prender suol colui che a morte vada. Certo non si scotea sì forte Delo Pria che Latona in lei facesse il nido

Purg.0 XX, v. 127.

L'avvertire, invece, che non pure le anime del girone appartenente all'anima liberata, ma tutte, fino quelle poste alle radici del monte, e non per anco entrate in Purgatorio, intuonassero inni di gloria a Dio per la liberazione suddetta, è, a mio giudizio, imagine più bella e più confacente alla maestà divina. Quindi seguendo questa mia chiosa io porrei un punto e virgola dopo la parola monte e scriverei «Die' dianzi il monte; e perchè tutti ad una» ecc. Così la costruzione resta più semplice e più chiara. Ho scritto in tanta fretta che mi intenderai a discrezione. Mariano mi sta alle spalle perchè dia la lettera, chè il messo vuole andare a dormire per essere pronto domani all'alba.— Addio dunque, amami che per sempre sono

La tua Costanza.

P. S. Hai veduto la risposta stampata in Firenze (forse da un fiorentino) alla lettera di Rosini?

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.— L. Portirelli, chiosatore di Dante, si valse per la sua edizione della Divina Commedia (Milano, 1894—1895) della lezione nidobeatina.— Il P. B. Lombardi, noto commentatore di Dante, pubblicò nel 1791 una pregiatissima edizione del poema dantesco: in una delle ristampe di esso, fatta dal De Romanis, sono ricordate le varianti che Costanza tols dal codice Antaldino.

Roma, 2 dicembre 1818.

Mio Antaldo.—Ho avuto due tue lettere, dopo il ritardo di un ordinario, per quanto ho conosciuto dalla data; e puoi credere se ho bestemmiato. Or che ti so in buona salute e che nelle tue lettere ho avuto novella prova della tua amicizia, sono lieta e contenta, quanto posso esserlo lontano da' miei ottimi amici. Poichè me lo permetti, io sarò breve nello scriverti, finchè non abbia un po' meglio assestate le cose mie, il che finora mi viene impedito non tanto dalla smania di veder Roma, come dalla necessità in cui mi trovo di fare ricerca di una casa, onde ordinare i miei studi ed i miei libri, senza di che non ho pace.

Ti posso però accertare che malgrado le meraviglie di questa capitale, Roma non fa per me, onde, tosto che ne abbia tratto quei profitti che sempre si ricavano dallo studio del bello e dalle antichità, rivolerò alla nostra modestissima Pesaro, non già rinconciliata con esso lei, ma chiamata da quell'amicizia che mi ti lega, da quell'amore che ho posto nella mia buona suocera e dal desio di vivere tranquilla e riposata nel seno della mia famiglia.

Giulio ha incominciato in mia vece a trascrivere le varianti del codice di Boccaccio: o per meglio dire di Dante scritto dal Boccaccio. In alcune che mi sono sembrate di buon peso ho osservato che nel secondo dell'Inferno è scritto: Mi affaticaca a sostener la guerra ecc. invece di mi apparecchiava. A me pare, se non erro, che affaticava sia meglio di apparecchiava: giacchè sin dal canto primo egli è apparecchiato a questo viaggio sì per le esortazioni di Virgilio, sì perchè avendoci detto, parlando di Virgilio, allor si mosse ed io gli tenni dietro, basta per avvertirci che già si è apparecchiato a seguire il poeta. M'affaticava a sostener la guerra invece ha più evidenza e mostra veramente la fatica che doveva far Dante a sostenere pur colla mente i vicini pericoli.

Dimmene il tuo parere. Anco nel XXXIII dell'Inferno è scritto: La bocca su levò dal fiero pasto ecc. invece di sollevò. A me quadra più su levò e mi pare più dantesco perchè più evidente.

Ti scrivo queste cose in fretta e come meglio mi dà la memoria: m'intenderai dunque a discrezione, perchè (al mio solito) sono morta di sonno e di stanchezza. Fammi il piacere di mandarmi la sospirata ricetta e, se avessi un po' di cerotto bello e fatto. consegnarlo a Pierino e dirgli che me lo spedisca per mezzo del conte Paolo. Gli dirai anche che ritiri dall'Angiolina quel telo d'abito ricamato che le lasciai per cavarne i trafori, e mi mandi il tutto unitamente. Raccomandagli che mi dia nuove di mia suocera, alla quale farai porgere i miei più teneri saluti. Perdona la libertà con cui ti do tanti disturbi.

Addio, mio ottimo amico, ama sempre

la tua Costanza.

P. S. Salutami Paoli, Baldassini, Morosi e tutti quelli che chieggono di me. Non dimenticare Fusignani. Il mio indirizzo per ora è S. Andrea della Valle N. 71. in casa della signora De Andreis, secondo piano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 23 dicembre 1818.

Mio caro Antaldo.—Sono quattro ordinari che non ho tue lettere: due che sono senza novelle di Pesaro. Questo silenzio de' miei più cari ed alcuni dispiaceri domestici mi hanno siffattamente ripiena di amarezza, che sono quasi disperata non che priva di consolazione. Aggiungi a questi mali morali la necessità di girare tutto il giorno, prima per trovare una casa, poscia per assestarla e la rabbia di aver sempre a combattere con gente oziosa, superba, ladra e peggio, se peggio vi è.—Chi ravviserebbe in costoro i figli de' Manlîe de' Bruti, de' Coriolani e di tanti altri veramente divini? Qual contrasto fra Roma antica, Roma sovrana dell'universo, e Roma ora meschina di tutte quante le nazioni! Questi e cento altri pensieri che buono è tacere mi riempiono la mente ed il cuore di altissimo sdegno, sì che se dall'un canto ho caro di adorare da vicino gli avanzi della morta nostra grandezza, dall'altro ardo di abbandonare in essi i testimoni della nostra miserabile schiavitù.

Ho in questo punto la tua del 17 corrente ed una di Pierino. Mi è giunto anco un involto della posta per mezzo di un incaricato del Conte Paolo, e con esso una lettera del medesimo. Il tutto mi è giunto veramente in buon'ora, poichè era addoloratissima del vostro silenzio. E per rispondere a te più particolarmente della voce che corre intorno alla nostra dimora, ti ripeto che non ho mai avuta, nè ho altra idea che quella di veder Roma e poi tornarmene a Pesaro. Il solo sospetto ch'io possa ingannarti è sì oltraggioso alla nostra schietta amicizia, che non può capire nella tua mente. È vero che in alcuni momenti il dispetto mi ha spinto sulle labbra la minaccia di non mettere più piede in Pesaro. Ma che può lo sdegno ove parli il cuore? E del mio cuore puoi tu dubitare? Io ho in Pesaro una madre la quale mi sta più nell'animo che tutte le meraviglie del mondo, non che quelle di Roma: io vi ho in te un buono, leale amico, la cui lontananza mi pesa quanto quella di un fratello: vi ho delle conoscenze che mi son care: che più? l'aria, i muri stessi di Pesaro son divenuti per me oggetto di tenerezza; non già perchè in realtà preferisca il soggiorno di Pesaro a quello di una capitale come Roma, ma perchè vi ho posto un non so quale amore simile a quello di patria. Non di me dunque devi dubitare, ma di Giulio, che a mio credere sarà così difficile a staccare da Roma, quanto lo è stato il trasferirvelo. Tengo nondimeno per fermo che quando mi adoperi a farlo rimpatriare vi riescirò. Nè ti sgomentino i nostri preparativi di viaggio, perchè prima di partire fu anche pensato ad una mossa per Napoli; nè può esserti indifferente questo viaggio: oh mi sarebbe pur dolce il farlo teco! non voglio dunque porre fra' sogni questa speranza, e più spero che sarai anche meco al mio ritorno in Pesaro.

Giulio ti saluta e ti prega mandargli l'esempio che accenni di pennello in significazione d'insegna: ed anco suggerirgli il luogo dove è tratto quel suo racconto del medico ecc. ecc. Teco ci condogliamo della perdita che hai fatta del tuo buon Paolino: certo è gran perdita quella di un buon domestico, come ho gran dubbio che se ne possano trovare dei buoni. Basta: so quel che dico. Qualunque de' due Pataffi porrai al suo riposo (che sepolcro suona lo stesso) sarà cosa degna della tua penna e del tuo ingegno. Il mio giudizio non val nulla ma tale è pure quello di Giulio.

L'indicazione della nuova casa è S. Antonino dei Portoghesi, ossia Via dell'Orso, Palazzo Carafa, N. 28. La situazione è sufficiente, perchè vicina al corso, e non a grande distanza di S. Pietro. Vicinissimo abbiamo piazza Navona per comodo del servitore. L'appartamento poi è abbastanza comodo pei forastieri, avendo ognuno di noi una camera a sè ed un libero passaggio. Una buona camera da ricevere con camino, questo in comune: muri e sedie molto decenti, ma letti, comò e scrivanie del nostro. Anco la cucina (capo essenzialissimo) è buona. Tutto ciò a scudi 18 mensili per sei mesi; cioè per l'epoca da noi fissata di dimora. Non mi pare di aver fatto cattivo contratto, specialmente considerando il grandissimo concorso di forastieri. Addio, mio eccellente amico, scrivimi più spesso ed ama la tua

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 25 ottobre 1818.

Mia cara Madre.—L'ordinario scorso pregai Giulio che le porgesse i miei rispettosi ed affettuosi saluti, sapendo ch'egli le scriveva: ora mi prendo la libertà d'indirizzarle io medesima questa lettera, chiedendole sue notizie senza le quali nè io, nè mio marito potremmo vivere lieti in tanta lontananza. Ed in verità le dico. che tutte le meraviglie di questa capitale non valgono la dolcezza di vivere e conversare con esso lei, mia cara madre, che fra tutte può ben essere chiamata la migliore.

La prego anche farci sapere le notizie della nostra buona Violantina, che a quest'ora spero ristabilita, e salutarla ed abbracciarla per me. Anche a Gordiano tanti saluti. Infine ci raccomandiamo alle sue orazioni, e chiedendole Giulio ed io la sua materna benedizione le baciamo rispettosamente e teneramente la mano.

E con questo ho l'onore di dirmi

Sua aff.maobb.ma figlia
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Roma, 1819.

Mio Antaldo.—So certo che li consigli dell'ultima tua lettera non ti partirono dal cuore. Come mai puoi tu avere immaginato la tua Costanza immersa in quel sozzissimo fango che tante volte abbiamo tu ed io biasimato nella maggior parte degli uomini e delle donne? credi tu veramente che il dissipamento dello spirito sia un rimedio contro le percosse della mala fortuna? ch'io ceda, tu dici, all'invidia delle altre donne: ma stimi tu cosa tanto dannosa l'invidia di tutto il mondo? giacchè quello solo è miserrimo che ha difetto dell'altrui invidia. Ma è ben dolorosa cosa l'essere invidiata soltanto da gente vilissima. Nè migliore è l'altro consiglio che mi dai, di stancare e logorare la migliore mia età ne' falsi piaceri del mondo galante, riserbando agli studii ed a più sagge occupazioni li tardi miei anni. E chi mi compenserà poscia del perduto tempo? chi mi salverà dal giusto biasimo dei buoni? chi mi insegnerà a impor silenzio alla stessa mia coscienza? io abbandonare i miei libri? gli amici più cari della mia gioventù? quelli che tante volte mi hanno sottratta alle molte passioni della presente società? quelli che mi hanno insegnato a ridermi della fortuna, a bastare a me stessa, ad apprezzare solo i pochi buoni ed a fuggire i malvagi, a non curare voce di popolo nè onori di grandi?

E non so io forse che il mondo ama pessime cose? come potrei io mai ad esso legarmi, se non prima mi cangiassi in pessimissima donna? e così essendo potresti poi tu medesimo stimarmi più mai? poichè quantunque molte male cose siano state di me dette, tu ed io sappiamo non averle io meritate; e certo la buona coscienza infranca l'uomo contro le avversità. Chè spesso bugiarda opinione mente, dicendo i buoni esser rei, ed i rei buoni. Non è dunque perchè il mondo mi perseguita che io piango; ma l'amarezza in cui era e sono, e di che ti toccai nella mia lettera, partiva da principio più giusto. Ora per dirtene alcuna parola sappi che la stessa mia madre (antica origine di molti miei mali) è quella che arma contro di me la fortuna. E siccome so che il dovere mi vieta di farne querela, perciò nulla più dico. E veramente lusingandomi sempre che l'età di lei e la sofferenza mia potessero infine aprire il di lei cuore a sentimenti più amorevoli, ho finora gran cose tollerate in pace; ma mi avveggo di assomigliare a quel villano che voleva il fiume corresse tutte le sue acque per passare a secco. Parliamo d'altro.

Ho tardato a risponderti perchè sono stata molto male. Malgrado però l'assedio che mi avevano posto quei medici sanguinarii, mi pare di essere guarita oramai del tutto, e ciò senza alcuna sanguigna. Del che respiro e mi protesto di non chiamare mai più medico, almeno durante la mia dimora in Roma. Perdona dunque il mio silenzio e valgami questo perdono anche per l'avvenire, giacchè avrò molto da girare nei seguenti giorni, il che mi renderà forse un po' pigra nello scrivere. Ma tu sai che anco quando taccio colla penna il mio cuore parla per te.

Addio: amami, scrivimi e salutami gli amici.

La tua Costanza.

P. S. Gran freddi! Altro che caldi di Roma!

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 1819.

Mio caro amico.—Io in collera teco? Dio mio! vorrei che tu potessi essermi vicino per conoscere se la tua Costanza ha mai cessato di essere tua. Invece di dire come mi consigli nella tua lettera, dico che in gran parte conosco la saggezza dei tuoi ragionamenti, perchè qui non si tratta di ragionare secondo le leggi infami della società, ma secondo quelle della natura; e se io da queste mi diparto non adottando i tuoi consigli, non per altro il faccio che per la ingiustizia della società suddetta. Tutto ciò che potrei aggiungere in proposito tu meglio il sai di me medesima, tu che tanto sei al disopra di questi meschini moralisti d' oggigiorno. Finirò dunque col confessare che non per intima persuasione ho adottato la saggezza di che nell' ultima mia ti ho parlato, ma per la ingiustizia degli uomini. Nè altro di ciò.

Perdona la brevità delle mie lettere alle molte brighe che mi affollano, a' medesimi miei studii ed alla convulsione in che si trova l'anima mia, raggirandomi fra tanti oggetti grandissimi e meschinissimi.

Che dirti? non mi riconosco: ma certo sento profondamente la lontananza de' miei amici e di te particolarmente. Insomma io rivolerò presto a Pesaro perchè così chieggono la tranquillità del mio cuore e del mio spirito ed odio troppo il mondo e gli uomini per potere tranquillamente vivere in una capitale come Roma.

Addio, mio vero amico, amami e consola di tue lettere la tua

Costanza.

P. S. Che fa Fusignani? Ti prego fargli per me una visita.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 21 gennaio 1819.

Mio buon Antaldo.—Avrai nel venturo ordinario mie notizie più a lungo. Questo intanto servirà per risposta a ciò che riguarda tuo fratello. Comechè io stia poco bene per uno svenimento avvenuto ieri sera ed un altro questa mane, (non so da che cagionato, da gravidanza no certo) ho scritto a lungo a tuo fratello per indicargli ciò che deve fare onde essere meglio servito, siccome il Rossi medesimo ha suggerito all'ottimo Tambroni, che ti saluta e che ti si offre per quanto vale.

Onde nulla ti dico per assicurarti dell'opera nostra. Di me tu sei certo abbastanza e sai che sarei lieta di mostrare non pure a te, ma a chiunque ti appartiene il mio buon volere per tutto ciò che ti riguarda: e di Tambroni ti assicuro io. Scrivi dunque ad Andrea che liberamente e senza cerimonie si prevalga in questo suo affare del debolissimo mio potere e della mia moltissima buona volontà: che se non riuscissi (per mia mala fortuna) a servirlo, tu che lo conosci lo farai chiaro almeno del mio buon animo. Addio: amami sempre e tieni a memoria

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Giuseppe Tambroni, nato a Bologna (1773—1824) fu uomo colto. archeologo e scrittore d'arte: si occupò della topografia di Roma antica e scrisse varie opere fra le quali un Commentario intorno alla vita del Canova. La sorella di lui, Clotilde (1768—1817), celebre letterata, insegnò lingua greca all'università di Bologua e scrisse in greco alcuni componimenti poetici.

Roma. 21 gennaio 1819.

Mio caro amico.—Del bel principio di questa lettera voi conoscerete quanto io sia nemica de' complimenti, e comechè la vostra mi sia pur giunta carissima per quella fiducia che vi piace porre nella mia, se non possente, almeno verace amicizia, non posso a meno di non lagnarmi seco voi delle parole troppo alte e cerimoniose che in essa avete adoperate. Pregovi dunque a render miglior ragione a quel desiderio schietto e vivissimo che mi ho di servirvi in tutto ciò che confina col mio potere: ed in ciò che fosse al di là di questo, non resterei giammai di mostrarvi il mio pronto e buon volere.

Appena m'ebbi la lettera di Antaldo mi adoperai presso il degno Signor Cav. Tambroni molto conoscente anzi amico del Rossi) perchè seco lui facesse ogni opera in favor vostro. Egli n'ebbe dapprima larghissime e favorevoli promesse. Ma non appagandomi io delle sole parole, ho pregato il suddetto Signor Tambroni perchè, come suol dirsi, gli stringesse i panni addosso. Ecco quanto quest'oggi il Signor Rossi ha replicato. Egli promette assolutamente di favorirvi: ma desidera sapere se avete mai in pratica esercitato l'ufficio di stimatore; il che dice esigersi dai regolamenti del concorso. Conviene dunque che abbiate la bontà di raccogliere quanti documenti potete in proposito, e, se fosse possibile, dei certificati di avere operato come perito agricoltore, o per le comunità di Pesaro, o per altri contratti ecc., poichè essendo necessario di conoscere le qualità dei diversi terreni del territorio, si richiede qualche prova di questa conoscenza medesima.

Se queste carte già sono state spedite, non occorre altro; se nol fossero state, fate di averle prontamente, e per mezzo del conte Paolo spingetemele più presto che potete. Intanto vi serva di norma che finora Marini non ha parlato a Rossi: forse il farà tosto. In quanto a me, se credete necessario che mi diriga pure a qualcun altro, scrivetemene liberamente e prevaletevi di me in tutto quel pochissimo che valgo. Siate certo che ho a cuore questo vostro affare come fosse cosa mia e più: ed assicuratevi anco dell'ottima volontà del Cav. Tambroni in tutto ciò che potrà essere di vostro servizio.

Dateci pronto riscontro per mia regola, e a monte i complimenti: poichè io non posso essere più di quello che mi sia

Vostra amica rera ed aff.ma
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 20 febbraio 1819.

Caro Antaldo.—Sono stata molto male; e tanto, che malgrado la mia avversione al sangue ho dovuto farmi una sanguigna; nè ora sto perfettamente bene. Eccoti il vero motivo del mio silenzio. Spero dunque che mi perdonerai ed anzi so che ti affliggerai di questa triste notizia. A vero dirti (e resti fra noi) la prima cagione del mio malessere ha radice nel morale. Affari di famiglia che mi riguardano personalmente, disgusti fra i miei, altre controversie e la invincibile negligenza di mio marito, il quale potrebbe e non vuole salvarmi; insomma cose che non è buono fidare a lettere mi tengono e mi hanno tenuta in tanta angustia che non mai la maggiore. La Dio mercè non ho figli; questo è il mio salmo quotidiano. Non credere però che mi lasci abbattere dalla mala fortuna: io le sto innanzi a viso aperto e lo starei similmente anco se mi gettasse nel fondo d'ogni miseria. Ma tu sai che la filosofia aiata più lo spirito che il cuore in certe circostanze; e l'ammalato, sottoposto al ferro e al fuoco, può ben trattenere il grido, ma non impedire il sentimento del dolore.

Parliamo d'altro. Scrivo in questo medesimo ordinario a tuo fratello pel suo affare. Egli, a dirtela, mi pare molto mal servito sì dal tuo Zinanni, come dal Marini. Tambroni, che ti saluta, ha fatto e farà tutti quei passi più opportuni alla buona risposta, ed io ne spero molto, perchè sono state spianate tutte quelle difficoltà che il Signor Rossi opponeva. Almeno egli si è dimostrato convinto. Se poi c'ingannasse (il che non credo) non tributare a mancanza di Tambroni l'evento; perchè ti faccio fede che ha preso a petto questo negozio come toccasse un suo fratello. A quanto pare sarà più duro a vincere il consenso di Marini, il quale sostiene che un Marchese non deve essere un impiegato. Noi abbiamo risposto che un marchese si suppone sempre più educato ed onorato di un miserabile e quindi più atto a servire con fede e integrità il suo sovrano. Più, che posto il caso che un Marchese sia stretto a chiedere un impiego, gli si deve accor dare il più nobile: perchè al miserabile si trova sempre nicchia adattata, ma a chi è nato ed educato civilmente non tutti gli impieghi si confanno. Altre cose sono state dette e su l'abilità di Andrea e sulla sua morigeratezza e sulla sua sperienza del territorio. Insomma, la cosa sembra bene incamminata; ma, per bene che vada, ella andrà alla lunga, come tutti gli affari di questo stato. Così penso. Io non veggo l'ora, a dirtelo, di rimpatriare. Qui non istò bene, e dacchè sono a Roma mille disgrazie mi sono piovute addosso. Confesso però che mi piangerà l'anima di dividermi da Tambroni. Non credere già per motivi amorosi, tel dico schiettamente: bensì per la perdita che in lui farò di un padre (che tale potrebbe essermi per l'età) di un amico, di un fratello, che nelle più critiche circostanze mi ha qui assistita, consolata, consigliata come tu medesimo avresti fatto. E certo io avrò bisogno della tua compagnia per confortarmene. Nè finchè io viva l'amerò meno; perchè sul mio cuore l'amicizia stampa caratteri indelebili.

Addio, mio buon Antaldo. Amami, scrivimi e salutami Costa.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, 6 marzo 1819

Mio caro Antaldo.—Ti presenterà questa lettera il signor Sgarbi di Ferrara, persona piena di meriti, sì per lo spirito che per il cuore. E perciò credo di fare un regalo ad entrambi procurando la vostra reciproca conoscenza; nè altro aggiungo per raccomandartelo, essendo tu sì gentile che non abbisogni d'altro impulso per usar cortesie, che di quello del tuo cuore.

Il povero Guadagnini non ha ancora nulla ottenuto (che io sappia) circa quella sua pensione. A me pare cosa crudelissima l'abbandono che si fa di questo povero giovine: ed essendo egli creditore (per quanto mi dice Giulio) di circa scudi 40, perchè non si potrebbe intanto farlo pagare per mezzo di un prestito dei Signori Pesaresi, i quali sarebbero poi dal comune medesimo rimborsati? So che mio marito si sottoscriverebbe pel primo e con un venti persone si aiuterebbe di molto il Guadagnini senza discapito di alcuno. Poni mente dunque a questo progetto e parlane col conte Paolo, al quale pure ne scrivo: che in qualunque modo è obbligo incoraggiare non solo con parole, ma con fatti, questo bravo giovine, che tanto si mostra ardente nello studio e tanto profitta nel medesimo, da ispirare a'suoi concittadini alta speranza.

So che fai la tua disperatissima corte alla principessa di Galles, e che Ella è tutta vezzo per te; e non pure le corna che sento nascermi sul capo, ma le mille novelle me ne fanno fede.

Mi consolo però: imperocchè anus quum ludit, mortis delicias facit e d'altronde tu farai in un punto peccato e penitenza.

Addio, mio caro Antaldo: salutami gli amici: per sempre

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—La Principessa di Galles, Carolina di Brunswick, moglie di Giorgio IV, si era stabilita in Pesaro ed ai suoi ricevimenti intervenivano, accolti con squisita regale cortesia, i nobili e ricchi pesaresi: l' Antaldi godeva la speciale simpatia della Principessa che lo chiamava «mon petit mari.»

Roma, marzo 1819.

Mio Antaldo.—Questa volta la coda di Minosse non è di tanta lunghezza che basti ad assegnare nel profondo dello inferno un luogo degno a Lorenzini. Nè so che bada la giustizia che non lo impicca.

Io raccapriccio a pur parlarne e solo mi riconcilierò alquanto con esso lei, quando sappia il mondo purgato di un tanto mostro. Non più dunque di costui, finchè ciò non accada.

Oggi è il primo di quaresima, nè credo meglio santificarlo che scrivendoti: e tanto più debbo cominciarlo con un'opera pia, che la coscienza mi rimorde pel tempo perduto: non avendo nello scorso carnevale posto mano pur una volta ad un libro. A che dunque ho atteso? ad annoiarmi ed a convincermi vieppiù della ignoranza e della malvagità che qui regna. Ed anco debbo espiare la colpa di averti lasciato parecchi ordinari senza mie lettere: a che tu devi perdonare in grazia di due saluti che con questa ti reco, e che spero gradirai con almeno tanto di buon cuore, quanto è quello delle eccellenti persone che te li mandano. L'uno è il bravo Generale Fresio (o Fresi che sia) il quale ti ama e ti stima moltissimo; e ben fa: perchè non meglio meritiamo noi l'amore e la stima dei buoni che in onorandoli. L'altro è di tale che non ti conosce personalmente e che si è innamorato di te, come per fama uom s' innamora. E so certo che tu il sei egualmente di lui, avendotene inteso parlare degnamente come ei merita. Questi è il Cav. Tambroni, molto amico di mio Padre, ed oso dir mio, che dopo tanti anni la mia buona fortuna mi ha concesso di rivedere. E non pure egli mi è caro per l'antico legame di amicizia, ma ancora perchè ti ama e ti onora e posso seco parlare di te con tutta quella libertà del cuore, che solo è data a chi altamente sente.

E questi è l'amico col quale io godo passare alcune ore, sì per l'amenità del suo spirito, sì per l'eccellenza del suo cuore; nè mi pare, in veggendolo, averti del tutto perduto. Ti prego dunque riceverlo nello amor tuo, ch'egli ne è degno; ed incaricarmi de'tuoi saluti per lui, che so gli saranno carissimi. Ora veniamo a noi. Tu che fai? come va Catullo? quali sono i tuoi studi? quali i tuoi piaceri? quali le tue noie? scrivimi lungamente e di tutto: nè perchè io sia donna e da meno di te non isdegnare trattar meco di tali cose; poichè se la dottrina ci diparte, molto però a te mi avvicina l'amore che ti porto. E per dirti alcun che delle occupazioni ti confesserò non attendere ad altro che al latino. Avrei amato terminare di trascrivere le varianti del codice di Dante, scritto dal Boccaccio, ma non è concesso a donna (vedi provvedimento pretino) il por piede nella Vaticana a cagione di studio; nè veggo via che Giulio termini questo lavoro. Delle mie gite poi la migliore è al Campo Vaccino, ove m'è caro nascondermi fra quelle rovine, e allontanarmi così per qualche ora da questi infami figliuoli di Quirino: e spesso la tenerezza ivi è vinta dallo sdegno. O mio Antaldo! vorrei, sì, certo vorrei soffrire altrettante morti, quante sono le lacrime che ho versato e verso per questa nostra misera patria, perchè mi fosse dato vederla vendicata e reina almeno di sè stessa! e ben siamo noi miserrimi, che d'altro non possiamo soccorrerla che di voti!

Addio; Giulio e Borghesi ti abbracciano, salutami gli amici tutti ed ama sempre

la tuissima Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma. 8 marzo [1819]

Mio caro amico.—Il capitano Signor Grindlay Inglese vi reca questo foglio. Egli è un colto e gentilissimo cavaliere e ve lo raccomando caldamente.

Tal'è qual dite. Il vostro Pluto è andato a casa Pluto; e voi l' avete fidato a mani molto infedeli. Non posso descrivervi quanta sia stata la mia rabbia contro colui, e vi giuro che il manderei volontieri in compagnia del Pluto, e di Plutone. Ma voi fate intanto che il danno mio non sia ancor quello delle italiane lettere; cioè ritornate francamente su questo lavoro, mentre ne avete fresca la mente; e cercate modo per cui l' Italia legga una volta Aristofane che l' è al tutto ignoto. Anche Mr Giacomelli, mi dicono, n' avea fatto l' intero volgarizzamento: v' ha chi lo vuole smarrito: e chi lo dice mandato in Ispagna ad una libreria di Canonici. Ad ogni modo è perduto per noi meschinelli, che selvaggi di greche lettere non conosciamo ancora questo fonte d' ogni greca dolcezza. Le mie speranze erano tutte in voi: e quel tristo Lombardo le ha fatte vane. Or pensate se sono adirata. Non più dunque di questo: che non voglio escire in parole disoneste.

La vostra causa Presbiterale è difesa da Duchi e da Principesse, ella è in mani migliori che non era il Pluto: e dovete promettervene felice fine. Senonchè una sola cosa sta contro voi ed è la dottrina la quale, per molti rispetti, ora si tiene in conto di colpa, quando specialmente è congiunta alla franchezza dell' animo ed alla bontà della vita. Se foste degl' ipocriti tristi, io già vi vedrei in una gran sedia a orc e vestita di velluto chermisi. E perchè siete degli nomini leali e buoni sarà gran fatto se potrete aver picciolo sasso, su cui posare. Ma que' Duchi e quelle Principesse potranno forse condurvi. dove Minerva ed Apollo non vi condurrebbero. Io lo spero almeno: sì per vedervi contento, sì per saziare una volta la brama che ho di godere della vostra dolcissima conversazione.

Ma frattanto io affretterò questa gioia; perchè intorno luglio verrò con mio marito nella nobil Napoli: per conoscere codesti felicissimi ingegni, e apprendere alcunna cosa alle vostre scuole. Vorrei però scegliere un luogo in che godere ancora della bellezza del vostro cielo e de' vostri campi. Quindi mi sareste assai grazioso, se vi piacesse indicarmi alcuna casetta posta sulla marina o di Chiaia, o di Posilipo, o di Portici: picciola ma atta al mio bisogno: di breve spesa: di quattro o cinque stanze: di mobili modesti, quali si convengono a chi non vive di quelle vanissime glorie poste ne' marmi e nell'oro. E la prenderei per quattro o cinque mesi: chè tanti vorrei viverne fra voi e fra codeste vostre sì celebrate delizie. Datemi dunque novella di questo: perchè ne dipende principalmente la mia risoluzione.

Mio marito che vi ama e vi onora come uomo grandissimo ed ottimo, mi detta le cose che seguono: e vuole che le sieno scritte da me, perchè dice che vi debbono essere più grate, venendo dalla mano della vostra discepola.

«Ringrazio il mio gentile Lampredi di quelle sue parole così soavi. Vorrei solamente meritarne una parte e me ne terrei beato. Per quello che mi dite intorno al restaurare le romane lettere, ella è impresa tanto ardua che non vi basterebbero le braccia di Ercole. Ma pure io farò l' estremo delle mie forze: e il Giornale Arcadico, già cominciato, ne sia testimonio. E sapete perchè ho scelto quel titolo di Arcadico? Per portare la guerra proprio nel cuore della fazione contraria; e colà mettere a forza la luce dove l' ombra è più densa. In Lombardia e in Piemonte d' ogni parte sorgono i buoni: in Bologna e in Romagna essi soli tengono il campo: in Toscana insorgeranno per la vergogna di perdere l' impero che loro fugge di mano: in Napoli il Montrone e voi bastate per una falange Macedonica. Ma nella gran Roma tutto è al fondo: perchè le accademie e le cattedre servono anzi a fortificare l'ignoranza universale, nè v'è un Dedalo che dica a quest'Icari: Mala via tenete. Ora pensate in che stretta sia chi si attenta di gridare pel primo. E questo ho fatto nel primo articolo del Giornale Arcadico, pubblicando quel severo e nudo poema del Boccaccio: e che è stato lo scandalo degli Ossianeschi e de' Imgoneschi, più che nol fu la croce di Cristo a' Pagani. Ma intanto quest' opera è cominciata con viso aperto e con un animo che non conosce paura. E perchè m'hanno anche dato la Presidenza della Accademia Tiberina ho cominciato a declamare anche in quella, ed a fare schiera con alcuni che hanno gl' intelletti sani e più acuti al bene. Ma intanto è bisogno che quest' opera sia aiutata dall' autorità, anzi dalla potenza de'Letterati grandi. E quindi prego in ginocchio voi e il Montrone e gli altri amici vostri che mandiate al Giornale Arcadico alcun vostro scritto, che metta il cuore in que' che sudano per questa via, e faccia entrare in essa chi non vuole conoscerla.»

Fin quì il mio Giulio, che con voi si abbraccia teneramente. Ora proseguo io sola: e dico che mio marito dice il vero: che voi dovete aiutarlo in ogni maniera e con quanto spirito di carità vi scalda per le italiane lettere: che sono, per Dio, l'unica eredità che la rabbia de' nostri e degli stranieri non ha potuto ancor togliere dalle nostre mani.

Sappiate poi che non ho mai ricevuto, nè visto il libro del Sig. Genoino. E chi sa ch' egli ancora non sia andato a far viaggio col vostro Pluto. Vi manderei anche Rossini che n'è causa. Ma intanto non vorrei che quel gentile poeta credesse ch'io tenga tanto della scortese da non ringraziarlo ne meno. Fate dunque ch'io vegga i suoi versi: anzi ponetene in carta il vostro giudicio a modo che si possa stampare e fatene un articolo pel Giornale Arcadico.

Un certo Sig. Puoti ha scritto un opuscolo sulle opere di mio padre e di mio marito. Ditemi in confidenza: chi è egli? che nome ha in Napoli? a me pare uomo assai cortese e dabbene: ma voglio che voi me ne diciate il parer vostro.

Addio, mio caro Maestro ed amico: vi sia raccomandata

la vostra Costanza.

In—Carteggi italiani inediti o rari di F. Orlando. Questa lettera di Costanza è in risposta ad una del Lampredi che trovasi fra le carte Perticari e che parmi utile riportare:

Mia carissima e degna amica,

Napoli, 12 gennaio del 19.

Finalmente dopo quattro o cinque mesi d'un silenzio per me sì disgustoso ricevo una lettera della mia Costanzina! E, vedi stranissima combinazione, ricevo col medesimo ordinario una lettera di Vicenza, nella quale un giovane viaggiatore di quella città (cui aveva io dato il Pluto, perchè gli servisse d'introduttore, e forse di Galeotto, appresso di voi) mi confessa di avere smarrito il Pluto, ma di essersi presentato a voi e di avervi fatto mille scuse su questo dispiacevole smarrimento.

Ma se ciò è vero, perchè voi allora non rispondeste a quella mia lettera, che accompagnava il Pluto e ch'ei mi scrive d'avervi consegnata? O quel giovane mentisce, o voi vi siete dimenticata della mia lettera, e del giovane viaggiatore, e di me ancora. Quel che più mi dispiace si è che la perdita è irreparabile, perchè ne ho una mala copia, ma mancante delle ultime cure, ch'erano moltissime, ed io certo non ho voglia di rimettermi a sì uggioso lavoro. Vi ringrazio di quanto m'indicate per Pesaro, ma quando non ci siete voi ed anche vostro marito, come che io nol conosca di persona, io non mi ci stabilirei per tutte le ricchezze di Mida, di Creso e d'Attalo. Non ne parliamo dunque più, e solo resti nel mio core la riconoscenza verso i buoni Macchierelli, e specialmente verso quel bon virant d'Odoardo, cui scrivo in questo ordinario per un affare, per me di grande importanza, e circa il quale credo ch'ei possa molto giovarmi. Se non vi rincresce ve ne darò un cenno, perchè io vi credo ben disposta verso di me, e credo ancora, che se vi si presenta il destro di giovarmi. lo coglierete sicuramente.

Dopo che la Principessa Sciarra sarà costà ritornata (il che accadrà fra pochi giorni) essa stessa farà passare al Papa per mezzo di Monsignor Riario una mia memoria in forma di lettera, nella quale espongo al S. Padre, che per una rinunzia da me fatta venti anni or sono a una donazione sulla quale era fondato il mio benefizio ecclesiastico, sono rimasto senza il patrimonio voluto dai Canoni, e che perciò sono incorso nelle censure ecclesiastiche e non posso dir la Messa. A me duole il principio e non la conseguenza, onde chiedo, e supplico il S. Padre, perchè mi conferisca un quanto si voglia piccolo benefizio, e mi assolva dalla censura nella quale innocentemente sono incorso. Ho scritto poi al Duca di Zagarolo, mio buon amico e padrone. che parlando al Cardinale Consalvi non solo gli raccomandi questo mio affare, ma destramente ancora gli dica che se io avessi in Roma da vivere, o come Bibliotecario, come Istoriografo Pontificio mi accingerei di buona voglia a scrivere l'elogio storico e la vita di questo Papa,. che non so quale delle due cose più, o la sua costanza e fermezza, o la bestialità di Napoleone hanno fatto di gran rinomanza appresso la posterità. Eccovi dette tutte le mie piccole cose, che riterrete in voi sola, e solo vi servirete di queste notizie nel caso che vi si porga opportuna occasione di giovarmi.

Ritornando a cose letterarie, non so se sappiate che questi Accademici Pontaniani rapiti dalla bellezza delle vostre Stanze sull'Origine della Rosa ch'io loro recitai. hanno eletto a una voce voi e vostro marito soci corrispondenti, che vi aspettano con grande ansietà per onorare in voi uno dei cresciuti ornamenti della nostra Italia, et magnum Pulvis incrementum. Scrivete vi prego se voi e vostro marito ne avete avuto l'avviso officiale dal Segretario dell'Accademia. Vorrei pure scrivervi alcune cose sull'Opera di vostro padre e del vostro Giulio, ma per ora non ho tempo: anzi riserberò questo ad altro tempo nel quale mi determini a dirne in pubblica stampa il mio sentimento: se pure questo tempo arriverà… A proposito, per mezzo di Rossini vi spedii le poesie del mio amico Giulio Genoino, ch'ei vi mandava in dono perchè almeno leggeste una sua lettera diretta a vostro Padre nella quale parla pure di voi.

Il povero Poeta donatore non ha avuto alcun riscontro. Potrete in ogni caso trovare costì in Roma vendibile (non so però da chi) le poesie ch'ei vi aveva inviate in dono. Quel briecone di Rossini mi ha detto di averle inviate, e nel tempo stesso si lamenta del vostro lungo silenzio con lui.

Come cotal che di lagnarsi ha dritto.

Egli qua si dà bel tempo e ne coglie il più bel fiore. meglio assai di tutti gli Accademici Fiorentini. Vario è stato il giudizio sulla sua ultima Musica. Ha molti detrattori di qualche autorità, ma in generale la sua musica piace sempre.

State sana voi ed il vostro egregio marito e ditegli che pensi a mettere nel buon sentiero codesti Accademici Tiburtini e come presidente meritissimo faccia loro gettar via tutti i fronzoli Cesarottiani e gli faccia rivestire del saio Dantesco. Ci vuole una forte medicina per guarire tanta idropisia poetica.

Tutto vostro Lampredi.

Un bravo giovane di famiglia Marsuzi vi avrà forse fatta leggere una sua tragedia. Vorrei sentirne il vostro giudizio.

Roma, 17 marzo 1819.

Mio Antaldo.—Avrai coll'ordinario d'oggi la medaglia di mio padre che finalmente ho ricevuto, dopo lungo timore ch'Ella si fosse smarrita.

Avrai anco, spero, ricevuto da certo Signor Sgarbi una mia lettera, nella quale ti raccomandavo caldamente questo nostro Guadagnini e ti accennavo un progetto per sollevarlo. che esaminerai.

In questa sarò breve come quella che ho l'animo trapassato da un coltello acutissimo e ti basti sapere che la mia povera madre è gravemente malata. Oh! come sento la lontananza in tale circostanza. La speme certo non mi ha ancora abbandonata un momento, che altrimenti non so a che mi porterebbe il dolore, ma nulla ostante ho un nero fantasma che dì e notte mi seguita e non mi lascia pace.

Addio. mio buon amico. compiangi ed ama

la tua porera Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.

Roma [marzo] 1819.

Mio caro Antaldo.—Se per consolarmi dell'affizione in che mi trovo per la malattia di mia madre hai stimato buono lo scrivermi con tanto sussiego quanto ne hai adoperato nell'ultima tua, debbo ringraziarti dell'intenzione; ma confessarti anco di non esserne stata punto soddisfatta. Comunque siasi, ravviso nella tua lettera i soliti frutti della lontananza, la quale però non ha potuto operare in me egualmente; e, se fosse bello il dir tutto, ne avresti ben chiari segni. Ma non più intorno a cose sì dolorose: passiamo ad altro.

Mia madre è fuori di pericolo ed il piacere che ne provo mi fa dimenticare la passata amarezza, quantunque ancora il mio povero cuore sia tormentato dall'inquietudine. Se la venuta di tuo fratello e di altri nostri buoni amici mi recherà dolcezza, mi farà ben anco maggiormente sentire la privazione della tua soave compagnia. Ma poichè così volete tu e il mio destino mi gioverà il pensare, che almeno non ti è del tutto sfuggita dalla mente la memoria di me. Mariano ha ricevuto la lettera del tuo Tommaso e si adopererà meco alla cerca della cosa, che però sarà molto difficile il rinvenire, stante le prossime feste. Non so quando partiremo per Napoli, nè Molinari il può meglio di me sapere: è certo nondimeno che dopo questa gita muoveremo per Pesaro. Dico certo perchè riposo sulla parola di Giulio; il quale mi è appena dato di vedere nell'ora del pranzo, tanto egli è preso dal divagamento. Lo stesso posso dirti di Gordiano; sicchè io mi trovo sola, solissima sempre in questa gran capitale. Nè me ne duole: essendo lontanissima dal bramare altra compagnia che quella di me stessa e dei miei libri.

Addio, mio caro amico: se a nulla valgo, comandami e credimi per sempre

la tua Costanza.

P. S. Quel tuo raccomandato non s'è mai fatto vedere.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma [marzo] 1819.

Mia cara Madre.—Approfitto del ritorno del Marchese Antaldi per inviarle un paio di scarpe foderate di pelo, le quali ho creduto potessero esserle grate, perchè sono comodissime per casa e tengono guardati i piedi dall'umido, nè se ne trovano in Pesaro.

Ella dunque avrà la bontà di scrivermi se le vanno bene, o pure se hanno qualche difetto, acciocchè possa regolarmi nel mandargliene delle altre. L'avverto però che servono solo per casa: giacchè non reggono al fango. La prego di portarle e non risparmiarle, perchè qui ve ne sono in abbondanza, e se le piacciono, gliene spedirò quante ne vuole. Abbia riguardo alla sua salute giacchè sento per lettera di Pierino ch'ella sia un poco incomodata dalla tosse, e mi raccomando alla sua amorevolezza per essere spesso e minutamente informata dello stato di sua salute.

Giulio le bacia la mano, il che io pure faccio, ed entrambi le chiediamo la sua benedizione.

Mi saluti Pierino, e mi creda piena di rispetto e di amore

la sua Aff.ma Obb.ma figlia
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Roma, 10 aprile 1819.

Mio caro ed ottimo amico.—Ho tardato a riscontrare la tua amabilissima lettera, perchè sperava di rimandarti colla mia risposta il tuo prezioso manoscritto, unitamente alle osservazioni che vi desideri di Giulio nostro. Ed egli invero mi ha tenuta finora a bada, promettendomelo ad ogni nuovo ordinario.

Ma poichè le molte sue brighe gli hanno tolto sino ad oggi di meditare a mente scarica sopra quest'aureo tuo lavoro, temendo che la bisogna vada ancora per le lunghe, è dovere che teco mi giustifichi della taccia di scortese e d'ingrata, che forse mi ha meritato il mio silenzio. Mi scolpi dunque il buon volere che l'ha cagionato, e più la tua gentilezza nella quale fido.

Che ti dirò di questa bellissima tua opera? io non vorrei moverti verbo di quella ammirazione di che son presa (imperocchè di niun peso è il mio giudicio) se non ne vedessi ardente Giuilo stesso. Quindi è, che non dubito di salutarti col glorioso nome di novello Caro, essendone per te finalmente concesso di leggere Lucano nel nostro purgato favellare, con quel piacere medesimo con che vi leggiamo Virgilio. E già io ho imparati molti de' tuoi versi e vado beando, nel recitarli, chiunque ha sapore di buona italiana poesia. Sì che è nata in tutti. non dirò brama, ma vera fame di te e delle cose tue. Sento però la mia fronte coprirsi di rossore nel rispondere alla tua veramente amabile esibita, d'intitolarmi questo tuo primo libro: chè la coscienza di me medesima mi forza a chiamarmene immeritevole: e ciò dico con tanta maggior vergogna, quanto è grandissima la tua offerta.

Ma non sono sì nemica di me stessa, e della mia gloria, che mi soffra l'animo di ricusarla. Imperocchè non avendo pel mio ingegno speranza alcuna di tramandare ai posteri il mio nome, sarammi almeno concesso ch'egli viva eterno in fronte del tuo libro; come anco rimarrà per questo mezzo eterna memoria della nostra amicizia, di che vado superba. Di più non dico, perchè, rispondendo più compintamente alla tua lettera. la giustizia vorrebbe che ti facessi conoscere come io sia lontana dal meritare le tanto gentili cose che mi dici: ma le lodi di un amico quale tu sei sono troppo seducenti pel mio amor proprio; nè la mia generosità è di tanto valore che mi basti a disingannarti.

Soffra dunque, per questa volta, la verità di essere coperta col velo dell'amicizia: e solo ti sia chiaro che non lochi in animo ingrato il tuo dono.

Ricordami alla tua buona moglie, all'amabile Elena ed a suo marito, e di' loro che attendo qualche comando da essi, che mi sia novella prova della loro benevole memoria.

Addio, mio caro Cassi: Giulio teco si abbraccia ed io a te mi raccomando.

La tua Costanza.

P. S. Giulio mi ha sorpreso nel chiuder la presente e vuole che teco lo scusi di non ti aver per anco servito a cagione dell'opera che ha per le mani da inviare a mio padre, e che tu sai. Ma egli ti assicura d'aver tanto a cuore il tuo manoscritto quanto l'opera sua medesima. Perciò vivine tranquillo che tosto vi porrà mano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. fondo Cassi.—Francesco Cassi ottenne fama per la versione della Farsaglia di Lucano nella quale diede prova del suo vivace ingegno nell'interpretare i luoghi più difficili ed oscuri e nell'abbellire con le grazie della lingua e dello stile alcuni punti non troppo felici dell' originale latino.

[Roma] 12 aprile 1819.

Mio caro Antaldo.—La tua lettera ha di molto aumentato la mia malinconia, quantunque mi abbia ella tolto dall'incertezza in che era dell'amor tuo. Incertezza che la penultima tua mi aveva posta nell'anima, sì che per nessuna cosa potea darmene requie. Ora che mi assicuri di amarmi sempre, malgrado la nostra lontananza, sarei pienamente consolata se potessi di subito volare a Pesaro, a godere di nuovo la tua soave conversazione, mostrandoti di persona che sono ben lontana dal preferire questi morti sassi alla compagnia di te e de' miei pochi e buoni amici. Nè ti niego che Roma può sola (a mio vedere) pascermi lo spirito e l'imaginazione: ma ti giuro che il cuor mio non è in Roma, se non quanto può bastare all'amore di molti: e solo io lo sento palpitarmi nel petto, quando colla mente vengo a visitarvi in Pesaro. Chiaro segno di quanto ti dico è la nera malinconia che di continuo m'è al fianco e spesso a tanto mi conduce, che il mio fisico ne soffre. Vero è che molte ragioni la producono, e troppo alti sentimenti mi bollono nell'anima per potere essere spettatrice fredda della vergogna italiana. È quindi inutile che ti dica non aver ancora veduta neppure una festa pel così detto imperatore; anzi al suo ingresso in Roma, quando tutta la città era spopolata tranne il corso e la via di Ponte Molle, la tua Costanza passeggiava mestamente per Campo Vaccino, maledicendo il Cielo e la nostra iniqua fortuna. Io sola fra quelle rovine piangeva la nostra perduta patria; e forse troppo alto orgoglio era il mio, ma in quel giorno io mi sentiva, quantunque così isolata, assai più grande dei grandi che ci rovinano. Di certamente solo dacchè sono in Roma mi sembra di valere qualche cosa. Amami dunque, mio buon amico, chè, priva di ogni gentile dote di spirito, ho però quelle del cuore, ed una pietà veramente italiana, per la quale sento che anco i Catoni e i Gracchi non mi sdegnerebbero. Ti mando questa lettera acclusa in una del conte Paolo. I tuoi stanno tutti bene, e quando li veggo farò loro i tuoi saluti. Trovai il sordo ieri, giorno di Pasqua, in S. Pietro, disperato, perchè aveva perduti li compagni, e me lo misi al fianco per trarlo d'imbarazzo. Egli mi raccontò che avendo incontrato un Cardinale (che non conoscea) gli aveva dimandato di Carluccio, ma S. E. non gli aveva data altra risposta che una risata in viso. Grande incivile! non conoscere Carluccio! in mezzo ad una Roma fra un 50 mila persone radunate in S. Pietro e sulla piazza non esservi chi conosca Carluccio! pare incredibile! Queste erano le esclamazioni del tuo sordo, aggiungendo che gli pareva di essere all' altro mondo fra tanta moltitudine: e dicea che a Pesaro avrebbe subito trovato Carluccio, ma non ne era venuto a capo in S. Pietro. Finalmente Carluccio comparve, al quale lo consegnai che ancor brontolava per quel Cardinale che non aveva saputo dirgli dove era Carluccio. Mi dispiace di non aver saputo trovare un migliore alloggio per loro, ed a minor prezzo. Ma se tu vedessi che cosa è divenuta questa città in tali giorni ne disgraderesti un formicaio. Prima di chiudere la pre sente spero di avere da Borghesi la risposta di quanto desideri per quelle medaglie, e da Giulio quella per la Ginevra Canonici. Sospendi dunque la tua collera in grazia dell'amore che ti porta

la tua Costanza.

P. S. Borghesi crede che la medaglia di cui hai mandato il disegno possa essere di Cleopatra. Circa il prezzo dell'altra dice che puoi pagarla cinque o sei scudi secondo come è ben conservata. Giulio non ha fatto inserire il paragrafo della lettera di Ginevra perchè già è stampato nella Biblioteca italiana, nè quindi può replicarsi nel giornale. Dammi qualche nuova dell'affare del povero Guadagnini. Mi pare un'inaudita crudeltà farlo languire così nella miseria: insomma voglio saperne qualche cosa di positivo perchè altrimenti prenderò io da me stessa qualche altra misura e sarà a vergogna dei Signori Pesaresi. Scuotiti dunque, te ne prego. Fresio e Tambroni ti salutano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Il sordo era Antonio Ferri di Monte Casciano, cugino d'Antaldo; Carluccio era fratello d'Antaldo.—L'imperatore Francesco arrivò il 2 aprile a Roma, dove per opera del Cardinale Consalvi, segretario di Stato. fu ricevuto con magnificenza straordinaria.

Roma, 7 [1819].

Mio Antaldo.—Anco in quest'ordinario avrai poche mie righe poichè sono in visite, nè posso fermarmi al tavolino.

Ma tu conosci il mio cuore e la somma attenzione di cui è pieno per te; quindi non abbisogni che a lungo te lo dipinga. Servirà adunque la presente solo ad avvertirti che finalmente ho avuto una tua lettera che mi è stata ritardata, che sono indispettita orribilmente contro la posta, che lo sono anche di più con te, perchè non mi dai nessuna risposta circa quanto ti ho scritto del progettato viaggio per Napoli, e finalmente che ti amo sempre teneramente. Mi rallegro anco che ti siano terminate le seccature del Gonfalonierato e prego sia in buon'ora per me e per Catullo. Dico per me perchè desidero che tu mi scriva più spesso.

Per oggi non ti dico altro. Addio dunque: sta sano, amami e credimi per sempre

la tua Costanza.

P. S. I Martinelli ti salutano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Senza data ma certamente del 1819 per la relazione che ha con la lettera seguente.

Roma, 20 maggio [1819].

Mio caro Antaldo.—Finalmente ho una tua lettera. Ti rispondo dunque a Milano dove vorrei esser teco sì per goder la tua compagnia, sì per abbracciare mia madre ed anche mio padre che forse a quest'ora sarà di ritorno da Bologna. Non t'attendere però niun'altra cosa gentile da questa lettera, perchè sono fieramente in collera teco. Come? viaggi, ti allontani per sì lungo spazio da Pesaro e dai volta piuttosto verso la Lombardia che verso Roma. ove sai che vi è chi tanto ti desidera ed ove potevi meco unirti pel viaggio di Napoli. che tu non hai veduto e che pure merita qualche tua cura? Scelleratissimo uomo! io non ti perdonerò giammai questo imperdonabile disprezzo, ed anco in Milano ti giungeranno gli effetti della mia ira ultrice. Abbiti intanto per pena l'obbligo di scrivermi subito se hai fatto buon viaggio, se stai bene, e se hai trovato in buono stato di salute i miei genitori, che abbraccierai mille volte almeno per me, senza mettervi nulla del tuo: intendi?

Io non istò benissimo. perchè sono tormentata da una tosse ostinatissima. il che mi fa por mente ai casi miei temendo di etisia (1) Perdona se ho scritto etisia perchè è parola che non trovasi nel Vocabolario.—Correggi dunque febbre etica, ed ammira la mia dottrina.. Mi conforta però il vedere che non mi cala nulla: e, se è vero quanto se ne dice, un principio di etisia è la magrezza. Onde finora non tengo il caso per disperato.

Com'è andata a finire quella quarta cantica di Dante di che è gran tempo mi scrivesti? io sono sulle spine per non averne veduta altra novella. Per amor di Dio levami dal corpo questa curiosità, che oramai mi cagiona dolori colici.

Addio, sta sano ed ama

la tua Costanza.

(di mano di Giulio Perticari segue):

Io non ho la febbre etica nè i dolori della Costanza. Ma sono inquieto ancor io, perchè tu abbia trovato agio da gire a Milano, e non sia venuto con noi, e non ci scriva più spesso. Addio.

Il tuo Giulio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma. 2 ottobre 1819.

Caro Antaldo.—Crederai tu che appena posso prestar fede a me stessa in rivedermi al possesso del mio piccolo scrittoio e de' miei libri? crederai tu che da due e più mesi a questa parte oggi è il primo giorno in che riprendo la penna, sicchè mi trema la mano per timor di non saper più scrivere? e realmente sono così confusa ed impicciata nello stendere due righe, dadisgradarne la più ignorante donnicciuola. Insomma il primo istante di libertà che mi viene concesso, dopo tre mesi di travagli fisici e morali, voglio che sia impiegato a scolparmi teco del mio lungo silenzio, nè meglio potrei farlo che col racconto ingenuo della mia disgrazia. Ma siccome la sarebbe lunghissima storia, e per te noiosissima, basterà il dirti che ho avuta finora la casa piena di ammalati; che Mariano è stato per due volte in grave pericolo di vita per una febbre maligna che lo ha prostrato affatto di forze: che in seguito Candelora, dopo cinque mesi di malattia incognita, ha stimato bene di fuggirsi da casa mia, senza farmene verbo, per correr dietro ad un birbante, il quale le aveva dato speranza di sposarla, ma che si è scoperto aver moglie di più antichi diritti. Sarebbe vano il dirti quanto l'ingratitudine di questa brutta pezzente mi ha sbalordita. Poichè dopo averla colmata di benefizii, essendo trattata da me come sorella, accarezzata, padrona non pure della mia roba ma di me medesima, era (o almeno mi credeva) in diritto di esigere egual ricambio di amore. Ma costei si è mostra in tutta la sua condotta non pure maligna ed ingrata, ma qualche cosa di peggio, se peggio vi è dopo l' ingratitudine. Basta: perdendola io ho fatto un gran guadagno, e ne ringrazio il cielo, siccome pure per lo medesimo beneficio lo ringrazia il mio Giulio, il quale nel momento in che costei ci abbandonò. come ti ho detto, si trovava esso pure gravato di febbre infiammatoria. Nè avea io alcun altro soccorso per assisterlo, se non quello di servitù straniera. Imperocchè Mariano e la Maria ambo malati erano fuori di stato di sollevarmi: anzi io medesima era l'unico sollievo loro.

Nè qui finiscono le mie disgrazie: perchè io stessa sono stata travagliata da così forti dolori, che non pure mi hanno cagionato fortissime febbri, ma mi hanno posta in forse della vita per 24 ore di seguito, senza lasciarmi un solo quarto d'ora di riposo. Appena ho potuto metter piede fuori della porta ho dovuto trascinarmi di casa in casa per trovare un appartamento un poco migliore di quello che occupavo, cosa resa tanto difficile in questa capitale, che mi ha cagionato infiniti disturbi ed arrabbiature. Ora, la Dio mercè, sono abbastanza comodamente alloggiata, cioè in Via della Minerva N.o 84, pagando 150 scudi per fino tutto Giugno, epoca in cui indubitatamente moverò per Pesaro. essendo già stanca fradicia di Roma, de' romani. e di tutto ciò che qui mi circonda, tranne della compagnia dell'unico mio buon amico il Cav. Tambroni. Ma per ritornare alla mia novella abitazione sappi che pago 150 scudi per la sola nuda casa, la quale ho dovuto ammobigliare del mio fino all'ultima sedia di cucina. Da tutto ciò rileva come sieno cresciuti i prezzi delle pigioni: poichè questi veri figli dell'antica lupa spingono l'ozio, l'avarizia, ed ogni più brutto vizio a tanto, che ogni altra men vile passione (non dico virtù) trova inesorabilmente chiusa tutta entrata nel loro animo. Ma di costoro non più, Ti ho voluto fare il racconto di alcune mie disgrazie non per occuparti il tempo d'inutili querele, ma per mostrarti che la sola necessità mi ha costretta a tenermi teco in così lungo silenzio.

Spingo la presente a Pesaro al mio Pierino non sapendo se tuttora tu ti trovi in Bologna. Caso che sì. egli te la dirigerà costà. Se sei in Bologna ti prego dire a Costa che non ho trascurata nessuna delle sue commissioni malgrado le mie disavventure: e già ne avrà avuto segno dalla lettera che gli ha scritto Giulio. Anzi ho travagliato io pure a servirlo in que' pochi momenti che mi erano concessi di libertà dalla maligua fortuna; cercando nelle opere di Dante tutti que' passi di che Giulio abbisognava per lo scritto che gli ha spedito, ed anco osando suggerire alcune mie poche cose ricavate dalle opere medesime e da quelle del Boccaccio intorno il divino poeta. Dico questo non per altro che per giustificare con esso pure il mio silenzio e per pregarlo di perdono, se non ho potuto prima e più sollecitamente servirlo. Colpa la mala fortuna ed il mio tardo ingegno.

Dimmi ora tu pure alcun che de' fatti tuoi, e mostrami che in mezzo a tanti travagli posso ancora sfidare il brutto ceffo della trista fortuna, la quale se qualche dominio ha su di me e su le cose mie, nessuno ne ha però sull'animo mio e sulla costanza de' miei più cari. Ho tanto più d'uopo delle tue consolazioni, che questa maledetta strega non cessa di perseguirmi: e non più tardi della scorsa settimana ho avuto male notizie della salute di mio padre. Quantunque il cuore non mi presagisca nulla di sinistro, pure sento tutta l'amarezza di questo nostro disastro ed auguro a me stessa mille anni di dolori, piuttosto che un solo momento di men che ottima salute al mio caro e buon padre. Prego il cielo mi abbia finalmente pietà e mi conceda giorni più lieti de'passati.

L'affare che tempo fa mi scrivesti di Marchetti è sporco assai, a mio credere. Me ne dispiace; perchè stimava quel giovine di migliore indole che non appare in oggi. Dimmi se ha emendato il suo errore. Scrivo in fretta, onde perdona il come scrivo.

Addio mio caro, unico e buon amico. Riprendiamo la nostra amichevole corrispondenza di lettere, sola consolazione che mi rimanga nella tua lontananza.

P. S. Come sta la Clarice e tuo fratello?

Ama la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.

Roma. 9 ottobre [1819]

Caro Antaldo.—Due sole righe. Per altra mia scritta nello scorso ordinario saprai a quest'ora i crudeli motivi del mio silenzio. All'ottima tua risponderò la settimana ventura (oggi è sabato). Intanto queste poche linee serviranno almeno per dirti che l'amor mio per te non fu mai nè più tenero nè più leale, e che non veggo l'ora di riabbracciarti.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Senza data, ma certamente del 1819 riferendosi alle antecedenti.

Roma, 28 ottobre 1819.

Caro Antaldo.—Se io sapessi in qual parte del mondo sei, ti scriverei francamente: ma poichè del tutto ignoro il tuo soggiorno, lo faccio tremando e con poche righe. All'ultima mia che ti diressi a Pesaro non ho avuto riscontro: e ciò mi grava, perchè ti toecava alcune cose di affari miei, le quali non così vorrei che fossero lette per altri, come bramavo che fossero da te. Questa avrà ella miglior destino? appena oso sperarlo. Ti sia ella almeno prova di quella verace e non mai diminuita amicizia con che in eterno sarò

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Roma, giugno 1819.

Mio caro Antaldo.—Non so se mi diriga questa lettera a Pesaro o a Bologna, onde, perchè non vada in sinistro, l'accludo in una di Pierino, acciocchè o la imposti o te la consegni.

Avrai per questo medesimo corriere un involto per Clarice che ti prego spedire ad Urbino, o ritenerlo presso di te fino al suo ritorno dai bagni di Modena, ove mi dicono che ella sia ita. Ai 15 di luglio muoverò per Frascati, poi per Tivoli e per ogni altra campagna che meriti essere veduta. Dopo di che spero di ritornare a Pesaro. Non sarà però così facile il richiamarvi Giulio, tanto più dopo l'accadute ultime soverchierie di quella… Non dubito che non ti sia sottoscritto per la piccola pensione al nostro bravo Guadagnini: ed anzi (se sei in Pesaro) ti prego affrettare la decisione del mio progetto, acciocchè nell'entrante mese di luglio possa questo povero giovane cominciare a risentire gli effetti della beneficenza de' suoi concittadini.

Dammi più frequenti tue-notizie, ed ama sempre la tua Costanza la quale ti è così affezionata che niuno di più. Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Le soverchierie a cui allude la Costanza si riferiscono alla Principessa di Galles, o meglio al Barone Pergami. suo maggiordomo, che aveva fatto fischiare il Rossini in teatro per vendicarsi di una risposta impertinente data dal maestro alla Principessa.

Roma, 23 marzo 1819.

Mio caro Antaldo.—Ti scrivo solo poche righe per tema che la mia lettera non ti trovi più in Bologna ma se vi sei ancora scrivimi tosto quanto conti trattenerti a Venezia, acciocchè possa regolarmi, nello inviare le mie lettere. Intanto per rispondere alla tua ultima, comincerò dal ringraziarti del tuo generoso perdono al mio lungo silenzio, quantunque esso è stato non colpa del cuore, ma della cattiva mia stella. E questa cattiva stella medesima è quella che mi tiene tuttora in questo tristo soggiorno, il quale non nominerò già io come vien denominata Napoli, cioè Paradiso abitato da Diavoli, ma casa di eroi saccheggiata da assassini. Parliamo d'altro.

La speranza che nella prossima primavera le strade siano più sicure verso Napoli, mi tratterrà qui fino a giugno. Se a quell'epoca i briganti non mi cedono il passo, io il cederò loro e me ne tornerò bravamente a Pesaro, ove la tua compagnia, spero, mi consolerà di molte sciagure da un anno a questa parte piombate sul mio capo, e che non posso fidare ad una lettera. Non creder già che siano fantasmi della mia fantasia; esse non sono che troppo reali, e risguardano gli interessi della mia famiglia: quindi quelli di mio padre che per troppo buona fede si lascia interamente spogliare da'suoi ingrati nepoti. Nè certo mi consola il vedere che anche Giulio cammina per la medesima strada. Per la quale cosa ringrazio il cielo di non aver figli… Intanto mi consolo co'miei studi e colla compagnia dell'ottimo Tambroni che ti saluta e non vede il momento di conoscerti.

Addio. mio Antaldo: Giulio ti saluta ed io teco mi abbraccio.

La tua Costanza.

P. S. Salutami Costa, e di' che non si disanimi per la ridicola guerra del saputello Toscano. Egli troverà un articolo del mio Giulio nel giornale Arcadico che, spero, lo conforterà vieppiù per nostro utile a seguire la magnanima impresa.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

[Roma] 23 novembre 1819.

E così è, mio caro Antaldo; mio padre e mio marito sono negli affari appunto come tu dici, cioè di troppa buona fede e quindi saranno fino all'ultimo lor fiato segno sicuro a tutte le ladronerie e le furfanterie dei bricconi che lor vivono alle spalle. Mio padre, secondo che ora rilevo dalle sue lettere, comincia ad avvedersi della verità che gli scrissi rapporto a mio cugino. Ma a che pro? egli ha aggiunto danno a danno… Basta, mi rallegro con me medesima di non aver figli: sì lo ripeto, quantunque il non averne potrà partorirmi infiniti guai, perchè al mio avvenire nessuno ha pensato e nessuno pensa. Ma amo meglio di affrontare io sola le disgrazie, di quello che vedere tranquillamente spogliare del loro quegli esseri a cui io dessi la vita. Poichè io, che pure son figlia e, oso dire, amorosissima figlia, so cosa mi bolle nell'animo: e so che non basta a meritare l'amore e la gratitudine figliale il dono dell'esistenza. E qui fo punto: giacchè vi sono alcuni tasti nel cuore umano, che fanno mal suono ed il mio ne ha molti di questo genere: lo perchè buono è tacere.

Ti spedisco per questo ordinario il 4.o volume di Dante, che non ho mandato prima giacchè tu sei stato fuori di Pesaro. Ti prego anco scrivermi un poco più spesso che non fai, poichè le tue lettere mi sono un vero balsamo alle piaghe di che ho l'anima ammalata e lo spirito pure. Se io nol faccio perdonamelo: i miei pensieri da gran tempo sono tanto nebulosi che temo di fare cattivo ufficio parlandotene: nè a te posso scrivere senza aprire i miei veri pensieri.

Addio. mio buon amico: ama e compiangi

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—Giuseppe Monti, nipote di Vincenzo, aveva in affitto i beni di lui e doveva corrispondere al Perticari la somma dovutagli come frutto della dote di Costanza, ma sovente ritardava l'invio del denaro: di qui lo sdegno di lei contro il cugino, tanto più che questi ritardi le procuravano non lievi dispiaceri domestici.

Roma. 1820.

Caro Antaldo.—Ti accludo il manifesto di una nuova edizione di Dante, che qui in Roma tosto si stamperà e per la quale ti prego e riprego (e il prego valga mille) di permettere che si pubblichino le varianti del codice tuo bellissimo a me noto e degli altri (se lo crederai opportuno) che tu possiedi. A questo effetto io oso chiederti che anco nel manifesto sia inserito il nome tuo fra i posseditori dei codici che si premetteranno. Combinerai il modo di farmi giungere le varianti suddette (almeno di tutto l'Inferno) il più presto che per te si potrà: e se non volessi aver la briga di farle trascrivere, potresti affidare il codice tuo medesimo al Conte Paolo, che per mezzo del corriere potrebbe farmelo qui giungere ove io lo terrei custoditissimo, nè escirebbe di mie mani: te ne faccio sacramento. Dico questo perchè essendo tu in altro occupato in Bologna, non avrai forse nè tempo, nè agio, nè voglia di lavorarvi da per te stesso. Se avessi altre peregrine notizie intorno la divina Commedia, e se nella Biblioteca di tuo cognato trovassi qualche buon codice, potresti farmelo spogliare e inviarmi le tue opinioni. Insomma mi affido in te e pregoti rispondermi subito a posta corrente, perchè è bisogno pubblicare senza indugio l'accluso manifesto. Non rispondo all'ultima congettura della tua lettera, perchè è cosa vana. Non è nulla al mondo di più certo del nostro ritorno in Pesaro, ma questo non accadrà che nella prossima primavera. Tieni la mia parola per articolo di fede e credimi che io medesima non desidero di più prolungare la mia assenza. Addio, amami, scrivimi più spesso ed aggradisci i saluti di Tambroni, il quale è innamorato del tuo ritratto. Addio.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—L'edizione di Dante, a cui accenna la Costanza, è quella del De Romanis (Roma, 1820).

Roma, 1820.

Caro Betti.—Non mi fidando lasciare nelle mani della Maria il mio poemetto l'ho consegnato a Tambroni il quale ve lo rimetterà. Voi avrete, dopo che ve ne sarete servito, la gentilezza di passarlo a Tambroni nuovamente. il quale desidera di leggerlo e mi ha data parola di farmelo pervenire per mezzo sicuro a Pesaro.

Veramente egli non vale la pena che voi, per soverchia cortesia, volete prendervi. Ma giacchè la vostra bontà giunge a tanto, a me pare che il pezzo più passabile sia dall'ottava XXVIII fino alla XXXVII del secondo canto. Le tre ultime ottave poi amerei che non si trascrivessero affatto. Del resto lascio al tuo retto giudizio ed alla tua indulgenza la cura di far parere buona una tanta miseria e te ne ringrazio anticipatamente: ma lo ripeto: a me sembra che l'amicizia ti faccia velo. Mi raccomando finalmente per quanto so e posso acciocchè il manoscritto non esca dalle tue mani, se non che per essere riconsegnato a Tambroni.

Addio. Scrivimi a Pesaro, salutami mio figlio e credimi ad ogni prova

la tua Costanza.

P. S. Mi muoio di sonno. Ciò mi scusi della confusione di queste poche righe. Addio.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Roma. 1820.

Non passeremo altrimenti per Bologna, e queste due righe che ti scrivo nel momento di montare in legno ti avviseranno di questa per me cattiva notizia e del mio dispiacere di non rivederti prima della tua partenza. Pazienza! Da Pesaro vedrò di darti più a lungo mie notizie e m'informerò ove debba dirigere le mie lettere.

Addio; fa buon viaggio. Papà ti abbraccia siccome io faccio.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.—L'Antaldi si recava allora a Londra per testimoniare in favore della Principessa di Galles.

S. Costanzo, 23 maggio 1820.

Mio caro amico.—Appena giunta in Savignano, ebbi sì cattive notizie della salute di mio marito che fui costretta a lasciare il mio beato ritiro e venire in S. Costanzo, ove egli si trova, per assisterlo.

Oggi solo pare che la sua malattia cominci a prendere miglior piega e quindi oggi solo posso valermi di qualche istante per darvi nostre notizie e giustificare colle medesime il mio passato silenzio. Il male di Giulio consiste molto nel grande abbattimento in che si trova di forze fisiche e molto più in quello di forze morali. Si sono consultati più medici e tutti gli hanno cantato la stessa rima, cioè ch'egli soccomberà ad una seria malattia se non si toglie dal capo il timore di essere diggià seriamente ammalato. Difatti dacchè ha cominciato a trionfare dell'avvilimento a che si era abbandonato, la sua salute si è rinvigorita sufficientemente; e spero in breve di vederlo in istato di seguirmi a Savignano, sua aria nativa, ove mi persuado che si ristabilirà interamente.

Di mio padre ho novelle consolantissime e, da quanto mia madre me ne ha scritto, calcolo che già sia guarito. Avevo portato meco la vostra tragedia, ma Giulio non è di presente in istato di leggerla e nulla quindi posso dirvi del suo parere.

L'ha ben letta Cassi e vi assicuro che n' è rimasto rapito. Se quando si leggerà con Giulio accadessero osservazioni, vi saranno scritte liberamente; Roverella, che fu a trovarmi il giorno dopo il mio arrivo a Savignano, la lesse di sfuggita e, siccome non gliela volli lasciare, ho preso impegno di portarla meco a Cesena, ove se ne farà lettura secondo quanto fra voi e me concertammo. Addio, mio caro amico, abbracciatemi la buona Giuditta, salutatemela tanto e ringraziatela delle tante cortesie usatemi (siccome voi pure ne ringrazio) durante la mia dimora costà. Pregatela di dare per me un bacio alla buona Mariuccia. Ed a voi caldamente mi raccomando.

La costra aff.ma amica vera
Costanza.

P. S. Ho smarrito un tomo delle lettere del Caro. Avreste la bontà di guardare nella camera da me abitata costà se per caso vi fosse?

In—Lettere inedite di illustri Romagnoli—edite da Francesco Miserocchi, Ravenna, Tip. Calderini 1881.

Pesaro, 3 giagno 1820.

Amico caro.—Ov'è l'effetto delle belle promesse fattemi prima della mia partenza da Roma, di scrivermi cioè spessissimo e di provarmi che per lontananza nè tu nè mio figlio mi avreste dimenticata? Io non ho ancora avuta la consolazione di ricevere una tua linea e quantunque dovrei ora ringraziarti per le gentili bugie stampate in mio onore nel giornale, non posso a meno di moverti querela e del tuo silenzio e per avere tu di troppo ascoltata l'amicizia e ben poco la verità nel giudizio dato al pubblico su quelle meschinissime mie ottave. Vero è, che circa la prima accusa puoi rispondermi che spettava a me il darti mie notizie: ma affollata da brighe domestiche, non ho potuto soddisfare ne' primi giorni del mio arrivo tutti gli obblighi dell'amicizia. Scrissi peò a Tambroni per alcune mie commissioni, e lo pregai di salutarti. Egli ora mi chiede se abbia presa la cia d' America o del Giappone, il che mi fa chiaro che le mie lettere sono tutte ite in sinistro. La posta pure dunque congiura a mio danno: e non bastava alla mia mala fortuna di avermi allontanata per sì lungo spazio da' miei amici, se non mi faceva apparire con essi scortese, anzi colpevole. Rimedia tu, mio buon amico, a' falli di questa trista, e di' all'ottimo Tambroni che gli ho scritto, che gli scrivo anche in quest'ordinario e che pur troppo non sono in America se non col desio. Possibile che nessuna delle mie lettere vi giunga? Non so che mi pensare e ne vivo inquieta. Non ti dirò dunque che se non riceri la presente me ne dia avviso, acciocchè te ne possa scrivere un'altra: ma ti pregherò bensì caldamente a rispondermi subito, se la ricevi, per trarmi di pena.

Noi siamo qui giunti sani e salvi: se non che io soffro di una piccola tosse secca che mi tormenta moltissimo da un mese e più. Spero che la buona stagione mi libererà dal pericolo di morire etica.

Addio, mio buon Betti, salutami mio figlio e credimi

la tua aff.ma Costanza.

P. S. Non mi rammento se de' due tomi del Vasi ti appartenga il primo o il secondo. Scrivimelo tosto acciocchè possa spedirtelo unitamente al frammento di Longo.

L'autogr, è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro, 6 luglio 1820.

Mio caro Betti.—Avrai colla presente il Vasi che non ho spedito prima perchè ho dovuto attendere che Giulio il rinvenisse fra i suoi libri. Non così il frammento di Longo, dandomi tu sicurtà di poterlo ritenere, senza mancare all'obbligo mio presso il vostro Cecilio.

E per iscusa di non ti avere scritto finora sappi che una grave malattia del nostro Fusignani mi ha ne' passati giorni tanto amareggiata, che non ho avuto il capo a nulla finchè m'è durato il timore di perderlo. Ora i medici cel fanno salvo e così voglia il cielo che sia, imperocchè la morte di un sol uomo dabbene è di tanto danno alla società. quanto la conservazione di un tristo. Alle tue lettere carissime poi non so veramente come rispondere: perchè dall'un canto mi stringe l'obbligo di gratitudine per le tante gentilezze di che esse sono piene, dall'altro la coscienza mi vieta di ringraziartene, poichè esse non passano senza nota del tuo giudicio e senza mia vergogna, sapendo io bene di non meritarle. Ma siccome anco nei savî e nei sinceri ha loco l'affezione spesso a danno della verità, mi risolvo di poterle accettare solamente come una prova novella della tua cortesia.

Ho presso di me quella cameriera che mi raccomandasti prima della mia partenza da Roma, la quale dà segni di essere una buona e brava giovane: onde ti so buon grado del di lei acquisto e desidero che ella sia al pari di me contenta.

Vedendo il nostro ottimo Tambroni salutalo in mio nome e così tutti coloro che mi degnano di qualche onorevole memoria. E a proposito di codesti gentilissimi mi farai il favore di consegnare l'acclusa al mio bravo figliuolo. Tu, ove valgo, comandami, e quando mi scrivi, il che prego sia sovente, dà al diavolo le Signorie, le quali non denno aver luogo fra veri amici ed anzi guastano tutto ciò che toccano, persino le tue lettere elegantissime che sono fiore di gentilezza.

Addio.

La tua amica aff.ma
Costanza.

Scritta la presente ho ricevuto la tua de' 28 giugno: onde questa sarà di risposta anco a quella. Ho caro che il mio ritratto dipinto dall'Agricola riesca come tu dici; del quale anche Giovanni mio cugino mi scrive meraviglie. Vedendo codesto bravo artista (che io nomino sempre il Raffaello del secolo) ti prego ringraziarlo e salutarlo per me e per Giulio, che te pure abbraccia.

P. S. Gordiano sostiene che de' due tomi del Vasi il primo gli appartiene: onde ti mando il 20 e tengo anch'io per certo che sia il 20 quello che mi prestasti. Se, mi fossi ingannata scrivimelo, che ti manderò l'altro.

L'autogr, è nella Bib'. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.—Filippo Agricola (1795—1857) fu uno dei buoni pittori della Scuola Romana e si era accinto a fare il ritratto della Costanza che fu poi immortalato dal Monti nel sonetto: Più la contemplo e più vaneggio in quella mirabil tela ecc. Questo dipinto dell'Agricola, lavoro veramente pregevole, si conserva ora in S. Mrrino in casa del Conte Giacomo Manzoni di Lugo.

Pesaro, [luglio] 1820.

Caro Betti.—Non ho notizia di Tambroni malgrado che gli abbia scritto replicatamente. Accludo quindi nella presente un foglio che ti prego consegnargli in proprie mani.

Perdona il disturbo: adoperami ove valgo ed amami.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro, [luglio] 1820.

Amico caro.—Secondo che De Romanis mi prega di fare, di accludo la mia risposta ad una sua lettera, senza sapere perchè non possa consegnare la medesima alla posta sotto il suo indirizzo. Se tu ne conosci il motivo, ti prego scrivermelo. Avrai, spero, ricevuto il Vasi e il mio riscontro alle tue gentilissime. Non m'accorrendo dunque altro dirti, se non pregarti de' miei saluti all'ottimo mio figliuolo ed al Tambroni, fo fine raccomandandomi alla tua amicizia.

La tua aff.ma Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro [1820.]

Caro il mio Betti.—Finchè io non abbia riscontro dal Tambroni ad alcune lettere che gli ho indirizzato, mi è forza dare a te l'incomodo di spedirti di mano in mano quelle che per ora può accadermi di dovergli scrivere. Tu me lo perdona e dammi tue e sue notizie.

Addio; ama la tua

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma. carte Betti.

Pesaro, 27 luglio 1820

Signore gentilissimo e pregiatissimo amico.—Le rare cortesie di V. S. verso di me, e specialmente quest'ultima dello spedirmi la desiderata effigie di Dante, dovrebbero essere riconosciute con altro che con parole: ma poichè non posso cogli effetti far chiara dimostrazione dell'animo, non le spiaccia accettare i miei ringraziamenti come un testimonio dell'obbligo che le ho. E creda ch'io non sarò mai paga finch'ella non mi presenti qualche occasione di attestarle più apertamente la memoria che tengo de' suoi favori e la divozione che a lei porto, siccome al migliore ornamento della Toscana. Nè mi disanima il mio poco valore: perchè ove non giungerò colle forze, supplirò colla buona voglia e colla diligenza. Attendo ch'ella si compiaccia significarmi il mio debito pel disegno ordinato: onde non abbia a rimproverare me stessa di essere stata troppo indiscreta nell'usare tanta sua gentilezza. Scrissi, è già tempo, alla Signora Valeriani: ma temo la mia lettera smarrita per non averne avuto riscontro. E forse ciò è accaduto per mia colpa: perchè tenendo opinione che il nome di codesta amabile signora fosse Luigia, diressi quella lettera a norma della mia credenza. La supplico dunque di scolparmi presso la medesima e di mantenermi nella sua buona grazia, come pure in quella del degno suo consorte, del Signor Novellucci, del Signor Renzi e di tutti codesti gentilissimi. Così si raddoppieranno le mie obbligazioni e la mia gratitudine verso V. S. E con questo, porgendole i saluti di mio marito, a lei m'offero e raccomando.

L'un.ma Serva ed Amica
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella R. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, proven. Gonnelli.

Pesaro, [agosto] 1820.

Caro amico.—Avrai la presente dal nostro buon Fusignani e dall'ottimo Gattei, i quali ho incaricati anco di un bacio per te, togliendomi la fortuna di recartelo io medesima. E veramente ti giuro che porto loro una dolce invidia, non per l'occasione che loro si porge di vedere tanto bel mondo, ma perchè si godranno della tua compagnia mentre io rimarrò a dolermi ancora per molto della tua lontananza che ogni dì più mi pesa. Pure mi conforta il pensare che la presenza di persona sì degna per ogni rapporto, quale tu sei. potrà di non poco giovare alla causa della augusta donna che tiene a sè rivolti non pure gli occhi di tutta Europa, ma i cuori di ogni onesta persona: giacchè ti so dire che tutti facciamo voti per vederla escire con vittoria ed allegrezza da una lotta sì crudele e nella quale pare propriamente che la calunnia abbia messo ogni sua forza.

Ho ricevuto due lettere che mi hai indirizzate l'una da Bologna, l'altra da Milano, ed in quest'ultima mi ha sorpresa la richiesta fattati da mia madre circa la persona che tu sai: la quale però non è rimasta convinta dalla lettera che ti dissi avergli scritta e non cessa di molestarmi. Se saran rose fioriranno. Ma di presente mi trovo fra le spine per infiniti motivi, che mi toccano ben più al vivo che simili ragazzate. Oh! quanto mi sarebbe di conforto il potertene parlare e versare nel seno dell'amicizia tutte le mie amarezze! ma per lettera non giova e non si può. Pazienza!

Mio padre partirà domani e Giulio l'accompagnerà sino a Bologna. Onde sarò sola, sola veramente.

Scrivimi se hai trovato qualche bel Codice costà e come passi il tuo tempo. Scrivimi anco (se il potrai) quale è lo stato di cotesta causa, e voglia il cielo risplendere in essa benigno all'innocenza. Molinari precederà di poco la presente che avrei consegnata a lui stesso se non fosse partito quasi improvvisamente e se non ci fossimo lasciati un poco in collera.

Addio, mio caro amico: Papà e Giulio ti abbracciano: salutami Schiavini e raccomandalgi le mie commissioni. Addio: ama sempre

la tua Costanza.

P. S. Dimmi presso a poco quando sarai di ritorno e quando il saranno gli altri.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro, 6 settembre 1820.

Mio carissimo Betti.—Al Cassi ed a Giulio sembra troppo breve il tempo che loro concedi pel componimento richiesto. Pure essi sono sì volenterosi di servire alla santa tua brama e a quella dell'ottimo mio figlioletto, che faranno il possibile per compiacerti, tutto che non tel promettano per sicuro. Ma se essi si scusano nella brevità del tempo, che non dovrò dire io meschinella priva d'ogni valore poetico? Ben mi duole di perdere una tanta occasione di provarti la stima che faccio de' tuoi comandi: ma questa volta al desiderio dell'ubbidirti non va del pari la forza del sodisfarti. E perciò ti supplico ad avermi per iscusata e scusarmene anche presso il mio buon figliuolo, al quale dirai per me tutte quelle più soavi cose che saprà suggerirti la gentilezza del tuo animo e la conoscenza che hai dell'amore che gli porto. E con questo mi ti raccomando.

La tua aff.ma
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Luge, [settembre] 1820.

Mio caro Giulio.—Per non sembrare ostinata e per mostrare a mio Padre ed a te ch'io venero sempre i vostri consigli porterò quanto occorre per passare ventiquattro ore a Fusignano. Sappi però che io aveva fermamente risoluto di non andare nè poco nè molto. Prima di partire da Pesaro scrissi a mio zio una politissima lettera piena di amorevolezza, dicendogli che veniva in questi paesi e che bramava assai di riabbracciarlo: che però pensando all'incomodo di un viaggio per lui, io medesima volerei a Ferrara per salutarlo. A tutto questo chiedeva una risposta per sapere se il mio progetto l' incomodava, aggiungendo che non mi moverei da Lugo senza un suo cenno e che perciò indirizzasse costì la sua lettera. Per maggior sicurezza portai io medesima alla posta la mia e la raccomandai espressamente. Quando noi giungemmo a Lugo ío dovea trovar questo riscontro, ma nulla è giunto neppur colla posta di ieri. Tu d' altronde sai che io non ho troppo a lodarmi di mio zio e neppure dei suoi figli, sai che tu stesso non ne hai rice vute molte prove d' amore; tutti questi motivi erano anche troppi per indurmi a non muovere più un passo in quella casa, ma tutte le mie ragioni non valgono il tuo volere e quello di mio padre. Chiedo a ricambio che non ci fermiamo molto a Fusignano e che domani tu scriva subito per i cavalli. Chiedo di più che mi permetta di non passare più di ventiquattro ore a Maiano. Puoi comunicare a mio padre questa mia, acciò non attribuisca ad ostinazione la mia delicatezza.

Sarò a Bagnacavallo dopo mezzo giorno, poichè avendo passato ieri una cattivissima giornata e non sentendomi neppur bene oggi, credo di non far male a rimanere in riposo il più che mi sia possibile.

Addio, abbraccia Papà ed ema la

tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Giulio mio.—Parto in questo punto per S. Costanzo in compagnia della Violante. Ti prego, ti supplico, ti scongiuro venirmi a prendere colà come promettesti e tosto. Se papà è ancora a Bologna, abbraccialo. Salutami Costa e mille volte la Giuditta.

A te non dico nulla e non mando nulla. Se vuoi un abbraccio vientelo a prendere. Addio.

La tua Costanza in collera.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

Pesaro, 28 novembre 1820.

Mio caro Antaldo.—Io non ho mai detto a Molinari di essere in collera teco, bensì lo era seco lui siccome ti scrissi: e di questo basti, perchè lo spendere parole per dimostrarti che io non posso e non potrò mai avere sdegno di te, sarebbe fatica inutile e simile a quella di chi si adoperasse a provare la luce ed il calore del sole, cose a tutti notissime. Nè si stimi questa similitudine troppo superba, imperocchè non ve ne è di più confacente alla nostra santa e schietta amicizia.

Se io affretti coi voti il tuo ritorno, tel dica il cuore ed esso pure ti dica quanto abbia bramato e brami esserti vicina in questi giorni!!!

Non ho mai ricevuta la lettera di Ginevra; le altre due, l' una di Bologna l' altra di Milano, mi sono pervenute salve: mi pare avertene scritto. Ma siccome sono chiara della tua prudenza sto riposata su l' esito della terza, tranne il dolore provato pel tuo lungo silenzio.

Fino dall' anno scorso mi fu detto in Roma che si trova in Inghilterra (e credo in Londra) un manoscritto del padre Lombardi, contenente moltissime correzioni fatte dal medesimo alle sue prime chiose sulla Divina Comedia.

L' autore aveva intenzione di pubblicarle, ma la morte il giunse prima che ponesse ad effetto il degno suo proponimento. Il manoscritto cadde in mano d' un disgraziato, figlio veramente della Lupa Tiberina, che per guadagno lo cedette ad un inglese e questi sel recò in Inghilterra. Dico questo perchè, avendone l' agio, potresti farne ricerca; che mi si assicura essere cosa degna di ciò. nè forse ti si negherà farne una copia.

Ho questo racconto da Tambroni. quindi da fonte sicura. Adoperati come credi meglio.

Addio, mio buon amico; Giulio e gli amici tutti ti abbracciano. Sta sano e ricordati di noi e di me specialmente, la quale tutti avanzo nell' amarti e nello stimarti.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro, 24 dicembre 1820.

Carissimo Betti.—Se ti parrà che io abbia troppo indugiato a risponderti, mi scusi il non aver avuto nè' passati giorni che pur un occhio a mio servizio e questo anche così addolorato per la malattia del compagno, che nulla era più del vedere. Avrai intesa la storia di questa mia disgrazia dai nostri viaggiatori, perciò non vi spendo parole e senz' altro do riscontro alla tua lettera, tutta fiore di cortesia e di gentilezza. E primieramente ti fo fede che Giulio da qualche tempo lavora di buona voglia al vostro Giornale ond'è che spero vederlo sdebitato di sua promessa, anzi di suo obbligo, entro il mese. E se la lena mi basti a spronarvelo, ne rimarrete al fine tutti contenti: purchè quella maledetta poltroneria che il fa restio non s'impadronisca di bel nuovo de' ferri di bottega. nascondendo e libri e carta e penne senza aver rispetto nè alle mie preghiere, nè all' onor suo.

Non iscrivo in quest' ordinario al mio figlioletto, perchè penso che la presente sarà comune anche a lui: ma il farò di corto. Iutanto ringrazialo della cura gentile ch'ei vuole indossarsi intorno l' articolo pel mio ritratto, ed auguragli per parte della mammina mille benedizioni d' ogni sorte del santo bambino.

A Biondi, a Tambroni, ad Agricola mando tanti saluti: di' a Giuseppe che, per Dio, ne mandi la sua Giuseppea, la quale tutti desideriamo quanto la manna gli Ebrei. Perchè, s' ei non soddisfa questa partita, gli farò più spendere io nella posta che un cattivo sensale nella compra d' un podere.

Addio, mio caro amico: Giulio ti abbraccia ed io mi ti raccomando.

La tua aff.ma amica rera
Costanza.

L'autogr. si trova nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro [aprile] 1821.

Mio caro Antaldo.—Due sole righe poichè il tempo stringe e il Sig. Vassalli è sulle mosse: due sole righe per dirti che Schiavini mi ha rimesso il tuo piccolo vigliettino in data de' 21 marzo, il quale, poichè non mi annunzia nemmeno la probabilità del tuo ritorno, mi è riuscito men caro che non avrei voluto, tel confesso; sono dunque in collera teco e, per fino che tu non venga a dimandarmi pace in persona, ti dichiaro la guerra.

Qui non v'è nulla di nuovo: dico di nuovo, giacchè che questo sia un paese di… è notizia vecchia.

Addio, goditi tu la terra ed il clima inglese; io da Pesaro t'invidio, solo però perchè sono a Pesaro e perchè tu non vi sei. Sta sano ed ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.— Michele Schiavini era il marito di Elenina. figlia del Cassi.

Pesaro, 4 giugno 1821.

Amico carissimo.—Io non dissento da messer lo medico Serra ed approvo i suoi papaveri, perchè spesso siamo andati d'accordo nel tor iva id mezzo i poveri nell'Ospedale, quando si faceva giornata insieme, ma quel suo papavero per l'intento non ha maggior virtù dello sterco di uccello che nè puzza nè odora. Per non contristarvi più lo stomaco coll'ostica scilla, mando altre pillole, come cosa che si porta meglio da lungi e sotto tal forma il rimedio non ha bisogno di essere sì spesso rinuovato e si conserva meglio. Dette pillole se ne dovranno prendere una ogni due ore, bevendo sopra della semata nitrata e prenderne sino otto al giorno impreteribilmente. Queste pillole sono come i frutti dell'albero della vita e ciò basta. Dico però che la tosse è una dea malvagia e che bisogna farle un sacrificio con un poco del vostro proprio sangue. onde se ne vada presto, avendole anzi dato ricetto un po' troppo a lungo. Messer lo Serra per questo sarebbe un ottimo sacrificatore e vi giuro che egli è bravo flebotomista. Se dentro un giorno tutte queste cose non giovano, fate a mio modo, fate il detto sacrifizio. Il sangue da versarsi dovrebbe essere almeno una libbra.

Fa a mio modo, Giulio, fa così, onde non t'avesse a venirne qualche sinistro. Ho detto spropositi abbastanza, seguirà la Costanza. Per'la Passeri poi torna giù sano e intanto fa raccolta e lascia fare al tuo…

Fusignani.

Dunque Fusignani non è altrimenti l'annamorato della Passeri, ma il tuo e suo…! Ho caro di saperlo.

Ti mando il 40 tomo di Dante, ma prima di rimetterti allo studio fa di guarire. Addio. Sta sano ed ama la tua

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Pesaro, [luglio] 1821.

Mio Giulio.—Comincio a temere che come Bertoldo non trovi albero da impiccarti, vale a dire che niuno scialle sia di tuo piacimento, per non avere a spendere. Comunque sia, se hai veramente intenzione di farmi questo regalo, ti prego sia di buon gusto. Circa il mussolo converrà pazientare. Non ho ancora ricevuto il ventaglio, ma te ne ringrazio. Fammi sapere il giorno preciso in che conti di essere in Pesaro, che ti verrò in contro. Addio, salutami Cassi e gli amici.

Amami sempre.

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.— Senza data, ma molto probabilmente del 1821, del mese di luglio o di agosto quando aveva luogo la fiera in Sinigallia.

Sinigallia, [luglio] 1821.

Caro amico.—Pierino mi scrive che ha ricevuto un involto di carte da Roma: ti prego di aprirlo e, se contenesse un certo discorso fatto da Tambroni sulla distribuzione dei premi per l'università di Bologna, consegnalo a Giulio, colla lettera a lui diretta, dicendolgi che credendo io che contenesse certi disegni per te ordinati a mio cugino aveva scritto a Pierino ti consegnasse l'involto, ma vedendo essere altra cosa la rimetti a lui. Vi troverai una lettera anco per me e questa spediscimela alla prima sicura occasione e di' pure a Giulio che, vedendo nell'involto una seconda lettera a me diretta, ed avendo pronta un'occasione per Senigallia, hai creduto far bene spedirmela. Io non so se capirai questo pasticcio perchè ti scrivo dal caffè in mezzo un baccanale e in fretta. Non temere di comprometterti nell'usarmi compiacenza; quando ci vedremo ti dirò perchè sono costretta ad agire così: intanto fidati della mia onestà.

Se l'involto contenesse altra sorta di carte, ritieulo presso di te; ma se fosse veramente il discorso che ti ho detto, ti avviso che ricusando di fare quanto ti dico sarai causa di sommo pregindizio al povero Tambroni.

Addio, amami e scrivimi, Per Dio, se non vuoi venire.

P. S. L'accluso ordine è per Pierino. Ho in questo punto la tua. Per amor del cielo trova un'occasione sicura per spedirmi quelle lettere.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Sinigallia [agosto] 1821.

Micaro Antaldo.—Scrivimi per amor del cielo se hai ricevuto nulla da Roma: il tuo silenzio mi allarma, poichè ti avea pregato di farmi sapere quante lettere ti fossero pervenute. Se tu vieni in fiera, portale, altrimenti non le consegnare, a meno che non avessi un'occasione sicurissima e che non corressero rischio di esser mostre. Perdonami l'incomodo, giachè non ho persona più amica di te per fidarmi.

Addio.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Autaldi.

Pesaro, 17 ottobre 1821.

Mio caro Salcatore.—Mi sta tanto a cuore ogni tuo comando, che non mi faccio coscienza di scrivere anco delle bugie quando me ne richiedi. Per Dio! qual prova maggiore posso io darti del desiderio che tengo di ubbidirti? Io non so se basterà l'acclusa a scolpare mio marito, il quale veramente in punto di poltroneria tocca la cima della perfezione. Ti prego perciò che, scrivendo al signor Manzi, tu t'ingegni di mitigare il giustissimo suo sdegno ed io intanto farò opera perchè Giulio gli risponda da Milano, come se solamente colà avesse ricevuto il libro per qualche occasione da me procurata.

Addio, mio carissimo Salvatore, a te ed all'amato mio figlioletto mi raccomando.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro, 18 ottobre 1821

Mio Giulio.—Niuna novella di te in questo ordinario! Se non puoi però vincere per amor mio la somma tua pigrizia, converrà che tu la vinca per amore del tuo decoro. Betti mi scrive che il sig. Pietro Manzi si lagna (e giustamente) del non essere stato onorato neppure di una riga di ricevuta, se non di ringraziamento, da te per la bella traduzione d'Erodiano che ti ha intitolata. Ora io, tenera della tua convenienza, ho scritto al sig. Manzi e gli ho detto che il libro ò qui arrivato menti tu già eri partito per Milano, che perciò te l'avrei spedito costà alla prima sicura occasione. Ora tu puoi seguitare la novella e fingere di averlo ricevuto tardi. Così almeno ti salvi dalla taccia d'ingrato e di malcreato. Sopra tutto ti prego di stare a quanto io stessa gli ho detto perchè per scolpare te non voglio passare per bugiarda. Mamianino ti prega, ti scongiura a scrivere a Biondi siccome gli promettesti.—Laudadio della Ripa attende la tua risposta per quanto già nella mia passata ti dissi.

La Violante, tua sorella, ti prega a ricordarti che Ferrari ti attende al suo passaggio per Mantova. Dico Mantova, ma non so se la Violante abbia detto Mantova o Modena. Ciò a poco monta, giacchè tu saprai di preciso il loco di sua dimora. Finita la lista delle commissioni anch'io ho qualche seccatura a darti ed è che tu mi mandi l'ordine per essere pagata dal fattore delle mesate avvenire, siccome combinammo, poichè in questo mese ei non mi ha dato nulla, dicendo di non avere da te nessun ordine.

Se poi non potessi sborsarmi il detto denaro, pazienza! non te ne prendere pena che mi proverò di starne senza. Addio, abbracciami papà e mamma ed amami siccome io t'amo, cioè non tutte le forze dell'anima mia.

La tua Costanza.

P. S. La mamma sta bene e ti saluta. Così il nostro Fusignani che per ora non conduco più a S. Angelo poichè la stagione da qualche giorno è divenuta pervers.

Addio. Quei bricconi di Martinetti e Serpieri ti salutano.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.— Luigi Biondi, letterato, nato in Roma (1786-1839). fu uno dei fondatori del Giornale Arcadico. Fra i suoi lavori ricordiamo molte cantiche ed anacreontiche, il dramma Dante in Ravenna, la traduzione delle Georgiche dio Virgilio, delle Elegie di Tibullo ecc.—Laudadio della Ripa (1790—1869), nativo di Firenze, ingegno prontissimo a vivace, cortese e munifico, dotato di non mediocre coltura, era amicissimo di Vincenzo Monti, di Giulio e di Costanza.—Mamianino è Terenzio Mamiani della Rovere.

Pesaro [ottobre 1821].

Caro Antaldo.—Ti rimando l'Aminta, un codice di Dante ed un altro di autore che non m'è bastato l'occhio a leggere per essere lingua mezzo francese, mezzo provenzale antico che non conosco. Mi restano ancora in mano due codici di Dante del tuo, ed un codice della vita de' S. Padri che desidero sfogliare, se non ti spiace. Eccoti anche le novelle di Giulio.

Addio, ama la tuissima

Costanza.

P. S. Rimandami la lettera di Giulio perchè voglio leggerla al nostro Fusignani.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. carte Antaldi.— Senza data, ma probabilmente dell'ottobre 1821 quando il Perticari in compagnia del Monti viaggiava per lo stato Lombardo-Veneto.

Pesaro, 4 aprile 1822.

Mio caro Betti.—Il mio silenzio è stato una natural conseguenza della mia malattia, la quale oltre il farmi soffrire fisicamente mi cagiona ancora tanta tristezza nell'animo da non potersi descrivere. Tu dunque mi perdonerai se ho lasciato passar tanto tempo senza dar segno di vita e farai sì che il nostro ottimo Odescalchi perdoni il ritardo degli scritti di mio padre e di mio marito, giacchè tutti siamo sotto la sferza della mala fortuna. Il primo è tormentato agli occhi da una fistola: il secondo lo è da doglie reumatiche. Nulla di meno i lavori da inviarsi sono tutti in pronto e non manca loro che l'ultima stretta.

Giulio ti prega di accozzar qualche cosa dallo scritto che t'invia di Nardi. Questi si lagna di essere stato maltrattato nelle Effemeridi per la sua ristampa della Parchetta: e vorrebbe per mezzo del «Giornale Arcadico» riasquistare un poco della gloria perduta. Dice Giulio che le carte che t'invia non valgono un'oncia di sale, ma pure te le raccomanda, acciocchè le acconci il meglio che ti sarà possibile.

Addio, mio caro Betti: teneri saluti al mio dolce figlioletto e consolami della tua amicizia.

La tua amica rera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro [aprile 1822].

Caro Antaldo.—É destinato che sempre ti abbia a dare qualche novello incomodo, come è destinato che tu, per la tua somma gentilezza, mi abbia a perdonare.

Ieri speravo di avere in mia casa il ritratto del padre di Landadio, siccome mi pare tu assicurassi ier l'altro sera, ma finora nulla è comparso. Ti prego per mezzo di qualche tuo domestico mandare ad affrettarne l'invio dal pittore: o pure (lo che sarebbe meglio) che lo stesso pittore venga a portarlo a te, perchè così gli potrei far scrivere la ricevuta che tu sai e che ho promessa a Laudadio. Addio, mio buon amico, perdona il disturbo ed ama

la tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro [aprile 1822].

Mio caro Antaldo.—Ti mando il busto della Tambroni e tu rimandami il primo volume del Dante se vuoi che ci scriva il tuo nome.

Pare che mio padre abbia deciso di partire Giovedì mattina e già lo ha scritto a mia madre. Vorrai tu abbandonarmi della tua compagnia in questi pochi giorni? Altro non dico e desidero m'intenda più che non dico. Di un altro favore ti prego. Manda a vedere da Consoli per la carta da rimettersi a Laudadio. Bramerei prima di partire di avere adempiuta per intero la commissione ch'egli m'aveva data, e tanto più che io ho vere obbligazioni a questo buon amico, nè saprei trascurare occasione, benchè minima, di dimostrargli l'animo mio.

E a te, mio caro, come e quando potrò io manifestare la mia gratitudine? Metti tu stesso il colmo ai tuoi benefici mostrandomi il modo di non comparirti almeno affatto sconoscente.

Addio, ama

la tua Costanza.

P. S. Nel movere il busto mi sono avveduta che me lo hanno rotto nel piedistallo. È cosa che si accomoda facilmente, ma te lo avviso perchè nel moverlo non si rompa del tutto.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

[Pesaro, aprile 1822].

Mio caro Betti.—Due sole righe. Avrai le tristi nostre notizie dal nostro Tambroni cui scrivo. Dal medesimo intenderai quanto desidera mio padre circa le carte che invio. Salutami tanto il mio buon figliuoccolo ed ama

la tua buon'amica
Costanza.

P. S. La Cecilia Giannantoni ti saluta.

L'autogr. è nella Bibl. V. Emanuele di Roma.—Senza data ma certamente dell'aprile 1822 per la relazione che ha con la seguente.

[Pesaro] 28 aprile 1822.

Mio caro Salvatore.—Avrei voluto scrivervi di pugno se l'indispensabile necessità dei preparativi pel nostro viaggio di Bologna e l'assidua assistenza, che pure m'è debito prestare al mio buon Padre, non me lo avessero impedito. Mi approfitto d'altra mano però per farvi conoscere la sorpresa che ha recato a mio Padre il vostro silenzio sull'involto delle carte a voi mandate riguardanti la parola = Sviare = non che alcuni suoi sonetti che bramerebbe impressi nel Giornale Arcadico. Su tutto questo si attende il vostro riscontro, che vi compiacerete dirigere a me al più presto in Bologna, dove c'incammineremo dopo domani per fargli l'operazione della fistola. Se al giungervi di questa mia non vi sarà stato recapitato il predetto involto di carte, io vi prego di ricercarle presso il corriere Aurely, cui sono state consegnate, onde rispondermi in proposito.

State bene, e credetemi a tutte prove

la vostra aff.ma
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Pesaro [1822 ?].

Caro Antaldo.—Ritengo il terzo volume del Paradiso per terminare di estrarre le varianti. Ritengo anco il codice delle vite dei S. Padri ed il primo volume dei medesimi in istampa perchè (se non ti space) vorrei portarli meco a Savignano e cavarne le varianti. Dimmi se ti pare che abbia altri libri del tuo: e in ogni caso ti serva di regola che la chiave delle mie piccole scansiole sarà consegnata alla Violante. Spero, mio buon amico, che mi consolerai della tua compagnia questa sera. Ti prego anco di consegnare a Pietrino lo specchio della tua cassetta di viaggio. Addio, ama

la sempre tua
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Savignano, [maggio 1822].

Mio caro Antaldo.—Mi perdonerai se prima d'ora non t'ho scritto: e ben per te stesso devi essere convinto che se non l'ho fatto è stato perchè non l'ho potuto. A pena vidi Costa gli feci la tua imbasciata in favore di Leonardi, il quale non si era ancora presentato quando ne parlai. Costa mi ha promesso di avere a cuore la tua raccomandazione. Sarà dunque colpa del giovane se dietro la promessa non seguirà l'effetto.

Domani spero di avere precise nuove della salute di mio padre. Io dico spero e intanto il cuore mi trema pel timore che non siano propizie. Ma che di peggio che lo stato d'incertezza in che vivo? Ti ringrazio intanto del legno che mi hai favorito. Io non lo mandai dagli Ercolani perchè mi parve ben custodito da Costa. D'altronde dopo essere stata, appena giunta in Bologna, a visitare tua cognata (che non mi ricevè) attendeva, se non la restituzione di visita, almeno qualche segno di vita. Ma nulla di ciò quantunque l'avessi fatta avvertire del giorno della mia partenza e del desiderio che aveva di portarti le sue nuove e quelle di Alfonso.

Mio buon amico, ti raccomando ciò che sai starmi tanto a cuore, ma più d'ogni cosa ti raccomando la

tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Savignano, 11 maggio 1822.

Carissimo marito.—Dalla vostra degli 8 pare che non abbiate ricevuta la lettera che papà vi scrisse prima di muovere da Bologna, rimandandovi la cambiale di scudi 400; non vorrei che da questo sconcerto di posta nascesse qualche inconveniente a motivo della cambiale suddetta. Vi sorprenderà l'intendere come delle tre lettere scritte a Costa prima della nostra partenza da Pesaro egli non ne abbia ricevuto che una, cioè la prima scritta sotto la vostra dettatura. Anco le ultime due indirizzate a mia madre, l'una delle quali indirizzata a Bologna, si sono perdute. Io non oso esaminare l'origine di tanti sconcerti che precisamente accadono solo per le mie lettere. Mi dispiace all'animo il sentirvi ancora ammalato. Se credeste che la mia assistenza vi potesse giovare, scrivetemi e lascierò di buon grado questa mia cara solitudine per eseguire il mio dovere. Vi prego ad ogni modo tenermi a giorno del vostro stato e ad avervi riguardo. Papà mi ha scritto due righe da Milano le quali nulla mi dicono di quei professori circa il suo incomodo. Questo silenzio mi tiene in grande inquietudine. Domani dovrebbe giungere la notizia della eseguita operazione. Io ne tremo al solo pensiero. D'ogni cosa che mi si scriva sarete ragguagliato.

Procurate di guarire voi pure e credetemi

la vostra aff.ma moglie
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, fondo Perticari.

S. Costanzo. giugno 1822.

Amico mio.—Ben temo io pure, e a dire il vero ho sempre temuto, che il vomito che affligge Giulio provenga da più occulta causa che la debolezza di stomaco che questi fisici accusano.

Egli, quantunque libero dalla febbre, ogni di peg giora ed è ridotto a tale che io non veggo per lui altra via di salute che la pronta venuta di Tommasini. Aggiungi che oltre il male fisico egli rovina ognora più anco nel morale sicchè è divenuto intrattabile tanto che si niega ad ogni cura, non ascolta più nessuno e maltratta tutti. Ti giuro che il suo stato esige la maggiore sollecitudine; e perciò ti prego fare ogni opera con Tommasini perchè si ponga subitamente in viaggio. E se ti è possibile ottieni che egli dimori qui il più tempo che potrà, altrimenti la sua venuta sarà con poco utile, essendo necessario che per qualche giorno almeno Giulio abbia al fianco chi gliene imponga. Ed a te pure mi conviene recare novelle brighe e ti prego in nome dell'amicizia a scusarmene. Queste sono intorno la venuta di Tommasini, giacchè la delicatezza mi vieta d'entrare seco lui in dettagli simili, specialmente in ciò che riguarda le spese di viaggio.

Ti prego dunque a disporre tu, nel modo che crederai, tutto ciò che stimerai opportuno, avvisandomi solo con chi e del quanto dovrò sdebitarmi per tutto ciò che occorrerà. Se i tuoi affari ti permettessero di accompagnarlo, te ne avrei doppio obbligo, perchè la tua compagnia lo salverebbe dalla noia del viaggio e vedendolo teco Giulio non si allarmerebbe, giacchè si fingerebbe che tu stesso glielo avessi condotto, non pel maggior pericolo in che si trova, ma per consolarlo colla visita di un tanto amico. E già di questo gliene ho dato qualche cenno. So che chieggo molto, perchè le mie istanze ti attaversano forse qualche partita di divertimento co' tuoi, ma so altresì a cui chieggo, e di qual tempra sia l'anima tua. La spedizione che ti îaccio della presente per istaffetta ti convincerà più che non farebbero le mie parole di quanta sollecitudine sia mestieri. E perciò altro non aggiungo: che se ti dovessi parlare del mio stato non saprei quali espressioni scegliere per dipingertelo al vero. Il dirti che ho la disperazione nell'anima è poco; e pure è questa l'unica parola che forse può darti qualche idea del mio tormento. Addio. Compiangi.

la tua povera amica.

L'autogr. si trova nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi. —Giacomo Tommasini, celebre medico di Bologna, scrisse in seguito la—Storia della malattia per la quale morì il Conte Giulio Perticari—Bologna, Tip. Nobili, 1823.

Cesena, 14 luglio 1822.

Mio caro Antaldo.—Ho scritto a Felici e gli ho acclusa una lettera per mia suocera che ho creduto mio dovere dirigerle.

Ad essa ho pure mandata la nota delle cose che mi appartengono che si trovano in casa Perticari. Udrai dalla lettera di Felici il resto, giacchè in questo punto appena ho la forza di tenere in mano la penna, nè potrei scriverti a lungo. Ti prevengo che in libreria di Giulio vi sono molti libri di mia proprietà che si potranno riconoscere perchè portano il mio nome. Non so se per essere essi di sopra mi si permetterà di riprenderli. —Ti prego novellamente di unirti a Felici e combinare con esso ciò che crederai meglio. Perdona il disturbo. Io mi sperava di avere qualche tua lettera in Lugo, ma purtroppo, dopo che il fulmine mi ha colpita, sembra che l'universo sia divenuto per me muto. Ti prego far ricerca alla posta e da Pierino di ogni mia lettera e inviarle tutte a Cesena. Addio, vorrei proseguire ma ho una convulsione nella mano che non me lo permette. Addio, compiangi la infelice ed infelice per sempre

Costanza.

P. S. Raccomando al buon Cassi le carte del mio povero Giulio. Vada il resto ma si salvi ogni anche minimo raggio che potesse aggiungere splendore alla sua gloria. Dopo averlo perduto, altra speranza non mi fa sopportare la vita che quella di vedere stabilito il suo santo nome nel libro dell'immortalità con tutto quel decoro e quel più di onore che per noi si potrà.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Cesena, 18 luglio 1822.

Mio caro Antaldo.—Ti ringrazio degli amorosi uffici che mi prometti e ben ti assicuro che, quanto la tua lettera mi ha intenerita, altrettanto mi ha sorpreso la fredda ed inconcludente risposta, fattami da Felici. Questo che ti dico ti serva di regola, giacchè ti sei compiaciuto promettermi la tua assistenza. Mi ha pure sorpreso che egli, dopo tante belle pa role, dopo avermi fatta fare il solenne sproposito di fuggire sino a Bologna, senza nemmeno permettermi di salutare mia suocera, si sia preso finora tanto pensiero di me, come se non esist essi: dimodochè s'io non lo richiedeva di qualche notizia, non pure si degnava di scrivermi. Ciò ti espongo sotto vincolo di segretezza, non essendo mia intenzione farne parola con Felici, ma ti sia il tutto di norma.

Il legno ti sarà rimesso al più presto, avendo già pregato più persone perchè mi ritrovino qualche occasione sicura di spedirtelo. Ti ringrazio di avermelo finora rilasciato e desidero mi perdoni se dall'averlo troppo ritenuto presso di me te n'è venuta qualche incomodità.

Mia suocera mi ha scritto una gentile lettera, ma che per termo le è dettata. S'ella avesse ascoltato il solo suo cuore, la tenerezza avrebbe occupato il posto delle gentili espressioni e questo affermo perchè conosco il cuore angelico di cotesta donna. Ringrazio il cielo ch'ella non mi abbia fatto invito per ritornare a Pesaro e, se mi ami, ti prego di non suggerire ad alcuno questo consiglio, giacchè mi troverei a troppo crudele cimento. Intorno le cose mie farai ciò che crederai per il mio meglio. Mi dimenticai di avvertire mia suocera che in un cassetto dello scrittoio vi sono altre chiavi oltre quelle consegnate a lei ed alla Violante. Nel raccogliere i miei libri ti prego cercare anco negli armari della toletta. Anzi in uno dei medesimi I libri della Macchirelli furono portati senza mia saputa a Savignano. Ella avrà la sofferenza di aspettare che io ritorni e le saranno tosto spediti. Del mio ritratto farai quanto desideri, solo desidererei che Consoli non vi delucidasse sopra il disegno. Insomma io lo consegno a te. Scrivo due righe a Gordiano, quantunque egli non si sia degnato scrivere nulla a me. Ma ciò non monta. Desidero che il mondo sappia che tutto ciò che ha avuto qualche vincolo col povero mio Giulio è per me cosa sacra. Io non ti darò nessuna imbasciata per li miei molti amici di Pesaro. Dacchè sono caduta nel profondo della miseria, tutti sono divenuti per me muti; anche il conte Macchirelli. Oh gl'infelici sono peggio che appestati! Ma questo pure il ricevo per mio meglio; giacchè prima di dividermi da tutto ciò che ha vita è bene che impari a conoscere quanto sono rare le anime degne di sentire tutto il prezzo della vera e leale amicizia.

Ti avviso non essermi pervenuta in Lugo niuna tua lettera. Forse mi sarà stata ritardata. Addio, mio caro amico. Di me nulla ti dico, poichè la mia sciagura mi ha tolta del tutto a me stessa, sì ch'io null'altro bramo che raggiungermi a colui che si è portato seco la migliore parte di me. Raccomanda a Cassi le sue carte, la sua gloria. Per quanto avete tutti di più sacro ponete mente a questo, nè vi date riposo se prima non avete pagato questo sacro tributo alla santa amicizia. I miei angeli tutelari cioè Roverella e la sua buona sorella ti abbracciano. Tu rammenta qualche volta la più misera delle donne.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Cesena, luglio 1822.

Caro Antaldo.—La lettera potrai comunicarla, se buono il credi, a Felici. Ma a te in segreto, e per tua norma, dico che converrebbe trasportare fuori di casa Perticari la roba mia, cioò, ciò che più mi preme, i libri ed i quadri, prima che giungano i miei cognati. Questo è anche il consiglio di Roverella e di chiunque ho consultato, conoscenti il carattere di Giuseppe e di Gordiano. Solo che ne diciate una parola a mia suocera sotto qualche pretesto ella non impedirà che si faccia. Se ti riuscisse di salvarmi per memoria di Giulio il Convito di Dante da lui postillato te ne sarei più grata.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Pesaro, luglio 1822.

Mio caro Antaldo.—L'affare delle carte è vicino a precipitarsi del tutto, se tu non lo prendi fortemente a petto. Ho inteso ieri sera che Gordiano fissava a questa mane la visita delle carte, ma a me non disse nulla. Se il solo mio padre sarà presente a quest'atto, la mala fede e la malignità poco avrà a faticare per rovinare la gloria del povero Giulio. Ah! non si rimanga in colpevole ozio la tua amicizia. Il mondo ti sarà grato di ogni ufficio che adopererai in favore della fama del tuo disgraziato amico, e salverai me dal rimprovero che già suona nel pubblico di non aver operato quanto poteva e doveva. Ti tocchi anche un altro riguardo. Quest'affare può divenire seme di eterna divisione fra la mia famiglia e la famiglia Perticari. Lo che accadendo, ci rivedremo noi più? Vieni tosto. A voce dirò il resto. So ti movi tardi, forse arriverai inutile. Mio caro amico, so che le mie più calde preghiere riesciranno vane se ricusi di investirti della mia situazione, ma, se interroghi il tuo cuore, potrà egli rimanersi muto in cosa che mi è mille volte più cara della vita? Per amor del cielo non frammettere dimora, te ne scongiuro.

La tua povera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Agosto 1822.

Mio dolce amico e benefattore.—Non mi parlare della mia partenza; la sola idea di questa mi serra il cuore. Ah! che pur troppo i miei sacrificî non sono al lor termine. Dio che mi ha dato la forza di compiere il più terribile, spero mi darà altresì quella di rassegnarmi agli altri. Ma intanto l'anima mia soffre mortale agonia. Il dovermi sottomettere ad una determinazione per me tanto fatale, quale è quella di trascinarmi a Milano, m'empie di spavento. Io ho dinanzi gli occhi tutti raccolti in un sol quadro i pericoli ai quali vado incontro: e sento e conosco che senza un miracolo del cielo non potrò scamparne. Il più terribile di tutti sarà per me le preghiere di mio padre e le istanze di mia madre. Io prevedo che dessi faranno di tutto per distormi dalla vita che in cuore ho deciso di condurre. Due sole speranze di salute mi rimangono: l'una, ed è anzi la principale, l'ho riposta in Dio: l'altra nella vera avversione che m'inspira il mondo: avversione non nata dall'impeto di disperazione in che suole gettare ogni profondo dolore, ma dalla conoscenza che ho del mondo stesso, e che da gran tempo mi avea aperta la mente. Io oso credere di possedere in essa un pegno sicuro dell'assistenza di Dio, poichè nulla può essere di buono in me che non sia dono di lui. Tutto ciò che tu medesimo con tanta indulgenza in me lodi. che altro è se non l'effetto della sua misericordia?… Ah! vegli questa per me, e sarò forte abbastanza per tutto vincere e tutto soffrire. Ma chi mi consolerà della tua lontananza? Ti giuro che mi sarà grave il dividermi da tutti quegli esseri pietosi che mi hanno assistito nella crudele mia sciagura: ma il dolore di lasciar te e il buon segretario vince ogni dire. L'anima mia resterà però sempre abbracciata alla vostra co' più santi vincoli di gratitudine e di affetto. E se mai sarò degna d'ottenere dal cielo consolazione alcuna, io non gliene chiedrò mai altra che quella di rivedervi. Porto meco pur anco un'altra amarezza: quella dico di non aver conosciuto di persona il degno canonico che t'è piaciuto consultare intorno le mie angustie, e di non averlo potuto ringraziare a voce della pietosa cura per me pressa. Ah compi tu questo tenero ufficio: sii tu interprete presso lui del mio cuore; digli molto imperocchè mai non dirai abbastanza, ch'io non senta anco di più. Non è però possibile ch'io parta senza rivederti. Ti rivedrò a Savignano, ove mi tratterrò alcuni momenti per ringraziare i buoni Gregorini della carità usatami: mi tratterrò due giorni a Cesena dai Roverella, ed ivi pure avrò, spero, la consolazione di abbracciarti. Più difficile riescirammi il rivedere il segretario. Egli forse al mio passaggio per Rimini sarà in visita; ed anco non fosse, troppo brevi istanti mi saranno concessi di fermata colà, e forse appena bastanti per dirgli addio. Quest'idea mi opprime, tel confesso. Quell'uomo mi ha legata l'anima sì fortemente, che un fratello non potrebbe essermi più caro. Ma… tutto, tutto m'è forza sacrificare, persino le uniche consolazioni che mi rimanevano in tanta sciagura. Voglia Iddio rendermele un giorno! o se altrimenti dispone, mi dia la forza di rassegnarmi, imperocchè io per me stessa non saprei. E tu, mio pietoso e vero benefattore, non abbandonarmi de'tuoi consigli e delle tue preghiere a Dio. Soprattutto tranquillizzami sullo stato di tua salute, poichè la tua ultima lettera mi ha posta in crudele angustia per quanto mi diei intorno la medesima. Quei presentimenti che tu di' avere del mio ritorno, siccome hanno alquanto confortato me, così te pure confortino, poichè se' tanto buono da sentire dolore della mia perdita. Perchè io parta, non perciò cessano in me quei voti che mi richiamano a te vicina: nè cessaranno, se Dio m'assiste. L'adempierli in oggi saria stimato impeto di disperazione: verrà forse giorno in che sarà manifesto ch'essi partivano da più degno principio. Ma checchè disponga di me il cielo, tieni per fermo ch'io non ho altra brama che di chinare il capo ai suoi voleri. Non è certo senza qualche fine divino, che Dio ha stabilito nel mio cuore questo sentimento. Ah tu m'impetra di non cancellarlo da esso giammai per qualunque sciagura mi percota: poichè grida in me una voce che mi avvisa non essere al loro termine le mie disavventure. E già vanno queste crescendo ogni di più. Quanto udirai dalla mia lettera d'ieri te ne farà fede. E rapporto alle carte ascolta il resto. Ieri sera sul tardi giunse a mio padre una lettera di Cassi il quale lo avvisava di aver consegnato a Gordiano tutte le opere del povero Giulio, meno quelle che dal medesimo furono affidate nelle sue mani prima di morire, con calda raccomandazione che non passassero in quelle di altri. E queste quelle appunto sono che mi stanno più a cuore. Ma una più meschina trama non potevasi ordire. Come mai può Giulio aver consegnate a lui delle carte, che non aveva seco a S. Costanzo? carte che da più anni dormivano nella sua libreria perchè il lavoro della Proposta e della origine della lingua italiana tutto l'occupavano. Carte alle quali egli non poteva por mente ne'tempi in che viviamo. Anzi nè queste, nè altre aveva portato seco, giacchè era sua intenzione il fermarsi soli pochi giorni in S. Costanzo, e poscia venire a Savignano. Più: prima di partire disse alla sorella (e stava per salire in legno) che voleva respirare un po'di buon'aria fra que'colli in perfetto ozio: nè fu visto portare altro che poche camicie: e non libri: non portafogli: non carte di sorte alcuna. Mi si può rispondere che senza avere colà quelle opere, poteva egli farne dono a Cassi, e raccomandargliele: ma il povero Giulio fu lusingato della vita fino quasi l'ultimo suo respiro. Tanto è ciò vero che quando a mia istanza s'indusse a ricevere i sacramenti disse a Perotti ch'egli non si era mostrato ritroso alla sua voce se non perchè anco poche ore prima il medico l' avera lusingato di guarigione. Dopo la comunione egli non ha più parlato che brevi d interrotte parole. Pure convengo che fra queste egli poteva racchiudere il dono e la raccomandazione accennata da Cassi. Ma Cassi già da più giorni, anzi da molti giorni non metteva più piede nella camera di Giulio. Come dunque può avergli parlato? Per mezzo d'altri? ma io, che mai non lo abbandonavo, me ne sarei avveduta. Per mezzo del confessore? ma il confessore protesta che non gliene fece parola. D'altronde, quando io più morta che viva, prima di partire raccomandava a Cassi tanto caldamente ogni sua opera, perchè a mia quiete non mi avvisò egli delle disposizioni di Giulio? perchè non le manifestò egli all'arrivo di Gordiano? o almene al momento di far la consegna del rimanente? perchè si nasconde egli con tanta precauzione dalla presenza di mio padre e mia? Perchè ricusa di almeno esaminare in nostra compagnia ciò che tiene in sua mano? egli invece invita mio padre solo a questo esame in S. Costanzo, ove è sicuro che mio padre non porrà mai il piede, giacchè non soffrirebbe il cuore a questo buon vecchio di condursi colà. Egli termina la sua lettera senza neppur rivolgermi un saluto: e protestando che risguarda quelle carte come sua proprietà pel dono che gliene ha fatto il defunto. tutte queste ragioni ho io francamente aperte prima ad Antaldo (che mi pare freddo oltre il dovere in quest'affare) poscia allo stesso mio padre che è rimasto colpito della lor luce. Ma ciò sarà per brevi istanti, giacchè quest'uomo è di tanta buona fede che si appagherà ad ogni scusa che gliene faranno. Qui certo si ordisce inganno, ma ancora non saprei dire se Gordiano sia d'accordo con Cassi, o Cassi solo sia l'ingannatore. Io, nel mio interno, li tengo per tali entrambi, e vivo sicura che se mio padre non avrà altri al fianco che Antaldo, tutto è perduto: e la gloria, la fama di Giulio sta in pessime mani. Il solo Roverella poteva aiutarmi. Io gliene scrivo per questo stesso ordinario, e se tu pure il facessi, te ne sarei ben grata, tuttochè non mi rimanga più speranza di buon esito. Intanto io farò una nota delle cose che so di certo dovere esistere di Giulio. Quell'anima grande non avrà a rimproverarmi che abbia lasciata intentata alcuna via per salvargli ciò che più cale della vita. E se le mie diligenze riusciranno inutili il pubblico saprà con quale arte infernale si è abusato della dolorosa mia situazione per allontanarmi prima, onde la mia presenza non impedisse sì nero tradimento, e come poscia per isbigottirmi si sono adoperate tutte le armi più vili della calunnia e della malvagità contro di me. Poichè, sappilo, a questo sono giunti. Ti ho scritto fin qui ieri notte che battevano le quattro dopo mezza notte, e fra il male di stomaco e la stanchezza non so se mi sarà riescito farmi intendere. Ora riprendo la penna che suonano le tre dopo mezza notte; e debbo domattina assai per tempo mandare la presente al conte Paolo prima che parta il corriere. Sono costretta a prevalermi delle ore della notte, perchè fra giorno mio padre non mi abbandona e vuol cacciare il naso in tutto quello che scrivo. Oggi ho avuta la più cara visita che mi potessi desiderare: dico quella di Nardi e del segretario: e se tu li avessi potuto accompagnare nulla sarebbe mancato alla mia consolazione. Dio ha voluto anco in un'altra maniera amareggiarmi questa dolcezza. Mio padre si è fitto in capo che la mia tenera ed innocente amicizia pel segretario parta da non sana sorgente. Non ti so esprimere il dolore che mi ha cagionato un sì villano sospetto. Non ho potuto nascondere il turbamento dell'animo ed il segretario facilmente mi ha letta sul volto la verità. Io non l'ho celata nè a lui, nè a Nardi, poichè non avendo pur un pensiero a rimproverarmi, avrei voluto anzi che no, che tutti mi si vedessero scolpiti in fronte. Ho detto al segretario di parlartene; e desidero che tu lo calmi avendo egli più bisogno di me di questo pietoso ufficio. Passato il primo momento, la tranquillità ha ripreso in me il suo loco; poichè (come ho pur detto al segretario) la mia causa è in buone mani! Dio stesso deve difenderla, essendo quella della innocenza. Non è la prima ingiustizia che soffro, non sarà l'ultima: ma ciò che mi fa meravigliare di me medesima si è la quiete profonda in che riposo, malgrado una guerra così ostinatta. Io non so addolorarmi che di due sole cose: della perdita del mio Giulio e della vicina mia partenza. A queste aggiungerei anco il timore della smarrigione delle carte di quell'ingegno divino, ma quando penso che ciò non accadrà senza disposizione divina, non so, anco volendo, inquietarmene. Addio, mio caro amico. Nel prossimo ordinario udirai il resto di questa trista istoria. Vado a letto, quantunque non mi senta niuna voglia di dormire. Ma sono stanca. Tu riposa tranquillo, nè la memoria delle mie sventure turbi i tuoi sonni. Dammi subito notizia di tua salute, e fa che anco il nostro buon segretario curi la sua. Prega Iddio pel mio caro Giulio, e per la tua povera

Costanza.

In—Lettere inedite e sparse di Vin enzo Monti—raccolte da A. Bertoldi e G. Mazzatinti. Vol 2.0. pag. 355, in nota. A chi sia indirizzata questa lettera non mi fu dato di accertare. L'autogr. si trova nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

Pesaro, Iuglio 1822.

Mio caro Antaldo.—Nella mia presente durissima condizione non potrei nè potendo vorrei servirmi di molti abiti la cui foggia e il cui colore mal si conviene colla mestizia che ho nell'animo. Per non portarmi dunque dietro un peso inutile fino a Milano, ho deciso di venderli, e ne ho incaricata la Felici. Solo questa sera gliene ho fatto la consegna, giacchè non ho voluto disporne prima di sapere se la legge riconosce per mio ciò che ho comperato col mio spillatico. Tutto ciò che troverai notato nella lista che ti accludo è rinchiuso in due involti, i quali però la Felici ha ordine di non aprire che in tua presenza. Se lo credi necessario io sono pronta a provare capo per capo che le dette cose sono state acquistate dopo del mio matrimonio, anzi la maggior parte molto tempo dopo e indic herò il dove le ho prese, il come le ho avute, e le persone che me le hanno fatte tenere. Ti avverto che ho stimato meglio il mandare i detti effetti di sera, giacchè non ho voluto espormi alle ciarle che si sarebbero fatte nel vedere uscire di giorno da casa mia (o per meglio dire da casa Perticari) un servitore con due grossi involti sotto il braccio.

Pur troppo ho alle spalle chi spia ogni mio passo per interpretarlo sinistramente. Ti avverto ancora che la nota che t' invio è stata fatta a memoria, dopo che già i fagotti erano chiusi, sicchè nell'aprirli tu vi trovassi qualche capo di più (lo che non credo) attribuiscilo a mancanza di mente. Anzi nella lista che ne ho data alla Felici mancano li capi segnati col numero 11 e 12 che non aveva ricordati nello scriverla. Ti prego dunque portarli il più prontamente che ti sarà possibile dalla Teresina, e ciò ti chieggo per quiete di mia coscienza. Anzi le dirai che mi rimandi lo scialle giallo, perchè essendo dono di mio marito, ho pensato di non privarmene, quantunque pel suo colore non possa più servirmene.

Perdona tanti disturbi ed ama la tua infelice amica

Costanza.

Ecco la nota acclusa alla lettera:

1. Un ferraiolo di gros de Naples foderato di velluto di cotone.

2. Un abito di merinos rosso.

3. Un abito di seta a cordonetto turchino.

4. Un abito di tulle ricamato in seta rossa e bianca.

5. Un abito di velluto nero.

6. Uno sciallo di fondo giallo con fiori.

7. Un abito di mussolo guarnito di pizzo e sott'abito uguale.

8. Una sciarpa di velluto.

9. Una pezza di mussolo.

10. Altra di mussolo ad uso di tela battista.

11. Un abito di circasso giallo guastato.

12. Due abiti bianchi di doboletto.

L'autografo è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Cesena, agosto 1822.

Caro Antaldo.—Se ascolto la mia ragione, la quale mi dipinge co' più vivi colori il dolore che avrei provato nello staccarmi dalle tue braccia in quegli ultimi crudeli momenti della mia dimora in Pesaro, ben sono forzata a perdonarti di non esserti fatto vedere, ma se ascolto il mio cuore, questo mi grida che ti sei mostrato troppo inumano e che non meriti perdono. Ho duopo di molto coraggio per non lasciarmi vincere dall'amarezza che questo pensiero mi cagiona e perciò non ne dico di più.

Dirai a Felici che egli ha male interpretate le vocali di Gordiano, e che ciò gli serva di norma per interpretarle meglio rapporto agli affari della nostra Violante e dell'infelice figlio del mio Giulio. L'anello non mi è stato concesso nè in dono, nè in compra e ti confesso che la perdita di un pegno sì caro mi addolora, quanto non saprei esprimerti. Se avessi preveduto una barbarie simile, avrei piuttosto gettati dalla finestra tutti i mobili del mio gabinetto che ho ceduti in dono a questo mostro di avarizia; i quali compresi le tendine ed il tappeto montano a una settantina di scudi.

Mio padre pure n'è amareggiato: ma per ora basta. Da Bologna ti scriverò cose che sembrano incredibili e che solo ho imparato qui in Cesena dai Roverella.

Ti prego fare una visita per me alla mamma e alla Violante. Salutami Felici, la Teresina, il Conte Paolo, e dirai a tutti che loro scriverò la Bologna.

Addio, ama sempre la tua povera

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Bolgna. 1 settembre [1822].

Mio caro Nardi.—Fra due ore io sarò sulla via di Milano, e perciò non ti scrivo che poche righe, essendo stretta da mille piccole brighe che occupano tutti gli istanti di questa mia breve dimora. Lascierò la presente a Costa il quale si è incaricato di metterla in posta nel prossimo ordinario; e perchè il tempo mi manca a compiere tutti li desideri del cuore, ti prego che questa medesima lettera sia fatta comune al mio caro Bignardi, e al mio Salvagnoli, cui dirai che scriverò loro da Milano subito che mi si conceda qualche momento di calma e di libertà. Non ti parlo del mio stato crudele: e basti il confessarti che egli peggiora e moralmente e fisicamente ogni dì più, dopo l' ultima mia partenza da Cesena. Nulla di meno ravvivo più che posso il mio coraggio, e mi sento, o parmi di sentirmi rassegnata a tutte le sciagure che so essermi preparate nell' avvenire. Dirai a Salvagnoli che lo ringrazio della pietosa sua cura in onorare la memoria del mio sempre adorato Giulio colla gentile sua musa: ma se egli non vuole amareggiarmi maggiormente tolga via dal suo componimento ogni verso, ogni parola che sia in offesa di Cassi o di altri simili a Cassi. Circa la infernale condotta tenuta da colui contro me, io non permetterò si dica sillaba: e circa l' aver egli trafugate le carte del povero mio marito sarà mio pensiero aprire gli occhi al pubblico, acciocchè non mi accusi di negligenza in questo misero affare. Ma io mi limiterò a raccontare la semplice storia; e nominerò Cassi senza che traluca nelle mie parole il minimo segno di sdegno o di vendetta. Il Salvagnoli non negherà la grazia che gli chieggo: egli ha l'animo troppo gentile e troppo pieno di pietà e d' amicizia verso me perch'io dubiti della sua condiscendenza. Salutalo caramente; abbi tu per lui cura della sua salute. Addio, mio caro Nardi. Ama tu pure un'infelice che porta scolpita nel cuore la memoria delle tue pietose cure, le quali ricambio con tutta la forza della più tenera gratitudine ed affezione.

La tua Costanza.

In—Spigolature letterarie inedite—di L. Amaduzzi, Savignano, Tip. dei Filopatridi. 1802. L'autogr. si trova nella Biblioteca civica di Savignano di Romagna.

Milano, 11 settembre 1822.

Mio ottimo amico.—Mi veggo priva di tue notizie quando sperava di trovarle qui al mio ritorno, e se ciò m'accori. non è bisogno che il dica. perchè tu il sappia. Ti scrissi da Cesena e da Bologna: ora posso darti le compiute notizie del nostro viaggio, il quale è stato melanconicissimo, ma felice; e tanto più fortunato, che il giorno dopo il nostro arrivo alla medesima ora che noi eravamo giunti. è stato assassinato un viaggiatore quasi alla porta di Milano e sulla strada nostra stessa. Io non so se debba tributare a mia buona o trista fortuna l'essere campata da quel pericolo, tanta è la malinconia in che vivo, specialmente dopo avere abbandonata Cesena. Ad accrescerla si aggiunge l'angustia che mi tormenta per la salute di mio padre, il quale da qualche tempo pare non godere più della solita sua robustezza. Oggi sta meglio: ma non me ne contento: e avvezza come sono alle più crudell sventure, io m'imagino tutto tinto in bruno l'avvenire. Mia madre opera quanto può per distrarmi, non impedendomi per nulla la libertà di vivere solitaria. La sua compagnia essendo priva di vivacità, mi giova più che la dissipazione d'una numerosa società. Ma io ho la morte nel cuore e ogni di più sento e piango la perdita del mio povero Giulio. Consolami colle tue lettere e colle tue notizie e dona a questa pietosa cura qualche momento di quelli che hai più liberi.

Mi saluterai tanto la Felici, cui scriverò nel prossimo ordinario, mancandomi il tempo di farlo in questo. Ti prego trascrivermi quei due periodi delle due mie lettere di che ti parlai. Non ti sia discara la memoria di un'infelice che tanto ti debbe e più ti dovrà se le manterrai intera sempre la tua benevolenza. Addio, mio buon amico. Ama

la tua povera Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 15 settembre 1822.

Se quei teneri sentimenti che a te mi legano si potessero manifestare per via di parole, vorrei spendere l'intiera mia vita a parlartene. Ma, per quanto te ne dicessi, avrei sempre di che più dirtene ed io amo meglio tacermi che debolmente esprimere ciò che sì fortemente sento. Tu dunque leggimi nel cuore, poichè (già te lo dissi) è privilegio delle anime gentili l'intendere un si fatto silenzio, e l'anima tua ben vince ogni più raro esempio di cortesia e di gentilezza.

Avrei amato meglio la tua liberalità, se non ti avesse fatto così largamente sorpassare i termini della mia domanda per rapporto a C[assi], almeno non avrei ora a rimproverare a me stessa di essere troppo indiscreta. Ma poichè in niuna circostanza puoi essere dissimile da te medesimo, questo solo mi resta a dirti, che non la morte mi scioglierà dall'affetto mio e dalla mia gratitudine verso di te. Io sospiro il momento di rivederti, e pregoti avvertirmi precisamente del giorno del tuo arrivo in Milano, acciocchè la fortuna non m'invidii una tanta consolazione. La data della presente giustifichi questo timore, ed insieme mi scolpi dell'aver tardato a riscontrare la tua carissima, la quale ha dovuto fare più lungo giro per giungermi; e sappi ancora che se tu passassi per Milano, senza che ti vedessi, mi si rinnoverebbe tutto il dolore che già provai nel lasciarti a Pesaro. Nè credere che tempo o circostanza abbiano diminuito alcuna delle tristi sensazioni che in quell'epoca funesta mi straziavano, no, giammai. E così come in allora, così come oggi, così sempre l'anima mia arde nell'adorata memoria e nell'amore del mio Giulio e nella santa amicizia che a te, e ai pochi che t'assomigliano, mi lega. Sempre

tua aff.ma
Costanza.

In—Lettere della Contessa Costanza Monti Perticari a Laudadio della Ripa—Firenze, Le Monnier. 1877.

Milano. 6 ottobre 1822.

Mio caro amico.—Prima che mi giungesse la vostra carissima del 24 scorso, le crudeli strette a che mi trovava, il vostro silenzio, l'amore di figlia mi avevano già fatto abbracciare il consiglio al quale, se non erro, mira la vostra lettera. Tutti i manoscritti che riguardano il Dittamondo sono dunque già in mano di mio padre e, nel consegnarli, a questo solo ho ristretto la mia preghiera: a raccomandargli cioè l'onore di Giulio (il quale voi sapete quanto fosse lontano dal bruttarsi in queste meschine liti letterarie) e a concedermi che sia fatta debita menzione di lui nelle correzioni che si trarranno dal suo testo per servire allo scritto dell'Anonimo. In quanto alla pubblicazione d'esso testo. mio padre ne farà il piacer suo. Non voglio però tacervi che, dovendosi pubblicare con le note, prevedo che non verrà mai più alla luce essendo questo un lavoro di grande, lunga e sterile fatica alla quale mio padre non è in istato di sottoporsi; sì perchè converrebbegli passare delle molte giornate nelle pubbliche biblioteche a consultare da capo a fondo autori, coi quali la sua pazienza ha fatto divorzio, sì perchè la vista non gli reggerebbe. sì perchè dopo la perdita della sua pensione egli è costretto a scrivere per guadagnare e voi sapete che in quest'opera tutto il prodotto de' suoi sudori deve versarsi nella borsa del signor Gordiano. Queste considerazioni mi avevano determinata a riscontrare io stessa tutti gli autori citati da Giulio, copiando per ordine sotto il testo di Fazio i passi da lui esaminati. sicchè non rimanesse a mio padre altra fatica che quella che risguarda la parte critica, la quale non gli avrebbe costato molta perdita di tempo e molto disagio.

Nè ciò era al disopra delle mie forze, perchè in questo richiedevasi molto più di diligenza e di pazienza che d'ingegno. E già m'ero posta al lavoro. Come un intempestivo prurito di litti letterarie sia venuto ad interrompare il corso delle mie tenere cure non debbo io dire. Se alcune ciarle sono insorte per avere io insistito nelle due suddette domande fatte a mio padre e per aver mostrato dispiacere che il nome di Giulio fosse implicato in siffatti pettegolezzi. ciò non è mia colpa, e potrei provarlo, se la mia giustificazione fosse articolo d'importanza. Io dovea compiere il mio dovere e come moglie e come depositaria di quegli scritti: e se questo dovere non è stato per me in tutte le sue parti interamente compito me ne scolpi l'amor di figlia. So che molte rispettabili persone, tenere della memoria di Giulio, mi condannano d'aver cedute quelle carte… ma i loro consigli erano troppo violenti per usarli contro un padre e qualunque sia la conseguenza del passo che ho arrischiato, la mia coscienza è tranquilla quantunque già sappia sin d'ora che, se male ne avverrà, in me sola si rivolgeranno le accuse e le persecuzioni. In quanto vi ho detto vi sarà chiaro che la vostra lettera venendo in aiuto delle mie considerazioni mi è giunta doppiamente cara, quindi dopiamente ve ne ringrazio, benchè in essa vegga più in là che non osate dirmi e rapporto alle vostre stesse opinioni e per rapporto alle altrui. E rispondendovi liberamente dirò che tanto le prime mi addolorano, altrettanto disprezzo le seconde. Dirò che troppo sono infelice e troppo vittima della perfidia e dell'ingiustizia degli uomini per non aver imparato a conoscerli; nè gli uomini si ponno conoscere senza altamente disprezzarli e fuggirli, e, se il mio cuore ne fosse capace, aggiungerei odiarli. Quindi non avrò riposo finchè non abbia posto fra la loro società e la mia persona tal muro di divisione, che nè possanza umana, nè divina possa più sormontare. E a questo sol fine tendono i miei voti, le mie azioni e tutte le forze dell'anima mia. Che se vivo tuttora tra si detestata genia, egli è perchè non posso provvedere al riposo de' miei giorni infelici prima d'essermi sciolta d'ogni impeguo contratto al capezzale del mio moribondo marito: egli è infine perchè nel dividermi dal vecchio mio padre, voglio essere sicura che la mia lontananza non gli costerà una sol lagrima di dolore. Veggo che mille ostacoli mi si attraversano, ma dovessi pure passare per una lunga via di zolfo ardente. ciò mi sarebbe meno orribile che l' orribile consorzio degli uomini.

Pensate dunque quanto poco mi tocchi e la loro lode ed il loro biasimo. Oh misera la virtù che non fonda altro premio che nel plauso! Voi mi direte che nel plauso di pochi onesti deve fondarsi, e anch'io un tempo il credetti. Oh fallace speranza! L'ora della sventura è giunta, e tali onesti ho io veduto che potevan far testimonianza per la verità, (perchè la verità era ben tutta loro palese) e salvare con una sola parola l'infelice lacerata dal dente velenoso della calunnia; invece l'hanno in silenzio abbandonata a tutta l'ira di quella. E non mi dite che tali uomini sono mostri, poichè il solo lor nome, se il pronunziassi, potrebbe farvi temere d'aver bestemmiato. No, no, non è il grido di costoro che determinerà al tribunale della mia coscienza il peso delle mie azioni. L'Italia tenga pur dunque, come voi supponete, gli occhi aperti sopra di me; io gli ho chiusi all'universo intero, ed invano sorgerebbero ancora mille Ferri e mille Cassi in tutto il loro furore ad inveire contro una misera già morta ad ogni morale esistenza. Parlatemi piuttosto di ciò che il dovere di moglie e di figlia richiede e la vostra voce troverà tutte le vie aperte per giungermi al cuore. Mostratemi che lo scopo delle vostre parole è solo la gloria del mio Giulio e la pace del mio povero padre, ed io volerò a questo scopo, senza bisogno d'altri stimoli che quelli dell'amore e della natura. E quando il cielo mi fosse tanto cortese, additatemi il mezzo di pagare a forza di beneficî tutto il male che gli uomini mi hanno fatto, e benedirò il vostro nome come quello d'un Dio. Ma non dite mai più che dalla loro approvazione debba mendicare il premio de'miei sacrifizî, poichè temerei che sotto a questo aspetto la virtù stessa mi divenisse insopportabile. Pensi il mondo ciò che gli aggrada; io farò ciò che debbo, e ciò che doveva ho fatto quando nel duro conflitto in che mi aveva posto il dovere di moglie e di figlia ho ricorso a voi. amico del mio Giulio e tenero della sua gloria, per ottenere consiglio. Quello che mi avete dato è franco, è leale ed io ve ne ringrazio, e mi compiaccio d'averlo prevenuto nell'esecuzione. Ora null'altro mi resta che lo sciogliermi, siccome protesto, da ogni responsabilità per l'avvenire. In quanto al Convito ho insistito perchè sia tolto dalle mani di Gordiano per le stesse ragioni che avevano indotto Giulio a non permettere che uscisse dalle mie.

E in questo e in altro, tutto ciò che accadrà a seconda de' miei teneri voti per la gloria di Giulio l'avrò come un beneficio del cielo e se avverrà il contrario mi resterà la consolazione d'aver compito il mio dovere. Voi datemi quella di udirvi finalmente in rifiorita e stabile salute ed assicuratevi che le vostre lettere sono un balsamo pel cuore straziato della infelice.

Costanza.

P. S. Vi ripeto ch'attendo con impazienza notizie della vostra salute; se dunque non poteste scrivermi voi, fate che altri per voi mi scriva, purchè non sia persona di mia conoscenza, tranne mio cugino, il quale vi prego di abbracciare per me caramente.

In—Lettere di Vincenzo Monti e di Costanza sua figlia—pubblicate da Achille Monti per le nozze Manzoni—Ansidei, Imola, Tip. Galeati, 1873. L'autogr. si trova nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Milano, 18 ottobre 1822.

Mio caro Antaldo.—Ho passato gli scorsi giorni sulla Brianza per ordine del medico e prima di partire per la medesima lasciai qui persona incaricata di ritirare dalla posta le mie lettere e spedirmele colà. Ma infelice in tutto dovevo esserlo anco in questo; e le tue lettere insieme a quelle degli amici miei hanno dormito in posta senza che il mio incaricato siasi preso la minima briga per farmele pervenire. Imagina quindi in quanto doppia tristezza mi abbia immerso il tuo supposto silenzio e quello de'miei più cari. Appena messo piede in Milano ho mandato io stessa in cerca de'tuoi caratteri e nel vederli mi si è tolto un grave peso dal cuore. Io ignorava quale effetto avessero prodotto sull'animo di molti le infami satire che Cassi mi ha pubblicato contro. Quindi non avrei mai osato rompere per la prima il duro silenzio in che era lasciata. Ora respiro e ti ringrazio della pietosa memoria che di me tieni. Tu di' che Cassi ha scritto a Mustoxidi, acciocchè questi il raccomodi con mio padre, ma permettimi di dubitarne. Come potrebbe egli con una mano implorare perdono dal padre, mentre coll'altra tuttavia immerge il pugnale del dolore nel cuore della figlia? Vero è che egli ha scritto e Dio sa con quale scopo.

Mustoxidi gli ha risposto senza parlare nè a mio padre, nè a me: e questo so pel canale di un amico che ha letto la sua risposta ed assicura che è degna del nobile suo animo. La guerra che Cassi mi ha mosso è ben vile, amico mio, e più vi penso, meno so darmi a credere che egli non senta questa verità. È natura del tristo l'accrescere il peso delle altrui sciagure, ma l'inveire contro un corpo già morto, come io mi sono, è matta crudeltà.

Se era sua mira il gettarmi addosso l'odio del pubblico, non doveva farlo calunniando il mio cuore, alterando la verità dei fatti e cimentandomi a difendermi a carico suo.

Del resto io seguiterò la dura via in che mi ha precipitata il mio crudo destino, senza rivolgermi a cercare altra strada che mi scampi dalle insidie che mi sono tese. Volesse il cielo che Cassi sapesse trovare e inventare tale tormento, che avesse forza di scuotermi almeno per brevi istanti dal cupo mio dolore. Ma purtroppo tutta l'umana ingiustizia riunita non giungerebbe a tanto. In mezzo alle crudeli mie angoscie, un raggio di gioia mi ha rasserenata udendo che finalmente il nostro ottimo Felici ha ottenuto da mia suocera che le ultime volontà dell'adorato mio Giulio siano adempiute. Ma mi sembra indispensabile il levare dalle mani della non buona sua madre il figlio del medesimo, ponendolo in qualche collegio e procurandogli un'educazione onorata.

Se a questo facesse contrasto il silenzio in che deve star sepolto il testamento di mia suocera, non potrei io stess supplirvi? mi sarebbe ben dolce, anche a costo di qualunque sacrificio. il farlo e se tu volessi parlarne al nostro Felici e disporre con lui quanto occorresse all'adempimento di questa disposizione, mi sottoscriverei ad ogni vostro cenno. Ti prego di non negarmi questa novella prova della tua santa amicizia: che ne avrò obbligo a te e a Felici come di novello beneficio. Intorno al testamento nulla mi si scrive in dettaglio, e sarei ben grata a chi me ne informasse. Ringrazia intanto Felici delle cure pietose ch'egli si è addossato. Io stessa gli scrivo per questo ordinario, ma desidero che tu pure gli faccia manifesta la mia gratitudine.

Dirai al Conte Paolo mille cose affettuose per me, assicurandolo che nel prossimo ordinario dirigerò a lui stesso le mie notizie, come pure alla mia cara Violante e all'ottima mia suocera, alla quale scrissi da Bologna, non immaginando che la mia lettera prendesse altro cammino. Ora che dalla Violante intendo non esserle giunta, le scriverò novellamente indirizzando a te ed alla Violante stessa la mia lettera. Mio padre ti abbraccia, come pure mia madre ed Aureggi. Dammi più spesso tue notizie e ricordati che al mio stato deplorevole io non ho altra consolazione che la tua amicizia e quella di altri pochi che ti somigliano.

Addio, ottimo amico mio, compiangimi ed amami.

La tua povera Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 26 ottobre 1822.

Mia buona madre.—Mi permetta di usare seco lei di un titolo che dieci anni di felicità passati al suo fianco, e la mia tenerezza per lei, e le mie presenti acerbe sventure hanno stampato a caratteri indelebili nella più cara parte dell'anima mia. Io so che male giudicherei il cuor suo, se temessi con questo di offenderla: e forse nemmeno m'inganno, se mi do a sperare di esserle tuttora viva nella memoria, come se ancora le vivessi vicina. Una sorte funesta ad entrambe, o piuttosto la impenetrabile provvidenza di colui che di tutto pel nostro meglio dispone, ne ha destinate a piangere l'una divisa dall'altra sopra la più crudele delle sventure: ma l'oggetto stesso del nostro pianto lega con nodi più indissolubili le anime nostre col rendere comune il dolore. Mia buona e cara madre, io non posso, nè ho la forza di porgerle consolazione alcuna, giacchè io stessa invano per me la cercherei: ma ella certo ne ritrarrà abbondantemente dalla pura e santa sorgente della sua virtù Ed ora più che mai ella ha motivo di far tregua all'affanno, ora, che secondo che odo, ha dato compimento alle ultime cristiane volontà del nostro buon Giulio. Si accerti che in nessun miglior modo ella poteva pregar pace a quell'anima santa, la cui presente felicità non è forse da null'altro turbata che dall'idea del nostro dolore.

E in quanto a me posso farle fede di essere liberata, sua mercè, da una delle mie più pungenti inquietudini. Anche il mio buon padre le ne porge le più tenere sue grazie, nell'atto che a lei vivamente si raccomanda.

Io le aveva scritto da Bologna… ma senza meraviglia ho inteso non esserle giunta la mia lettera. Avrei replicato prima dora quest'atto d'amore e di dovere, se non avessi temuto che la seconda lettera non seguisse il destino della prima. Ad evitare il quale non veggo altro mezzo che dirigerle mie notizie per altro canale. Mia madre la riverisce. Io la prego dei miei cari saluti alla Violante, alla sua cameriera ed a Pierino. A lei poi raccomando la infelice figlia dell'amor suo, pregandola a chiederle dal cielo coraggio e rassegnazione a sopportare una vita peggiore assai della più cruda morte. E con questo le bacio le mani e piena di affetto me le protesto

Aff.ma ed obbl.ma figlia
La povera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro. fondo Perticari. L'ultima volontà di Giulio era che si provvedesse all' educazione del figlio suo naturale. Andrea Ranzi.

Milano. [novembre] 1822.

Mio caro ed ottimo amico.—Mi duole all'animo che il tuo silenzio sia stato cagionato da cattiva salute, e quantunque la tua lettera mi assicuri della tua guarigione, tuttavia mi amareggia l'idea del tuo male passato.

Abbiti cura, mio buon amico, sì che io non abbia mai più a ricevere tristi notizie del tuo stato essendo abbastanza flagellata dalla perfida fortuna, senza che mi si accrescano motivi di affanno.

Quanto mi scrivi dell'amor tuo per me già m'era noto, perchè m'è da gran tempo noto il tuo cuore: e se tu ti quereli della mia partita, immagina come e quanto io pianga la tua lontananza: perchè nè di presente, nè mai potrò rinvenire un'anima che assomigli alla tua e colla quale la mia si unisca in tanta armonia di pensieri e di affetti. Aggiungi che qui non ho persona con chi ragionare de' miei mali, nè con chi rammentare le doti adorabili del povero Giulio, nè con chi piangere la sua perdita; cose tutte che pure allevierebbero in parte il peso della mia sciagura, specialmente se il compagno del mio pianto fosse penetrato dello stesso mio dolore, come tu lo saresti e per la tenera amicizia che ti univa a quell'angelo e per quella medesima, oso dirlo, che ti lega all'infelice sua moglie. Tu mi conforti a riprendere i miei studii, ma per chi cercherei io più di farmi un nome? Per me non già, ch'io tanto non curo di me stessa: per mio padre forse? io l'amo assai, è vero, ma più assai desidero di affrettarmi a raggiungere chi si è portato seco ogni migliore mio affetto. L'universo non è più a' miei occhi che un vasto deserto e nulla più rinvengo che meriti un solo desiderio. Se non avessi avuto a compiere altri sacri doveri della natura, avrei già fatto intero l'unico voto che ancora scalda il povero mio cuore. Mi sarei nascosta allo sguardo di tutti, checchè il mondo ne avesse giudicato e detto e poichè i miei principii mi vietano di cessare con mezzi violenti questa miserabile esistenza, l'avrei almeno consumata, finchè fosse piaciuto al destino, nella più secreta e profonda solitudine. Ma anco questo m'è tolto, tuttochè ogni giorno più lo desideri.

Non so quello che risulterà dalla conversazione che conti di tenere con Cassi. So bene ch'egli non cessa di perseguitarmi, e buon per me che la mia sciagura mi ha reso affatto insensibile a tutto il male o il bene che il mondo può credere e dire di me. Oso però assicurare me stessa di essere perseguitata a torto. Cassi e molti ignorano la vera tempra dell'anima mia: lo stesso povero Giulio l'ignorava, non per sua colpa, ma perchè troppo prestava fede alle nere tinte con che gli altri gliela dipingevano. Ma fatalmente accade che in certi avvenimenti i buoni si premono di troppo la mano sulla coscienza, ed i tristi l'allontanano di troppo. In mezzo la mia sventura conto per grande fortuna il non avere sofferto alcun cangiamento del mio cuore: e ti assicuro che nè contro Cassi, nè contro tanti altri che lo assomigliano io nutro altro voto che quello di giovar loro in tutto che per me si potrà quando che sia, e sarà mia cura che mio padre agisca egualmente. Ti confesso però che la porcheria di Gordiano usata per rapporto alle carte di Giulio ancora m'è fitta nella mente; non per altro che pel discapito ch'egli colla sua avarizia (male intesa perchè questa stessa doveva indurlo a compiacere) ha recato alla gloria di quel chiaro ingegno. Quella ancora dell'anello passa ogni finezza di viltà. Ma perchè ritorno io mai a questi dettagli? tempo è di lasciarli coi loro autori marcire nel fango.

Ti raccomando quanto nell'ultima ti ho detto rapporto a mia cognata e quel povero disgraziato ragazzo. Tienmene a giorno per mia regola e quiete.

Addio, mio caro ed ottimo amico. Non ti siano discare le proteste della mia più tenera gratitudine ed amicizia, chè l'una e l'altra non termineranno che colla vita. Mio padre ti abbraccia. mia madre ed Aureggi ti salutano ed io tutta mi ti raccomando.

La tua povera amica Costanza.

P. S. Il ritratto non è ancora giunto. Quando il sarà lo farò tosto copiare colla più possibile diligenza. Addio, mio caro.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, l'ultimo di novembre, 1822.

Mio carissimo amico.—Avrei dovuto seguitare a darvi mie notizie e non so in verità come scusarmi del mio lungo silenzio; se pure con voi, che ottimo e pietoso amico siete, già non mi scolpa la stessa deplorabile mia situazione. Imperocchè che dirvi se non parole di dolore? che annunziarvi se non novelle sciagure? E forse che novella sciagura non è per me lo stato di violenza in che mi sono precipitata? la vista delle mie lagrime irrita qui quelli medesimi, dai quali attendea ogni mio conforto; e la loro condotta arriva a tal punto ch'io temerei rattristare di troppo il vostro eccellente cuore, se ne toccassi i dettagli.

Parliamo d'altro.

Ogni cosa che mi comandaste nella vostra carissima lettera, venne eseguita e dallo stesso mio padre avrete avute le notizie che chiedevate intorno agli scrittori che prima di Giulio toccarono del Dittamondo.

Attendo le lettere che vi piacerà scegliere del medesimo e vi raccomando le mandiate per sicura occasione. Attendo non meno impazientemente il vostro discorso. Oh quanto mi tarda di leggere ciò che la peregrina mente ed il bel cuore di un tanto amico, quale voi foste per l'adorato mio Giulio, avranno saputo inspirarvi in lode sua e della verità! Della verità, dico, nè temo che l'amore di moglie mi faccia velo, poichè di quali encomi non era degno quell'angelo? Ma intanto i suoi scritti periscono nelle mani di uno sciagurato, cui neanche è stimolo, non dico il più sacro de'doveri, ma la vergogna di sè medesimo ed il proprio interesse! Oh come è acuta questa spina all'addolorata anima mia! Oh come rende piena la mia sciagura, anzi la sciagura universale, che tale veramente debbesi reputare la perdita dei buoni e quella delle loro auree sentenze. Colla mente di continuo tormentata da sì crudeli considerazioni, vi sarà facile il persuadervi ch'io non ho libero pure un pensiero da rivolgere a me medesima. Quindi neanco ho voluto leggere il libello di che mi avvisate, quantunque sappia che dall'inferno non poteasi vomitare un complesso più iniquo di malignità e d'imposture. Ma l'autore stesso avrebbe egli osato scriverlo, se non fosse costretto a rendermi in suo cuore giustizia? Egli sa che la sola storia delle ultime mie sciagure può scolparmi, e sa che non io certo la proferirò, perchè amo meglio rimanermi bersaglio della più nera calunnia, che giustificarmi a costo di una sola sillaba che potesse interpretarsi a danno del migliore e del più adorato de' mariti. Del resto, se la vostra pietosa amicizia verso la più infelice delle donne vi facesse desiderare più estese notizie intorno la condotta del signor conte Ferri, chiedetene al nostro ottimo Roverella, ch'io per me non ho forza di seguire a lungo questo argomento; perchè rammentando come colui fu principale causa del mio accecamento sullo stato reale del povero Giulio e come per suo solo consiglio mi tranquillai alla cura del medico che l'ha ucciso… il cuore mi si spezza e la mano a stento segna parole di pace…

Datemi, vi prego, notizie della vostra cara salute, che spero ottima e se tale ve la desideri ardentemente, non è uopo dirlo. La mia cammina quasi al solito; se non che da qualche tempo un forte mal d'occhi mi tiene in angustia, accorgendomi non procedere desso senza notabile indebolimento della vista. I fisici l'attribuiscono al continuo pianto causa che non potendo cessare rende inutile ogni rimedio. Mio padre con Voi si abbraccia e vi si raccomanda. Lo stesso io faccio colla buona Giuditta. Vi prego rammentarmi alle contesse Sampieri e Marchetti: e non cessare di compiangere

la rostra porera ed affettusissima amica
Costanza.

P. S. Desidererei sapere se Tommasini è in Bologna o dove.

In—Parrucche e sanculotti—di E. Masi, Milano, Treves. 1886.

Milano, 4 dicembre [1822].

Mio carissimo Antaldo.—Gli è vero che sono stata assai male, e non pure pel solito vomito e singhiozzo, ma per un dolore spasmodico agli occhi, i quali mi si erano empiti di sangue ed appannati in modo che appena poteva distinguere gli oggetti più vicini. Ora sto un po' meglio, ma la mia vista è notabilmente indebolita ed il pianto continuo mi fa disperare di più ricuperarla. In altro tempo avrei contato questa disgrazia fra le somme… oggi non spenderei querela. Sarà mia cura il disporre mio padre a ricevere con bel garbo la lettera di Gordiano: ch'in quanto a me, dopo avergli spontaneamente perdonato tutto quello che mi ha fatto soffrire costà, posso assicurarti che cotesto suo atto di ravvedimento me gli farà perdonare anche tutto quello che giornalmente soffro per sola sua cagione. Questa proposizione esigerebbe forse qualche schiarimento, ma non lo do per non annoiarti. Non posso però nasconderti che mi ferisce l'anima il vedere come, per iscusare Gordiano, quasi sembri porre in non cale il duro trattamento che da lui ho ricevuto. Tu dici che per non parere… si è indotto a commettere delle…; ma i modi usati verso la moglie del suo povero fratello sono ben altro che… Nè parlo della truffa che egli mi ha fatta dell' unica memorià rimastami del mio povero Giulio e ch'io non già in regalo ma chiedeva in compra; nè parlo del barbaro rifiuto fattomi di un libro che quasi potea considerare come dono del mio caro marito, nè parlo di tante piccole minuzie che di buon grado gli ho sacrificato e che pure tutte riunite poteano procurarmi una qualche somma. la quale forse nella mia attuale circostanza mi metterebbe, in qualche particolare almeno, al coperto di amari e pungenti rimproveri; nè parlo della liste ridicole che al momento stesso di mia partenza (già si metteano i cavalli al legno) mi fece pagare, sino a quelle che montavano a dieci baiocchi di chiodi: ma parlo delle male creanze, delle esosità commesse e negli atti e nelle parole col buon Roverella, con mio padre, con quanti pareano interessarsi al misero mio stato e persino colla povera Violante, nella cui casa, senza ritegno di vergogna. mandò Mariano a insolentire per riavere un misero vaso di coccio, che io le avevo regalato come cosa mia, perchè pagato del mio.

Tu sai, mio caro amico, che lo spirito di pettegolezzo non ha mai fatto numero tra i miei difetti e quindi ti persuaderai facilmente che se io tocco ora questi articoli nol faccio certo per rimettere in campo questioni. Ma mi coce in vedere, che, avendo agito nella più terribile circostanza di mia vita, per quanto ho potuto, colla massima generosità verso tutti i cani che mi abbaiavano e mi abbaiano addosso, ora non pure da chi mi fa professione di essermi amico, ma da chi ha dinanzi la mente tutta quanta aperta l'anima mia (nè può quindi malvolermi o disprezzarmi) così poco si calcoli la mia condotta, che quasi per scemarne il pregio al mio stesso giudicio, si dia il titolo di… alle furfanterie di chi mi perseguita. Perdonami, caro Antaldo, questo sfogo, ma il cuore mi scoppiava, se nol faceva, e d'altronde agli infelici si può ben concedere l'unico sollievo che la stessa fortuna non saprebbe lor togliere, quello del lamento. E fin da quando mi scrivesti intorno a Cassi e a Ferri, ben m'avvidi che calcolando tu per poco la loro infernale lega, per poco in conseguenza dovevi calcolare la mia generosa e tacita sofferenza: per poco quindi gli sforzi (e ti giuro che ne ho dovuto adoperare di molti) praticati con mio padre onde ottenere a Cassi perdono. Quella tua lettera e le due che in seguito mi hai scritte mi hanno fatto versare lagrime amarissime, cosa che nè la malvagità, nè le trame, nè le imposture, nè le ingratitudini de' miei nemici, nè l'indifferenza di molti che mi facevano gli amici prima del colpo orribile che m'ha percossa, aveano potuto ottenere. Ma io ti amo e ti stimo quanto disprezzo tutti coloro; e la noncuranza delle persone che stimo ed amo è la sola ingiustizia della fortuna che non ho ancora imparato a sopportare pazientemente. Nè credere che un misero amor di vanagloria mi renda ora sì sensibile al modo crudele con cui s'insulta al mio dolore; no, io non parlo che di te e non chieggo che l'assicurazione dell'intima tua stima.

Se altrimenti fosse, avrei ancora forza e ragioni da gridare al pubblico: ma oltrechè mi considero come morta affatto alla società (e l'avvenire renderà testimonio delle mie parole) tu sai che la sola storia delle mie ultime sciagure potrebbe giustificarmi da tante indegne accuse, e sai (poichè mi conosci) ch'io preferirò sempre rimanermi bersaglio della più infernale persecuzione che scolparmi a costo di una sola sillaba che si potesse interpretare a biasmo del migliore e più amato dei mariti. Se lo stesso Ferri non mi rendesse in cuor suo la giustizia che merito, credimi, non avrebbe messo a sì duro cimento la mia tenera cura per la memoria del mio Giulio. Egli, che fu capo fra quelli che inasprivano i miei rancori… egli, che fu la prima cagione ch'io affidassi una vita sì cara al medico che l'ha ucciso… E qui fo punto perchè non potrei proseguire in questo doloroso argomento senza sentirmi rompere il cuore dall'affanno. Ma s'egli è vero che la mia paziente condotta verso costoro meriti qualche grazia al cospetto dei buoni, fammi segno, o mio buon Antaldo, della tua amicizia e dimmi che la povera, la infelice Costanza conserva ancora nel tuo cuore qualche grado di maggioranza sopra i suoi vili persecutori.

Mio padre esce in questo punto della mia camera. Io gli ho fatto leggere la tua lettera e vi ho aggiunto tutte quelle considerazioni che mi sono sembrate più opportune a renderlo, benigno verso Gordiano. Spero di esservi riuscita, ma egli mi ha ordinato di scriverti che fra i manoscritti di Giulio vuole anche il Convito postillato da lui. La sua dimanda ha per iscopo la gloria stessa di Giulio, poichè egli lavora di presente intorno le stesse correzioni e desidera pubblicare le sue fatiche insieme a quelle di mio marito. Se il timore di perdere quel manoscritto ritenesse Gordiano dal consegnarlo, fagli pure intendere che io non chieggo e non voglio nulla per me, che il mio sacrifizio è stato intero… e che la sola gloria di Giulio mi sta a cuore, sola cosa che a iui pure raccomando.

Ti prego di mille cari saluti agli amici tutti, ai quali andrò scrivendo di mano in mano ne' prossimi ordinari avendo dovuto fare con loro una lunga pausa a motivo de' miei occhi. In particolar modo raccomandami ai coniugi Felici, al conte Paolo, alla buona mia Violante, a Perotti, a Laudadio ed a Bolaffi. E, se troppo non chieggo, visita per me l'ottima mia suocera.

Addio, mio caro amico, accogli colla solita tua amorevolezza la protesta sincera dell'amor mio e della mia gratitudine.

La tua povera Costanza.

P. S. La copia del ritratto non si potrà eseguire che nella prossima primavera, giacchè le orribili e nere giornate di questo clima alterano alla vista tutti i colori. Così opinano e Sorangeli e Pelagi. Ma a tua quiete sappi che non pochi ambiscono di eseguire questo lavoro, tanto sembra questa pittura degna d'ogni encomio. Ho dato incombenza a Migliora della scelta fra quelli che crede più opportuni, acciocchè la copia riesca il più perfetta che sia possibile.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 1822.

Caro Antaldo.—Per amor del cielo scrivimi il risultato di quanto hai operato con Gordiano intorno il Convivio. Sappi ch'egli tenta venderlo ad ogni patto e ne ho avuto assicurazione anche nell'ultimo ordinario. Ma le sue pretensioni sono esorbitanti e solo chi fosse abbastanza tenero per la memoria di Giulio per fare un sacrifizio potrebbe levarglielo dalle mani. Dio ne liberi ch'egli giunga in mano o di Trivulzio o d'altri simili. So quel che dico. Io non veggo che il solo Laudadio che ad un gran cuore unisce gran mezzi… ma non ho coraggio di scrivergli e intanto la disperazione mi ha pei capelli. La mia salute che pareva ne'passati giorni alquanto rialzata. ora cade novellamente e in verità n'è motivo queste novelle angustie. Ieri e oggi sono stata malissimo: dovrei scrivere a Betti ma non mi regge la testa e qui non ho soccorso. Deh! scrivimi. deh! consolami se ne hai potere.

Fammi il piacere di dire alla Violante che chiegga a Laudadio il mezzo di farmi recapitare la piccola somma ch'ella ha da spedirmi. Addio, la testa mi si spacca, non posso più reggere.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 1822.

Mio caro Antaldo.—Prima della mia partenza da Pesaro, io promisi che non pure avrei impedito ogni atto di vendetta contro il Conte Cassi, ma che avrei anche abbracciata l'occasione (se mi accadesse di incontrarla) di conciliargli l'animo di mio padre. Io ho finora adempiuto alla prima parte del mio impegno e l'ho adempiuto nel tempo stesso che per opera del Conte Cassi medesimo giravano per le mani del pubblico infernali libelli contro di me… In oggi pare che la fortuna voglia mettere a più decisiva prova la sincerità delle mie parole ed io sono lieta di addimostrarlo. Ho letto la tua cara lettera e quella dell'ottimo Betti a mio padre e ben ti so dire che non vi bisognava meno dell'alto scopo della gloria di Giulio per indurlo ad imbrattarsi ancora in accordi con quello sciagurato di Gordiano. Veggendolo sdegnoso a venire in trattative dirette col medesimo. I'ho indotto ad affidare al tuo senno questo affare. Tu dunque, raro e vero amico, opera ogni cura (nè dal canto mio sia termine ai sacrifizî, se di sacrifizî ancora v'è d'uopo) perchè le nobili fatiche dell'angelo che abbiamo perduto siano finalmente locate in mani, se non solo degne, certo solo proprie a dargli quel maggiore lustro di che il pubblico attende vederle risplendere. In quanto le sue traduzioni dal greco, lo stesso Cav. Mustoxidi ieri sera mi promise esaminarle e purgarle con ogni suo studio. Chè, se non tutte, alcune sicuramente meritano la pubblica luce. Dio voglia secondare i tuoi sforzi, mio caro amico, e gli ardenti miei voti! Tu sai quante lacrime ho sparse e puoi imaginare quelle che tuttora spargo sullo strazio indegno che per alcuni o inesperti o sordidi ignoranti si è fatto e si fa del sacro nome del mio povero Giulio. E ben ho aspramente a dolermi in vedere che chi più poteva e doveva impedirlo siasi tenuto per indegno impulso di odio privato!

Ah! si adempia prima a'santi doveri dell'amicizia, ed in questo almeno la discordia non divida gli animi nostri. Poscia sarà tempo anche per l'ira: e tuttochè ingiusta, tuttochè infernale, saprò perdonarla, tacermi e solo rammentare gli uffici di pietà, di dovere e d'amore prestati alla memoria del mio caro marito. Per ciò che rispetta la riconciliazione di mio padre con il Conte, mi gode l'animo più che non saprei dirti, e più forse che alcuni non sapranno credere, nell'assicurarti che questo buon vecchio mi autorizza a trattar teco questo affare; il quale può quindi esser tenuto per concluso; poichè tu, Antaldi mio, troppo mi conosci per dubitare del sincero mio buon animo. Opera dunque col Conte Cassi quel mezzo che stimerai più opportuno, affinchè questa pace sia fermata: e se altro tu credi ch'io possa, spendimi come più ti giova.

Per altra via avrai inteso ciò che ha cagionato il mio silenzio ne' giorni scorsi. Nulla ti replico del mio stato per non affliggerti. Solo in risposta delle amorevoli inchieste che fai a mio padre sulla mia salute, posso darti sufficienti notizie della medesima, la quale pare guarita in tutto dal vomito, ma non così del singhiozzo e delle convulsioni di stomaco.

Ti prego, mio buon amico, onorare per me di una tua visita la cara mia suocera e la mia Violante. Salutami caramente il Conte Paolo, Laudadio e Bolaffi e ringrazia l'ottimo Felici di tutto quello che ha operato per noi. Alla sua gentile Teresina darai un bacio.

Addio, mio caro. Dammi tue notizie e seguita ad amare ed a compiangere

la tua povera Costanza.

P. S. Se Betti è tuttavia a Pesaro salutamelo e raccomanda a lui pure i manoscritti del mio Giulio.

Altro P. S. Mia madre, giunta mentre stava per chiudere la presente, e sapendo di che trattava per discorsi tenuti anche in sua presenza con mio padre, ha desiderato di leggerla. Ella disapprova apertamente la cura che pongo per ricomporre Cassi in grazia di mio padre; ed ha voluto che prometta di non impicciarmene e non mandarti nemmeno la presente. Il cuor di una madre difficilmente perdona le offese (e quali atroci offese!) dirette a' suoi figli! Io ti avviso di tutto questo perchè ti regoli nel combinare con il Conte Cassi un sì scabroso affare. Del resto ti replico che dal canto mio seguiterò a mantenere mio padre nelle più possibili benigne disposizioni, ma mi pare (e credi che il mio consiglio parte da cuore amico) che non saria male tentare qualche mezzo per conciliarsi prima la benevolenza di mia madre. Tu conosci ambo i miei genitori e sai che la volontà dell'uno è quella dell'altro!!!

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 16 dicembre 1822.

Mio caro amico.—La terribile sciagura che m'ha percosso e che m'ha per sempre precipitata nel più crudele e disperato dolore fa abbastanza le scuse del mio silenzio; ond'io non vi aggiungo parola di discolpa.

Ma siate certo che qualunque sia il mio stato io vivo sempre così tenera della vostra gloria come già lo era ne'miei giorni felici. Quindi mi gode l'animo nell'annunziar che il vostro bel dipinto di che, vostra mercè, sono posseditrice, ha qui operato una direi quasi rivoluzione, tanta è la maraviglia che inspira la vista di questa degna opera. Nè meno ferma lo sguardo e l'attenzione di tutti la bella testa del Caro con tanta maestria disegnata, e della quale mio padre vuole ch'io stessa vi porga per lui i più sinceri e vivi ringraziamenti.

Mia madre vi rammenta e vi raccomanda la sua Maddalena e vi prega gradire i suoi saluti, quantunque non abbia la sorte di conoscervi di persona. Io poi sono desiderosa di servirvi in tutto che posso: e perciò in tutto che posso comandatemi, lo che mi sarà segno che la mia mala fortuna non ha cancellato in voi pure (siccome in molti) que'sentimenti di cordiale amicizia che formano il più bel pregio delle anime gentili. Addio, mio caro amico. State sano e vi sia raccomandata

la costra rera ed aff.ma amica
Costanza.

L'autogr. si trova nella Biblioteca Estense di Modena, coll. Campori.

Milano, gennaio 1823.

Mio caro Antaldo.—Eccoti l'indirizzo della persona cui farai pervenire le note carte se ti riesce di averle. Credo che da Pesaro a Bologna non sarà difficile prevalersi del corriere per opera del Conte Paolo. Farai però ciò che più crederai sicuro. Ti prevengo che dovrai attentamente procurare di difendere l'involto da ogni disastro che possa incorrere e specialmente dall'acqua. Quindi. dopo le due o tre coperte, converrà sopra coprirlo con tela incerata ben chiusa da ogni lato. Dio voglia che la vista di questi scritti risvegli la carità di mio padre, il quale non è più riconoscibile nè per questo. nè per altri rapporti: ma era da prevedersi. In quanto a me non l'abbandonerò finchè mi resti qualche speranza intorno l'opera sua per gli scritti di Giulio e perchè si risolva a mirare con occhio più giusto il mio dolore… ma dell'avvenire giudicherà l'avvenire.

Da quanto mi scrive il Conte Paolo conosco la manovra che si adopera per fare sparire il Convivio di Dante postillato dal Tasso. Anche ciò cammina in regola. Mi spiace però tanto più la perdita di quello postillato da Giulio, quanto più m'è a cuore la gloria del mio povero marito che quella di tutti i grandi che furono e che mai saranno. Una fortuna nemica persegue l'infelice, per quanto veggo, anche al di là del sepolcro, togliendo che la memoria di lui risplenda in tutta quella luce che le sue virtù gli avevano merito. Io non posso che gemere e sentirmi straziata in vedere rimanersi colle mani alla cintola chi solo poteva rimediare a tanto danno. Un odio privato, ingiusto e barbaro può dunque dare maggiore attività che il sacrosanto dovere dell'amicizia! Ah! così non avrebbe agito Giulio. Ma altresì di quanta gratitudine non debbo io esserti debitrice, o solo amico, in vederti adoperare con sì tenera cura in questo affare? Ah! non istancarti: e pensa per cui ti affatichi.

Dammi tue nuove e salutami gli amici. Io non ti scrivo più a lungo perchè i miei occhi mel vietano ed ho d'altronde altre lettere da riscontrare per que sto ordinario. Addio, sta sano, e dimmi se ancora compiangi la

tua povera Costanza.

P. S. Sono stata assicurata che il sopra accennato involto non verrà aperto che qui in Milano. Vedi dunque che non sia fatta qualche soverchieria in Bologna; e se pure non la si potesse evitare, fa che Costa assista all'apertura, acciocchè le carte nè si smarriscano, nè si rovinino. Dirai al Conte Paolo, che tempo fa mio padre spedì certi libri alla Contessa Scarselli per Roverella e che gli sarei infinitamente tenuta se procurasse fossero spinti al suo destino.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 18 del 1823.

Se mi scolpassi con te del mio lungo silenzio farei torto alla bontà del tuo cuore, il quale, solo che si dipinga il doloroso mio stato, non che scusarmi dovrà compiangermi profondamente.

Io dunque non te ne parlerò per non amareggiarti e solo ti ringrazierò della memoria che seguiti a tenere di un'infelice, la quale per dura esperienza sa quanto di rado l'amicizia si allega colla sventura. L'ingratitudine, l'ingiustizia, la calunnia (orrenda fratellanza) ecco le consolazioni con che i così detti amici soccorrono al misero cui la fortuna volse le spalle: e l'invidia è quella che spalanca le porte dell'inferno a così nera coorte. Ma questa volta dessa mosse a inveire contro a un cadavere chè già l'anima mia era sciolta da ogni legame sin da quel punto in che il Cielo le tolse tutto ciò che rendeale cara la vita. Non è più dunque in potere degli uomini il farmi del bene o del male; e non so s'io mi disprezzi maggiormente il loro favore, o la lor guerra.

Non credere però che la mia giusta misantropia mi sciolga da ogni sentimento di amicizia e di gratitudine. Imperocchè qualunque sieno le mie irrevocabili risoluzioni per l'avvenire, m'è dolce il pensiero che la memoria di quei pochi onesti, che mi rimasero al fianco nel momento della mia terribile sciagura, sarà l'unico vincolo che ancora legherammi alla società. E dissi di quei pochi che appunto mi soccorsero nel momento della sventura, poichè coloro che o per apparenza, o per leggerezza, trascinati da false prevenzioni o dalla autorità de' miei nemici m'abbandonarono in allora, e poscia di sotterfugio ripresero il posto dal mio lato, non li ho in nessun conto. Sì fatti Nicodemi che a guisa di cuffie di civette non osano mostrarsi che di notte tempo, deturpano il sacrosanto nome d'amico; nè meritano manco di essere nominati fra i vivi. A proposito di che mi è caro ringraziarti della pietosa lettera che mi scrivesti appunto in quei giorni di dolore: e se non ti risposi me ne scusi l'eccesso della mia sciagura. Egualmente ti son grata per le cure che ti prendi intorno li miei piccoli affari di costà: e arrossisco un po' nel confessarti che fino l'anno venturo io dubito potermi teco sdebitare.

Non ignoro che anche quel mio atto di sincero disinteresse ha servito di presa ai miei nemici per oltraggiarmi con infami accuse. Ma dopo le intenzioni manifestate da quell'angelo in mio favore alcuni giorni avanti l'ultima sua partita (allorchè mi si taceva, con inganni orribili a raccontarsi, l'estremo pericolo in cui era, e allorchè forse meglio illuminata avrei potuto salvarlo col soccorso di Tommasini) dopo, dissi, la conoscenza di quelle sue intenzioni, io non potea senza riuscire odiosa e spregevole a me medesima tormentare quell'infelice per solo mio utile negli estremi momenti di sua vita. Ben so che se la mia condotta fosse stata meno generosa, i miei nemici non avrebbero alzata sì altera la testa: ma quando anche in quel terribile punto avessi potuto immaginare tutta la loro perfidia, non sarei stata meno irremovibile nell'impedire quell'atto. Bensì stimai opportuno fargli ripetere alcune disposizioni intorno pochi individui, opinando che ciò bastasse a renderle sacre. L'accaduto ha dimostrato che io mi ingannavo: ma se le ultime voci di Giulio non suonano all'orecchio de'suoi ingordi e scellerati fratelli, ben fortemente suonano nel mio cuore… e ciò per ora basta.

Intanto però sono stata io pure spogliata di molte cose che erano di mia santa ragione, non che di tutti i doni di mio marito. Ho sacrificato tutto di buon grado alla pace domestica dell'ottima mia suocera e alla speranza che almeno si userebbe più riguardo alla memoria di quel divino. Vana lusinga! Si calpesta ogni più sacro dovere: gli scritti di quel chiaro ingegno sono sacrificati senza scelta, senza pudore alle più basse mire d'interesse: e purchè io giaccia non si pensa a salvare, nella mia rovina, la fama letteraria del più gran scrittore del nostro secolo.

Passo rapidamente su questo punto del mio racconto perchè l'anima mi si spezza quando vi penso. Sono sette mesi ormai che i miei occhi versano lagrime di sangue: io ne ho perduta la vista e, per quanto i fisici mi dicono, ciò non ha rimedio, ma Dio sel sa che non ho ancora versato una lagrima su me medesima. Ah! se per tormenti si potesse cangiare i decreti dell'inesorabile destino, Giulio, Giulio mio tu saresti reso da gran tempo e meraviglieresti forse in vedere come la lunga serie dei miei mali non abbiano rapito alla tua santa memoria pur un sospiro! Ohimè! sopra quale altra sciagura posso io più piangere quando t'ho perduto? quando i tuoi più cari (infelice! e tu li amavi sì teneramente) adoperano ogni arte per coprire d'oblio le ultime tue parole e per oscurare la tua gloria? Oh Giulio! mio Giulio! dal luogo del tuo riposo invoca vendetta e giustizia non per me, chè di me misera più non curo, dacchè mi fosti tolto, ma per te stesso e pel tuo gran nome divenuto gioco di novelli demoni, cui l'inferno stesso niegherebbe asilo.

Il pianto mi vieta di proseguire: lascia che mi riposi. Ti diceva che temo di non potermi teco sdebitare fino l'anno venturo: ed eccone la ragione. Fra i molti sacrificî fatti al quieto vivere di mia suocera, quello pur v'è dell'anno vedovile al quale la legge mi autorizzava pretendere. In conseguenza, finchè questo non si compia, io sono a carico di mio padre. Vero è che spero un giorno compensarlo di questo carico momentaneo: ma ciò non mi verrà fatto che dopo aver provveduto il mio povero tugurio di quanto abbisogna per una famiglia giacchè sono partita dalla casa Perticari senza altro portar meco che la sola camicia… Anco i frutti di una parte della mia dote per qualche tempo saranno scarsi perchè ho lasciato a mio cognato tutto l'agio e i favori ch'egli ha richiesto, col patto che le ultime disposizioni di Giulio rispetto ad altri individui fossero soddisfatte: ma tutto invece è riuscito a maggior mio carico senza profitto alcuno. Post factum nullum consilium: ora mi è forza piegare alle cose già stabilite e molto ancora mi resta, se mi resta l'ultima certezza di avere adempito al di là del mio dovere. Era mia ferma risoluzione il ritirarmi in un monastero: ma mio padre vi si è opposto di tutta forza, e non ho potuto ricusare alle sue lagrime di rimanermi seco lui. Finchè avrò la speranza di essergli colla mia compagnia di qualche consolazione, io non lo abbandonerò. Ben veggo però che la mia tristezza lo turba sino a renderlo meco ingiusto: nè io so se potrò a lungo durare nello stato di violenza in che qui sono costretta a vivere… ma dell'avvenire deciderà l'avvenire. Ritorniamo a noi. I miei assegni non cominciando che col finire dell'anno vedovile, io ti chieggo respiro fino a quell'epoca. Se poi questo ti riesce di soverchio aggravio, fa che io l'intenda, che ad ogni modo troverò mezzo di soddisfarti. Nella nuova mia situazione però molte cose mi restano inutili delle quali vorrei disfarmi: e fra queste conto le stampe del Rossini. Se tu trovassi costà chi volesse farne acquisto ti rimanderei quelle che tengo presso di me, per occasione pronta e sicura. Scrivimene. Intorno a mia cugina io seguiterò a adempire l'obbligo assuntomi tosto che tocchi il primo denaro della mia dote. Tu mi dici che io scriva a sua madre qualche parola di conforto per l'altra figlia che pure si chiude. Mia zia è ingiusta verso il cielo. Ringrazi ella piuttosto la sorte che condusse ambo due coteste giovani in luogo sicuro da ogni scossa di fortuna. Esamini ella il mio stato e dica se coll'anima sua così tenera ne' patimenti altrui, ella sceglierebbe di avermi a figlia nella mia circostanza. Nulladimeno ti accludo per lei due righe e la tua voce farà più che le mie parole. Addio, mio caro cugino. Tieni per fermo che, malgrado l'ira del mio destino, io non cesserò mai di amarti e di desiderare provartì per qualche degna maniera il mio affetto. E in questo desiderio ti abbraccio. Addio.

La tua Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale Storico della Letteratura italiana, Vol. 11.0 L'autogr. si trova nella Biblioteca di Fano.

Milano, [marzo] 1823.

Carissimo amico.—L'ostinata oftalmia che affligge mio padre gli vieta l'applicazione dello scrivere; nè poco contribuisce ad accrescere il suo male l'angustia in che lo tiene il pensiero dei suoi affari, e specialmente la noncuranza e l'ingratitudine di suo nipote. Egli dunque per mio mezzo vi prega alla sollecita esecuzione dell'accluso mandato, essendo il suo stato ridotto a tale che non può ammettere altro indugio di sorte alcuna. In caso che voleste sostituire un altro procuratore, mio padre vi prega a intendervela col signor avvocato Luigi Ferrucci di Lugo, cui scrivo per suo ordine in questo stesso ordinario, sperando ch'egli non ricuserà l'opera del suo consiglio. Avrete dunque la bontà di comunicare al medesimo questa lettera. Se la situazione di mio padre non occupasse tutta la mia compassione, l'ufficio a che egli m'impiega per la presente ripugnerebbe assai più che non fa al mio cuore e forse mi sarebbe impossibile di adempierlo: ma io stessa sono così oppressa, non che da'suoi. dai miei proprii mali, che ogni altro sentimento si è quasi stordito e represso.

State sano e credetemi con vera stima ed amicizia

vostra amica aff.ma
Costanza Monti Perticari.

P. S. Letta la presente. mio padre m'incombe di aggiungervi che non gli madiate più lettere assicurate, perchè queste costano più che il doppio e vengono a stare a quattro paoli l'una: lo che accade anche adoperando carta grossa. giacchè il loro prezzo sta a ragione del peso.

Circa il ristauro della casa colonica che rimane, prima di porvi mano. ne conviene sapere in che consista, e a quanto potrà montare la spesa. Addio.

L'autografo conservasi nella Biblioteca Comunale di Imola.— La lettera deve essere del mese di marzo perchè in quel tempo appunto il Monti fu ammalato gravemente agli occhi.

Milano, 12 aprile 1823.

Mio caro Antaldo.—Finalmente respiro. Il tuo lungo silenzio mi ha tenuta fino al giorno d'oggi in crudelissima angustia, e non potendo tribuirlo a niuna mia colpa, ti confesso ch'io cominciava a riguardarlo come una conseguenza di tua dimenticanza. È cosa sì facile il dimenticare gl'infelici! Pare, dalla tua lettera, che tu m'abbia scritto in risposta alla mia ultima: ma nulla m'è pervenuto. Aveva io medesima pregato il Conte Paolo a prevalersi del mezzo accennato del Conte Alberghetti; ma dalla tua non intendo ch'egli abbia ricevuto la mia lettera, che assai mi dorrebbe fosse andata in sinistro: perchè oltre che io mi scolpavo del mio raro scrivere per lo passato, lo pregavo a non imputarmelo a colpa anco per l'avvenire, stante la mia rovinata salute. È verissimo il fatto della canzone di mio padre, ma dessa non è stata pubblicata per le stampe, nè io mi diedi briga a impedire quel breve sfogo di giustissimo sdegno, avendo dovuto affaticare più che non dico a salvarne il Conte Cassi. Ma Cassi ha oltraggiato me principalmente, e il perdonargli non oltrepassa i miei diritti: Gordiano ha vilipeso la memoria di un fratello, cui egli non era nemmeno degno di pulire colla bocca il fango delle scarpe, e a me non ispetta, nè a chiunque chiude ancora in petto qualche scintilla d'amore verso quell'anima santa, usargli indulgenza alcuna. Difatti le parole di mio padre non l'attaccano per la villana e crudele ed ingrata condotta meco tenuta (che fin qui ben poteva io metterlo a mazzo col Conte Cassi e col conte Ferri, adoperando per lui pure la generosità adoperata cogli altri due), ma solo fanno menzione della sua infame condotta per rapporto al povero mio Giulio. Nè egli è nominato: la freccia è stata scoccata senza avvisare il segno: se tutti riconoscono questo segno in lui, la colpa di chi è? Risponda lo stesso Gordiano, se ha coscienza. Se desideri una copia di questo componimento, te la manderò tosto, ma vorrei, perdonami. veder prima giungere le tanto sospirate carte: tanto più che il cuore mi presagisce male intorno le medesime e non so perchè.

Mi duole, caro amico, che tu sia in istato di afflizione, e più mi duole di non essere al caso di somministrarti consolazione alcuna. Io stessa vivo una lenta morte: e se tutte ti dicessi le mie pene, le mie angustie, meraviglieresti come ancora non vi soccomba. Ma che è la rovina dell'universo per un'anima che non trova più nell'intero universo cosa che la consoli? Tutti i miei voti, tutti i miei affetti sono rivolti ad un punto solo, e questo è al di là del creato. Ep pure il dovere di figlia e un altro sacro dovere (che per ora non dico, al quale sì poco pensano gli inumani eredi del mio morto marito) mi legano a questa vita. Oh! almeno giacchè ora non mi è concesso affrettare il fine dei miei tormenti, possa io per essi trovarmi un giorno in istato di adempiere le ultime volontà di quell'angelo! Almeno non mi venga negato di piangerlo nella più profonda solitudine, allorchè la mia presenza non sarà più necessaria al mio vecchio padre! Almeno mi doni il cielo e la fortuna di rompere fino all'ultimo anello che mi lega al mondo e agli uomini; ed allora solo mi sembrerà raccorciato lo spazio che mi divide dall'adorato compagno dei miei giorni felici! Allora solo avrò il coraggio di attendere con impazienza sì, ma con rassegnazione l'ultimo dì che è primo a miglior rita!

Scrivo per questo stesso ordinario a Teresina onde a lei e al marito nulla dirai se non i miei saluti. Chiedi al Conte Paolo della mia lettera e fagli mille teneri saluti come pure alla Violante. Ti prego di salutare mia suocera, la madre del mio buon Giulio… dille tutto ciò che il cuore ti detta di più affettuoso: chè se è vero che tu soffri e tu pure sei infelice, saprai degnamente interpretare i miei sentimenti. A Perotti, a tutti che conservano di me qualche pietosa memoria, raccomandami. Addio, caro amico, dammi un poco più sovente tue notizie e compiangimi.

L'infelice Costanza.

P. S. La mia salute cammina un po' meglio; ma la cura rigorosa, a che sono sottoposta, non deve cessare per tutto questo estate e forse più in là. Se tu sapessi quante volte sono tentata a gettare tutte le ampolle per la finestra e a lasciar operare la natura, che sì bene pareva avere inteso il secreto mio voto! In questo punto viene mio padre a raccomandarsi che ti faccia fretta per la spedizione delle carte. Per verità, Antaldo mio, dovresti a quest'ora avermi tolta di pena! se Gordiano te le ridomandasse potresti dirgli di averle già spedite. Fa di mandarne ancora il Convito postillato di Giulio. Betti scrive di non averlo, dunque l'ha Gordiano; ed egli negandolo pregiudica, più di quanto crede, a questa parte di gloria di suo fratello. Se ne accorgerà, ma tardi, quando il Saggio che ha in pronto mio padre sarà pubblicato. Anco ci raccomandiamo per quello postillato dal Tasso, e sopra tutto ci raccomandiamo che tu ne levi questa spina dal cuore.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, 1823.

Caro Betti.—Due sole righe, poichè in quest'ordinario mi è tolto il tempo di dirvi le molte cose che devo: solverò questo debito nel venturo. Intanto desidero (e ve ne prego per la gloria di Giulio nostro) che sospendiate ogni consiglio intorno il libro del Convivio di che v'è stato scritto, siccome Felici mi avvisa. Ora più che mai, caro amico, chieggo la vostra assistenza, e la chieggo non già per me, ma per l'onore di quell'anima santa che piangiamo. Di più non posso oggi dirvi. A voi dunque mi raccomando.

La vostra aff.ma Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Milano, [1823 ?].

Caro amico.—A cagione della sofferta oftalmia il chirurgo ha vietato a mio padre ogni sorte di applicazione. Egli quindi m'incombe di rispondere per lui alla vostra del 25 scorso. E primieramente vi ringrazia della promessa che gli avete fatta di mandar qua le lettere del mio buon marito; le quali vi prega consegnare al Marchese Pallavicini che si presenterà al Principe Odescalchi con lettera di Trivulzio. Vi ringrazia ancora delle diligenze che avete avuto intorno al Codice Barberino del Convito: ma dice che il saggio delle vostre lezioni che gli mandate nol conforta a grandi speranze. Quel sie del citato secondo periodo non è errore, secondo le parole di mio padre, perchè avanti di esso è sottintesa la parola che, la quale generalmente si getta via ne' verbi che sono, o che prendono faccia di dubitativi: e quindi tant'è il dire: la ragione di che puote essere che sie ecc., come il dire: la ragione di che puote essere sie. Doppio motivo poi voleva che qui fosse tralasciato il che, trovandosi egli replicato subito dopo il sie. ma in un modo o nell'altro di quel sie & bisogno, per la pienezza del periodo. Errore manifesto è bensì il sono subbietti: perchè i plurali antecedenti: nostra anima, e nostra ultima felicità, richieggono per legge di grammatica e di critica che si tenga ferma la lezione siamo subbietti. Altro sperimento. Si osservi se il Codice Barberino, Tratt. 1, cap. 10, cominciando dalle parole: partendosi in ciò dalla verità, fino a quest'altre: e il numero regolato; è concorde alle stampe.

S'ei legge tal quale, si tenga per certo, dice mio padre, che quel codice è scorrettissimo al par di tutti gli altri.

Circa poi la emendazione del purpureo in pur pure egli crede che prendiate abbaglio: per la ragione che quel pur pure equivalendo all'avverbio nondimeno, darebbe idea di renitenza nella bontà divina che agisce sopra l' anima: e ne risulterebbe una sentenza tutta opposta a quella che ha voluto esprimere l'autore. Leggasi dunque ombra corporea, cioè: la intellettuale virtù assoluta da ogni ombra corporea; ed il sentimento apparirà piano ed intiero.

Prima di rispondere al penultimo articolo della vostra lettera, m'ès forza avvertirvi che mio padre s'è ostinato a rimettere in me sola la conclusione della sua pace col conte Cassi. Non vi spaventate, caro amico, ed ascoltatemi. Senza entrare in nessuno di que' particolari che potrebbero pugarmi delle infernali accuse che mi vengono date, e che per ora un sacro dovere mi chiude in petto, vi dirò solo che nel punto stesso in che il conte Cassi e il conte Ferri meditavano ed eseguivano l'opera della viltà e della perfidia, quella cioè d' inveire contro il misero già in ira alla fortuna, e caduto nella più nera insidia per opera di una fina scelleraggine; io, colla preghiera del pianto, non che con quella delle parole, implorava pel conte Cassi perdono da mio padre, e sola faceva fronte all'impeto del suo sdegno che minacciava tale scoppio da non lasciar più via ad accomodamento alcuno per li miei fieri persecutori. E pareva veramente che fosse nata mai più intesa gara fra questi ed il povero mio cuore; poichè i mali trattamenti che mi erano usati non avevano misura, siccome non l' avevano la mia pazienza ed i miei sacrifizi. Ma quelli io tollerava senza lagnarmi e questi adempiva con allegra condiscendenza, sperando che gli uni e gli altri giovassero finalmente a riunire gli animi sopra il solo oggetto che, dopo la terribile mia sciagura, io anteponeva alla vita, alla pace, al mio benessere, e all'onor mio stesso.

Vi sarà facile indovinare che io parlo della gloria letteraria del mio povero marito, il maggiore o minor lustro della quale tutto dipendeva dalle mani in che sarebbero caduti li suoi manoscritti.

Qual frutto io abbia colto dalla mia tacita e lunga sofferenza il dicano le mie raddoppiate sventure e lo strazio indegno che s'è fatto di un nome, cui tanta parte è avvinta della gloria italiana: mentre chi più era in potere ed in dovere d'impedirlo s'è trattenuto per basso impulso di odio privato e di privata vendetta. Dio e quell' anima santa di Giulio perdonino (se il potranno) al Conte Cassi la rotta fede, ch'egli avea giurata alla desolata vedova del suo amico e cugino intorno sì tenero affare: ed egli dimentichi (se la sua coscienza gliel concede) che per quella fede promessa fui indotta a commettere l' imprudente passo della mia prima partenza da Pesaro: passo che poscia ha così bene servito alle mire di lui, del conte Ferri, e di quanti hanno giurata la mia totale rovina. Ma non è ora a parlare di me, nè degli inganni subìti, ne' quali sono stata avviluppata, nè delle infernali calunnie che essi mi hanno partorito. Perdonate se senza avvedermene mi allontanava dal principale argomento di questa lettera. Ripeto dunque e protesto che non ho mai cessato di piegare mio padre alle vie del perdono: e vi è in Pesaro, vi è in Cesena, vi è in Bologna ed in Milano chi potrebbe rendere di ciò testimonianza. Non mi reca quindi meraviglia che giudicando egli della generosità de' miei sentimenti dalla fermezza e dal calore delle mie istanze, credè ora farmi cosa gradita nominandomi sola regolatrice della sua conciliazione col Conte Cassi. Ma egli dimentica che anche la virtù ha un limite, al di là del quale domina il vizio. E che nel caso mio si può bene spingere la generosità fino al perdono sincero delle ingiurie e all' adoperarsi ancora perchè con noi le perdoni un padre, il di cui sdegno basterebbe per se solo a vendicarne: ma che non si può, nè si deve consentire a riconciliazione alcuna fra lui ed il nemico della nostra fama, quando l'offesa ebbe per testimonio il pubblico; e molto meno si può additare e regolare i mezzi di una pace sì strana: pace che l' onore stesso vieta, e cui la ragione ripugna. Allorchè mio padre m'incaricò di scrivervi mi astenni dall'affacciargli queste giuste considerazioni, temendo che la minima obiezione per mia parte nol rimovesse dalla promessa indulgenza. Ma è mio debito parlare a voi con maggiore sincerità: nè dubiterò di aggiungervi che l'ufficio che m'era imposto dalla più difficile delle virtù, terminò nel punto che ottenni da mio padre l'assicurazione del suo perdono pel mio nemico: e che a compiere anco al di là di questo ufficio basterà d'ora in poi che io non mi opponga a quanto verrà operato per restituire la grazia del padre all'assassino della figlia. Siccome poi credo che a questo solo miri il Conte Cassi, è inutile che per di più io impegni la mia tacita cooperazione: perchè assolutamente protesto che non potrei approvare fra queste due persone l'antica intrinsichezza, senza rendermi colpevole dinanzi il pubblico, e ciò che più importa, dinanzi a me stessa, di una bassa e vergognosa condiscendenza. Che se il Conte Cassi ambiva a mia onta un'intiera vittoria su l'animo generoso di mio padre, non doveva costringermi, mediante la sua infernale persecuzione, a tenermi legata ancora ad una società dalla quale mi aveano già sciolta la grandezza della mia sventura e l'irrevocabile voto del mio cuore. Doveva attendere che questo voto fosse adempiuto, acciocchè io non fossi più in istato di chiamare a testimonio della mia condotta quel pubblico stesso presso il quale egli ha tentato di perdermi. Non già che io più mi curi per mia propria soddisfazione de' suoi giudizî, imperocchè una dura esperienza mi ha convinto che basta ogni minimo accidente di fortuna per corrompere l'integrità: e che quindi è stoltezza il fondare in essi il premio della virtù e la punizione del vizio, ma prima di rompere l'ultimo anello che mi lega a quell'immensa turba d'ingannati e d'ingannatori (come soleva chiamarli il mio buon Giulio) che si appella genere umano, stimo mio obbligo il mostrare che l'anima mia non è (siccome gridano i miei nemici) indegna di quella generosa assistenza che non pochi onesti le hanno prestato e le prestano ne' giorni dell'infortunio. Imperocchè non per tutti l'aspetto dell'infelice è cosa ributtante e paurosa e non tutti volgono ad esso le spalle colla fortuna.

Io doveva, mio buon Salvatore, rendervi ragione di quel silenzio che imporrò a me stessa nell'avvenire intorno la meditata riconciliazione, acciocchè egli non venga tribuito a malignità, o a bassa voglia di vendetta. Che se vi piacerà considerare imparzialmente quanto vi ho detto, non dubito che invece non veggiate in esso una prova sicura di quel desiderio che sempre tengo di ubbidirvi. E assicuratevi ancora che non esiterei ad allargare la mia promessa, se l'onore e la ragione mel consentissero. Ma lo ripeto: voi siete libero di agire: nè la mia voce vi farà contrasto presso mio padre, perchè troppo m' affido nella vostra ginstizia.

Termino la noia che deve avervi cagionato questa lunga lettera, col ringraziarvi della tenera cura che dimostrate a mio padre per la mia situazione. Le vostre dolci parole fanno chiara testimonianza della gentilezza dell'animo vostro e desse, caro amico, avrebbero avuto forza di recarmi qualche conforto se di conforto fosse suscettibile un dolore cui non è altro rimedio che il sepolcro.

Addio, mio buon amico. Vi sia raccomandato il nome e la gloria dell'angelo che abbiamo perduto.

La vostra amica aff.ma
Costanza Monti Perticari.

L'autogr, è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti. Questa lettera è senza data, ma, parlando delle correzioni del Convito di cui il Monti pubblicò il Saggio nel maggio 1823 potrebbe essere, come opina il Murari (V. Givlio Perticari e le correzioni degli editori milanesi al Convivio—Giornale dantesco, V), del settembre 1822; però l' accenno alle pratiche per la riconciliazione col Cassi, farebbe ritenere fosse posteriore.

Milano, 1823.

Mio caro Antaldo.—Io stavo attendendo l'arrivo de' sospirati manoscritti prima di rinnovarti la noia delle mie lettere, e dico noia perchè essendo veramente infelicissima, non ponno le mie parole recare altro che dispiacere a chi le ascolta, come quelle che solo sanno ragionare de' miei mali. Io non veggo il motivo che ti fa ritardare la spedizione promessa; ma poichè tu la ritardi il farai per qualche saggio ritardo, il quale ti prego manifestarmi, non possendo più resistere in tanta dubbiezz. Mi scrisse non è molto il Conte Paolo che il Convito postillato dal Tasso s'è rinvenuto. Piacciati inviarlo, perchè desso è desiderato da mio padre con molta impazienza, volendo in esso riscontrare alcuni passi che gli preme di schiarire. Piacciati ancora, e te ne prego in ogni umile e calda maniera, di non restare più lungo tempo dallo spedire le carte del povero mio Giulio; perchè se tu vedessi lo stato a che m'hanno ridotto le raddoppiate e troppo acerbe sventure avresti rimorso di aggravarle anco colla sola apparenza del tuo abbandono. Del resto io non prego questo favore a me, se non in riguardo alla santa memoria del mio Giulio ed alla gloria del suo nome.

La mia salute mi vieta di stare al tavolino, ed ecco perchè non posso dare costà mie notizie sovente. D'altronde gl'infelici hanno diritto di chiedere di essere dimenticati e di prevenire così la sorte che loro sovrasta. Anche mio padre torna ad ammalarsi del suo occhio: e ciò per la soverchia applicazione. Io sono sottoposta ad una cura rigorosissima, la quale ho dovuto finalmente intraprendere per levarmi d'attorno le importunità, che a questo riguardo mi venivano fatte tutto il giorno, e perchè realmente i miei principii non mi concedono di disporre della mia esistenza. Che se ciò non fosse, già da tempo i miei nemici sarebbero pienamente di me appagati. Il mio male è tenuto da alcuni fisici per malattia di polmone e per altri credesi malattia di fegato. Sventuratamente per me qui non si curano questi scocerti di salute coll'assenzio, co' liquori, colla china ecc, nè si scambiano colle debolezze di stomaco!!!! talmentechè dubito forte che per non avere ancora il male messe abbastanza forti radici, desso non sia rimediabile! E sì la morte è pur dolce per chi vive una vita peggiore mille volte d' ogni morte più cruda!

Ti prego di salutarmi tanto il Conte Paolo Macchirelli, i coniugi Felici, Perotti, la mia Violante e specialmente la mia cara suocera, la madre del mio Giulio. Addio, caro amico, perdona il disturbo e, se non ti grava, scrivimi qualche cosa de' manoscritti, anzi mandali tosto, te ne scongiuro. Compiangimi ed abbi memoria della tua infelice amica

Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Milano, [aprile] 1823.

La mia cattiva salute, che in questi giorni passati era caduta in peggiore stato che mai, mi ha impedito di rispondere prima alla vostra amorosa lettera. Oggi, per altra di Antaldo, odo che avete scritto al Conte Cassi che mio padre ed io siamo tuttavia persuasi della sua lega col Conte Ferri. Voi siete in errore, mio buon Salvatore, per rapporto a mio padre.

Egli, credetemi, non si sarebbe indotto giammai ad ascoltare parole di pace, se non fosse interamente persuaso che Cassi è innocente di quella colpa. E ciò che io posso sapere e credere nel segreto del mio cuore che importa al Conte Cassi? a lui deve bastare, e basta sicuramente, che questo cuore lacerato non apra le profonde sue piaghe allo sguardo paterno: che io consumi nel silenzio e nel dolore il mio sacrifizio e che non faccia uso del potere che l'amore di figlia, le mie sventure e le mie ragioni mi concedono contro di lui. Cassi dunque scriva a Cassi sarà assolto d' ogni colpa. Questo stesso vi aveva promesso nell'altra mia lettera: ma io mi accorgo con amarezza, che voi pure mal conoscete il mio cuore, poichè diffidate di abbandonarvi a lui e l'accusate di un odio e di uno spirito di vendetta, che meglio si confarebbe allo stesso Cassi che a colei che ha sin ora con tanto calore perorato la sua causa. E sappiate che se io fossi capace di basso sentimento, ben altre offese che quella fatta a me sola il desterebbero! Oh se ognuno avesse il coraggio di porsi la mano al petto, sentirebbero i miei stessi accusatori le percosse della propria coscienza e sarebbero meno pronti a scatenarsi sopra una vittima più tradita che colpevole, più infelice che meritevole di esserlo; più segno dell'invidia e dell'ingiustizia degli uomini, che della giustizia del Cielo. Ma si è giurato di gravare me sola della stessa ira della fortuna, e, purchè io soccomba, che importa che i fatti mi rendano ragione e facciano le mie discolpe? Questi fatti non sono conosciuti che da pochi; a'lontani è agevole cosa l'imporre colla menzogna e se io seguito a tacere la storia verace delle mie sventure, la mia infamia è certa ed eterna, quanto il nome chiarissimo del mio buon Giulio: ed ecco-per tal modo pieno lo scopo dei miei nemici. Dall'altro canto a qual prezzo, gran Dio, dovrei io comprare la mia giustificazione? Ah! se non piacque al Cielo di accogliere l'offerta della mia vita per la salvezza di colui che solo poteva rendermela cara, mi resta a pagare alla sua memoria un tributo mille volte più della vita prezioso: quello di un silenzio che mi costa la perdita dell'onore.

Voi dite che non sono a rammentarsi più que'giorni dolorosi che mi hanno precipitata in tanta miseria: ma posso io non rammentarli, e non rammentarli sempre?

Le mie sventure però hanno una più lontana origine. Fino dall'epoca della nostra partenza da Roma la naturale giovialità di Giulio aveva dato luogo ad una quieta malinconia. Dopo la breve ma non lieve malattia che egli ebbe costà nell'estate cattivissimo che vi passammo, le cento volte io l' ho trovato a finestre chiuse negli angoli più remoti di casa a piangere amaramente. Nè il pianto mio stesso, nè le mie più tenere e pressanti preghiere ebbero mai forza a trargli di bocca il motivo di sì profonda tristezza. Egli mi giurava che non ne aveva alcuno, ma diceva sentirsi un gran bisogno di piangere ed una gran debolezza, e di questa dava egli colpa a'medici, che gli avevano fatto cacciar sangue nella sua malattia; i quali, però, ad onta delle sue querele, seguitavano a protestare non essere quella sola sanguigna sufficiente a ristabilirlo.

Ma Giulio aveva, comechè lo tacesse, altre ragioni di dispiacere…. ed io non cesserò fino all'ultimo mio respiro di maledire quel fatal viaggio di Roma… Ritornati in Pesaro, niuno tacque del cangiamento notabile che leggevasi in volto del povero mio marito. Nella primavera penultima del suo vivere, egli, per distrarsi e per vincere la malinconia, face una gita a S. Marino. Colà si fermò una sera tutto in sudore all'aperto in un caffè: e ne trasse una to sse secca e convulsa, che dì e notte lo tormentò per più mesi.

D'allora la sua pelle prese un color giallastro; cominciò a dimagrare sensibilmente, diventò taciturno e non meno mostravasi abbattuto nel morale che nel fisico. Non mi parve quindi più tempo di dissimulargli le mie inquietudini. Sospettando che una qualche segreta cura gli mordesse l'anima, non lasciai intentata alcuna via per conoscerla, onde poi porvi quel rimedio migliore che per me si potesse, o almeno (se altro non poteva) dividere le sue pene e aiutarlo coll'amor mio a sostenerle. Le mie lagrime lo intenerirono: mi confortò, mi abbracciò, pianse meco; ma il suo cuore mi rimase chiuso. Solo mi confessò che alcuni misteriosi avvisi venutigli da Roma per opera di un imprudente amico (e questo era vero) lo tenevano giorno e notte in una crudele agitazione. Ancora mi disse essere cagione della sua raddoppiata tristezza un avvenimento di che ora è buono tacere: e lo stesso replicò al Conte Roverella nel suo ritorno da Milano. Ma tutto che l'amor patrio di quel santo petto mi fosse ben conosciuto, non potei acquietarmi a quelle proteste: tanto più che m'era noto com'egli trovavasi in angustie per alcuni sconcerti non lievi d'interesse, ne'quali la sua mal cauta bontà lo avevano precipitato; nè io poteva contribuire a rimediarli, se prima non otteneva un'intera confidenza da mio marito. In tanta incertezza stimai buon consiglio l'aprire al Conte Cassi i miei affanni domestici: e nol feci senza molto pianto. Ah! se Cassi avesse allora unite le cure della sua amicizia alle tenere cure dell'amore mio, qualunque si fosse stata la vera cagione della malattia di Giulio, eravamo forse ancora in tempo a salvare i preziosi suoi giorni! E Cassi molto promise alle mie calde preghiere; ma Cassi tradì la sua promessa e la mia fiducia. Dopo qualche tempo egli mi assicurò che la malinconia di Giulio proveniva dal credere di star male: ma che in realtà quel suo male era d'immaginazione. E mi biasimò di mostrarmene allarmata, dicendo che ciò accresceva l'apprensione di Giulio. Nè poco contribuì a velarmi la mente le assicurazioni del dottor Fusignani in tutto conformi a quelle di Cassi; di Fusignani, il quale, solo negli ultimi giorni di quell'infelice, confessò che all'epoca che parlò, Giulio era intaccato da grace e forse non più rimediabile malattia. Oh! mi si dice: egli non volle mai curarsi: è vero: egli non volle mai curarsi; ma niuno vi fu che seriamente gli mostrasse la necessità di quella cura. Io stessa cessai d'insistere dacchè la ogni lato udiva ripetere che tutto il suo male era nella fantasia. Oh! vi fosse allora stata una mano amica che mi avesse tolta dagli occhi la benda! Io lo avrei accompagnato a Milano: e qui dove ogni giorno mi si additano persone che intaccate dalla stessa infermità, anco invecchiata, hanno, mediante una cura semplicissima, ricuperata intera e florida salute, qui avrei incontrato l'angelo tutelare, che m'avrebbe salvata quell'adorata vita. Mentre invece la sua, anzi la mia perfida stella lo ha ricondotto fra ignoranti assassini che l'hanno ucciso. Sì, ucciso. L'infelice ripugnava a'medicamenti micidiali che gli venivano somministrati: ed oh! si fosse ascoltata la voce della natura! e quando io volli fare istanza per altri rimedii che la stessa opinione medica trovò buoni, che l'ammalato chiedeva istantemente e che nondimeno si trascurò sempre di porre in uso, tranne (ahi! troppo tardi) all'arrivo di Tommasini, Cassi mi si avventò contro coll'ira di una furia, rinfacciandomi che gli pareva di fare abbastanza… Oh! non è questo il linguaggio della vera appassionata amicizia… A niuno che ben ami sembra di far mai abbastanza per la salvezza di una cara vita! Nè a stupirsi che dopo sì fieri rimbrotti, io non avessi più coraggio d'insistere: imperocchè non conobbi che tardi la necessità di opporre una forza disperata allo sdegno di Cassi.

E con quanta crudeltà si seguitasse ad accecarmi sullo stato deplorabile del povero mio marito non è a dirsi. Ad ogni mia questione vedeva apparire una imperturbabile calma sul volto degli assistenti: non si cessava di trattare per fantastica quella malattia e si rideva (sciagurati!) di tutto ciò che era, ohimè, pur troppo indizio del prossimo fine di quell'angelo. Quante volte la fina ipocrisia del Conte Ferri non mi ha costretta a ricusarmi agli amorosi inviti dell'amato infermo, che ad ogni istante mi apriva le sue braccia! quante volte non mi ha egli strappato da quelle, sotto colore che la commozione con che mi stringeva al suo cuore poteva riuscirgli fatale! e si giunse persino a proibirmi di corrispondere alle sue parole d'amore, di dimostrargli il mio affetto colle mie tenere cure.

Non posso proseguire, le lagrime mi soffocano.

Tiro un velo su quella scena di dolore: ogni circostanza n'è così terribile che il rammentarla soltanto (e quando non ci penso?) è peggio che morte.

Ma raccogliendo nella mente la condotta tenuta da Cassi in quei giorni d'inferno, m'è chiaro com'egli fino d'allora avesse fermo di perdermi. Cassi, voi dite, si trovava circondato dai miei nemici, che non potevano consigliarlo che al male. Ah, Cassi era capo egli stesso dei miei nemici! e l'odio suo non metteva allora solo profonde radici… Delle persone che lasciai in S. Costanzo non ne so che una interessata, per sua discolpa, a rovesciare in me il biasimo universale. Ma io ho di lui tal lettera che dovrebbe colpirlo di vergogna se il proprio interesse lo avesse indotto a tradire la verità… Un'altra ve n'era, stata testimonio di ciò che Giulio, pochi giorni avanti, avevami detto intorno le sue disposizioni testamentarie… discorso che mi affrettai fin d'allora di troncare (ed era dovere). Questi medesimo dopo l'orribile catastrofe mi promise spontaneamente di fare raccolta di tutte le parole d'amore che a lui stesso Giulio aveva detto di me sino al penultimo giorno del suo vivere. Ma egli poscia ha stimato miglior consiglio di scrivere sotto la dettatura di Cassi tal relazione di quel fatto funesto, che deve avere ispirato, a chiunque non ne fu testimonio, altissimo sdegno contro di me. Il Giornale Arcadico l'ha pubblicata ed io chino il capo. So ancora che debbo alla vostra pietà ed amicizia che l' odio accanito di Cassi non procedesse più innanzi almeno per quella via. Lasciai pure in S. Costanzo il Conte Ferri che coll'arte della più fine ipocrisia adoprò meco fino all'ultimo le dimostrazioni dell'amicizia la più devota. Il Conte Ferri che non ebbe rossore di essere da me regalato nell'atto stesso che macchinava piantarmi nel cuore il coltello dell'infamia. Il Conte Ferri che pochi mesi avanti sotto la maschera di una bugiarda compassione i' aveva carpito lo sfogo de' miei dispiaceri domestici; e che invece di porvi argine con dei saggi consigli, invece di mostrarmi come il cambiamento morale del mio dolce marito era conseguenza dello sconcerto fisico e come io ero la più ingiusta delle donne accusandolo di poco amore, si fece un piacere crudele d' aiutarmi a trovare dei torti immaginari nell'animo il più giusto, il più amoroso che mai uscisse dalla mano eterna. Così, reidestando il puntiglio e la discordia, pose silenzio all'amore sempre vivo di due cuori che allora solo cessarono d'intendersi, quando per l'arte infernale e per l'invidia di alcuni scellerati furono impediti d'interrogarsi. Ma sia fine a questo doloroso esame. Quand'anche ciò che voi dite fosse vero, quand'anche Cassi non fosse l'anima principale della guerra che mi perseguita, quand'anche egli non avesse consentito alla diramazione dell'infernale scritto di Ferri, può egli negare che quello non sia stato composto sotto i suoi occhi? E non doveva egli impedirlo, se un solo sentimento di umanità gli avesse battuto in petto? Che dico? chi, se non egli, colle lettere di suo pugno sparse per Roma e per Lombardia ha dato l'esempio di calpestar il capo dell'infelice? E si fosse almeno contentato di esporre la verità dei fatti; che anche nelle persecuzioni, ove è morta la pietà e la giustizia, bello è pure fuggir la calunnia e l'attenersi alle sole armi del vero: ma il crudele presentiva che ciò avrebbemi meritato compassione e non infamia: nè per lui era spettacolo abbastanza miserando il vedere la vedova e la figlia sventurata de' suoi più cari amici in preda a sterminato, inesprimibile dolore, se al colmo de' suoi mali non aggiungeva il peggiore di tutti, il disonore. Degna impresa veramente di anima illibata e gentile! opera santa veramente e meritevole che Giulio dall'eterno riposo gliene gridi mercè: e che mio Padre gli apra le braccia e lo stringa sopra quel cuore che egli ha sì indegnamente lacerato!… Di me non parlo. So che il cielo non è sempre sordo al voto di vendetta dell'infelice oppresso, ma io non ne formerò giammai alcuno in danno di chicchessia. Possa la memoria de' raddoppiati miei mali non funestare giammai in nessun tempo la pace di Cassi; anzi possa egli così pienamente dimenticarli pel riposo della sua coscienza, come io sinceramente glieli perdono: e possano gli uomini e la fortuna essere a lui altrettanto benigni, quanto a me furono ingiusti e crudeli. Io ho depositato nel vostro seno l'estremo sfogo di un'anima orribilmente offesa: e forse ho abusato della vostra sofferenza. Ma voi, pietoso e gentile qual siete, me lo perdonerete. D'ora in poi mi sforzerò d'imporre silenzio anche alle querele: e così nulla mancherà al penoso mio sacrifizio. Nè chieggo nemmeno che l' amicizia me ne tenga conto, perchè in questa generosa condotta seguo i precetti e l'esempio di quell'Angelo, che ardo di raggiungere. Pure, se vi pare che il doloroso mio stato meriti qualche pietoso riguardo, promettetemi di adoperare ogni vostra cura in rendere ognora più conosciuto il nome del mio Giulio. E voi il potete: voi cui la natura fu larga di peregrino ingegno e di animo gentile.

Intorno al mezzo che mi chiedete per mandare qui il Giornale Arcadico non so che rispondervi, perchè non ho relazione con alcuno, nè veggo a chi rivolgermi. Mio Padre ha detto che ne parlerà con qualche suo amico. Ma intanto non potreste voi trovar modo di farmi giungere almeno il vostro componimento e quello di Biondi? Io ardo di possederlo e vi scongiuro che contentiate la giusta mia brama.

Datemi ancora, se non vi grava, notizie della vostra salute che vorrei udire pienamente rifiorita.

Della mia non so che dirvi. Scarpa, che ho consultato per compiacere al povero mio Padre ed ai fisici che qui mi assitono, non dispera di ristabilirla: ma egli l' ha confrontata ad una macchina di vetro che può rompersi fra le mani nel maneggiarla. Ah! che pur troppo i miei mali non avranno sì pronto termine!

L'età, la forza della mia complessione e il fato terribile che m'incalza ancora legano l'anima mia con saldi nodi ad una misera vita; e quando, quando sarà ch'ella se ne sciolga?

Addio, caro amico, compiangetemi.

La vostra amica aff.ma
Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale Storico della Letteratura ital., Vol. 11.o—Riferendosi alla seguente, la lettera è certamente del mese di aprile.—Antonio Scarpa, nativo di Motta del Friuli (1747—1832) fu medico e chirurgo di grido e rettore dell'università di Pavia.

Milano, 26 aprile 1823.

Caro Antaldo.—Betti e voi tutti siete in errore nel credere che mio padre ancora sospetti il Conte Cassi di accordo col Conte Ferri. Avrei io mai potuto indurlo ad ascoltare parole di pace, se prima non mi fosse riuscito di cancellare dal suo cuore una simile supposizione? Chi è padre mi risponda. Quando Betti richiese che venisse benignamente accolta la lettera progettata dal Cassi, mio padre rimise nel mio arbitrio questo affare, e non volle, per quanto io nel pregassi, suggerirmi verbo per la risposta da farsi al Betti. Tu, mi disse egli, tu principalmente sei l' offesa e a tua istanza io mi sono indotto al perdono; tu regola dunque i mezzi di questo accordo, se pure vuoi veramente che io apra le braccia al tuo persecutore. Mio padre con queste parole confondeva l'atto del perdono con quella intrinsichezza d'amicizia che non può a verun patto stringersi fra la famiglia Cassi e la famiglia Monti. Il pubblico stesso mi ha fatto colpa del calore con che ho perorato la causa del primo. Mia madre non cessa d'insistere perchè tralasci di somministrare ai miei nemici nuove armi contro il mio onore colla mia intempestiva generosità. E mia madre ha ragione, perchè io non mi acceco e ben conosco ed ho sempre conosciuto che la riconciliazione di mio padre col Conte Cassi, mentre questi seguita a dichiararsi nemico mio, nè un solo passo ha mosso per almeno mostrarsi sensibile e grato ai miei generosi maneggi, una siffatta riconciliazione, io dico, è il sigillo che io stessa pongo al mio disonore. Dall'altro canto voi conoscete mio padre; io non potea e non posso dire a questi senza ridestare il suo sdegno:—Le mie parti sono compite, ho assopito la vostra giustissima ira, vi ho indotto ad udire benignamente il crudele che per il primo m'ha piantato nel cuore la spada dell'infamia; il crudele che non ignorando egli medesimo ch'io sono stata più tradita che colpevole, più infelice che meritevole di esserlo, più vittima della malignità e dell'invidia, più vittima dico della ingiustizia degli uomini che della giustizia del cielo, nondimeno non ha arrossito di calpestare il mio capo già percosso dalla fortuna, di tentare d'alienarmi il cuore di mio padre in mezzo le mie orribili sciagure e di tormi l'ultimo conforto degli infelicissimi, l'ultimo compianto. Ora sarebbe barbarie il volermi indurre a condurre io stessa fra le braccia di mio padre il mio assassino… Ma queste considerazioni, lo ripeto, non potea io affacciarle a mio padre senza perdere il frutto della mia generosa condotta, imperocchè la minima delle dette cose sarebbe bastata per ricondurlo alle prime brame di guerra e di vendetta.

D'altronde l'occhio del pubblico è aperto sulla sua e mia condotta in una riconciliazione che non può, senza infamia mia, passare i limiti del perdono. Costretta dunque a rispondere per mio padre al Betti, ho stimato meglio aprirgli le mie angustie e fargli conoscere che senza ch'io stessa indicassi il metodo da tenersi, egli poteva suggerirlo come più gli piaceva al Cassi, promettendo di non aprir bocca in quanto si fosse combinato e conchiuso. Cassi dunque scriva, se così avete deciso; ma per l'interesse suo stesso avvisatelo che mio padre già è intimamente persuaso ch'egli non abbia mai avuto parte nell'opera infernale di Ferri, che a voi piace chiamare mitemente bricconate. Avvisatelo ancora, che ponderi bene prima se metta conto il toccare questo tasto, già muto da tanto tempo nel cuore paterno, tanto più che mio padre certamente chiamerà me a giudicare delle parole di Cassi e che l' anima mia abbastanza ha fatto prove di forza e di generosità nel dissimulare finora le san guinose offese di una lega la più vile, la più infame che mai uscisse dal consiglio d'abisso. Io desidero sinceramente (e voi lo sapete) questa riconciliazione: ma, caro amico, la ferita fatta all'onor mio è tuttora aperta e, malgrado le pacifiche disposizioni del mio spirito, non so se avrei la pronta e necessaria forza di nascondere il mio sdegno nel leggere qualche parola che avvalorasse le passate ingiurie. E l'avessi pure: vi è qui una madre, e lo sdegno di una madre non è facile ad assopirsi.

Nulla di meno, lo ripeto, mio padre è di presente in tale disposizione, che migliore non potrebbe desiderarla lo stesso Cassi. Tocca dunque a lui a prevalersi dell'istante, se sa usare la dovuta prudenza; e tocca a voi, tocca a Felici il consiglirlo con senno. Dovea per vostra norma dirvi tutte queste cose, e desidero che la presente sia comune anco a Felici, acciocchè egli sappia regolarsi nel trattare una piaga non bene rimarginata. Io tacerò: ho fatto finora abbastanza, ed a caro prezzo ho comperato il diritto di questo silenzio. Pure se sarà necessario vi prometto un ultimo sforzo, e chieggo che l'amicizia me ne tenga conto: quello cioè di perorare anche una volta la causa del mio nemico. E dico mio nemico, perchè Cassi in cuore ha giurato da gran tempo la mia totale rovina: e le sventure, siccome ammorzano l'odio negli animi gentili, così l'accendono maggiormente in quelli della sua tempra. Cassi, voi dite, non ha avuto parte nella bricconata di Ferri: Cassi non ha permesso la diramazione di quello scritto vilissimo: ma Cassi lo ha però lasciato scrivere sotto i suoi occhi, e Cassi ne ha in buona parte somministrato le parole. Cassi non ha dato la sua approvazione a quella diramazione, ma Cassi non l'ha impedita, e impedirla potea, se veramente egli l'avesse voluto e se gli avesse battuto al cuore un solo sentimento di umanità. Ma sia egli innocente di questo delitto. Chi ha scritto le infernali lettere che hanno girato in Roma ed in Milano, prima che quello scritto fosse conosciuto? Chi ha tentato di chiudermi il cuore dei miei genitori nell' istante medesimo che con ipocrita pietà mi spingeva fuori della cassa di mio marito? Chi mi ha imputato a delitto l'esserne uscita dopo avermi forzata a farlo? Chi ha dettato la relazione maligna, inserita nel Giornale Arcadico, dell' ultima terribile catastrofe che m' ha gettata nel fondo d'ogni miseria? Chi si è scatenato contro me coll'ira di una furia, quando m'attentai a dimostrare che la cura stabilita al povero mio marito (cura micidiale) allarmava la mia tenerezza? Chi ha bassamente tradito la fiducia che in lui aveva posta sopra gli scritti sacrosanti di Giulio? Taccio della sua fuga a S. Costanzo al mio improviso ricomparire in Pesaro, che a quel passo inconsiderato l'odio dovette indurlo, non meno che il rossore di comparire in faccia la sua vittima. Taccio gli sforzi non mai venuti meno per perdermi presso le persone che non mi conoscono, perchè mi basta la giustizia che mi rendono coloro che mi conoscono; taccio di molti altri gravi suoi torti, per non dire gravissime colpe, le quali prego il cielo non rivolgere giammai sul capo suo e che lungo sarebbe l'annoverare, non che cosa importuna per gli orecchi di chi gli è devoto in amicizia. E questi, questi è l'amico d'infanzia dell'animo il più giusto, il più dolce, il più santo che mai sortisse dalla mano eterna! Così egli serve alla gloria del suo defunto amico, ponendo cioò la disperata sua vedova al duro cimento o di sottoscrivere col silenzio la propria infamia o di offuscare in qualche parte la memoria chiarissima di un angelo, sottoponendo al giudizio del pubblico il sincero racconto di quei fatti nei quali sono stata sì orrendamente calunniata e che soli racchiudono la mia giustificazione. Sciaurato! Il cielo non è sempre sordo al grido dell'infelice oppresso! e s'io ho finora avuto la forza di soffocare quello che sorge dal profondo del mio petto, ne ringrazii questo cuore medesimo che egli ha barbaramente lacerato. E voi, caro amico, ponetevi un istante ne' miei panni e ditemi in buona fede se non vi parrebbe d'aver compito anche al di là di quel dovere che la più difficile delle virtù domanda, avendo in cuor vostro ed anche apertamente perdonato al primo autore della vostra infamia, di un'infamia che non potreste lavare dal vostro nome che a prezzo dell'estremo e sacro dovere dell'amor coniugale. Mi duole di essere stata costretta ad importunarvi con questa lunga querimonia. E più mi duole di non potervi tutta aprire l'anima mia.

Ma il mio dovere vince ogni espressione, siccome la mia sciagura vince ogni termine. La morte sola può liberarmi da sì penosa esistenza: la morte sola! che nulla nell'universo può rendermi ciò che mi faceva cara la vita! Attendo con impazienza le promesse carte. Salutatemi Felici, la Teresina, la Violante, il Conte Paolo e gli amici tutti. Che fa quell'angelo di mia suocera?

Oh! quanto, quanto abbiamo tutti perduto! Addio, mio caro Antaldo, sta sano e compiangi

l' infelice Costanza.

L'autogr. si trova nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Savignano, 10 agosto 1823.

La mia salute che ogni dì declina mi ha impedito di ringraziarti prima d'ora delle pietose espressioni con che ti è piaciuto nella tua lettera soccorrere al mio dolore, e delle scatolette di penne che mi hai gentilmente spedite. Avrei desiderato ardentemente di compiere quest'ufficio di gratitudine a voce, ma dopo aver perduta l'unica speranza, che mi aveva qui ricondotta, intorno alla gloria letteraria del sempre adorato mio Giulio (tu m'intendi) io non ho ad ogni istante che novelli motivi per affrettare la mia partenza. Tanto però è il dolore di allontanarmi senza rivedere te ed il nostro Raffaele, che io credo avrei forza di sottomettermi alla guerra orribile che mi è mossa contro, se lo stesso mio padre non mi richiedesse di abbandonare questa dimora di malvagi. Parto colla certezza di non aver nulla operato in mia vendetta: e dirò più, colla speranza di mitigare lo sdegno di mio padre, sì che egli, siccome mi ha promesso, non muova passo contro i miei persecutori. A questo effetto ho celato a lui tutto quello che ho potuto, nè egli sa la terza parte de'mali trattamenti che ho sofferti. E quando anco i miei fermi principii non mi spingessero ad operare il più generosamente che potrò verso i miei nemici, basterebbe ad indurmici il pensiero che costoro appartennero un giorno per vincolo d'amore al mio caro Giulio. Non voglio annoiarti colla descrizione dei mali trattamenti che ho da loro. Ti basti sapere che ad ogni momento raddoppiansi, e sempre gli ultimi sono i più crudeli. Ieri, per esempio, ho scoperto che il… mi ha trafugata una cartella piena de'miei manóscritti, fra i quali eravi pure l'inteira mia traduzione di Cornelio e molti miei versi ed altre coserelle per se stesse di niun valore, essendo parto di meschinissimo ingegno, ma che pure mi erano estremamente care, come pure quattro grossi libri manoscritti contenenti tutti i miei studii sopra Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto e Poliziano ed altri poeti italiani. Che dirti insomma? Io credo che, se l'animo mio non fosse già tutto preso dal pensiero della perdita amara che ho fatto nell'adorato mio Giulio, non mi basterebbe la sofferenza contro tanti e sì replicati colpi. Di chi più fidarsi? A cui più credere? Io per me non lo so: ma so che la sventura è gran maestra, per insegnarci fin dove può giungere la perversità umana. Ben altre cose farà conoscere il tempo; io lo spero, e mi giova crederlo per non escir di senno affatto.

Scrivimi tue notizie, non mi togliere la tua amicizia e provami che veramente compatisci ai molti miei mali, dando bando ai complimenti. Addio, mio caro amico. La più tenera gratitudine della più sventurata delle donne è quanto ho ad offrire all'amico del povero Giulio: ma la miglior mercede delle tue cure generose l'avrai nel tuo cuore medesimo e nella santa memoria del tuo dolce fratello e amico.

Tua affezionatissima
Costanza.

In—Otto lettere della Contessa Costanza Perticari-Monti a Laudadio della Ripa—pubblicate da Sansone D'Ancona in nozze Zabban-Romanelli, Firenze, Le Monnier, 1877.—La persona che trafugò le carte dovette essere Francesco Cassi o Gordiano Perticari.

Milano, [28 agosto, 1823].

Caro amico.—Voi gridate: Povero Giulio! e non sapete che la minima delle persecuzioni mosse alla memoria di quell'angelo! Che direste se tutto vi fosse noto? Prima di ricevere la vostra de'9 corrente io era stata avvertita dell'infame contratto tentato da Gordiano: ed eccovi i termini del medesimo. Voleva Gordiano che il libraio di Bologna (il cui nome ho promesso tacere) si obbligasse per copie due mila a passargli di guadagno un baiocco e mezzo per ogni copia di foglio: cioè baiocchi 3000 ossieno 30 scudi per ogni foglio in piombo. L'opera avrebbe contenuta la Vita nuova ed il Convito e si sarebbe divisa in 2 tomi di 18 fogli, secondo Gordiano, ma secondo il libraio di almeno 30 fogli per tomo. L'onesto nostro mercante si contentava di guadagnare sul primo tomo e protestava di lasciare generosamente il lucro del secondo al libraio: cioè a dire, nella supposizione che il tomo fosse venuto com'ei diceva di fogli 18, voleva guadagnare scudi 540: e nella supposizione del libraio, che fosse venuto di fogli 30, assorbiva scudi 900. Ammira onesta coscienza!

Lo stampatore rispose che danari non potera fornirne nemmeno per la più piccola somma: e gli offerì copie 200 dell'opera quando fosse stampata intera e la restituzione del manoscritto. A questo Gordiano nulla ha risposto, ma s'è dato a tesservi la storiella e dei denari contanti e delle istanze… tutte cose sognate dall'avara sua mente, ma quanto lontane dal vero, voi ora giudicatene: e ditemi di grazia qual vizio tenga il campo in quell'anima di fango. E perchè il vostro giudizio sia più rigorosamente bilanciato, vi mando nelle accluse copie di lettere a lui dirette un corollario che potrià aiutarvi.

L'una delle quali gli fu per me scritta quando ei mandò i pochi manoscritti di Giulio qua pervenuti: l'altra è risposta di mia madre ad un suo lunghissimo pettegolezzo che ultimamente le ha diretto per giustificarsi. E non nego che anche le parole da mia madre scritte sieno mie, ma ho dovuto entrare in que' dettagli e perchè mia madre l'ha voluto, e perchè quel vilissimo non creda che per istupidità mi taccia. Le note che ho numerate in margine vi apriranno la ragione delle cose che ho scritte: e da queste lettere conoscerete altresì come il tanto contrastato libro del Convivio sia mio, e con qual arte infame mi sia stato carpito. Voi dirittamente chiedete che sia tolto di mano a colui, ma che posso io più fare? Tutto ho tentato, tutto ho sacrificato, in tutto sono stata empiamente tradita. Non mi resta ad offerire che il sangue, ed oh! potessi tutto spenderlo per sì santa causa! Ma Gordiano è ingordo d'oro, ed ei ben sa ch'io mi sono spogliata fino dell'ultimo soldo. E voi, perchè non pensiate che io esageri, leggete attentamente le accluse carte: e sappiate di più, ch'io sono partita di casa Perticari tanto meschina che per pagare una iista di dieci bajocchi di chiodi, la quale mi fu presentata per ordine di Gordiano nel momento che montara in legno, dovetti ricorrere a mio padre. Sappiate che oltre l'aver rinunciato al mantenimento dell'anno vedovile, fui costretta a rilasciare i frutti per tutto l'anno medesimo della somma che Gordiano mi ritiene. Sappiate che ogni spesa e di viaggio e di mantenimento mi è stata da mio padre messa a lista: sappiate che vivo in due meschine camere nel piano superiore a quello che abita mio padre, pagando un affitto carissimo: che appena giunta in Milano ho dovuto cominciare a provvedermi e del letto e di sedie e di tutto ciò che esigeva il più stretto bisogno: che tutto mi è posto a lista, pertino la carta da scrivere e lume e foco e tutto insomma senza l'eccezione di una spilla. Sappiate finalmente che nè dalla famiglia Perticari, nè dalla mia propria ho l'aiuto di un soldo, e che finora non ho potuto reggermi che a forza di debiti, per sciogliermi de' quali non ho altro riparo che il diminuire notabilmente il capitale della mia povera dote, unico mezzo di sostentamento che mi rimaneva, poichè nè sui capitali di casa posso contare, nè da mio padre sperare più nulla, avendo egli fatto testamento tutto in favore di mia madre. E qui non è quistione del giusto o dell'ingiusto e de' miei o degli altrui diritti, poichè a costo di mendicare un pane di porta in porta non alzerò mai verbo innanzi i tribunali contro chi mi diede la vita. Ho dovuto a prirvi parte di queste crudeli verità, perchè conosciate che assolutamente non mi resta più alcun sacrificio con che impedire lo strazio indegno che si fa del nome santo di Giulio. Voi dite: rivolgiamoci a Trivulzio:… ah! Betti mio, ponderate bene questo passo prima di avanzarlo. E verissimo che per l'opera che egli con mio padre ha per le mani desiderava le postille di Giulio, ma ne sapete voi il segreto fine? no certo, e nemmeno il sospettate. Ora dunque vi ammaestri l' accaduto. Uditemi. Appena giunta qui in Milano mio padre mi parlò dell'intrapresa correzione del Convivio, e promettendomi di rendere a Giulio tutta la gloria che in questa fatica egli si era meritata, mi carpi dalle mani un manoscritto ove io avea raccolte molte note, parte tratte dal libro ritenutomi da Gordiano, parte udite dalla voce stessa di Giulio. Mio padre dal canto suo aveva pure fatta conserva di molte altre cose comunicategli da quell'infelice quando fra loro nacque il primo pensiero di questo lavoro.—Voi immaginate, se il potete, quale restai alla lettura del saggio pubblicato!—Giulio poteva egli essere spogliato più infamemente dallo stesso inumano suo fratello? E che mi cale che con belle parole si faccia di lui menzione quando col fatto gli si usurpa ciò che merita? Ben so che Giulio pure fu uomo, e soggetto a ingannarsi, ma qual bisogno di citare il nome suo solo ove le sue parole esigevano emendazione?… e perchè vestire altrui delle sue penne?…

Io fremeva nel segreto del mio cuore di sì stroce ingiustizia allorchè una mattina, presente l'abate Villardi ed altri molti, mio padre non si fece coscienza di asserire che quel lavoro tutto era suo, e che le illustrazioni di Giulio non gli avevano servito a nulla, che il medesimo manoscritto toltomi da Gordiano era tutto errato e che faceva rergogna a Giulio. A queste parole ruppi ogni freno alla pazienza, e in mezzo a lagrime di sdegno e di dolore aperta manifestai la verità. Il rispetto di figlia appena mi tenne che non chiedessi allora allora il confronto del saggio pubblicato colle note che io stessa aveva somministrate. Mio padre ammutoli: ma qui non ebbe fine la guerra ch'egli (ahi maledetta letteraria invidia!) ha mosso contro quel chiaro lume dell'italiana letteratura! Ora si parla di una nuova edizione delle rime antiche di Dante da farsi sopra i codici Trivulziani… e Trivulzio possiede tutte le correzioni di Giulio a quelle rime; ma di Giulio nemmeno si parla. Ah! caro Betti: lunga sarebbe la storia di tutti i piccoli e vilissimi raggiri che ogni giorno si couchiudono a danno di quell'angelo: e poco più manca ch'io non allarghi il freno alla disperazione veggendomi sì sola ed abbandonata in tanto assedio. Ah, per Dio, non sia mai che il Convivio di Giulio venga in mano di costoro prima che nelle mie. Mi si conceda il suo possesso solo per pochi giorni: io lo renderò, ne impegno la mia parola, e starò a qualunque patto. Pensi Gordiano all' infamia eterna ch'egli si acquista se alle ingorde sue voglie vende la fama, l'onore di suo fratello. Pensi che quest'ultimo colpo mi pone su gli occhi la benda; che nulla più ho a perdere: che sono disperata e che da disperata agirò. Nè speri egli riavere mai più i manoscritti qua spediti: nè speri che io oramai più taccia al pubblico la scellerata sua condotta. Ci peusi, lo ripeto, e pel suo meglio si guardi da una disperata.

La febbre mi brucia. Mille altre cose avrei a dirvi, ma la testa non mi regge. Sono tre giorni che la febbre non mi lascia. Pareva che la mia salute cominciasse a rinfrancarsi, ma ad un tratto eccomi ricaduta in peggiore stato di prima. Nondimeno non lascio di operarmi per quanto posso intorno i manoscritti qua pervenuti… oh caro Betti! potessi avervi al fianco e valermi del vostro ingegno per l'onore di quel divino! Ma son sola, sono in mal ferma salute e non ho per reggermi in tanta impresa che un cuore caldo e pieno di quell'adorata imagine! oh dessa è il solo conforto che siami rimasto!—Vi prego, vi scongiuro di scrivere a Gordiano e tentare, ogni mezzo per ottenere il Convivio, almeno per pochi giorni, lo ripeto. Se voi non mi aiutate e d'opera e di consiglio io sento che il coraggio mi abbandona, e già piego il capo all'empia fortuna. Di me non cale, il so, ma Giulio, Giulio mio, questo vi prego avere nel cuore.

Addio, state sano, e rispondetemi qualche parola che mi consoli. Se mi promettete l'opera vostra per ciò che risguarda il mio povero Giulio nulla vi tacerò, e l'intera fiducia che sono presta a porre in voi in cosa tanto santa, vi sia il migliore e più saldo segno della mia stima. Addio. Non reggo più la penna.

La vostra povera Costanza.

P. S. Manderò le accennate due copie di lettere scritte a Gordiano nel venturo ordinario senza fallo: in oggi non posso più reggermi, e m'è forza pormi in letto. Abbracciatemi il mio buon cugino al quale pure scriverò nel venturo ordinario.

L'autogr, è nella Bibl. Vittoria Emanuele di Roma, carte Betti.

Milano. 1823.

Caro Betti.—Due sole righe poichè vi scrivo dal letto. Ecco le copie di lettere di cui vi parlai nell'ultima mia. Leggetele e giudicate se sotto il cerchio della luna esista creatura più disgraziata e più ingiustamente perseguitata della.

vostra povera Costanza.

Seguono, ricopiate da Costanza, la lettera di lei e quella di Teresa Pikler Monti a Gordiano Perticari; la prima è del 30 maggio 1823, la seconda parrebbe, dal contesto, scritta alla fine di luglio o al principio d'agosto del 1823; credo utile riportare quest'ultima perchè, come attesta Costanza medesima nella lettera precedente al Betti, anche le parole scritte dalla madre sono sue. Nel ricopiare le due lettere Costanza aggiunse alcune note che inserisco a pie'di pagina.

Stimatissime Signor Conte.—L'inferma vista di mio padre vietandogli l'applicazione dello scrivere, scrivo io per lui. E rispondendo secondo l'ordine tenuto nella lettera di lei, debbo primieramente assicurarla, Signor Conte, che mio padre nell'aderire alle calde istanze degli ottimi amici Antaldi e Betti, e nell'assumere la non lieve fatica di riordinare e compiere le opere del mio buon Giulio, null'altro attestato (1) Gordiano, nel mandare i mss., scrisse che mio padre non potea dargli attestato maggiore di premura per lui e per le cose sue che l'assumersi la fatica di questa edizione. Vedi ed ammira modestia! ha voluto dare che quello dell'amor suo verso l'illustre figlio del suo cuore. Godo che Ella tenga opinione che una sì generosa impresa possa riuscire ben accetta a quel nobile spirito: (1) Il medesimo Gordiano, dopo aver detto che pel solo amore de' suoi begli occhi avevamo consentito a quanto qui sopra è detto, soggiungeva assicurandone che anche l'animo di Giulio ce ne avrebbe detto mercè. poichè V. S. sarà quindi egualmente persuasa, che siccome dal luogo dell' eterna sua pace egli riguarda ed esamina la condotta di ciascuno di noi a suo riguardo, così sa giudicarla: e già forse ha pronunziato ad ognuno la meritata sentenza.

La promessa fatta da mio padre al Merchese Antaldo non è per mancare, purchè si attengano li patti sopra i quali fu stabilita: e questi patti (com'ella ben sa) furono che si mandassero tutti li manoscritti dell'illustre estinto. Fra quelli ricevuti mancano i migliori: cioè le lettere senili del Petrarca: la vita di Cola da Rienzo: molte illustrazioni sopra Dante: il principio ed i materiali apparecchiati di una lettera diretta al Marchese Trivulzio, intorno le dette illustrazioni: un'altra già in buon ordine da indirizzarsi al Cav. Mustoxidi: tutte le osservazioni sopra la lingua italiana che doveano servire per la Proposta, e che sono contenute in molti fogli volanti: la grammatica provenzale del Renouard tutta postillata da Giulio, lavoro di gran dottrina che gli meriterebbe grandissimo onore, certe ottave sulla discesa di Cristo al limbo: varie altre poesie, parte delle quali già aveano avuto dall'autore l'ultima lima: una raccolta di sentenze tutte ben degne di quel caldo e nobile petto: e finalmente le correzioni del Convito racchiuse nel libro di mia ragione che'ella tuttavia ritiene presso di sè. A lei spetta il decidere se li manoscritti qui pervenuti debbano esserle respinti (nel qual caso si compiacerà indicare a chi vuole siano consegnati) o se si debbano ritenere finchè arrivino gli altri che ho accennati: poichè mio padre è fermo di non toccar nulla se prima non ha il tutto. Attenendosi ella all'ultimo partito, non si tarderà (mi creda Signor Conte) di un'ora sola ad avvertirla del contratto che verrà stabilito a tutto suo profitto (1) Li mss, qui giunti non sono stati rilasciati che sotto la più sacra promessa che tutto l'utile dell'edizione colerebbe nella tasca di Gordiano, senza che noi ne toccassimo un soldo! collo stampatore, tosto che le opere sieno in ordine per pubblicarsi. A tutto ciò che ella poi ne dice per iscusa del villano trattamento che n'è stato fatto, mio padre ed io non vogliamo altro rispondere, se non quello che ella stessa a sè risponderà, se le piacerà interrogarsi. Cosa meravigliosa ne è però riuscito l'intendere come ella sia stata finora forzata ad agire contro la propria volontà! (2) Gordiano per iscusarsi dell'infame condotta con noi tenuta (e con me specialmente) scrisse che era stato forzato ad agire contro la sua volontà! e protostava essere tutto accaduto contro il piacer suo! chi lo avrebbe imaginato!!! ma poichè in oggi ogni sua azione è ritornata in lei libera e spontanea, tengo per fermo che il pubblico non avrà d'ora innanzi a biasimar nulla nel fratello di Giulio Perticari che sia indegno di sì gran nome.

Si compiaccia rammentare la mia rispettosa affezione all'ottima madre di Giulio.

Ho l'onore di riverirla.

L'um.a sua Serva
Costanza Monti Perticari.

Signor Conte.—S'ella avesse pensato che la sua lettera era diretta ad una madre crudelemente offesa nelle offese fatte alla propria figlia, oso credere, Signore Conte, che ella avrebbe evitato di porre me nella dura circostanza di risponderle verità poco gradevoli ed ella in quella d'udirle. Nulladimeno poche saranno le mie parole, poichè non fa mestieri narrare la storia dei ricevuti oltraggi a chi ci oltraggiò. Nè può ella imaginare che a me non siano pienamente note tutte le avarie usate contro la povera mia figlia; poichè ogni altro vincolo di parentela si rompe al primo colpo di fortuna (ed ella, Signore Conte, ha ben dimostrato la verità di questa sentenza) ma il cuor di una madre è sempre il miglior asilo ove i figli possano depositare lo sfogo delle sofferte ingiustizie. Non parlerò nè meno de'tanti sacrifici sostenuti, anzi spontaneamente incontrati da questa infelice e de' quali ella, che ne gode il frutto, ha reso così ingrato contracambio.

Tutto ciò ella ben sa senza che io lo ripeta. E sa pur anco che la storia del libro carpito a Costanza è assai diversa da quanto ella ne dice. Quel libro era stato promesso da Giulio in dono a sua moglie subito che vi avesse tolte e cangiate molte cose che recar potevano biasmo al suo ingegno e forse presso molti al suo cuore. E Giulio già lo reputava proprietà della moglie e a lei lo aveva liberamente dato a solo patto che non uscisse dalle sue mani (1) Il libro del Convivio mi fu realmente donato da Giulio a questo patto: difatti esso si trovava sotto chiave nel mio scrittoio quando accadde l'orribile catastrofe… Da Cesena io scrissi ad Antaldo per la spedizione de'miei libri e ben poteva in coscienza lasciare che quello fosse unito agli altri senza muoverne verbo a Gordiano. Ma un eccesso di malintesa delicatezza me lo impedi: e diedi allo stesso Antaldi commissione di raccontare il fatto a Gordiano. Questi sotto pretesto di volere egli medesimo avere il piacere (sue parole) di farmi quella restituzione, tolse il libro dalle mani di Antaldo. Al mio ritorno invano lo reclamai… il resto è noto. Ora Gordiano scrivendo a mia madre giura che Antaldo liberamente gli consegnò quel libro, e senza impegnarlo in nessuna promessa… non aggiungo parola su questo pettegolezzo. Ma chi legge, giudichi. La intempestiva delicatezza di questa infelice (e questo tal fatto quando mille altri non ve ne fossero stati, doveva almeno salvarla dalla taccia di ladra) (1) Questo nome infame non mi fu risparmiato; e non mi venne tolto prima che la donna di mia suocera, la quale aveva in consegna la biancheria di casa, non avesse preso tutto il conto della medesima e protestato che non mancava nulla. fece sì ch' ella amasse meglio contare sulla giustizia e lealtà di un cognato che su proprî diritti. Ella, Signor Conte, nel togliere dalle mani di Antaldi quel manoscritto fece sacra promessa di renderlo: ma l'accaduto ha poscia dimostrato di quanta religione sia la sua parola; e non pure l'ha dimostrato in questo fatto del libro, ma in quello dell'anello e dei manoscritti altresì (2) Questo anello è quello che Giulio por ava sempre in dito e che faceva parte delle gioie dal medesimo regalatemi: il qual capitale io voleva tutto consacrare al monumento da erigersi a quel caro nome, ma ne fui spogliata come del resto. Felici può rendere testimonianza di quanto asserisco. Perduta la speranza di poter adempiere al mio santo desiderio, chiesi che almeno mi fosse venduto l'anello suddetto, e a qualunque prezzo: tanto più ch'io esciva di casa Perticari senza portar meco una sola memoria del mio caro marito… Mi fu promesso col patto che cedessi altri effetti lo che non esitai a fare… ma l'anello fu poscia impudentemente ricusato., e mille altri che lungo sarebbe il rammentare. Cose tutte che fanno orrore. E lasciamo andare che ella abbia contrastato a questa sventurata persino i pochi cenci che la coprivano (1) Verissimo: dovetti sostenere una lite di più giorni, perchè non mi fossoro tolto le poche biancherie di mio proprio uso e corsi rischio di partire da Pesaro senza portar meco neppure una camicia da mutarmi…, laciamo andare che abusando della sua tenera inquietudine e per la memoria di Giulio e per la pace domestica dell'ottima sua suocera, ella l'abbia spogliata di tutto quel tenue capitale, che nelle mobilie fatte co'suoi risparmî ed in altri piccoli effetti, solo le restava per far fronte alle tante spese e de'viaggi e del mantenimento dell' anno vedovile in che è stata abbandonata senza alcun sussidio (2) Fui minacciata di vedere ineseguite le ultime volontà del mio povero Giulio, se non cedeva tutto quanto possedeva del mio in casa Perticari e ogni mio diritto per l'anno vedovile…. Lasciamo andare il modo infame con che fu trattata nella breve ultima dimora in una casa ove poteva essere padrona…(3) Me malgrado tocco questo punto: imperocchè in faccia il mio cuore io non ho adempiuto che il mio dovere. Ma in faccia a Gordiano, a Gordiano che sapeva sì esattamente le intenzioni di Giulio a mio riguardo, che nemmeno voleva muoversi da Firenze allora che udi la fatale notizia della sua morte, a Gordiano, che assicurato in Bologna da Costa della condotta per me tenuta, tanto gli pareva in quel primo punto generosa, che protestò pubblicamente volermene mostrare la sua gratitudine coll'assicurarmi una pensione vitalizia, in faccia a Gordiano, dico, io aveva adempiuto ben al di là del dover mio… Io non voglio entrare in vane querele e mi contento che ognuno stia in compagnia della propria coscienza. Solo le dirò, che se sincero è in lei il desiderio di non rompere l'ultimo filo di affinità fra la sua e la mia famiglia cominci a dimostrarlo con le opere e non con le parole, poichè l'esperienza ne ha abbastanza ammaestrati del poco conto che sia a fare di queste. Mandi ella dunque gli altri manoscritti di Giulio. mandi il Convirio e a questo patto Costanza è pronta ad ascoltare le sue proposizioni intorno le ipoteche ed altri affari che le stessero a cuore. Intanto non voglio lasciare un'ultima considerazione. Ella si dice tenero della riputazione di suo fratello e dice questa essere la ragione per la quale ricusa la spedizione delle suddette carte: e poi concede che un libro nel quale sono cose che alla sua memoria farebbero danno, sia riposto in una pubblica biblioteca (1) Gordiano protesta che i letterati di Pesaro si sono opposti alla restituzione del Convivio e ch'egli vuole lasciarlo alla pubblica biblioteca. Io non ho potuto ribattergli sì sfacciata menzogna colla storia della tentata vendita, perchè ho dato parola di non parlarne. Ma chi legge mi dica se v'è esempio di più sfacciata impudenza. In verità simile contradizione vince ogni credere. Tuttavolta in questo pure mia figlia adempirà la sua intenzione purchè le si lasci prima scegliere dal medesimo tutto ciò che merita la pubblica luce. Che se i letterati di Pesaro anche in questo menassero rumore, (2) Secondo le parole scritte da Gordiano i letterati di Pesaro non sono di parere che mio padre sia degno di presiedere al'edizione delle opere di Giulio. ella potrà rimettere nelle loro mani quei manoscritti pure qua pervenuti; e Costanza sarà lietissima per la gloria di suo marito che chi ha più sapere di suo padre e più pazienza di lei sudi in un'impressa nella quale tutta la fatica e li strapazzi sono suoi e tutto l'utile è d'altrui. Tanto più che le cose qua mandate sono appunto le più indecifrabili: e questa è forse la sola ragione che ha indotto lei a mandarle ed altri a restituirle.

Ho l'onore di essere

sua umilissima serva
Teresa Monti.

Gli autografi si trovano nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, earte Betti.—Queste lettere, unitamente alla precedente del 28 agosto 1823, furono pubblicate da R. Murari nel Giornale dantesco, vol. V.

Milano, 4 novembre 1823.

Mio caro Betti.—Mio padre per la debolezza de' suoi occhi impedito di scrivere, vi dice per mezzo mio quanto segue: «Il Marchese Trivulzio è in Roma. Onoratelo, se non quanto egli merita, almeno quanto potete, ch'egli è degno di tutto l'amore e di tutta la venerazione de' buoni letterati. Delle cortesie del nostro Don Pietro verso di lui già non dubito, nè di quelle di Tambroni. Presentategli l'ottimo Amati ed il Biondi e quanti stimerete degni della conoscenza di tanto mio padrone ed amico.» Fin qui mio padre. Ora seguito io sola, e pregovi a darmi vostre notizie. Le mie sarebbero sufficienti, se l'animo potesse gustare di qualche pace. Ma oltre l'antico interminabile dolore che lo travaglia, vi si aggiunge l'altro di vedere mio padre in tanto abbattimento per la quasi del tutto rovinata sua vista, ch'io temo di perdere finalmente quel poco di coraggio che finora mi ha sostenuta. Raccomandate caldamente questo povero vecchio al degno marchese Trivulzio, perchè non veggo altri che lui che valga a guarirlo da sì crudele malinconia.

Ditemi se avete ricevuta l'ultima mia in data dello scorso ottobre; alla quale desidero qualche riscontro, purchè ciò sia senza vostro incomodo. Addio. State sano e siavi raccomandata

la povera Costanza.

P. S. Mio padre vi prega dire a Vincenzo Nelli che attende qualche risposta alla lettera che da parecchi ordinari gli ha scritta. Abbracciate per me mio cugino. Addio.

L. autogr, è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Milano, 20 dicembre 1823.

Mia cara madre.—Non perchè sia tale l'uso, ma perchè il mio cuore che sempre le è vicino così mi comanda, rompo il lungo silenzio, finora tenuto per non importunarla, in questi sacri giorni. Quali sieno però i voti che debba al cielo offerire in tale circostanza, io veramente non so: perchè dopo la terribile perdita da noi fatta, qual bene vi può essere più in terra pel suo e pel mio povero cuore? nessumo, mia cara madre, nessuno, e son certa che ella non meno di me sente in tutta la forza questa terribile verità. Voglia dunque il nostro buon Dio Egli medesimo provvedere a ciò che mal saprebbe conoscere la meschina veduta, e compiere in lei tutto quello che può contribuire a renderle almeno meno pesante la vita: imperocchè la intera felicità non è compartita in questo mondo ai pochi eletti: e sta scritto che solo sono beati quelli che piangono. Ella avrà a quest'ora ricevuto una piccola scatoletta con entro una cuffia montata dalle mie proprie mani e che la prego portare per amor mio. So che il dono è meschino, ma la prego accettare il buon cuore, pensando che da un anno e mezzo io non percepisco neppure un soldo dalla casa Perticari e che per colmo di sciagura i pochi terreni che posseggo sono stati replicatamente battuti dalla tempesta. Quindi ho dovuto per tutto questo tempo tirare innanzi a forza di debiti e di dolorose privazioni; ben sapendolo chi n'è principal causa e sofferendolo. Questo è stato il premio dei miei sacrifici, de' quali però non mi pento se in qualche modo hanno contribuito ad assicurare a lei la pace domestica, e a compiere le ultime volontà del nostro buon Giulio.

Mio padre e mia madre la riveriscono distintamente. Io la prego di darmi sue nuove, e non negarmi la sua benedizione. Mi saluti caramente la Violantina, e si ricordi della sua povera seconda figlia

Costanza.

In seguito alla lettera vi è la seguente memoria scritta di mano di Gordiano Perticari:

Quest'iniqua dopo aver portato via oltre l'intera dole e tutta la mobila che ascendeva, come dall' istrumento di matrimonio, a Scudi 2000, più Scudi 300 in contanti, poi dopo aver dato a suo padre altri Scudi 400 da esigerai in Faenza, e dopo averle pagati i frutti degli scudi 6000 dotali anticipati di molti mesi dal Conte Gordiano Perticari, aveva il coraggio di scrivere tali cose falsissime alla di lui madre per estornarne da lei altra somma.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.—Gordiano in questa nota asserisce il falso; perchè Costanza non solo fu costretta a lasciare in casa Perticari tutti i mobili di sua proprietà, ma fino al giugno 1824 non potè percepire nessun assegno, avendo Gordiano con atto di vera soverchieria considerata come anticipita la somma con la quale intese risarcirsi di alcune spose, al che egli non aveva diritto, perchè esse erano state fatte col pieno consenso di Giulio.

Milano, 9 dicembre 1823.

Mia Gentilissima Signora.—Io non ho avuto il bene di vederla che una sola volta, ed in momento sì terribile che il dolore e la disperazione occupavano tutte le facoltà della povera anima mia; non sì però che la rara cortesia de'suoi modi non mi si imprimesse nella mente, lasciandomi il desiderio di stringere seco lei un più forte legame di affetto che quello che suole produrre una conoscenza del momento.

Non le farà quindi meraviglia che ora sapendola vicina a godere del bel nome di madre, io colga un'occasione a lei sì dolce per adempiere l'onesta mia brama, pregandola a concedere che in compagnia del nostro ottimo comune amico il conte Giovanni Roverella, io tenga al sacro fonte il suo primo nato; lo che avrò per caro favore.

Che s'ella avesse già fermata in altra persona la sua scelta, in niun modo voglio che per me si alteri l'ordine già stabilito: ma sì spero ch'ella terrà la rispettosa mia inchiesta come segno della stima che le professo e con che me le raccomando.

La dev.ma sua serva
Costanza Monti Perticari.

In—Giudizio perentorio sulla verità della patria di Gioachino Rossini—di L. C. Ferrucci, Firenze, Tip. della Gazzetta d'Italia, 1874.

[Milano], 1823.

Mia carissima Didina.—Il mare si è rimesso in bonaccia, ma io veggo di lontano un nero nuvolo che mi presagisce novelli turbini e saette. Il peggio si è che in tanto travagliato cammino nemmeno mi è dato valermi dello specifico marinaresco: i voti e le bestemmie, poichè le une sono affatto lontane dal mio cuore, gli altri non saprei formare senza temere che appunto invocando il mio salvamento, io non mi attirassi sul capo replicate procelle.—Ma lasciamo le metafore.—Io ho sofferto molto, cara Didina!… pure anche questa per ora è passata. Mi affretto a chiamarvi a parte della pace momentanea che m'è concessa; e dico che mi affretto, poichè forse domani non potrei che chiamarvi a parte di rinnovate amarezze.

Voi, che tanta pietosa sollecitudine dimostrate nelle mie crudeli circostanze, voi ridite, amabile messaggera, la lieta notizia della tregua che mi è data alla ottima vostra mammina ed all' ottimo Conte Brioni ringraziandoli entrambi di ogni cosa per me detta e fatta e sentita. Raccomandatemi alla loro benevolenza, siccome all'amor vostro mi raccomando, ed assicuratevi che io vi amo e stimo con tutta l'anima.

La vostra amica vera ed aff.ma
Costanza.

L'autogr, si trova nella Bib'. Braidense di Milano.

Milano, 1824.

Mio caro amico.—Non ho potuto rispondere prima d'ora alla vostra carissima, perchè sono stata sempre occupatissima per mio padre. Oggi che mi è dato un respiro, m'è dolce il consacrarlo all'amicizia e dirvi e protestarvi che niuna lagnanza mi è mai uscita dal labbro contro di voi, rapporto la mia persona. Le amorevoli vostre lettere mi hanno sempre fatto fede della vostra benevolenza; e s'io più di frequente non vi ho scritto, dovete tribuirlo e alla mia naturale pigrizia e alle mie stesse non liete circostanze, delle quali meglio è ora non parlare. Ho recato i vostri saluti a mio padre, il quale vi si raccomanda e vi abbraccia. In quanto a me non posso che ringraziarvi delle tante cose gentilissime di che è piena la vostra lettera: ma il faccio con rossore, poichè so che non mi sono dovute. Il solo titolo che sento di avere all'amor vostro si è il desiderio sincero di meritarlo, operandomi in tutto che potrò per il vostro servigio. Ma questo ancora non è che un buon volere, nè veggo che me ne dobbiate saper grado, finchè non vi piaccia metterlo in atto. Fatelo dunque e l'avrò per segno di quella amicizia nella quale vi prego tenermi sempre viva. Addio, caro amico, ed a voi con tutto il cuore mi raccomando: addio.

La vostra aff.ma amica vera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

[febbraio] 1824.

Mio caro Salvatore.—La vostra lettera mi è stata un colpo di fulmine dal quale non potrò riavermi per lungo tempo. Io l'ebbi ieri sera poco prima di coricarmi e per uno di que' veraci pur troppo e inesplicabili moti dell'animo, che sembrano volerne avvisare di qualche sciagura, volli replicatamente sciogliere il pacco venutomi dalla posta, e replicatamente lo riposi sullo scrittoio sentendomi stringere il cuore da un sinistro presentimento. E quando finalmente dissuggellai la vostra lettera, imaginatevi quale mi restai all'infausto annunzio della comune nostra sciagura! imaginatevi qual notte mi abbia passata nelle convulsioni del dolore, e sola, e lontana da ogni soccorso (poichè a questo totale isolamento mi ha ridotta l'ingratitudine e l'avarizia del mio Signor Cognato). Oh povero Tambroni! povero amico! povero infelice! ma più poveri, più infelici gli amici tuoi che t'hanno perduto! Ah caro Betti! qual misera vita è questa nostra, di quante morti deve ella essere colpita prima che giunga la sola che pone il termine a tanto soffrire! Io credeva dopo la perdita dell'adorato mio Giulio di non poter versare più lagrime per altre disgrazie, ma ora sento che l'amicizia ha dessa pure conservati tutti li sacri diritti sul povero mio cuore. Ma come mai non si è adoperato ogni sforzo dell'arte per salvarlo? Ah! almeno non ne sia egli stato rapito per difetto di assistenza, o per ignoranza medica! Chi meglio di me può dire quanto in simili disastri un tal pensiero laceri l'anima fino al vivo?… e quei poveri abbandonati orfanelli in quale fortuna, in qual seno si ricovereranno? Padre infelice! come deve essere stata dolorosa la tua agonia all'aspetto di quei cari oggetti dell'amor tuo che lasciavi senz'appoggio alcuno in così giovine età, e forse in preda a tutti li più stretti bisogni della vita!—Per carità, caro Betti, se in tanta amarezza vi è qualche raggio di conforto per codesta disgraziata famiglia, non me lo tacete: ditemi se almeno i suoi ultimi momenti sono stati addolciti dalla speranza di un lieto avvenire pe' suoi figli: ditemi se la sua memoria è onorata e pianta quanto si meritava! povero Tambroni, tu hai corsa la via dei buoni; e com'essi sempre il sono, tu pure sei stato bersaglio continuo, e forse vittima de' malvagi. Ah, riposi il tuo spirito nella pace de' giusti! beata è la morte quando è termine al soffrire!

Caro amico, io sono sì oppressa dal dolore e dalla stanchezza, dalla veglia e dal male che ho sofferto nella scorsa notte, che appena veggo ciò che mi scrivo. È impossibile che io abbia il coraggio di annunciare a mio padre una tanta perdita, ed è ancora più impossibile che ei non si avvegga che una nuova sciagura m'è sopraggiunta.

Non so quale consiglio prendere tanto ho l'anima abbattuta. Ah, quando sarà ch'io ti raggiunga, Giulio mio, quando sarà ch'io cessi di penare! dacchè ti ho perduto, tutto ho perduto, e per mio maggior tormento non m'è rimasto che un cuore ancore troppo sensibile non che a' propri, agli altrui mali altresi!

Addio, caro Betti. Datemi vostre notizie, e, se il potete, datemi qualche conforto. Io per me nessuno ne so dare al vostro troppo giusto dolore. Abbiamo preduto entrambi un vero amico. L'universo intero ha egli di che compensare tanta sventura?.

Le lagrime mi soffocano. Addio: addio: amate

la povera Costanza.

L'autogr, è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.—Deve essere certamente del febbraio, perchè si collega con la seguente.

Milano, 18 febbraio 1821.

Mio caro amico.—Non alcuna vostra lettera, ma sì una mia, rilevo, dalla vostra ultima, essersi perduta in risposta di quella che accompagnava il vostro aureo carme in lode di Canova. Anzi in essa io vi ripeteva il giudizio fatto da mio padre che vi predica fra i più dotti latinisti del nostro secolo. La seconda vostra col grato annunzio della nascita del vostro primogenito (e dico primogenito perchè il vento si sarà a quest'ora portato il vostro proponimento) mi giunse in compagnia dell'infausta nuova della morte del nostro povero Tambroni, la quale mi gittò in tanta tristezza, che io non ebbi il coraggio e non l'ho finora avuto di prendere la penna per rispondervi, temendo di non amareggiare le vostre dolcezze colle mie querimonie.

Voglio però che crediate che io sento come mie le vostre consolazioni e quelle della vostra Metilde. Con voi dunque e con essa di cuore mi rallegro; ed anche col vostro nuovo nato: non già per essere egli sceso in questa terra di martirii, ma per aver avuto al suo nascere il privilegio a pochi conceduto di appartenere a buoni e illuminati genitori, i quali per tempo sapranno indirizzare i suoi passi per la via della virtù. Vi ringrazio poi del nome per me sempre adorato che gli avete posto; possa egli essergli di felice augurio per le doti dell'animo e dell'ingengo! ma prenda altrove quello della fortuna; se pure non è immutabile decreto lassù che i buoni abbiano ad essere perpetuamente bersaglio della sciagura.

Attendo qualche riscontro circa l'ode inviatavi dal Signor Felice Bellotti. Alla vostra buona Metilde raccomandatemi, siccome pure a vostra sorella. Voi accogliete con lieto volto le proteste sincere della mia immutabile gratitudine ed amicizia con che mi protesto

Vostra amica aff.ma
Costanza.

In—Giudizio perentorio sulla verità della patria di Gioachino Rossini—di L. C. Ferrucci, Firenze, tip, della Gazzetta d'Italia, 1874.

Lugo, 21 marzo 1824.

Mio carissimo e gentilissimo amico.—Io dovrei cominciare e comincierò difatti la presente chiamando mille volte perdono al mio lungo silenzio. Le apparenze mi accusano, il confesso, di ben colpevole negligenza, ma se voi conosceste le replicate sciagure che da più mesi a questa parte mi percuotono togliendomo ogni agio di tempo e di mente, l'anima vostra gentile, lungi dall'imputarmi nessuna mancanza, non potrebbe che altamente compiangermi. A mia giustificazione intanto dirò sol questo: che collo stesso mio padre (non che con ogni altra persona) ho dovuto sostenere sì lunga pausa. Perdonatemi dunque, mio cortese amico, perdonatemi, ve ne prego, nè sia che in tanta perversità di fortuna vengami pur anco tolto l'unico conforto finora restatomi, l'amichevole compianto dei cuori bennati.

Avevo fermo di fare una scappata a Bologna entro la corrente quaresima e fra le dolcezze che mi prometteva da questa gita, quella numerava di conoscervi personalmente.

Ma tutto mi volse in contrario e veramente sono fatta segno di destino crudelissimo!!! Non oso dirvene di più per tema di annoiarvi; ed anche il fin qui detto avrei taciuto se non mi stesse a cuore lo scolparmi presso di voi e il riacquistare la vostra buona grazia, quando pure per mia fatalità l'apparente mia trascuratezza me l'avesse in qualche modo demeritata. Scrivetemi dunque che questo non è, e l'avrò in segno novello della vostra gentilezza.

Se Mustoxidi viene a Bologna salutatelo per me caramente. Pregatelo che mi dia conforto di sue notizie e chiedetegli s'egli abbia mai ricevuto certa mia lettera che gli inviai per mezzo di un suo compatriota. Salutatemi pur anco Costa e compiacetevi domandargli se avrebbe difficoltà di far passare al Signor Bignami certa somma di scudi 100 perchè fosse spinta a Milano al solito indirizzo del sig. Girolamo Primo. Non avendo avviso in contrario, io gliela spedirò entro la settimana. E gliel'avrei mandata prima scrivendo a lui direttamente: ma anche Costa precipita un po'troppo i suoi giudizii, senza pensare che prima di pronunziarne alcuno, sia in bene sia in male, conviene indagare la verità dei fatti, specialmente quando si tratta di persone già di troppo infelici o d'illustri amici che più non esistono…

Del resto il servigio che gli chieggo è per mio padre e in quanto a me rispetterò sempre in Costa l'uomo che il mio Giulio amò con tutta verità d'affezione e l'uomo d'ingegno.

Mille affettuosi saluti alla gentile contessa Sampieri e voi non isdegnate serbarmi la vostra preziosa amicizia, alla quale quanto più so mi raccomando.

L'aff.ma vostra amica
Costanza.

In—Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli—scelte ed annotate da G. Gozzi, Antonelli, 1886.

[Lugo 1824].

Mio caro amico.—Poichè mi conviene rinunciare alla dolce speranza di vedervi per ora, rispondo per lettera alle vostre ultime carissime. Sul conto mio altro però non posso ripetere se non quanto vi ho già scritto. Caro amico, è impossibile chiudere la bocca alla moltitudine: lasciate dunque ch'ella si squarci nelle solite maldicenze, che tale è la sua natura: parlar male ed operar peggio. D'altronde s'ella stima la mia condotta ipocrisia, non è questo il più chiaro elogio che, senza volerlo, dare mi possa? perchè non è questo un confessare che pochi nel mio caso saprebbero imitarmi sinceramente? Ringrazio dunque il cielo di possedere almeno fra tante sventure un cuore, cui non costa niuno sforzo l'adempiere quei doveri che per gli altri sono reputati duri sacrificî, anzi impossibili: e compiango coloro che sono giunti a tanto eccesso di depravazione, che più non sanno prestar fede nè all'innocenza dei costumi, nè alla virtù. Veniamo a Cassi. Se da me altro non si chiede che un sincero perdono alle orribili offese di Cassi, io non ho niun merito a piegarmi alle vostre istanze ed a quelle di mio padre; poichè pel solo impulso dei miei principii io gli ho già da gran tempo perdonato. Mi si presenti dunque l'occasione di operarmi in suo servizio ed il farò con più allegrezza di cuore di quella che mai poteste voi stesso imaginare. Ma ingaunerei voi, ingannerei mio padre, ingannerei me medesima, se vi promettessi amicizia alcuna pel mio fiero calunniatore, pel rapitore degli scritti di Giulio, per l'assassino insomma e del suo onore e del mio. Rispetto le ragioni, qualunque siano, che hanno indotto mio padre a ridonare a Cassi la sua benevolenza; e rispetto troppo me stessa per credere che la salvezza della mia fama dipenda in nulla dalla loro inimicizia. Non farò dunque niun passo, niun motto per oppormi ai novelli sentimenti di mio padre, ora che li conosco, vivetene tranquillo; tanto più, quanto che confesso schiettamente, che se prima di una tal pace fossi stata consultata, l'avrei per molte ragioni sconsigliata seguitando a tenere il linguaggio che ho sempre tenuto fin anche da quando lo sdegno di mio padre bolliva più ardente contro Cassi: cioè, che dovevamo entrambi perdonargli, dovevamo, se l'occasione se ne presentava, vendicarci colla sola vendetta delle anime generose, ma stringere amicizia con esso lui, non mai.—Amicizia! Dio santo! o io m'inganno assai nel giudicare di questo divino sentimento, o egli non deve nascere, crescere e nudrirsi che per le più stimabili qualità del cuore. E quale stima posso io più avere di Cassi? Forse per l'uso ch'egli protesta voler fare del prezzo della sua Farsaglia? Ma chi non sa che, senza l'opera di mio padre, la sua traduzione rimarrebbe in un eterno oblio? la pretesa gloria di Giulio non è altro che l'amo per tirare a sè la benevolenza di mio padre: e nel vero, egli poscia non si servirà di questa benevolenza (e si eriga o no detto monumento) che per lavorare alla sua propria gloria! eh! che il nome di Giulio è monumento a sè stesso! e vivrà eterno ed onorato ad onta della vergognosa dimenticanza de'suoi avari concittadini, e dell'ancor più vergognosa guerra mossagli dall'invidia di certi suoi fidi amici e dalla malignità de'suoi nemici. Se un vero e sano desiderio della gloria di Giulio muove il Signor Conte Cassi, perchè non restituisce i mano scritti che ha furati?… Del resto, io apro a voi liberamente il mio cuore, ma poichè il dado è gettato, non v'è più luogo a consiglio. Quindi il desiderio che, rispondendo a mio padre, nè gli mandiate la presente, nè gli facciate travedere quanto in essa vi dico. Egli già conosce i miei intimi sentimenti e le mie opinioni; e il replicargliele ora sarebbe intempestivo. Ditegli però la verità. Ditegli e assicuratelo, che io non odio Cassi nè l'ho mai odiato, perchè il mio cuore non sa odiare alcuno. Ditegli che gli perdono sinceramente. Ditegli che gli desidero altrettanto di bene, quanto è il male che mi ha fatto, o cercato di farmi: e ditegli che potrà contare sopra questi sentimenti senza restrizione. Sul rimanente tiriamo un velo e lasciamo correre gli anni.

Ho letto con vero piacere ed ho ammirata la bella ed elegante traduzione del Filostrato della brava Signora Petrettini.

Giulio aveva intrapreso, è vero, lo stesso lavoro, ma per solo esercizio della lingua greca, e ne' suoi più giovani anni: quindi lo stile non è di quella purità e bellezza che tanto incanta negli ultimi suoi scritti. Aveva però in animo di rifonderla! ma l'acerba sua morte troncò questo, siccome altri molti alti progetti. Il suo manoscritto è presso di me, e se foste venuto a Lugo ve lo avrei fatto esaminare: non credo però che io il pubblicherò giammai per le ragioni qui sopra dette e per altre ancora. Animate dunque la signora Petrettini a compire essa un sì caro dono all'italiana letteratura; che niuno (a mio vedere) meglio di lei il potrebbe: sì per la profonda scienza ch'ella ha delle due lingue, sì per le tante altre doti d'ingegno di che va adorna e pel sicuro tatto ch'ella possede nel vestire con italiani colori le originali grazie della greca favella.

Addio, caro amico; tenetemi viva nella grazia della Contessa Sampieri: ed alla vostra, quanto più so, mi raccomando.

La vostra aff.ma amica vera
Costanza.

P. S. Scrivo a Costa per questo stesso ordinario. Vi prego avvertirmi del soggiorno di Mustoxidi: l'ultima mia lettera gliela diressi a Venezia. Già sono più mesi e non ho mai avuto riscontro. Se ne sapete notizia datemela. e se gli scrivete raccomandatemegli.

In—Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli—scelte da G. Gozzi, Venezia, 1886.—Antonio Papadopoli, nato in Venezia nel 1802, noto per il suo amore alle lettere ed alle arti, fu legato in amicizia coi più illustri letterati del tempo.—Andrea Mustoxidi, nato a Corfù (1785—1860) fu dotto grecista; fra le sue opere più notevoli ricordiamo le Illustrazioni Corciresi, la Vita d' Anacreonte e la Dissertazione intorno ai quattro cavalli di S. Marco.

Fusignano, 15 maggio [1824].

Caro Giovanni.—Il giorno stesso che io moveva da Milano mi giunsero i due esemplari contenenti la raccolta delle tue opere litografiche cogli altri molti contenenti i ritratti del mio Giulio e di mio padre. Dopo l'ultima tua carissima lettera che mi dava avviso di questa spedizione, io li ho lungamente e con gran desiderio attesi, e soprassedeva a scriverti che fossero giunti per non duplicar lettere inutilmente. Non potrei mai con sole parole significarti degnamente e il sommo piacere che mi ha recato questo tuo bellissimo e dolcissimo dono, e quindi la mia gratitudine. In quanto la raccolta delle vedute, il tuo lavoro è ammirato da chiunque ha schietto sapore del bello; e in quanto il ritratto di Giulio ho la soddisfazione di assicurarti che di tanti ritratti che gli sono stati fatti dopo l'estrema sciagura che ne l'ha rapito, niuno è rìuscito più somigliante del tuo. Io sola ne ho uno in disegno, eseguito mentre egli era in tutto fiore di salute, il quale è tanto simile all'originale, che nel riguardarlo io mi sento sempre stringere il cuore da una dolce e crudele illusione. Ma dopo questo, il tuo tiene sicuramente il primo grado. Ne ho distribuiti quindi parecchi esemplari a persone riverenti del nome e della memoria di quell'angelo, e sono stati gratissimi. Non trovo altrettanto somigliante quello di mio padre, e parmi che tu abbia scelto male fra i rami molti che lo rappresentano. Ma di questo e di tutto ti ripeto i milioni di grazie.

Mi vien detto che il povero Betti si trovi in grande affanno di salute, il che mi addolora assaissimo e mi tiene in penosa angustia. Ti prego vederlo in mio nome e salutarlo caramente, e dirgli che si faccia animo sì che l'avvilimento morale non pregiudichi di troppo allo stato fisico. Dammi sue nuove frequentemente finchè non sia almeno ritornato in piena e fiorente convalescenza. Oh cosa è mai questa misera vita! Io vado rimettendomi lentamente, ma è oramai inutile lo sperare il ritorno del mio primiero stato. Il dolore della perdita che ho fatta non potrà mitigarsi che all'ultimo mio sospiro, perchè allora solo potrò finalmente riacquistare ciò che ho perduto. Non vi è più nulla, nulla che mi leghi all'amore della vita; e vorrei almeno non mi fosse negato trascinare questo misero avanzo di giorni nella tranquillità di una profonda solitudine. Ma temo molto che anche questo estremo ed innocente voto non mi sia attraversato. Compiangimi, caro amico, ed aiutami ad implorare dal cielo il fine di sì cocenti mali. Ti prego salutarmi tanto la zia e le mie cugine. Io non iscrivo loro per risparmio di borsa, a dirti il vero, giacchè in Milano la posta costa un occhio. Di qua però lo farò tosto che i miei affari mi lascino qualche respiro. Addio caro Giovanni. Amami quanto ti amo, che di più non può esserti affezionata

la povera
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari e odi di Achille Monti con prefazione di F. L. Polidori—Firenze, Le Monnier, 1860.

Fusignano, 1824.

Carissimo cugino ed amico.—Io penso che quando riceverai la presente avrai già di persona conosciuta l'ottima mia cara amica principessa Pietrassanta che ha voluto esserti per mio mezzo indirizzata perchè tu le prestassi l'opera tua nel visitare e conoscere tutti i capi d'opera racchiusi in codesta capitale del mondo. E siccome conoscendola non avrai potuto fare a meno d' onorarla quanto essa merita, così non intendo con questa lettera di raccomandartela, ma di pregarti solo perchè tu non tralasci niuna cosa e in Roma e fuori di Roma e piccola e grande senza fargliela visitare. Ella si è partita da Milano a solo oggetto di percorrere l'Italia e tutte studiarne le bellezze, sia per ciò che risguarda la eccellenza delle belle arti, sia pel lato che pertiene alla filosofia; ed una donna che a' nostri tempi senz'altro scopo che quello d'istruirsi si muove dal proprio paese e percorre lontane regioni, è miracolo che merita non solo la lode di ogni animo gentile, ma altresì l'aiuto di chiunque può favorire la sua nobile impresa. Nella mia dimora in Roma ebbi campo nelle varie mie gite di osservare più volte che non sempre la Guida del Vasi è fedele, e non sempre addita partitamente i monumenti nascosti e le memorie dell'antica nostra gloria.

Io gliel'ho avvertito soggiungendole che si abbandoni alla tua sperienza, perchè lo stesso tuo entusiasmo per tutto ciò che pertiene a codesta maravigliosa città le sarà sicuro garante della tua esattezza. Vedi dunque di non farmi fare cattiva figura presso di lei, e studia ogni modo per soddisfare la sua santa e saggia curiosità, chè ti so dire io che non avrai certo perduta la tua fatica, essendo ella donna di animo e di mente nobilissima. Ella è accompagnata dal colonnello Jacopetti, cavaliere molto erudito ed amantissimo delle belle arti, il quale ti sarà caro di conoscere. La medesima mi scrive da Firenze in data degli 11 corrente e mi avvisa di risponderle in Firenze stessa. Ma per essere io stata assente parecchi giorni da Fusignano la sua lettera m' è giunta tardi, sicchè temo che il mio riscontro non la troverà più in Firenze. Dille dunque (se fosse diggià costà) che incarichi qualche persona sua amica, acciocchè ritiri dalla posta di Firenze la mia lettera e gliela mandi a Roma, e falle le mie scuse pel mio involontario ritardo nello scriverle. Attendo con impazienza qualche tuo riscontro. Ad avalorare poi la tua premura per quella cara persona, sappi ch'io non solo le sono infinitamente affezionata, ma anche obbligata per infiniti rapporti, sicchè non potrei mai sciogliermi per qualunque evento dalla molta gratitudine che le debbo. Ora rimetto in te parte del mio debito, e ti prego di soddisfarlo con quella cortesia che ti è propria.

Per tutto ciò che non ispettasse le tue dottrine, falle conoscere costà qualche persona atta a guidarla in ogni punto di erudizione; ma non presentarle alcuno senza suo permesso, giacchè ella non ama di perdere in vane conoscenze il prezioso tempo che ha consacrato a tanti degni oggetti di peregrine istruzioni.

Addio, caro Giovanni; io seguito a stare benino, e starei meglio se il cuore potesse ricuperare la perduta pace. Salutami Betti, e digli che godo della sua ricuperata salute quanto di un bene che mi appartenesse. Esortalo ad aversi cura. Addio, sta sano ed ama

la tua
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari e odi di Achille Monti, con prefazione di F. L. Polidori—Firenze, Le Monnier, 1860.

Fusignano, 1824.

La Pietrassanta mi ha portato il caro tuo dono, il disegno cioè all'acquerello che hai destinato pel mio Album. Quantunque del merito intrinseco di tali lavori non debba parlare altro che un artista, mi permetterai di dirti che mi è piaciuto infinitamente, e che a me pare bellissimo e benissimo toccato. Anche quello per la Pietrassanta è, al parer mio, di egual merito. Te ne sono dunque grata doppiamente e lo terrò (come puoi ben credere) fra le mie cose più care.—Ho veduto i disegni del nostro bravo Pinelli. Ti prego salutarlo per me e dirgli francamente che finora nessuno è penetrato sì addentro nel vero spirito di Dante, come egli dimostra aver fatto. Lascio che altri più di me intendenti ragionino sopra il merito del disegno che pure a me pare non solo bello, ma avanzare anche i suoi passati lavori, specialmente nelle pieghe delle vesti e dei manti ecc. e nell'un certo che di maggiore delicatezza nel trattare le forme delle donne. Io mi limiterò a parlare dell'espressione e del sentimento veramente dantesco ch'egli ha saputo dare alle sue figure ed alla composizione de' suoi rami. Bellissimo poi a mio giudizio sopra tutti è il primo, quantunque composto con una sola figura e quantunque di tanta semplicità. Ma quella semplicità è sublime; quel raccoglimento della figura di Dante esprime tutto ciò che al lettore intelligente accade d'immaginare allorchè legge la descrizione che il poeta fa di se stesso in quell'immensa selva, e non so s'io erri, ma anche la selva mi pare toccata con una franchezza, una maestria grandissima, e tale appunto quale è descritta nel divino poema, sicchè al solo vederla ne ispira veramente un sacro orrore. Gli altri rami procedono tutti con eguale valore. Bello quel leone della ultima stampa del primo canto, sì che al vederlo mi fece subito rammentare quel sublime verso di Dante nel Purgatorio

… guardando A guisa di leon quando si posa.

Mi ricordo di aver provato un'egual sensazione la prima volta che vidi il famoso leone desto scolpito dal Canova in S. Pietro.—La espressione poi di Beatrice nel canto secondo, quando è ragguagliata da Lucia sul pericolo del suo amico, è toccantissima e nobilissima. La sua mossa è quella propriamente di una persona colpita da un tristo annunzio, e che già vorrebbe ripararne le conseguenze. L'atto di quel braccio destro steso, e di quella mano aperta, e di tutta la figura rivolta e quasi sospesa al cenno di Lucia, mostrano l'ansietà, la tema e il desiderio. Solo avrei dato una mossa un poco più pietosa al ciglio di Lucia, come quella che figurando la divina clemenza, deve portare sul volto l'impronta della misericordia. Insomma esaminate ad una ad una, a me pare che le stampe del nostro Pinelli abbiano toccato il vero segno, poichè in tutte è mantenuto il carattere dei versi di Dante, in tutte trovo una profonda intelligenza del divino poeta, e tutte mi convincono che Pinelli ne ha sentito il bello col cuore prima anche di averlo studiato colla mente. Ciò parrà un paradosso, ma tant'è; Dante è tal poeta che invano si commenta coll'ingegno, se prima non si commenta con l'anima. Alcuna volta le sue bellezze sembrano nascoste solo perchè si legge con un'anima fredda e priva di quella suscettibilità e delicatezza di sentimento che appunto animavano l'autore. Quindi tu non potrai mai troppo raccomandare al nostro Pinelli lo studio profondo di ogni passo ch'egli prende a disegnare, e stia pur egli attaccato a' versi di Dante piuttosto che ai commenti, chè Dante lo guiderà sempre per la via infallibile della natura. Posso errare, ma i miei elogi sono sinceri; e per vie più mostrarti che sono tali, ti confesserò che il rame ove è disegnata Beatrice al Limbo non mi finisce interamente.

Primieramente non si sa se sia Virgilio o Beatrice che si muove in cerca l'uno dell'altro, giacchè il Limbo è accennato in tanta lontananza che non è ben manifesto se la figura di Virgilio appartenga a quel cerchio. In secondo luogo Virgilio non aveva dimora fra la turba che sola ivi è ammessa dall'artista, ma bensì fra gli uomini più degni, nè di questi vi si vede alcuna imagine. E detto ancora che Beatrice scese positivamante al soggiorno di Virgilio per parlargli; altra ragione per cui non bisognava farne venire Virgilio ma dipingerlo in esso in qualche opportuna mossa che mostrasse egli appartenere a quel girone. Finalmente non mi garba l'atteggiamento troppo molle di questi, e non trovo in esso quell'ansietà di ubbidire Beatrice ch'esso medesimo così fervidamente poscia descrive a Dante di aver provato (vedi Canto III). Io ti ho a lungo e minutamente ragionato della impressione che mi hanno fatta questi bellissimi rami, perchè la Pietrassanta mi ha assicurata che tu lo desideravi. Ma ti ho parlato per così dire alla cieca, e solo di memoria, non avendo più sott'occhio i medesimi già da più giorni.

Fa dunque di queste considerazioni quel conto ch'esse meritano, e se ti sembrano non giuste, non ne parlare a Pinelli. Non veggo il momento di sapere come egli abbia immaginato quel bellissimo tratto di Francesca. Dimmi in qual punto egli pensi di atteggiarla, e cosa ne pensi di quella difficilissima caduta di Dante: Caddi come corpo morto cade, intorno la quale inutilmente hanno finora sudato gli artisti. Poichè chi lo ha fatto realmente cadere come un corpo morto ha dipinta la più strana e ridicola figura; e chi ha voluto evitare il ridicolo ha lasciata l'incertezza se quel corpo fosse caduto per deliquio o per morte.— Ti ringrazio, caro amico, della offerta che mi fai di mandarmi la suddetta raccolta, ma per quanto veggo dessa riescirà troppo bella perchè ti permetta mai di privartene. Ben mi duole di non essere in caso di associarmi! ma ci vorrà pazienza, nè tu devi assolutamente perderne l'acquisto.

Addio, mio caro. Finisco perchè non ho più carta, e ti abbraccio con tutta l'anima.

La tua
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc. con prefazione di F. L. Polidori—Firenze, Le Monnier, 1860.

Fusignano, 30 maggio 1824.

Mia carissima Didina.—Tu mi avrai per iscusata se prima d'ora non ti ho scritto, poichè dall'ottimo tuo zio avrai inteso in che folla di brighe io mi trovi e come desse mi rubino ogni momento della giornata. Se però non ti ho visitata con lettera, ti ho visitata spessissimo con l'animo il quale non cessa mai e mai non cesserà di amarti e pregiarti grandemente come meriti. Tu che hai più agio, scrivimi, mia buona amica, e fa che le tue dolci parole mi consolino alquanto della vostra lontananza. Dammi anche notizie della tua buona madre che abbraccerai per me teneramente: dimmi in che ti occupi, quali sono i presenti tuoi studî, dimmi insomma tutto che ti riguarda, perchè tutto che ti riguarda mi sta veramente a cuore.

Per non duplicar lettere, prega per me tuo zio acciocchè si compiaccia di avvisare Remondini che gli ho scritto, perchè avendo perduto il suo indirizzo, temo che il solo suo cognome sulla soprascritta della mia lettera possa farla cadere in altre mani. Mi userai anche cortesia se gli consegnerai l'acclusa da spingere alla Berini e con te e con lui faccio le mie scuse per simile disturbo.

Salutami tanto Oriani e Monepiani. A quest'ultimo ho scritto per questo stesso ordinario e s'egli non fosse in Milano abbi la bontà di ritirare la mia lettera dalla posta.

Addio, mia cara e brava amica. Conservami intera la tua amicizia, alla quale quanto più so mi raccomando.

La tua aff.ma amica vera
Costanza.

L'autogr. si trova nella Bibl. Braidense di Milano.

Lugo, 10 Inglio 1824.

Mio caro amico.—Appena ricevuta la vostra letlera io ho scritto a mio padre, ma non so in vero se abbia fatto meglio o peggio: perchè non avendo potuto rompere quel silenzio senza dargli notizie dolorose, sapendo quanto egli sia per amareggiarsene, forse era meglio il seguitare a tenerlo in una tranquilla ignoranza. Ciò, è vero, mi dava apparenza di colpevole, ma che è l'apparenza per chi ha in proprio favore il testimonio dell'intima coscienza? E non sono io avvezza da tre anni a questa dura prova? e non era sicura che alla fin fine mio padre mi avrebbe resa giustizia?… Ben però mi fa meraviglia quanto mi dite delle sue lagnanze per la mia assenza da Milano. Sta a vedere che io mi trovo a Lugo per mio divertimento!!! Mio padre sa che io non sono partita da Milano che per accomodare e i suoi e i miei interessi: sa con qual perfida genia mi è forza il trattarli e sa che stante la sua passata eccessiva buona fede e le iniquissime leggi di questo governo, ove ogni fede è morta, non è così facile (per non dire impossibile) l'escrne netti da dissensioni nelle quali milita da l'un canto la sola verità e i soli diritti della ragione e da l'altro lato tutte le arti e le insidie e i raggiri di gente perversa. È dunque mia colpa se ancora non mi è riuscito di scioglierlo di tutti gli intricati nodi ne'quali si è avviluppato? Gran che, che io abbia sempre ad essere accusata e condannata in quelle cose appunto nelle quali è più intatta, integerrima e (oso dirlo) commendevole la mia condotta!!! Ma di ciò niuna meraviglia. Questi sono i doni che dà il vivere fra gli uomini! Quindi niuna meraviglia nemmeno di quello che mi annuziate (e che io già sapeva) intorno le ciarle sparse e a Milano e a Bologna sul conto mio. Io vivo in una melanconia senza conforto, una lenta disperazione mi consuma: verissimo; ed è forse nuovo questo stato nella vedova infelice di Perticari? e dal punto istesso in che il mio cuore fu scosso da tanta perdita, chi può dire di avermi più veduta nel pristino essere e fisico e morale? A questa lunga melanconia senza conforto, a questa lenta disperazione si aggiunge oggi, nol niego, una tetra e cupa misantropia che mi fa vieppiù amare, vieppiù rinchiudermi in quella solitudine a che già tutta mi diedi dall'epoca della morte del povero mio Giulio. Ma mi si imputerà a delitto un sentimento cui la sola scelleraggine umana diede entrata nel mio cuore? Caro amico, sarebbe impossibile a un Dio, non che ad un uomo alcuno, il riconciliarmi col genere umano. Sono troppe le ingiustizie che ne ho provate, troppi i motivi che ho di maledirlo: io lo disprezzo e lo detesto: e il solo vincolo di figlia, il solo vincolo di figlia, lo ripeto, è quello che ancora mi lega nella società. Se gli oziosi e i maligui (ed essa ne è ben piena) presumono darmi briga e spaventarmi colle ridicole novelle ch'essi tutto giorno fabbricano alle mie spalle, errano; e se quelli che si dicono miei amici pensano potermi ritrarre da'miei fieri propositi, mediante il puerile timore di siffatte voci, non conoscono nè me, nè il cuore umano. Ma basti il fin qui, e voi pardonatemi se per desiderio di aprirvi l'anima mia ho abusato di soverchio della vostra pazienza.

Veniamo a Costa. Egli, voi dite, è dolentissimo che io non gli abbia più scritto. Potrei rispondervi che le due ultime lettere che gli diressi sono rimaste fino al giorno d'oggi senza riscontro. Ma, la Dio mercè, l'anima mia non è schiava di sì meschine etichette. Costa, voi ripigliate, è mio amico; ed io asserisco che siete in errore. Perocchè non è mio amico colui che abusa delle stesse prove che io gli do d'amicizia per farmi dei nemici e per mettere me medesima (come suol dirsi) in berlina. Meno poi è mio amico chi si sforza (per fini che ora lascio di esaminare) di screditare nella mente dei giovani studiosi e de'letterati il nome di mio padre e di mio marito. Che importa a me ch'egli vanti di avere anche testè stampata una pubblica lode al cantore di Basville e di avere faticato prima su l'elogio di Perticari, quando poi sottomano ed in privato adopera perfino l'arte del disprezzo onde scemare la gloria dell'uno e dell'altro? Mio padre è vivo, e può rispondergli: ma l'insidiare la riputazione letteraria di un uomo spento, di un uomo ch'egli medesimo venerò vivo a maestro, e col quale ebbe comuni i vincoli di ospitalità e di amicizia, è tale eccesso di mala fede, che non ammette scusa. So che le vuote sue ciancie non iscemeranno neppure una scintilla di lume a quel sole splendidissimo della letteratura italiana: so che tale fu sempre lo stile di Costa, di precipitare cioè la sera nell'abisso ciò che la mattina ha innalzato a cielo, di piantare oggi il coltello dell'inimicizia in quel petto medesimo che ieri abbracciò come amico e di sentenziare a dritto ed a rovescio secondo che il capriccio e l'amor proprio il piega. Ma domando io se un uomo di tal indole merita il rispetto ed il sacro nome di amico. Oh! mi direte forse, non conoscevate voi Costa? no, nol conosceva. Ed ora che il conosco posso bensì perdonargli le offese che toccano me sola, ma quelle che vanno diritte a ferire e mio padre e mio marito non le perdono. Ben mi duole di negare a voi, caro amico, cosa alcuna; ma la mia causa è sì giusta che non temo chiamarne voi stesso a giudice, quantunque la vostra presente affezione per Costa possa forse far velo.

E Dio voglia che questo velo non si squarci un giorno anche a vostro danno!!!

Ho ricevute e lette con quella soddisfazione che ben potete immaginare le stampe che a nome di mio padre mi avete spedite. Bellissimi pure mi sembrano i versi del cav. Maffei e pieni di peregrine bellezze e di affetto. Dico mi sembrano; non oso dare alcun giudizio sopra checchessia. Lo scritto poi sopra la Proposta, per ciò che tocca del mio Giulio mi ha fatto versare dolcissime lacrime; e tanto più dolci che non passa giorno che io non ne versi delle amarissime. A voi ne siano dunque le debite grazie, caro amico, che mi avete procurato un tal conforto; e se maggiore volete rendermelo, piacciavi conservarmi intera la grazia vostra, alla quale quanto più so e posso mi raccomando.

La vostra aff.ma amica vera
Costanza.

P. S.—Ditemi se contate trattenervi molto in Bologna e mandatemi il vostro indirizzo.

In—Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli, scelte ed annotate da G. Gozzi—Venezia, Antonelli, 1886.

Fusignano, 18 luglio 1824.

Caro amico.—Il Cavaliere Mustoxidi mi prega di spedirvi l'acclusa e intendere le vostre determinazioni circa l'oggetto della medesima. Sia dunque che vi piaccia rimettere a me stessa la vostra risposta, o che piuttosto preferiate di mandarla direttamente al Signor Borsetti, avrò per favore che me lo indichiate, onde possa assicurare Mustoxidi di avere adempiuto la sua commissione.

Colgo quest'occasione per protestarvi che, ad onta di ogni per me critica circostanza, sono e sarò sempre

La vostra sincera ed aff.ma amica
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Antaldi.

Fusignano, 10 agosto 1824.

Mio caro Salvatore.—Voi date troppo prezzo, caro amico, alla ben naturale sollecitudine in che mi aveva posta la vostrà grave malattia. E quando anche non vi fossi stata quella sincera amica che vi sono, non dovea io rammaricarmi profondamente e temere del vostro pericolo, pensando come sempre la fortuna sia avversa a coloro che appunto più la meritano favorevole? Ma poichè questa volta ella si è dipartita dalla cieca legge che solitamente la guida, e vi ha restituito all'amore de' vostri amici, siane a lei grazie; e voi attendete a formare per sempre la vostra sanità, mercè codest'aria balsamica.

Aspetto dunque con impazienza di esserne assicurata per la prima vostra: ed intanto anch'io posso darvi, non so se mi dica la buona o la triste notizia, di aver molto migliorato il mio stato fisico, dopo la mia partenza da Milano. In verità, caro amico, se io fossi rimasta colà ancora qualche mese, credo che vi sarei rimasa per sempre, cioè sotterra. Questo beneficio della natura però mi è avvelenato da molti dispiaceri domestici, e specialmente dalla cattiva piega che ogni di più prendono i miei affari per ragioni d'interessi; resi vieppiù critici dalla mala fede e dalla perfida avarizia del Sig. Gordiano. Nè me ne cale per altro, se non perchè mi veggo da questi sinistri ritardato l'adempimento dell'unico mio voto: quello cioè d'innalzare fra me e la maledetta razza umana un muro insormontabile.

Ho scritto a mio padre i vostri saluti. Egli gode ottima salute, ed anche il suo occhio presentemente pare guarito. Ebbi già è qualche tempo le vostre notizie da Salvagnoli, il quale mi scrisse di voi mille cose tutte gentilissime: nè mi tacque la sincera benevolenza che gli avevate per me protestata. Io ve ne ringrazio, caro amico, e vi assicuro del più tenero ricambio da parte mia.

Datemi più sovente la consolazione di ricevere vostre lettere, e conservatemi la vostra amicizia alla quale mi raccomando. Addio: amate come vi ama

la vostra Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

Lugo, 15 agosto 1824.

La tua ultima lettera mi è stata un colpo di fulmine, ed il pericolo di mia suocera, anzi della mia buona e cara madre, ha sospeso nel mio cuore il sentimento di ogni mia personale sciagura. Io non so quando il destino cesserà di perseguitarmi in tante parti più sensibili del cuore. So bene che l'esperienza del passato mi fa tremare per l'avvenire. Io aveva appunto la scorsa settimana ricevuto un nuovo attestato dell'amore di cotesta angelica donna, e mi preparavo in quest'ordinario a scriverle le sincere e vive proteste della mia gratitudine e della mia tenerezza. Ohimè! chi sa se la mia lettera la troverà ancor viva, poichè dal modo con che tu mi annunzi un tanto infortunio, ben comprendo che poco o nulla mi rimane a sperare. Nondimeno io le scrivo e parmi che nell'indirizzarle, quantunque forse inutilmente, le affettuose espressioni del mio cuore, si allevi un poco l'angoscia che mi opprime.

Oh, caro amico! Cos'è mai questa vita! io sono pure stanca di sostenerne il peso e sento profondamente che per me ogni consolazione è veramente perduta. Per amor del cielo non mi lasciare nella crudele incertezza in cui mi ha posta la tua lettera; non vi è disgrazia che già la mia immaginazione non si figuri, e nella situazione in che sono, il volermi nascondere il vero è crudeltà.

Tua sempre
Costanza.

In—Otto lettere della Contessa Costanza Perticari Monti a Laudadio della Ripa, pubblicate da Sansone D'Ancona—Firenze, Le Monnier, 1877.

Fusignano, 22 agosto 1824.

Mia cara Didina.—Ho già scritto replicatamente a tuo zio e da esso avrai inteso le vere cagioni del mio silenzio.

La tua tenera sollecitudine per ricevere le mie notizie mi è novella prova della tua amicizia, cara Didina, ed io te ne ringrazio con sincero animo. La mia salute è buona e potrei assicurarla radicalmente ristabilita, se le morali cure non la tenessero tuttora sospesa. Circa il mio ritorno nulla posso dirti di postivo poichè desso dipende sempre dal più o meno sollecito disbrigo de' miei affari ed invero questi camminano più lenti che non avrei imaginato. Niuna lontananza però vale ad impedire che io non ti visiti ogni dì col pensiero, mia buona amica, e non desideri di visitarti in breve colla persona. Ti prego rendere a tua madre i più affettuosi saìuti e rammentarmi al tuo buon zio, ad Oriani ed agli amici tutti. Non so se Monepiani sia tuttora in Milano; se vi fosse abbi la bontà di consegnargli l'acclusa e, se fosse diggià partito. d'impostarla. Sia lode al cielo che finalmente a cotesto degnissimo nomo è resa quella pace tanto dovuta alla sua virtù.

Addio, mia brava e buona amica. Amami, se è possibile, quanto ti amo, cioè infinitamente. Addio.

La tua Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Braidense di Milano.

Fusignano, 18 ottobre 1824.

Mio gentilissimo e caro amico.—La vostra del 7 corrente con l'altra che mi spediste del Mustoxidi mi hanno trovato alquanto malconcia in salute ed obbligata al letto con febbre e tosse buscatami dalla perversità della stagione. E questo è il motivo per cui ho tardato qualche ordinario a rispondervi. Ora che il posso, soddisfo a questo graditissimo dovere e assai vi ringrazio della vostra cortesia nel farmi giungere la suddetta lettera di Mustoxidi, siccome ringrazio pure la fortuna di avervi per questo incontro porto occasione di consolarmi colle vostre notizie.

A Dio piacesse, caro amico, che le forze dell'ingegno eguagliassero in me quelle dell'amor mio verso la cara memoria del mio Giulio! allora forse, oserei affidarmi alla speranza di adoperarmi non affatto inutilmente intorno i pochi scritti di lui che sono rimasti in mano mia. Ma un così temerario assunto non mi è mai passato pel capo, che troppo sono conscia a me stessa. Vero è, che aveva cominciato a riordinare alcune sue cose ed a quest'ora sarei a termine dell'impresa, se le infinite brighe domestiche che mi assediano non mi occupassero tutto il tempo e la libertà. A voce la mia risposta alle vostre domande sarebbe più piena, che non mi è concesso di farla per iscritto; e ne trarreste largo argomento di pietà e di dolore per una parte e di altissimo sdegno per l'altra… Questo però posso dirvi: che le migliori sue opere inedite sono state perfidamente furate: e fra queste appunto trovasi non la vita (ch' io non mi so ch'egli la scrivesse giammai), ma sibbene molte lettere volgarizzate del Poliziano, siccome le senili del Petrarca e la intera vita di Cola da Rienzo illustrata da bellissime illustrazioni dello stesso Giulio. Trovasi ancora un grande, profondo e finito lavoro sulla origine della lingua italiana, cui non mancava che l'ultima linea; trovansi infine molte poesie, molti peregrini ragionamenti ed altre opere parte condotte a termine, parte soltanto abbozzate, fra le quali una lettera diretta a Mustoxidi e che dovevasi stampare nell'ultimo volume della Proposta. Dopo questa fedele sposizione, misurate coll'immaginazione (se lo immaginare a tanto arriva) il numero e la grandezza delle piaghe crudeli che gli uomini e la fortuna mi hanno aperto nel cuore! Io non ne parlerò più a lungo per non amareggiarvi; ma il poco che ho narrato di questa dolorosa istoria mi scolpi se (pur troppo) non posso adempiere la vostra brama di riscontrare gli scritti del mio Giulio da voi nominati. Del resto il nobile e peregrino vostro ingegno non ha duopo di altra guida che di sè stesso: e se la vostra modestia volesse farvi credere diversamente, per certo che ella vi inganna. Ditemi dunque se (come tengo che dovreste) pensate di pubblicare le vostre traduzioni del Poliziano. Qual caro e prezioso dono non sarebbe egli questo per la nostra lingua! La mia venuta costà è attraversata da tanti impedimenti che mi è forza per qualche tempo deporne il pensiero. Ma se perdo per ora l'occasione di conoscervi e di riverirvi di persona, non già voglio perdere la speranza di poterlo un giorno; ed intanto mi andrò raccomandando alla vostra cortese memoria visitandovi qualche volta per lettera, se mel consentono le vostre occupazioni.

Non dite nulla del come vi conferisce codesto clima ed ho il vostro silenzio per buon segno: ma, di grazia, non mi lasciate senza notizie più positive della vostra salute, chè dessa, vi assicuro, mi sta a cuore infinitamente.

Tenetemi viva nella cara amicizia della gentilissima contessa Sampieri; ed al bravo Tommasini ed al vostro Costa ed a voi principalmente con tutto il cuore mi raccomando.

La vostra aff.ma amica vera
Costanza.

In—Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli ecc.— Venezia, Antonelli, 1886.

Lugo, ottobre 1824,

Mio caro Giovanni. Pur troppo i miei tristi presentimenti sono stati veraci. La mia buona suocera non è più, e la sua perdita ha riaperte le più dolorose piaghe del mio cuore. Non mi fa maraviglia che, quantunque questa nuova disgrazia fosse recentissima, quando ti scriveva Odoardo… egli non te ne abbia parlato. Quell'uomo si muove forse per nulla al mondo? Tu non lo conosci, Giovanni, ed ecco perchè lo chiami tuo amico. Imagina quindi se io permetterei mai che tu gli parlassi in mio favore! La sorte può bene precipitarmi ognora in nuovi baratri di sciagure, e sono due e più anni che vi gemo; ma quantunque io avrei potuto evitarne molte, solo che mi fossi piegata a dissimulare, io ho preferito sempre l'essere infelice e per seguitata, piuttosto che avvilita innanzi a'miei propri occhi. Nè io non inchinerò se non dinanzi le persone che stimo; e tutta la rabbia della fortuna e degli uomini non sarà mai potente a farmi commettere una viltà. Credi tu che i miei stessi più accaniti nemici non sarebbero già meco riconciliati, se avessi loro opposto meno indomabile natura? Le sole mie immutabili proteste hanno loro precisa ogni via d'accomodamento: ed essi ben sanno che non odio, non rancore ma il solo disprezzo è la degna mercede con che pago le loro opere infernali. Se avvenisse mai (ed oh fosse!) che abbisognassero dell'opera mia, allora soltanto sentirei gli stimoli di una vendetta degna di me; ma finchè ciò non accada, amo meglio i cocenti dolori delle mie sventure, che gettare un solo sguardo sul fango delle loro vilissime perfidie. Seguitino dunque dessi a perseguitarmi; io proseguirò a tacere e disprezzarli.

Tu forse mi chiederai che ha che fare questa lunga protesta con Odoardo… Null'altro, caro amico, che l'avvertirti che desso è uno di quelli appunto che la meritano. Un tempo fu nel quale io tentai di ricondurre sulla strada della giustizia chi forse a lui premeva che non vi si inoltrasse tanto… ed un simile delitto non m'è stato mai più perdonato. Ciò doveva ben essere e il povero Giulio stesso mel previde; ma io adempiva il mio dovere, e non mi rattenni per rispetti umani. O santa amicizia! perchè non ti ho io sperimentata negli altri altrettanto verace e pura, quanto in me stessa per altrui?—Triste condizione, che inasprisce tutte le mie ferite, e che ogni dì rende vieppiù irrimediabile la nera mia misantropia. Qual mostro orribile è l'uomo! E come mai la natura nel crearlo non ebbe orrore della stessa sua opera, e non si lasciò cadere di mano la vile argilla che doveva formarlo? Ma lasciamo queste tristi imagini poichè desse sono argomento anche più amaro delle stesse mie sventure. Prima però conviene che ti risponda anche per rapporto a… Io avrei meno difficoltà di impetrare l'opera di questi giacchè non lo voglio mettere a livello dell'altro. Nondimeno per la conoscenza che ho del suo carattere e de'suoi principii, conosco che le mie preghiere sarebbero buttate al vento. Vi sono degli uomini che non si ponno dire veramente cattivi; perchè non cercano l'occasione di fare del male: ma nemmeno si ponno chiamar buoni, non abbracciando dessi quella di fare del bene, se non quando questo bene non costa loro nessun incomodo: o se loro costa, maggiore però nè è a'loro occhi l'utile che ne ritraggono che quello che ne apportano. Altri vi sono che sono buoni solo perchè cercano di essere tenuti per tali. Altri che hanno la mania di volere essere amati e riveriti da tutto il mondo, quindi non direbbero sul viso a un assassino: tu sie un ladro, nemmeno se lo vedessero con una mano alla gola e con l'altra alla borsa del povero viandante. Altri vi sono che pongono ogni lor cura, anzi ogni lor gloria nell'ottenere il plauso della moltitudine a costo di menzognere adulazioni, e che stendono bensì una qualche volta la mano all'infelice in atto di sollevarlo solo perchè si dica: guardate che buon galantuomo! ma che tosto la ritirano se il meschinello mostra di volerla afferrare. Altri infine che non sarebbero veramente schivi di adoperarsi in servizio di chi merita, ma nol fanno perchè temono di perdere l'amicizia di chi nol merita, o di perdere l'amicizia del tristo dichiarandosi apertamente in favore del giusto. M'intendi tu? Accozza insieme questi brevi tratti: fanne una sola immagine e tosto la riconoscerai.

Caro Giovanni, guardati da questi sciagurati amici di tutto l'universo. In fondo non meritano odio, perchè dessi non sono tali per tristizia, o per cattive mire: ma neppure meritano fiducia: e l'infelice che non abbia perduto colla prosperità anche il senno, non accatterà mai soccorso da costoro. Io per me non so che farmi anzi mi sdegno di un compianto che non sia accompagnato dal sincero desiderio di giovarmi; e più mi tocca di gratitudine questo semplice quantunque inefficace desiderio, che un beneficio reale compartito senza una fervida volontà.

La sventura è gran maestra ed i miseri hanno un tatto infallibile per distinguere i più riposti sentimenti nell'altrui cuore. Così fossi io creduta, e non sarei ora vittima dei perfidi raggiri di Gordiano e della malafede delle persone che assistevano mio padre nell'accomodamento de'miei interessi! Puoi bene immaginare che questi per la morte dell'adorata mia suocera non hanno che peggiorato! E il crederai? mio padre e mia madre contribuiscono con ogni loro forza a spogliarmi. Compatisco mio padre! egli è condotto da una mano invisibile che già da lungo tempo gli ha chiusi gli occhi, nè io come figlia posso, nè debbo, nè voglio aprirglieli: ma mia madre!… Da due anni a questa parte quella donna mi ha fatto soffrire ciò che raccontato non sarebbe credibile! Medea era almeno accecata da un impeto di gelosia: ma piantare a sangue freddo raddoppiati pugnali nel cuore de'propri figli, questo era un mostruoso prodigio riserbato all'età nostra, ed a me riserbato, come quella che debbo essere segno di non più udite sventure. Tiriamo un velo sopra questo triste quadro; egli mi spezza l'anima; ed il parlarne non giova.

La tua Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale Storico della Letteratura italiana, vol. 11.o—La persona di cui tace il nome è indubbiamente l'Antaldi; l'altra, Odoardo Machirelli.

Lugo, 17 dicembre 1824.

Gentilissimo e caro amico.—Grave oltre ogni dire mi riesce l'udirvi non bene fermo ancora in salute. Ma purtroppo i mali, secondo che avvisa l'antico proverbio, sogliono venire a pesi e scemare a oncie. Ed io per esperienza mel so, la quale mi credeva pure, dopo due anni di crudeli malori, essere finalmente avviata a buon termine, ed ora di nuovo vado retrocedendo al peggio. In me però non è me raviglia, poichè gli affanni dell'animo non fecero mai lega in alcuno col benessere fisico. Ma non essendo alla vostra infermità sì fatale radice, non avete a dubitare che presto non la si estirpi interamente, purchè voi ci adoperiate ogni acconcio mezzo: nè mezzo migliore ci veggo, che la giovialità e la franchezza dell'animo. Bando dunque alla malinconia, caro amico; che se poi la qualità della cura intrapresa non vi paresse convenire a quella del male, e perchè non esaminate l'una e l'altra con più attento consiglio? pregovi, pregovi instantemente a ricordare essere in oggi prevalsa tra i medici la micidiale sentenza di usare l'arte più per sistema che secondo l'opportunità delle occasioni: e dove i rimedii dovrebbero seguitare a piegarsi alla natura del male e delle complessioni, i nostri novelli Esculapii pretendono ad ogni patto che invece queste si pieghino a quelli; e con quanto pregiudizio dei giovani pazienti, il veggiamo tutto giorno.

Perdonate se tali cose vi dico forse con troppa libertà: ma quel vivo desiderio che mi sta nell'animo del vostro sollecito ristabilimento mi ci sforza; perocchè quantunque io non abbia la bella sorte di conoscervi personalmente, dovete però credere che a niuno io cedo nel pregiarvi quanto le tante e rare vostre doti richieggono, e nell'augurarvi ogni sorta di possibile prosperità. Che poss' io poi rispondere intorno lo scritto che mi menzionate? L'autore di esso mi venne già caldamente raccomandato da mio padre come giovane di belle dottrine: nè io presumo certo di giudicare sopra il merito intrinseco dell'opuscolo ch'egli ha pubblicato perchè quest'ufficio non ispetta allo scarso mio ingegno. Ma e' converrebbe davvero che avessi dato le spalle ad ogni modestia e ad ogni coscienza per non sentirmi ardere di rossore (per non dir altro) in pensando alle cose che in quello sono di me dette. E già ne scrissi e ne replicai a voce all'autore medesimo le mie giuste lagnanze. Gli elogi però infiniti, che gli sono piovuti addosso da ogni parte, gli hanno fatto accogliere poco moderatamente le mie dimostrazioni, ed anzi credere ciecamente agli encomii che ci prodigalizza sovente la moltitudine; e tali forse vi sono i quali gli avranno sul viso lodato il suo scritto i quali poi dietro le spalle ne cantano di presente il contrario. Veggo ben ora dalla vostra lettera di non essermi ingannata. Ma la verità partorisce odio: e pochi per fermo hanno sperimentato nel corso della loro vita la giustezza di questa sentenza, quanto a me è accaduto nel corso della mia. Ma potevo io in questa circostanza tacerla? Ciò che più mi cruccia si è il pensare, che molti stimeranno avere io dato il consenso per quella stampa: il che però, se può essere, lascio che il giudichi, non dirò chi mi conosce, ma chi soltanto ha fiore di senno. Io era ben certa che vi sareste commosso sin dentro all'anima in udendo il perfido strazio che si fa dell'onorato nome del mio povero e buon Giulio. Ed oh! quanto maggiormente non raccapricciereste se tutto vi fosse manifesto!!! ma vi sono dei delitti che non ponno venire immaginati da un cuore puro ed integro, e la cui enormità stessa toglie fede al vero. Bisogna insomma esserne vittima e vittima innocente per credere che esistano. Ben vi ringrazio della parte che prendete al mio dolore; e vi assicuro che se a voi è cara la memoria del vostro illustre amico, non meno carissimo voi foste a quel santissimo cuore fino all'ultimo suo sospiro.

Per ubbidirvi e non già perchè io mi pensi che i poverissimi miei versi meritino di essere letti da voi sì esperto conoscitore e maestro di queste materie, vi mando l'inno che degnate chiedermi. Ora dunque resta che al primo favore di accettarli, aggiungiate l'altro di graziarli di qualche vostro sincero avvertimento, il che mi sarà segno non equivoco della vostra preziosa amicizia.

Tenetemi a giorno delle vostre notizie: e conservatemi la vostra grazia alla quale quanto più so mi raccomando.

La vostra aff.ma serva
Costanza Monti Perticari.

P. S. Scrivo per questo stesso ordinario alla Contessa Sampieri, prendendomi la libertà d'inviarle una copia dell'accluso inno. Voi ottenetemi, vi prego, perdono; e raccomandatemi alla sua cara amicizia.

In—Lettere d'illustri italiani ad Antonio Papadopoli ecc. Venezia, Antonelli, 1886.

Maiano, 11 del 1825.

Mio caro Giovanni.—Non voglio defraudare, a te mio carissimo amico e cugino, la fortuna di conoscere tu pure le persone ch'io mi conosco degne della stima delle anime gentili; e perciò con questa ecco che ti presento il nobile barone Ferdinando Màlvica, cavaliere ornato di tutti quei pregi che per se stessi rendono commendevole chi li possiede presso ciascuno, senza d'uopo d'altre raccomandazioni. Tu dunque lo accogli e te gli offri con quella cortesia che ti è propria, poichè così a te, come a lui sono certa di fare un caro dono nel procurare la reciproca vostra conoscenza. Ebbi la tua del 27 scorso, e ho attentamente considerato tutto che mi dici intorno le stampe del Pinelli. Ma come vuoi che fra tante angustie, quanto sono quelle nelle quali tu sai che io mi vivo, io possa prendere il grave assunto che tu chiedi? In verità, caro amico, pesa a me medesima il dare una negativa, sì perchè ella a te si dirige, sì perchè, se mai vi fosse cosa sopra la quale avrei preso a scrivere volentieri, questa sarebbe stata; che tu ben sai l'amor mio per tutto ciò che spetta il nostro Alighieri, e la mia giusta ammirazione verso il nostro Pinelli. Ma la impresa è di rispetto; l'ingegno mio meschinissimo, poca la conoscenza dell'arte, e l'agio (stante i travagli dello spirito) mi manca interamente. Pure voglio provare di rintracciare altra più esperta penna che supplisca, onde almeno dimostrarti il mio buon animo e il desiderio di servirti.

Questo farò subito che mi sieno giunti i rami di che si è incaricato Salvagnoli, ed in seguito ti scriverò l'esito dei miei tentativi. Tutti que'della famiglia ti salutano, tu fa per me lo stesso cogli amici, dammi tue notizie ed amami siccome io ti amo, cioè teneramente. Addio.

La tua aff.ma cugina
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze Le Monnier, 1860.—Bartolomeo Pinelli, nato in Roma (1787—1875), celebre incisore e disegnatore, incise all'acqua forte raccolte di costumi antichi e moderni ed illustrò, con incisioni in rame, l'Eneide, la Divina Commedia, l'Orlando Furioso ecc.—Ferdinando Malvica, letterato non oscuro, dedicò a Costanza una lettera francese intorno ad Avignone, alla tomba di Laura e alla fontana di Valchiusa.

Maiano, 12 del 1825.

Caro amico.—Presentatore di questa lettera sarà il nobile Cavaliere Don Ferdinando Màlvica di nazione Siciliano, o per meglio dire Italiano; poichè mi piace che ciò che riesce ad ornamento della patria nostra si riguardi, potendosi, come appartenente agli Italiani tutti. E siccome egli è tale da raccomandarsi di per se stesso, tosto che sieno conoscuite le gentili sue doti di cuore e d'ingegno, io non d'altro vi pregherò, se non che l'accettiate nella vostra amicizia, sicura che mi ringrazierete in seguito d'avervelo presentato, egualmente ch'egli di avergli procurata la vostra conoscenza. Fate ancora conto che alle mie parole si aggiungano quelle del mio buon padre, il quale con parziale affetto a me stessa raccomandollo.

Datemi notizie della vostra salute e del come rifiorisce e procede dopo il vostro ritorno in Roma. Salutatemi tanto il Principe Odescalchi, Salvagnoli e gli altri amici tutti: e siatemi voi cortese della vostra grazia alla quale mi raccomando.

La vostra amica aff.ma
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Vittorio Emanuele di Roma, carte Betti.

7 aprile 1825.

Mia cara amica.—Quantunque avrai già per mezzo di mio padre ricevuti i miei saluti e le mie più tenere congratulazioni pel tuo felice maritaggio, non voglio lasciare di adempiere io stessa teco a sì dolce ufficio almeno per iscritto, poichè di persona non posso. Rallegromene dunque primieramente per tutti que' rispetti che odo essersi così felicemente combinati nel compagno della tua vita: chè s'egli è degno del tuo cuore, come e da Primo e da mio padre vengo assicurata, questo per fermo è in breve un dir tutto. Rallegromene poi anche per conto mio, tenendo come una particolar mia fortuna ogni tua consolazione. Resta che a render piena questa mia dolcezza voglia tu stessa essermi cortese delle tue notizie, poichè se per mezzo d'altri mi sono care, carissime mi riescono ricevendole da te direttamente. E pregandoti a volermi tener sempre viva nella tua memoria ed amicizia, a questa con veracità d'affetto mi raccomando.

La tua aff.ma e vera amica
Costanza.

Lugo, 20 giugno 1825.

Ebbi il libro di che ti ringrazio infinitamente, ed ebbi la tua lettera che l'accompagnava. Oltre il servizio, ti ringrazio pur anco della sollecitudine: e Dio volesse che alcuna scintilla della tua delicatezza e della tua amicizia passasse nel petto di tanti che non ti somigliano!!! Ma non parliamo di essi, poichè se dirne se ne dovesse poco, non basterebbe; e il dirne quanto meritano, risveglia sentimenti di troppo alto sdegno, quantunque giusto. Tu mi preghi ch'io non lasci te pure senza mie lettere, ed io ti prometto che, finchè non si spezzi l'ultimo anello che mi lega alla società, io non lascerò mai di darti il peso delle mie lettere: che se più frequenti esse non sono, accusane i molti fastidi della misera mia vita. Ad altri non iscrivo (e forse dovrei scrivere): ma ti confesso che se non mi trovo in assoluta necessità di prendere la penna, amo meglio non rammentarmi ad alcuno. La mia intenzione, nol niego, si è di condurmi al punto di non avere più nessuna corrispondenza letteraria, siccome non ne ho più alcuna di conversazione famigliare. Spero di ottenere il mio scopo un poco alla volta: ma a te prometto che finchè o un sasso o quattro mura non mi chiudano, a te, dico, scriverò sempre. Scriverò anche qualche rara volta ad altri: ma per solo obbligo di gratitudine e per sola necessità. Se tutti mi leggessero in cuore, niuno certo mi chiederebbe più lettere. Nè penso poi che assolutamente abbisogni il testimonio della penna per far mostra di gratitudine. Dico questo perchè so esservi chi mi chiama ingrata perchè non iscrivo. Ma oltrechè potrei rispondere, e provare esservi certa sorte di benefici che sono più figli della compassione che della vera amicizia e che quindi si pagano con se medesimi, chieggo io, che debbo scrivere? La storia forse delle mie sventure per sentirmi replicare le scipite consolazioni del bel mondo? abbastanza mi pesano le mie disgrazie senza che a questo peso vi aggiunga quello delle altrui sentenze. E d'altronde ov'è l'uomo, ov'è l'amico che meriti l'espressione sincera di un cuore addolorato? Proteste belle e fatti brutti: ecco ciò che ho tratto dagli uomini. Tutti vorrebbero aiutarmi, ma non possono. L'amico vero però non dice vorrei, ma voglio, e alla volontà risoluta non può non seguire il potere. Oh quanti che se volessero veramente,potrebbero! ma gli incomodi, le brighe disagiano e in oggi niuno vuole disagiarsi. Ecco dunque a che si riduce l'amicizia migliore: a non farvi peggio che avete. Ma per restare nello stato in che sono, cioè miserissimo, non ho duopo d'alcuno: e quando non abbia a ricavare altro dagli amici che un poveretta! un vi compiango! un vorrei! non voglio certo perdere tempo, fatica e pazienza in descrizioni del mio stato. Mi lascino e dove e come sono: e se un beneficio alto, grandissimo mi vogliono pur rendere, mi dimentichino: ecco ciò che loro meriterà tutta la mia gratitudine.—Ma io senza avvedermene sono entrata in una via affatto strana. Ciò che scrivo a te resti in te, nè dire manco ad alcuno che ti abbia scritto. Altrimenti ciò mi meriterebbe nuovi rimproveri perchè non iscrivo.

Ti prego di portarti alla Minerva e far ricerca di certo P. M. Cipolletti il quale ti consegnerà un involto che passerai nelle mani di Màlvica. Scusa l' incomodo. Dovrei dirti altre cose, ma ho la testa stordita e l'ora è tarda. Riprenderò dunque la penna quando mi avrai risposto. Non voglio però nè potrei chiudere questa lettera senza ringraziarti delle stampe che mi prometti. Oh quanto volentieri avrei scritto intorno a cotesto lavoro del Pinelli! Ma nulla mi deve accadere a seconda! Poichè così vuoi, a te seguiterò a dirne il mio sincero sentimento qualunque esso siasi: ma se pure (e per caso) in alcuna cosa è giusto, usane con prudenza, poichè non amo di far la saccente, e meno poi di essere tenuta per tale contro il vero.

Addio, caro cugino, amami e credimi con vera e tenera amicizia

la sempre tua Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale storico della letteratura italiana, vol. 11o.

Lugo, 24 ottobre 1825.

Caro amico.—Tu ti mariti e non me ne scrivi nulla, anzi sei già ammogliato ed io debbo saperne la notizia da altri che da te. Pazienza! Non è questa prova d'amicizia; ma pazienza, ripeto. Perdonami intanto se ho lasciato tanto tempo correre senza scriverti. Avrei voluto nel farlo, ubbidirti circa le dimande che mi fai su le osservazioni de'rami di Pinelli, ma non ho mai avuto un'ora di agio per quietamente discorrerne. Affari spiacevoli, disgusti di famiglia, ves sazioni da mio cognato, malattie, arrabbiature, e spiaceri sempre grandi, sempre infiniti, sempre raddoppiati, eccoti il corso in breve della mia misera vita. E ciò è il meno, poichè rammentando la somma perdita che ho fatto del mio Giulio tutto il resto in confronto è nulla… Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria… Ora sono sulle mosse per Milano (pur troppo!) e chi sa anche là quanti nuovi dispiaceri mi aspettano! Posdomani parto e là attenderò tue notizie e tuoi comandi, se mi credi abile a servirti. Di là pure, se un raggio di quiete mi si concederà, ti ubbidirò circa le sopra dette osservazioni. Benchè che posso io dirne, se non che quei rami sono veramente bellissimi? Io te ne ringrazio a cielo e sempre li conserverò come una cara tua memoria; e se muoio, voglio che in ricambio tu ne accetti la tavola del mio ritratto dipinto dall'Agricola.

Dico se muoio, giacchè due morti vi sono: e se l'una non fosse per anco vicina, l'altra forse lo è e più che non si creda. Parlo oscuro, ma verrà tempo che il mio detto si schiarirà! Intanto conservami la tua amicizia. Amami ed amami tanto più quanto più sono sventurata. Addio.

La tua Costanza.

P. S. Màlvica è più in Roma?

In—Lettere di Vincenzo Monti e di Costanza sua figlia publicate da Achille Monti per le nozze Manzoni-Ansidei. Imola, Galeati, 1873. —Giovanni Monti erasi ammogliato con Angelica Mecatti, romana.

Milano, gennaio 1826.

Caro amico.—Duolmi, duolmi all'anima, e spesso qui ne ragiono con chiunque ha sentimento d'onore e di giustizia, quanto mi narri della disposizione già presa dal Governo Pontificio contro i tuoi correligionarii. Nulla però mi giunge nuovo, nulla mi fa meraviglia, se non che tu abbi pazienza di restare ancora costà. Favorito dal cielo e dalla fortuna, dotato di anima nobilissima, amato, onorato da chiunque ti conosce, e da molti ancora che mai non ti videro e che solo per intendere di te ragionare, di te sono innamorati, come un essere rarissimo a incontrarsi in questa valle di sciagurati; e che fai tu costà con tante peregrine doti? Io parlo contro il mio interesse, perchè perdendo te, in codesti paesi non mi rimane più un solo amico: ma vorrei essere ancora più misera id quello che sono, piuttosto che tenerti un linguaggio contrario all'onor tuo e al tuo ben essere. Così ti avessi io qui a Milano.

Ti giuro che la compagnia tua varrebbe essa sola a distrarmi da certi miei antichi pensieri, nei quali prevedo pur troppo che si racchiuderà il mio avvenire. Mio padre ti abbraccia, ti bacia e ti saluta le mille volte. Egli è sdegnato quanto il sono io stessa delle cose che gli ho raccontato, e per quello che scrivi. Ma lo ripeto: niuna meraviglia. Vieni, ti prego, vieni tosto a Milano. Tu troverai qui molti che già ti amano senza averti mai veduto, e me sopra tutti che ti amo teneramente.

Addio, mio caro amico. Dammi tue notizie. Rammentami nel cuor tuo, e credimi per la vita

la tua Costanza.

In—Otto lettere della Contessa Costanza Monti Perticari a Laudadio della Ripa ecc.—Firenze, Le Monnier, 1877.

Milano, 7 febbraio 1826.

Mio caro Giuseppe.—Ebbi la tua prima carissima, dopo replicate ricerche alla posta. E ti avrei replicato le mie notizie prima di ricevere la seconda, se un'ostinata tosse con febbre non mi avesse tenuta crocifissa nel letto per più che una settimana. Oggi è il primo dì che mi rimetto al tavolino: e le prime linee che scrivo sono a te dirette. Così fosse in poter mio dirigerti ugualmente veraci consolazioni! Ma le parole non sono che parole, ed io pur troppo non ho che queste da offerirti. Almeno mi soccorresse un buon consiglio! Ti giuro, caro Giuseppe, che tu stesso non senti più intensamente il tuo stato di quello che io lo senta. Egli è assai doloroso, nol niego, e pure solo mi sembra disperato in quanto che tu non agisci. Che fare? tu di'. Lo ripeto: tutto, fuorchè rimanere nell'incertezza mortale in che vivi. Non lasciar correre gli anni della robustezza sì miseramente: adoperali piuttosto per risorgere, e pensa che meglio è lo spogliarci, finchè ne rimangono mezzi per rivestirci, di quello che l'essere spogliati, quando più non ne soccorrono le forze morali e fisiche. Tu hai figli: sei in istretto dovere dunque di non abbandonarti, per non abbandonarli. Questo è il linguaggio che ti ho sempre tenuto, il sai, e questo ti terrò finchè tu stesso non mi dimostri di essere annoiato dalle insistenze di una donna che può ingannarsi, è vero, ma non ingannarti. Se attendi soccorso da altri che da te stesso, credimi, Giuseppe, ti fallirà ogni speme. Gli uomini sono tristi, e sovente il più tristo è colui che più ne affascina con dolci parole. Poichè la verità è dura a dirsi e ad udirsi, e ci vuole tutto il coraggio di un animo schietto, onesto e veracemente amico per trattarla senza velame. Io nel caso tuo pagherei li miei creditori con terreni, e buona notte. Nè già verrei a questo partito con gli occhi chiusi; ma, dopo aver ridotto a tutti quegli onesti patti che si potesse cotesti assetati di sangue umano, me li vorrei per sempre togliere dagli occhi. Non mi hai tu assicurato che tuttora il tuo capitale supera il tuo debito? Ebbene, qualche cosa dunque ti rimarrebbe; e con qualche cosa che oggi non ti manchi, in pochi anni tu risorgi allo stato di prima. Ad ogni modo, non vedi tu che costoro attendono appunto che il caso divenga disperato, per piombarti addosso? Allora che farai? Cadrai, ma senza onore e forse senza via di risorsa, poichè non troverai più chi in te fidi. In oggi, invece, mille mani si stenderebbero verso di te per sostenerti: e la stessa tua magnanima risoluzione ne li costringerebbe: perchè in materia d'interessi la fede si appoggia alla integrità della firma, ed un uomo che, per non mancare nei proprii impegni, si spoglia volontariamente, dà di sè, dell'onor suo, tal garanzia che niuna è maggiore. Tu hai d'altronde esaurito tutti gli altri mezzi: le ven dite non ti sono riuscite: le ricerche di somme vistose, meno; gli amici o non vogliono o non ponno. Oh! mio caro, quanto tempo perduto! pensaci: se tu sin dal principio ricorrevi al riparo ch'io ti suggerisco, a quest'ora saresti fuori d'ogni angoscia: ed oh! quanti crepacuori, quanti affanni d'animo e di corpo risparmiati! e più attenderai, più sarà peggio, perchè nè i tempi sono tali da farne sperare alcuna risorsa, nè le tue circostanze ammettono più mezzani consigli. Tu di' che dare i beni ai creditori è lo stesso che disperdere più che la metà e far soffrire quelli che hanno migliori titoli di credito, sebbene non vestiti di tutte le formalità legali. In quanto alla prima obbiezione io ti dimando se non si disperderà anche più che la metà, allorchè non volontariamente, ma costretto, non con tuo onore, ma con tua vergogna, i tuoi creditori ti costringeranno a tal partito? Anzi se nulla di buono vi è da sperare da costoro, egli è appunto finchè il venire o non venire a tal passo è in poter tuo, sia che essi diminuiscano gli esorbitanti ed esosi titoli dei loro crediti, sia che lasciandoli tali che sono, essi si accontentino a prezzi onesti circa le possessioni da prendersi. In quanto poi alla seconda difficoltà ella fa onore al tuo cuore. Ma io penso che chi si è contentato di titoli non rivestiti di tutte le formalità legali, ha dato segno di più bontà d'animo, e credo che tale bontà non ti verrà meno in sì duro conflitto, se tu la chiederai. Io so che parlo contro il mio interesse; ma in quanto a me sin da ora ti dico che non ci pensi nè punto nè poco, se ti determini a uscire una volta da sì lunga agonia; e giurerei anche per mio padre. Dovresti scandagliare gli animi, per deciderti. Infine tu sei giovane, e una volta ristorati li tuoi interessi, anche tal sorta di creditori saranno soddisfatti. Anzi sarai più in caso di soddisfarli, allorchè libererai del tutto quello che ti rimarrà. Medica le piaghe più gravi, e vedrai che le altre si rimargineranno da sè col tempo, colla pazienza e colla tua operosità. In somma esci da cotesto letargo che per te, nello stato in cui sei, può divenirti fatale. Richiama tutte le forze del tuo spirito e sopra tutto sovvienti che niun' opera straordinaria e magnanima riuscì giammai senza straordinarii sforzi e senza magnanimo cuore. Perdona, caro Giuseppe, se mi arrogo il diritto di farti la dottoressa, ma se tu sapessi quanto mi stai a cuore, quanto ti amo e quanto godrei di saperti una volta in istato tranquillo, forse la stessa libertà delle mie parole ti diverrebbe cara. La ragione di tutti questi miei affetti verso di te, io l'ho nella bontà del tuo cuore e nella dura scuola delle mie stesse sventure. Ed è perciò ancora che tanto amerei fissare il mio soggiorno a te vicino. Dio volesse che fosse in poter mio il liberarti! Checchè però accada, se il Cielo mi riconduce a coteste parti, io spero che i nostri cuori s'intenderanno senza bisogno d'inutili proteste. E non sono io pure una tua sorella? Così avessero le altre verso di te il cuor mio.

Ho preparato li versi di mio padre il quale caramente ti saluta, ma non so come mandarli, niuno volendosi incaricare di libri. Pure ad ogni modo li avrai.

Godi tu per me i pignoli della locandiera di Ravenna, giacchè non veggo mezzo di spedirli qua; e quando tu vedi la donatrice, ringraziala mostrando che io li abbia ricevuti.

Ti prego tener un occhio sopra i poveri miei affari di costà, fino al mio ritorno: anzi anche dopo il mio ritorno, poichè in te solo ho posto la mia fiducia. Oh quando sarà che ci rivediamo! Dio il voglia al più presto, chè io ne affretto coi più caldi voti il momento. Addio, mio caro Giuseppe. Abbi cura della tua salute la quale, con mio vero dolore, veggo sovente attaccata da vari incomodi. Dammi nuove della tua famiglia, e scrivimi se Giovannino è ben rimesso. La posta è nel chiudersi e il foglio è pieno. Addio adunque ed ama siccome teneramente ti ama.

la tua Costanza.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari—pubblicate in appendice alla vita di Giuseppe Monti scritta dal figlio Giovanni.—Imola, Galeati, 1883.

Milano, 14 luglio 1826.

Mio caro cugino.—Io mi confesso in colpa e chiamo perdono con quanta forza ed efficacia può prestare il pentimento. Ma sono altresì tanto infelice, che la sarebbe barbarie il farmi un sol rimprovero del mio passato silenzio. Dacchè la sventura ha nuovamente gravato il braccio sul capo del povero mio padre, e in conseguenza sul mio, oggi posso dire ch'è il primo giorno nel quale respiro un po'di libertà. Mio padre accompagnato da mia madre è partito questa mane per la Brianza, e ciò ti sia prova ch'egli sta meglio, meglio cioè in paragone del come stava, poichè positivamente egli non istà nemmeno ora bene, durandogli tuttavia la paralisi in tutto il manco braccio e in gran parte della gamba sinistra. Tuttavolta il capo è libero e si spera qualche altro progresso dall'aria della campagna. Quali giorni, quali notti io abbia passate non è cosa a dirsi, nè ad immaginarsi: la sola esperienza può dar conoscenza del mio stato. Ma perchè non voglio annoiarti col racconto dei miei mali, fo ad esso fine, e passo ad altro argomento. Ebbi le ultime stampe del Pinelli: bellissime invero; ma a mio parere non così come le prime, ed in generale mi sembra ch'egli siasi stancato su l'ultimo di quel lavoro. Osservo poi che la figura di Beatrice (anche nel Purgatorio) è quasi sempre meschina, e mi rassomiglia più ad una sartina francese che al carattere sublime e grandioso che si conveniva a cotale altissima donna. Nulla di meno questi rami chiudono tutti qualche bellezza, ed io te ne ringrazio infinitamente. Vi è qui persona che vorrebbe farseli venire da Roma, ma desidera in prima sapere il prezzo dell'associazione. Io non ho saputo dirlo, perchè non me ne ricordo. Sicchè ti prego di scrivermelo a posta corrente. Non so se tu abbia mai ricevuto una edizione dell'Omero di mio padre che ti spedii già è più tempo insieme ad un libro per Malvica. Siccome nè l'uno nè l'altro mi avete dato avviso di ricevuta, non so che pensarne. Io ho qui preparati alcuni esemplari dei due discorsi estratti dalla Biblioteca Italiana, i quali parlano di mio padre e di Ginlio con quella dignità, con quelle lodi, che si convengono al soggetto. Te li voleva mandare, perchè meritano per ogni titolo di essere letti, ma non ho modo. Se tu me ne indicherai qualcuno ne profitterò, e forse vi unirò qualche altra cosa. Vedendo Malvica ti prego salutarlo.

Addio, caro cugino, conservami l'amor tuo e credimi sempre

la tua aff.ma Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 13 novembre 1826.

Carissimo amico.—Già da quattro mesi la salute m' ha abbandonata, nè so dire se mi sarà conceduto di riaverla appieno mai più. A questo mio stato attribuite se deggio valermi d' altra mano nel rispondervi, quando pure mi sarebbe carissimo scrivervi io stessa. La vostra lettera mi recò sommo piacere e perchè viene da voi, e perchè mi assicura essere condotto a termine il vostro quadro di Lodovico e d' Alessandra: io lo vedo sin di qui, e m' imagino quale festa i veri conoscitori faranno intorno a sì stupendo lavoro. Ho sentito comunicata a mio padre la notizia del prezioso dono che gli destinate ed egli ve ne ringrazia moltissimo e se ne tiene grandemente onorato. Vi scriverebbe assai volentieri, ma comunque sia venuto a tollerabile stato di salute, troppo è lo stento con cui muove la mano ed egli vuol pur credere che per venire da me i suoi ringraziamenti non vi saranno men cari.

Spero che all' arrivo del vostro mirabile disegno io mi sentirò alcuna cosa meglio e potrò scrivervi lungamente di mio padre e di me, intanto vi ringrazio della memoria che mi serbate e vi auguro tranquillità di mente e di cuore, onde continui l' Italia a veder ricreati di vostra mano quei miracoli del cinquecento, che ormai per gli altri pittori sono piuttosto una disperazione, che un esemplare.

La vera amica aff.ma
Costanza.

P. S. Dirigete il disegno in Borgo spesso n.o 1355.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

Milano, 17 dicembre 1826.

Mio caro Giuseppe.—Independentemente dalla malyagia mia salute che ogni dì peggiora, tu saì che tutti i miei voti si volgono a tornare in codeste parti. Figurati poi con quanto più desiderio io affretti questo ritorno, ora che i medici stessi convengono non convenirmi affatto il clima di Milano. L'unico affanno che mi tormenta in questa risoluzione è lo stato di mio padre il quale, ben lungi dal migliorare, seguita ad avere tutto il braccio sinistro perduto, insomma è appena più riconoscibile, quantunque l'intelletto non sembri aver nulla perduto. La sua età d'altronde deve farmi purtroppo temere che se io ora l'abbandono, forse sia per sempre!!! Tu che conosci il mio cuore, potrai imaginarti la crudele alternativa che mi martella giorno e notte. Ma pure che posso? Le mie ristrette finanze non bastano a questo soggiorno: la mia salute mi si rovina del tutto, ed in tale stato non mi è possibile reggere più a lungo. Il mio male, dichiarato mal di fegato (appena appena ancora curabile) ha radice e fomento nei patemi d'animo, e questi certamente non ponno aver riposo che nella solitudine. Aggiungi che il genere di cura prescrittomi è troppo dispendioso per me: forse costà, vivendo in economia, potrei effettuarlo: ma qui mi è impossibile, e ti confesso che sono sovente costretta a rigettare alcuni metodi di cura, per non potervi colla borsa supplire. Ciò mi è già avvenuto due volte, e ciò forse ha peggiorato la mia condizione. Ma a che, tu forse mi dirai, tutto questo cicaleccio? Eccone il motivo. Io son pur risoluta a levarmi da questa babilonia, qualora non soccomba prima della novella stagione, e Dio il volesse!!! e qualora lo stato di mio padre a quell' epoca non abbia peggiorato. In Lugo non ci voglio più tornare; dunque sceglierò la campagna. Ma mi sarebbe pur dolce il rinvenirne alcuna presso Majano. Non si potrebbe ad un discreto prezzo ottenere quella sopra la quale già fissai le mire, il cui padrone più non ricordo, ma che sembrami fosse vicina a S. Lucia? So che vi sono delle spese da farle; ma tanto di meno ella dovrà giustamente valere, purchè le mura sieno buone e buono lo stato delle cose principali da risguardarsi in simili affari. Ti prego informartene e sapermene dare un buon consiglio ed un giusto ragguaglio. Ecco il piacere di che ti prego; ma ti prego altresì dartene assoluto pensiero, perchè ad ogni modo io ho fermo di finire i miei giorni costà, purchè però tu mi prometta di finire i tuoi a Majano. Che se i tuoi affari t'impedissero di prendere un tale impegno, parlami schiettamente e dimmi i tuoi progetti per l'avvenire. Tutto ciò però ti scrivo in segreto, ed in segreto tu lo custodisci. Altre mire mi girano per il capo, le quali forse non ti sarebbe discaro l'intendere, ma sono cose da sistemarsi a voce, e per ora fia inutile il parlartene: Dio volesse che qualche cosa potessi per te!! La mia vita non è da gran tempo che un tessuto d' affanni, e le tue stesse disavventure sono un titolo di simpatia tra il tuo e il mio cuore. Gl' infelici non hanno d' uopo che d'intendersi per amarsi, e noi siamo entrambi infelici. Disingannata di tutte le follie del mondo, resa dalla stessa sventura invulnerabile a più teneri sentimenti, io non ho più speranza di conforto che nell'amicizia, ma cerco l'amicizia di chi fu, come me, bersaglio della fortuna, perchè credo che questo santo sentimento non alberghi che nei cuori che appresero a soffrire. Forse anche poco più mi rimane a vivere; e questo è un motivo di più per cercare il riposo negli ultimi miei giorni. In somma, rispondimi subito e poscia occupati nell' affare della casa. Ti accludo una lettera di Gagliardi, che ti prego fargli pervenire subito. Io, solo da pochi giorni mi alzo dal letto, e lo stato della mia salute è veramente malvagio.

Dimmi se hai terminato di accomodarti con Manzoni e co' tuoi fratelli, ed in quale stato sono i tuoi affari. Addio, sta sano ed ama

la tua aff.ma
Costanza.

P. S. Porrai alle tue soprascritte il seguente indirizzo, se non vuoi che le tue lettere vadano smarrite: Contrada Borgo Spesso N. 1355.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galeati, 1883.

Milano, luglio 1827.

Signor Cont.—Quando io mi aspettava, a tenore dell'altra mia, mi fosse di giorno in giorno pagato il residuo mio credito di già scaduto, ricevo oggi altra sua che m'indugia il rimborso, mettendomi per condizione la restituzione dei manuscritti. Veramente non so cosa abbia a che fare l'una cosa coll'altra; e se io mi presentassi a' Tribunali coll' istrumento stipulato in Pesaro, Ella forse non troverebbe motivo di rallegrarsi di questo nuovo affronto fatto alla buona fede dell'accordato, e da tutto il mondo riverito Cav. Monti. In qualunque tempo Ella, Signor Conte, avesse dimandati li manuscritti, le sarebbero in qualunque tempo stati restituiti: ma mi permetta dirle che, per l'onor suo, Ella avrebbe dovuto scegliere tutt'altra epoca che quella in che appunto cade l'ultimo sborso del suo debito verso di me. Ma di questa nuova bassezza non più…. Le scrissi già che non trovandosi in queste carte nè le cose opportune alle stampe, nè le più degne, nè alcuna opera finita, o almeno preparata, mio padre non intendeva addossarsi tale edizione. Era già dunque mia intenzione il renderli tutti, e dovendosi appunto in quest'epoca troncare fra noi ogni genere di legame e di corrispondenza, li aveva tutti riposti in fondo del baule che da più giorni tengo preparato per la mia partenza, onde recarli meco senza disturbi di dogane, di spese e di revisioni in Romagna e di là spedirglieli in Savignano. Ora però non volendo dar luogo a dimore, li ritirerò dal baule, ed Ella faccia conto che saranno a sua piena disposizione dal punto stesso ch'io sarò pagata. In conseguenza la invito a nominare subito qui in Milano o il Signor Marietti, com'Ella sembra desiderare, od altra persona benevisa con cui mio padre ed io possiamo divenire a una finale quitanza, o con carta privata o con rogito notarile, sempre però a spese di lei com'è di legge e di pratica. La quitanza deve essere fatta qui in Milano, tanto perchè ha sempre da essere eseguita, com'Ella deve ben sapere, al domicilio del creditore pagano, quanto perchè nè mio padre, nè io abbiamo in Pesaro alcuno che ci convenga incomodare a questo riguardo. Il Signor Marietti, o altra persona qualunque, riceverà da me nell'atto stesso del pagamento i manuscritti contro analoga ricevuta; ed Ella, Signor Conte, potrà poscia rimetterli a chi già ebbe da lei, per marcire indegnamente nell'oblio, ciò che vi era di migliore e di più pregevole fra le carte dell'illustre defunto. Per parte mia tutto può essere terminato in giornata, sicchè la invito a voler dare sul momento gli ordini opportuni, avvertendola che io ho espresso bi sogno di recarmi in Romagna, e poscia per salute alle acque di Recoaro, che solo in questa stagione ponno riuscire di qualche giovamento. Sicchè se pel solo piacere di farmi del danno e nell'interesse e nella salute Ella differisce ancora la ultima conclusione di questi disgustosi affari, potrà aggiungere ancor questo ai tanti altri tratti di crudeltà diggià scagliati contro l'infelice vedova di Giulio Perticari, e Dio voglia che la memoria di essi non turbi un giorno l'agonia di V. S.—L'avverto ancora, che, siccome il ritardo accade per colpa sua, io ho diritto di essere pagata dei frutti fino al giorno dell'intera estinzione del suo debito.

Ne altro occorrendo, ho l'onore di riverirla.

Sua Um.a Serva
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Milano, luglio 1827.

Illustrissimo signor Conte.—La sua del 16 corrente in risposta della mia mi è pervenuta ieri soltanto. In seguito di quanto Ella m'assicura starò in attenzione dei promessi pagamenti e ritirerò la cambiale che aveva a questo effetto passata al Signor Marietti, non veggendo da V. S. nessuno avviso. E siccome il mio soggiorno in Milano è cosa da fino lo scorso inverno nota a tutti anche di costà, credeva che Ella pure ne fosse a giorno ed ecco perchè stimava che Ella mi avrebbe qui fatto sborsare li noti frutti senza d'uopo di nessun mio stimolo. Circa la somma dei mille scudi di vera sorte, io non li rifiuto; ma mi sia concesso il farle osservare che è cosa crudele anzi inumana, dopo le tante perdite a suo profitto fatte e di cui tuttora mi risento, il non lasciarmi l'epoca dovuta a trovare onde investire le somme che Ella mi va sborsando, e pretendendo che dal momento stesso dell'avviso quelle siano contate come pagate, cessando ogni frutto a suo carico. Questo denaro, che il in tal modo mi resta morto in mano, fino che non mi sia riuscito di assicurarlo come i tempi difficilissimi esigono, mi è di grandissimo discapito, ed Ella sa che altre volte ho avuto questioni seco lei per questo oggetto. Se vorrà considerare il modo con cui sono stata da lei trattata finora, (e tralascio di menzionare quanto ha operato perfino negli ultimi momenti della buona madre del mio Giulio) vedrà che non le relazioni altrui ma il suo proprio procedere mi ha costretta a crederla altrettanto mio nemico, quanto meno Ella per tutti i titoli dovrebbe esserlo. Ma lasciamo per ora queste questioni. Giacchè si offerse ad udire il mio avviso intorno li suddetti mille scudi che Ella tiene pronti, non le nego, che se non le spiacesse lasciarmi uno o due mesi di tempo per cercare d'investirli o qui o altrove, gliene sarei obbligata; e prendo un'epoca non oltrepassante quella che suolsi concedere in simili negozii, per provarle che non è mia intenzione l'abusarmi della sua offerta. Ella sa d'altronde l'ultima disgrazia accaduta al povero mio padre, per cui difficilmente potrei ora abbandonarlo e ciò mi rende anche più difficoltoso il provvedere ai miei interessi. Di più non dico. Se malgrado il fin qui esposto, Ella ricusa consentire a una dimanda sì discreta, mi mandi pure in Milano il denaro e Dio giudicherà fra di noi e provvederà alla causa dell'afflitto e del perseguitato. Mi farà grazia se mi onorerà di due righe di riscontro, ed intanto colle solite proteste fo fine ed ho l'onore di riverirla.

La sua Um.a serva
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, carte Perticari.

Milano, 2 agosto 1827.

Carissimo Giulio.—Deve essere giunta in Bologna una cassa di libri di mia ragione diretta a S. E. il Cardinale Albani, il quale gentilmente aderendo alle raccomandazioni del Conte Alborghetti condiscese ritenerla presso di sè, finchè io non avessi mandato a levarla. Vi prego dunque fare in modo che sia tolto questo soverchio incomodo a S. E. e ritirare la cassa, facendola trasportare in vostra casa sino al mio arrivo. E se aveste l'onore d'essere presentato a l'esimio Legato, farete in mio nome le debite proteste di riconoscenza per tanta sua gentilezza, riserbandomi di rinnovarle in persona nel mio passaggio per Bologna, o nella mia venuta costà, o nel ritorno a Milano, in caso che per ora fossi costretta a prendere la via di Mantova.—Salutatemi caramente vostra moglie e la famiglia, e credetemi sempre con veri sentimenti di amicizia

la vostra aff.ma cugina
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

[Milano. 1827].

Mio caro Giulio.—Vi prego consegnare voi stesso l'acclusa e perdonarmi tale fastidio. Affollata da mille cure e dispiaceri, null'altro aggiungo, e solo ho il tempo di assicurarvi della mia vera amicizia. Abbracciatemi Teresina e i vostri figli, e credetemi sempre

vostra aff.ma cugina
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

[Mino, 17 settembre 1827].

Mia cara Carlotta.—Mi parrebbe far torto alla tua cortese amicizia, se mancassi alla promessa che ti feci di avvisarti quando sarei passata per Portomaggiore. Laonde per questa siati di norma che lunedì mattina, a qualche ora sarò a Porto. Io spero che tu pure, memore della gentile assicurazione che mi desti, sarai colà, ove mi anticiperò il piacere di abbracciarti. Quest'oggi stesso ne avviso tuo marito.

Qui tutti ti salutano caramente, ed io, raccomandandomi alla tua amicizia, sono con vero e tenerissimo affetto

la tua cugina ed amica aff.ma
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.—Carlotta Merangola era moglie di Fedele Monti, cugino della Costanza.

Maiano, 28 febbraio 1828.

Mio caro Giuseppe.—Ti ringrazio d'avermi dato tue notizie, e molto più perchè veramente eravamo tutti qui un poco inquieti su l'esito del tuo viaggio, stante la perversa stagione. La Nina, cui ho dato a leggere la tua lettera, giura di non averne decifrata una parola, e chiama bestiale il tuo bel caratterino. Io però ho preso caldamente la tua difesa, e tu al tuo ritorno farai il resto. Ciò sia detto tra parentesi. Avendole adunque spiegato il contenuto del tuo foglio, si è assai confortata dal sentirti bene e ti saluta caramente. La Menghina e il buon Ninino ti abbracciano e ti pregano tornar presto e portare buoni zuccherini. Entrambi questi tuoi cari bimbi stanno benone e hanno terminato il carnevale tra feste, balli, canti, suoni, allegrie tante insomma, da disgradarne tutte coteste serie pazzie delle grandi città. Essi nulla hanno saputo per anco della crudele tragedia accaduta venerdì scorso, siccome avrai inteso per la lettera di Angiolino. Sicchè vivi tranquillo, che per questa parte almeno nulla omai di sinistro può accadere, non essendo stati impauriti da nessuno. La povera Nina era morta dalla paura in quei terribili momenti: io non so se fossi più agitata dalla pietà verso quell'infelice che spirò un'ora dopo la catastrofe, o dallo sdegno verso il suo assassino. Molto si sussurra ora pro e contro; ma per natura mi sento sempre inclinata a dar ragione alla parte vinta, perchè so e veggo per prova che trionfano sempre i birbanti. Comunque sia, Dio perdoni a tutti, perchè tutti ne abbiamo bisogno. Tua moglie non ha per nulla sofferto nella salute, e qui in somma stiamo tutti in pace e bene, tranne Fasanotto che non osa più uscire la sera per timore d'incontrare il morto. Eccoti un lungo pettegolezzo, ma mi ci sono abbandonata per tranquillizzarti, se qualche dubbio ti fosse rimasto dopo l'accaduto. Ora vengo alle cose mie. Dirai ad Alessandrino che lasci dunque la cassetta dov'è purchè sia sicuro ch' ella arrivasse asciutta, il che crederei, per essere stata in viaggio nella stagione più calda. Non serve che scassi gli effetti, tanto più che poi converrebbe rincassarli per spingerli sin qui ed essendovi delle cose fragili, si andrebbe a rischio o di romperle, o di male imballarle. Digli che, avendo a rimuoverla di dov'è per portarla a Ferrara, mi avvisi prima. Rallegrati anche dei suoi finalmente determinati sponsali, sopra i quali attendo la mia parte di confetti. Ti raccomando tutte le altre mie commissioni e vedi di ottenere i denari che mi debbono Fe dele e Giulio. Ad ogni modo circa agli affari tuoi ti consiglio finirli co'tuoi fratelli; ma altresì esamina se ti convenga far poi tutti i sacrifici che richieggono…

Zaiotti mi scrive che tiene vivo il tuo negozio con Gordiano, ma colui non vuol decidersi senza quelle tali risposte che attende da Imola. Ricordati di parlare per me a Longanesi.

Salutami la Carlotta. Addio, caro Giuseppe: amami siccome ti amo e credimi per la vita

la tua Costanza.

P. S. Nina saluta sua madre e suo fratello.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galcati, 1883.—La Nina era la moglie di Giuseppe Monti: Angelo Longanesi e Alessandro Paroli erano suoi parenti. Il cav. Paride Zaiotti, consigliere presso il tribunale criminale di Milano, era amico della famiglia Monti.

Lugo. Giugno 1828.

Caro Giovanni.—Due sole righe. Domani parto per Milano in seguito di troppo tristi notizie ricevute di mio padre. Dio tenga lontana dal povero mio capo la più crudele delle sciagure. Non ti parlo de'nostri conti, perchè la angustia, il dolore mi tolgono la testa. Ebbi la Madonna e te ne ringrazio vivamente. Sarebbe stato mio desiderio scriverti anche che il tuo denaro, cioè scudi 15, erano pronti, ma ho dovuto citare quel birbante del mio affittuario e parto senza aver potuto riscuotere nulla. Da Milano meglio di ciò. Per ora perdonami: oh! Dio, se vedessi il mio stato! tutti i miei mali sono ricomparsi, ma non importa. Domani parto. Compiangimi. Addio.

La tua Costanza.

L'autogr. trovasi nella libreria dei Marchesi Sommi Picenardi. —L'affittuario era Giovanni Gagliardi, contro il quale, nel 1833, dinanzi al tribunale di Ravenna, Costanza vinse una lite.

Monza, 29 giugno 1828.

Carissimo Giovanni.—Siccome in tutta fretta ti scrissi da Fusignano alcuni momenti prima della mia improvvisa partenza, avrai inteso la ricaduta di mio padre. Ora ho il contento di dirti ch'egli migliora a vista e già i medici ne pronosticano la consolazione di conservarlo ancora per molti anni. Mi fo un dovere di darti questa notizia perchè troppo erano spaventose quelle che dovette recarti l'ultima mia. Nel tempo stesso ti prego di un piacere. Agricola mi scrive di avere un disegno preparato per mio padre e vorrebbe spedirlo per un canale che alla mia famiglia assolutamente non piace, per alcuni torbidi insorti ultimamente e che ti racconterò in altra con più agio. Ti basti che mio padre ha mille ragioni. Scrivo dunque ad Agricola perchè consegni a te il disegno, e tu potresti spedirlo a Longanesi a Ferrara che io ho già prevenuto, perchè da Ferrara a Milano io ho mezzo sicurissimo, senza che l'involto corra alcun pericolo d'essere aperto o altro. Parlane dunque ad Agricola e per mia regola avvisami cosa avete combinato. Fagli anche fretta, perchè tutti siamo impazienti di ammirare il suo lavoro, e mio padre sempre me ne chiede. A proposito poi di lavoro, io ti ringrazio della Madonna che mi hai spedita ed il tutto è di mio piacimento. Ho lasciato ordine per la somma di che ti sono debitrice tuttora, ma quel mio affittuario è un birbante, e non ho ancora potuto cavarne nulla delle ultime rate. Ho dovuto piantar tutto a Fusignano, come già ti ho scritto, e Dio sa quando potrò ritornare colà. La mia salute qui peggiora per tutti i motivi; oltrechè lo stato di mio padre non mi lascia riposo nè giorno, nè notte. Oh che vita! Queste poche righe te le scrivo togliendo il tempo a quelle poche ore che mi si concedono per dormire. Scrivo quindi in fretta, perchè sono stanca.

Perdonami, conservami la tua amicizia, e coll'occasione del disegno di Agricola mandami, ti prego, qualche cosa di tuo lavoro. Addio, amami e credimi

la tua aff.ma amica
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ccc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 25 ottobre 1828.

Mio caro Giuseppe.—Quantunque sino dal giorno stesso della nostra disgrazia, io pregassi il Consigliere Zajotti di scriverti, non posso però cominciare la presente senza ritoccare questa recente profondissima ferita. Sono le tue lacrime, o mio Giuseppe, ch'io chieggo: e quale altra consolazione a tanto dolore che le lacrime di un amico? Ah! entrambi troppa cagione abbiamo di spargerne! Tu perdesti in amore un secondo padre: ed io povera infelice tutto ho perduto! Che mi rimane oramai qui in terra? I due più saldi, i due più teneri legami del mio cuore sono spezzati; la natura non ha più un seno solo aperto all'espansione del mio ardente sentire. Gli affetti tutti potevano concentrarsi in quelli di figlia; ma, mancato anche questo segno dell'amor mio, quale altro sentimento mai potrebbe equivalere a quello e di figlia e di moglie? Ah! compiangimi, amico mio! non sia che in tanto abbandono mi manchi la tua amicizia: io ho affidata ad essa gran parte del mio riposo avvenire, e so che non tradirai la mia fiducia. Ma ohimè! nè la stessa tua amicizia, nè essere alcuno su questa terra saprebbe rendermi quanto ho perduto. Oh mio Giulio! oh mio padre! oh come, oh come l'una sciagura aggrava l'altra! non mai tanto piansi, non mai tanto sentii la prima perdita, quanto nel punto dolorosissimo di questo secondo distacco. Tu che mi conosci, imagina che sarebbe di me, se la religione non istendesse sul mio capo la misericordiosa sua destra. Grazie eterne però alla pietà divina, poichè anche questa seconda percossa mi fu alleggerita di tutto ciò che la religione ha di più consolante. Negli ultimi suoi giorni specialmente, l'ottimo vecchio era già tutto staccato collo spirito dalla terra: la sua religiosa rassegnazione, i suoi slanci verso il cielo, i suoi discorsi infondevano nell'animo di chi lo ascoltava, ammirazione e tenerezza: egli ha sofferto molto ma almeno l'ultima sua agonia fu dolcissima: il sorriso del giusto non abbandonò mai il suo labbro fino all'ultimo suo sospiro ed il vidi io sola quell'ultimo sospiro, io sola l'accolsi; e tanto fu dolce, che l'occhio e il cuore di una figlia soltanto avrebber potuto avvisarlo. Ah io nol dimenticherò mai, mai! La memoria di quell'istante terribile ha per me un misto di amaro e di dolce inesprimibile. Egli è ora beato… me misera, cui ancora sovrastano le incerte e dolorose vicende di questo esilio!

Tu non meraviglierai se, immersa nel mio giusto cordoglio, non ho prima d'ora posto mente agli affari del Preda e spero anche questi saprà compatirmi e perdonarmi. È giusto però altresì ch'io faccia forza a me stessa, onde non venga a lui anno da un più lungo ritardo, dacchè tu mi assicuri essere stato adempito quanto per lui si doveva.

Dio regga la mia povera testa e tu intendimi alla meglio, se la trista mia condizione non mi lasciasse porgere abbastanza chiaramente quanto ho a dirti sul proposito di questi affari. Comincerò dal ringraziarti di quanto hai per me fatto e a pregarti di seguitare ad aiutarmi e coll'opera tua e col tuo consiglio. Le amorevoli tue parole hanno sparso di dolce balsamo le novelle ferite della povera anima mia, ma ti prego non ti cada mai più nella mente il sospetto della mia diffidenza verso di te. Sono forse diffidente con altri; ma tu hai anche mille prove che tale non sono punto con te (nè potrei essere) quantunque qualche volta ti sembri forse sofistica. Ho tanto sofferto però anche su questo rapporto, e sospiro tanto di mettermi in uno stato di pace, che bisogna compatire in me un tal difetto, se pure nello stato mio è difetto. In fine non volea dal Preda che il convenuto. Tu ora mi assicuri che si è fatto, e basta così. Tieni pure presso di te le carte di liberazione così delle ipoteche, come del total pagamento che si farà. Ciò solo che desidero, si è che si faccia tutto, assolutamente tutto quello sarà necessario per non avere disturbi nell'avvenire. Tu tratti una causa che non è tua, quindi il Preda non può onestamente aversi a male di ciò che esigerai per mia sicurezza: e in quanto a me non faccio alcun torto al Preda, poichè egli pure è mortale e se ha diritto ch'io creda alla sua onestà (siccome ti assicuro che credo), non perciò deve esigere che creda a quella de'suoi eredi. In somma, fa' tu e, ripeto, ritieni le carte tutte presso di te, che me le consegnerai al mio ritorno costà. Oh Dio! questo pensiero riapre tutte le mie ferite! Non ti parlo di ciò che qui accade, perchè non ho capo ad occuparmene. A stento ho parlato degli affari di costà. Per tua quiete sul conto mio, ti basti il sapere che adempirò senza difficoltà, di cuore, quei doveri che ancora restano ad adempirsi. Molte cose mi affliggono! ma, purchè la mia tenerezza non sia ributtata, saprò perdonar tutto e tutto dimenticare. Poscia… la tua famiglia mi accolga e divenga la mia: non formo altro voto. Addio, mio caro amico. Di' ad Annina che mi mandi la misura della testa della Menghina, che le chiesi e non ho ancor veduta. Salutala e la Carlotta pure. Abbraccia i tuoi figli e raccomanda alle loro innocenti preghiere il riposo del mio ottimo padre. Addio.

La tua Costanza.

P. S. Mia madre ti prega d'inviare colla più possibile diligenza la fede di battesimo del povero papà. Ella sarà necessaria per la pensione che deve chiedere. Non rileggo la presente perchè ho fretta… Addio.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galeati, 1883.—Dall' ingegnere Giampaolo Preda di Fusignano, Costanza aveva comprato una possessione.

Milano, 28 ottobre 1828.

Io temeva, sì il temeva, lo confesso, che tu mi avessi dimenticata: e confesso ancora che ti faceva gran torto. Ma che vuoi? L'abitudine del soffrire rende qualche volta ingiusti, e il tuo lungo silenzio aveva allarmato il mio cuore. Non credere però che per questo si scemasse giammai in me la gratitudine, nè l'amicizia. Poteva io scordarmi tanti segni della tua benevolenza? Tu dividesti sempre le mie sventure: e venendo ora incontro colla solita tua amicizia a quella che nuovamente mi ha percossa, hai dimostrato che sempre eguale è la tempra dell'eccellente anima tua. Io te ne ringrazio, amico mio, e mi è anche di dolcezza il vedere che tu pure piangi l'ottimo uomo che tanta parte aveva in te posta dell'amor suo. Ohimè! quantunque aspettato, io non rimasi men prostrata a sì gran colpo! Ti avrei scritto prima, ma nei giorni scorsi fui ammalata, ed anche forse troppo abbattuta. Non entro in dettagli, perchè mi spezzerebbero l'anima. Ti basti che fui io che accolsi l'ultimo suo respiro e che egli morì nella pace dell'uomo giusto. Ora eccomi veramente sola su questa terra; ma la vita che si consuma nel dolore è abbreviata e questo pensiero mi è di conforto… Ah, mio caro, questa ferita novella ha riaperto tutte le antiche! Oh, mio padre! oh, mio Giulio! Non voglio rattristarti: fo fine.

Amami, scrivimi, e ricordati di chi per la vita sarà

tua Costanza.

In—Otto lettere della Contessa Costanza Perticari Monti ecc. —Firenze, Le Monnier, 1877.

Milano, 3 novembre 1828.

Mio caro Giuseppe.—Fino dalla settimana scorsa mi fece Zajotti vedere la tua risposta al tristo annunzio di che l'incombenzai. Tu scrivi che a me pure scrivevi; ma io ho fin ora inutilmente atteso dalla posta la tua lettera. Non posso però differire più a lungo d'inviarti la presente perchè si tratta d'alcune dimande alle quali è necessario che tu risponda a posta corrente, giacchè debbono servire all'articolo necrologico che lo stesso Zajotti scriverà pel povero mio padre, da inserirsi nella Biblioteca italiana. Tu vedi che non v'è tempo da perdere: la Biblioteca esce poco dopo la metà del mese e l'articolo non può scriversi, se tu non rispondi. In nome dunque dell'amor tuo verso la memoria di sì caro parente, in nome di quello ch'egli grandissimo ti portava, ti prego di rispondere subito e invigilare che la tua lettera parta da codesto ufficio postale, giacchè io non so intendere questo continuo ritardo o perdita delle tue lettere. La nota delle domande la troverai a piedi della presente. Ricordati il mio recapito nella soprascritta.

Ad onta dell'immenso affanno che tuttora mi opprime, io ti ho lungamente scritto intorno agli affari di Preda, giacchè non pareami giusto che per un mio dolore egli avesse a risentire alcun danno. Sono però assai riconoscente al respiro ch'egli gentil mente volea concedermi in così terribile catastrofe, secondo che rilevo dalla tua lettera a Zajotti. Fagli ben conoscere questi miei sentimenti, poichè io sono così fatta: sento vivamente il male e il bene che ricevo; e quest'ultimo specialmente non mi si cancella più dalla memoria. Avendoti già scritto di ciò, non ripeterò qui il già detto; bensì ti prego rispondere subito anche su tale articolo, perchè senza un tuo ordine e senza un tuo avviso che la mia passata lettera ti sia pervenuta, io non consegno il denaro. È necessario che sappia esserti quella lettera giunta, così per un partito ch'io proponeva al Preda, come per alcune piccole differenze di conti sul mio dare ed avere.

Caro Giuseppe, abbi pazienza; veggo che abuso un po' troppo della tua amicizia, ma tu sei il solo in cui io fidi costà e il solo che possa consigliarmi. Spero che, terminati questi affari, le cose correranno meglio per l'avvenire e che non ti sarò più tanto importuna. Alborghetti mi disse, sere sono, di aver già ricevuto avviso dai Calcagnini per l'invio di una forte somma. Egli aveva già da prima scritto per me, e spero che la sua e la mia lettera saranno giunte in tempo. Scrivimi, te ne prego, e subito. Ricordati anche d'inviare la fede di battesimo del povero papà. Di un altro fastidio debbo incaricarti. Tu sai che lasciai in casa di Giulio una cassetta con certi miei panni da inverno, sul dubbio di fermarmi qui in questa stagione. Come si potrebbe fare per ritirarla? Io ne scrissi, è molto tempo, a Paroli, pregandolo si presentasse colla mia lettera a Giulio per mostrarsi autorizzato a ritirarla; ma Paroli non si è degnato di rispondermi. Io sono qui senza maglie di lana affatto; e siccome prevedo di non mi potere muovere per tutto l'inverno, mi farebbe buon pro l'avere quella cassetta. Se Paroli avesse mezzo di portarla a Mantova, gli scriverei a chi consegnarla, e da Mantova ho mezzo sicuro, senza che passi per mani indiscrete. Aveva pur anco scritto a Longanesi, per certo disegno che mandava Agricola cui scrissi di dirigerlo a Longanesi, ed anche questi non ha risposto. Che sieno tutti morti? Ad ogni modo se il disegno giungesse, avvisa che sia trattenuto e custodito gelosamente, e sopratutto che non se ne parli. Ti scriverò altra volta con più agio di questo affare. Per ora basti che non sia spedito qui, giacchè tu sai le mie intenzioni avvenire.

Le risposte che darai alle seguenti domande, scrivile a parte sopra un pezzetto di carta che accluderai nella tua lettera, onde possa consegnarle a Zajotti, il quale pure ti scongiura di affrettarle e ti saluta caramente. Non ti parlo del mio stato: tu hai cuore, e puoi imaginarlo. Abbracciami i tuoi figli, tua moglie e la Carlotta. Addio, caro Giuseppe. Amami e credimi per sempre

tua vera aff.ma amica
Costanza.

1.°ree; Si desidera una descrizione geografica del luogo ov'è posta la casa in cui nacque Vincenzo Monti: a che plaga del cielo sia esposta, se vi siano nei contorni altre case: quanto sia distante dall'Alfonsine: se, andando da Fusignano all'Alfonsine, resti a destra o a sinistra della via: come si denomini quel luogo.

2.°ree; Il cognome di famiglia della madre di Vincenzo Monti.

3.°ree; Quanti fratelli e sorelle egli avesse; in che ordine sia nato; il nome di dette sorelle e fratelli.

4.°ree; Se sappiasi il motivo per cui gli fu posto nome Vincenzo.

5.°ree; Come sia concepita l'annotazione sulla sua nascita, che si trova sul librelto di ricordi di Fedele Monti.

6.°ree; Di quanti anni andasse a Roma e perchè.

7.°ree; Se vi sia qualche tradizione sulla sua fanciullezza. Gagliardi sa un aneddoto della fanciullezza di papà, accaduto nelle scuole delle Alfonsine; ma io non mi ricordo i nomi: se lo vedi, chiedine.

8.°ree; Tutt'altre notizie che si conoscessero importanti all'oggetto delle suddette domande, eccetera.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galeati, 1883.

Milano, novembre 1828.

Mio caro Giovanni.—Questa lettera doveva scriverti prima, ma il profondo dolore in che mi ha gettata la novella perdita del povero mio cuore e tutti i miei mali fisici che alla scossa morale si sono risvegliati, me ne hanno tolto finora la facoltà. Neppure posso dire di avere bene ancora ricuperata la povera mia testa. Perdonami dunque e compiangimi. Tu pure hai molto perduto, e chi in Italia non ha perduto? Ohimè, ogni legame che mi teneva alla vita è finalmente spezzato! perchè resisto, perchè vivo? e che mi resta qui in terra? Ah Dio solo può schiudere ancora per me qualche sorgente di conforto, ed è ben giusto che a lui solo ricorra! In tanta sciagura ho almeno avuta la consolazione di prestare al povero mio padre tutte le figliali mie cure fino all'ultimo. Io sola ricevetti l'ultimo suo sospiro: io sola qui in terra, giacchè la religione già da gran tempo aveva da lui ricevuto l'anima sua. Questa divina amica degl'infelici era divenuta per lui inseparabile compagna. La sua cristiana pietà, la sua rassegnazione gli resero sì benigni gli ultimi istanti, che se gli angeli dovessero subire una morte, non potrebbero incontrarla differente. Resta ora che per quanto è in noi si adempisca ciò ch'è dovuto alla sua memoria. Mia madre dunque, divenuta sua erede, ti prega di raccogliere costà quante sue lettere saprai rinvenire e inviarne almeno copia autentica. giacchè ha intenzione di pubblicarle cogli altri manoscritti lasciati. Puoi rivolgerti a Betti e ad Odescalchi, i quali saluterai per me, e cui non iscrivo perchè troppo è il mio dolore. In così fatali circostanze sapranno perdonarmi, e al loro cuore me ne rimetto. Da questa mia medesima tu devi argomentare quale sia il mio stato poichè non so unire due linee. Ah perdonami tu pure!—Di' ad Agricola che ebbi la sua lettera in momenti nei quali dovevo consacrare tutto il mio tempo al capezzale del povero papà. Salutalo ed assicuralo che subito che abbia un po'di riposo gli scriverò. Non so se tu abbia inviato il suo disegno; ad ogni modo fa d'intendere delicatamente le sue intenzioni, e avvisami. Ti confesso che mi spiacerebbe che andasse in altre mani che nelle mie, giacchè sarebbe perduto. Il ritratto di Appiani è stato legato a me dal mio buon padre! Almeno mi ha lasciato una cara memoria! del resto non mi curo, e non ci penso. So abbastanza che il suo cuore mi amava e mi basta. Addio, caro Giovanni. In verità durerai fatica a leggere questa lettera, e più facita ad intenderla, ma non mi regge nè il capo, nè la vista. Ohimè! quando finirò di soffrire? Scrivimi ed amami.

La tua aff.ma Costanza.

P. S. Ho riletto la presente. Che caos! ma non ho tempo di scriverne altra. Se non vuoi che le tue lettere vadano smarrite o mi sieno ritardate, poni nella soprascritta il recapito: Borgo Spesso N.o 1355. Le lettere che ti riescirà di raccogliere di papà non le mandare per la posta: avvisami e ti saprò indicare miglior mezzo.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 28 novembre 1828.

Mio caro Giovanni.—Ti aveva già scritto quando mi giunse la tua del 7 corrente: non aggiungerò quindi in questa che poche linee per riscontro alla medesima e per ringraziarti dal più intimo del cuore della parte che prendi alla mia irreparabile seconda disgrazia. Ancora non me ne so riavere, nè spero se ne alleggerisca per me il peso mai più. Rispondimi qualche cosa circa le lettere che ti pregai di chiedere al Betti in nome di mia madre, ed a chi altri ne possedesse. Leggi l'acclusa, e se non contradice alle parole già da te fatte ad Agricola sull'invio del disegno, sigillala e consegnala. Quanto ti sono grata, quanto ti ringrazio dei due quadretti tuoi uniti al lavoro suddetto dell'Agricola! Ogni cosa tua è da me preziosamente custodita, ed anche li due quadretti che ora mi accenni faranno bella compagnia agli altri tuoi nella stessa camera ove ho posto il mio ritratto e quello di papà dipinto dall'Appiani. Siccome però non so quale sarà ora il mio definitivo futuro soggiorno, ti prego conservare presso di te ogni cosa fino a novello mio avviso. Ora che il povero papà mi è mancato, è anche inutile il far venire il disegno di Agricola, e sarà sempre meglio custodito da te che da Longanesi. Ti prego però non parlarne perchè mia madre non ne sa nulla.

Addio, ti tornerò a scrivere in breve; per ora non posso dilungarmi di più. Amami e di tutto ti ringrazio e a te mi raccomando.

La tua Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze. Le Monnier, 1860.

[Milano, 1828].

Carissimo Giovanni.—Mia madre t' invia un pacco di manifesti d'associazione per la stampa della Feroniade, e ignorando il preciso tuo recapito, nè potendo perciò farteli tenere fino a casa tua, ti prega portarti a riceverli da certo Giacomo Bettini, impiegato presso Patrizi a S. Luigi de'Francesi. Ella vorrebbe che col mezzo di qualche libraio costà si procurasse qualche buon numero di associati. e se pure fosse bisogno contribuire con qualche lieve ricompensa, non lo niega. Tu stesso poi presso i tuoi amici potrai raccogliere qualche voce di più, e di tutto che ti riescirà fare in proposito, ti prego scriverne. Circa poi le lettere che tenevi in pronto, dice mia madre che sarà forse più facile a te trovar qualche mezzo d'invio, che a lei. Quello stesso Bettini qui sopra accennato potrebbe suggerirtene. Io poi (in tuttissima segretezza) ti avverto di una cosa, ed è che esamini bene le dette lettere, e che se alcuna ve ne fosse o troppo giovanile, o di non tutto onore alla memoria e letteraria e politica del povero papà, la sopprima e ti contenti ritenerla presso di te. Anzi sarebbe bene che tu ne mandassi soltanto le copie, così qualche parola si modificherebbe a tuo giudizio, e non si rischierebbe di perdere per via gli originali che pur sono proprietà e ricchezza di famiglia. Questo avvertimento doveva dartelo perchè mia madre non è in caso per se stessa di giudicar di queste materie, e fa fare a persone che malissimo la guidano e peggio la consigliano. E della loro dottrina potrai avvederti tu stesso pel manifesto d'associazione che ti si manda, ove ora la grammatica, ora il buon senso fa a pugni con la pretensione. Io non parlo perchè avendo conosciuto fin da principio la diffidenza di mia madre, non voglio ch'ella pensi ch'io mi voglia ingerire in affari ch'ella crede tutti suoi. Ma mi piange il cuore miseramente per la sua cecità e pel nome del povero mio padre. Ciò ti stia in petto; nè altro. Attendo tua pronta risposta, e con quella l'indicazione della tua casa. Seguita a conservar presso di te il disegno di Agricola e li quadretti che mi promettesti così cortesemente. Me li manderai quando sarò di ritorno in Romagna. Addio, dammi tue nuove, amami e credimi sempre

la tua Costanza.

P. S. Riceverai da Giuseppe un esemplare di un elogio qui stampato pel povero papà. Siccome è assai bene scritto, e tutto degno della memoria del grande uomo, ho creduto farti piacere mandandolo. Qui ha destato un pubblico entusiasmo, e a quest'ora se ne sono fatte replicate edizioni. È quello stesso della Biblioteca Italiana.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 11 febbraio 1829.

Mio caro Giuseppe.—La stessa smania che agita te pel mio silenzio, la stessa ha me agitata pel tuo, sino al giungere della tua del 31 scorso al consigliere Zajotti; poichè nessuna delle lettere che dici avermi scritte, mi sono pervenute, ad onta che due te ne abbia io indirizzate dopo la spedizione del denaro per Preda ed un'altra te ne abbia scritta lo stesso Zajotti, pregandoti esso pure a tormi dall'inquietudine che mi cagiona il tuo silenzio. In questa che ora hai al medesimo diretta, nulla mi dici de' miei affari; ma non me ne turbo, giacchè, non sapendo che le altre si fossero smarrite, è naturale che tu non abbia stimato necessario ripetermi ciò che forse in quelle mi dicevi. Io non so intendere questo strano disordine postale e posso assicurarti che tutte le lettere che portano il mio recapito (il quale più volte ti ho raccomandato) mi vengono religiosamente rimesse sino a casa. Siccome non so se quelle tue lettere fossero in risposta alle mie, o se anche le mie siansi smarrite, dovrei qui ripetere varie cose che nelle medesime ti scriveva. Ma, per non annojarti ora di soverchio, le differisco ad altro ordinario, quando avrai risposto alla presente. In oggi non voglio se non che ringraziarti del sentimento di amicizia che mi dimostri nella tua al consigliere Zajotti. Non puoi credere quanto vi sia sensibile. Nel totale isolamento in che mi trovo dopo la perdita di tutto ciò che poteva affezionarmi alla vita, mi è di grande consolazione il persuadermi che vivo ancora nel cuore di alcuni dei miei. Anche tuo fratello Giovanni mi ha in tanta disgrazia dati veri segni d'affezione. Povero mio padre!!! Ma parliamo d'altro. Riceverai per la via di Mantova un piego di varii esemplari dell'articolo necrologico testè escito nella seconda edizione. Non si è potuto mandartene della prima, giacchè, come sai, era unito al fascicolo della Biblioteca Italiana. Gli stampatori fanno ora a gara a ristamparlo ed in breve escirà la terza e la quarta edizione. Il piego è diretto a Paroli per te. Avvisalo. Zajotti ne attende con impazienza il tuo sentimento ed io spero che gli sarà favorevole, poichè tutte le corde del cuore vi sono toccate. Si sono dovuti pure toccare alcuni articoli assai delicati… ma non se ne è potuto fare a meno, per far tacere certe male lingue che non rispettano nulla di sacro. Se tu vedessi cosa si è avuto coraggio di stampare circa la condotta politica del povero mio padre!!! Zajotti ha dipinto il poeta e l'uomo sensibile ai benefici. Se non ha potuto negare quello che lo stato di mio padre aveva reso necessario, almeno lo ha giustificato da ogni bassezza: e tu sentirai che, dopo aver letto quelle pagine, l'amor tuo verso il grand'uomo che abbiamo perduto si aumenterà del doppio.

Dio faccia che la penna che ne scriverà la vita sia guidata da eguale giustizia e tenerezza!

Io sono stata assai male e sotto replicata cura del professor Rasori. Ora sto un po' meglio, ma non bene. La tristezza mi uccide e i miei giorni scorrono tetri l'uno più che l'altro. Ho fatti molti sacrifizi; ma non sono da menzionarsi per lettera. Ti basti che vivo però in pace con chi tu sai. Quello che si voleva, si è avuto, e ora che non vi sono più timori circa alcuni articoli, le guerre sono finite. Nullameno sono e mi sento assai infelice. La mala mia salute m' avvilisce, e il trovarmi così sola gittata in mezzo all'universo mi stringe il cuore di disperazione. Non ho un presente, non ho un avvenire. Dimmi, deh! dimmi che la tua amicizia mi compiange. Addio.

Saluta ed abbracciami la tua famiglia. Quando avrai risposto alla presente, ti scriverò d'altro; ma fallo sollecitamente e avvisami se l'affare di Preda è terminato felicemente. Addio: ama la

tua povera Costanza.

P. S. Scrivimi se il padre Ignazio de' Cappuccini in Lugo è ancor vivo. Mille saluti di Zajotti. Mia madre ti prega mandare la fede di battesimo di Papà autenticata, siccome già ti scrissi, giacchè l'altra semplice non serve. Procura che il piego sia piccolo il più possibile, giacchè la posta costa un occhio ed io sono in necessità di fare grand'economia per più ragioni.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galeati, 1883.

Milano, 17 giugno 1829.

La tua lettera mi giunse poche ore prima che il pacco consegnato al Cameriere dell'Arcivescovo. Appena inteso il tuo desiderio circa il ritratto del povero papà, mi diedi cura di trovare chi potesse e sapesse farne copia con quella diligenza che si richiede a simili imprese. Non conoscendo il giovane Arienti che tu nomini, feci capo ad un certo Fidenza romano, il quale qui gode nome di buon artista, e specialmente appunto in genere di copie e di restauri. Egli è anzi il restauratore dei quadri in Brere, e lavora pur anche d'invenzione con lode. Alle corte: gli feci parlare riserbandomi però il diritto di stringere il contratto soltanto dietro il tuo consenso. Egli richiede 20 zecchini, promette di farlo con quella maggior sollecitudine che si potrà non lavorando a strapazzo, ma anzi con amore ed impegno. A me pare un'inchiesta limitata abbastanza, volendo una cosa ben fatta; e devi por mente che il quadro è poco meno grande del mio dipinto dall'Agricola, e ch'esso pure è dipinto a mezza figura e con in vista ambo le mani. Di più bisogna che tu consideri questo; che io non mi contenterei di affidare in casa d'altri l'originale, dico d'altri pittori, perocchè, se m'induco ad affidarlo a Fidenza, il faccio per essere egli alloggiato nella casa stessa d'una famiglia che mi è amica, presso la quale sarebbe ben raccomandato. Nè in casa mia potrei fare eseguire un così lungo lavoro, sì perchè non ho camere adattate, sì perchè soffro molto di nervi, e il puzzo di vernice e di olio mi dà fastidio. Ora tu ne decidi a tuo senno e sappimi dire il sì o il no.

Assai mi ha addolorata la nuova disgrazia della povera zia alla quale scrivo le qui accluse poche righe di consolazione, anzi di condoglianza, perchè i veri e forti dolori non ammettono le consolazioni di questa terra. Ti prego portargliele. Nel tempo stesso ti ringrazio della cura che seguiti a prenderti della pensione. Non dubitare, nè temere di riuscirne colla perdita di un baiocco, ma per ora, e finchè non abbia io stessa afferrato il maneggio dei miei poveri affari di Romagna non veggo il modo di soddisfarti. Tu sai che dovetti l'anno scorso partire con precipizio, stante il nuovo attacco di apoplessia del povero papà. Era allora in lite con Gagliardi il mio affittuario, il quale aveva fatto citare. Dovetti abbandonar tutto in iscompiglio, e poichè in ventiquattro ore di tempo non vi era tempo a far nessuna provvisione, nè il dolore d'altronde me lo avrebbe concesso, restò ogni cosa in mano e sotto il governo di Giuseppe. Per farla corta in oggi mi trovo senza rimesse di sorta, senza fondamento nè pel presente, nè per l'avvenire; e niuno risponde alle mie lettere. Volevo condurmi io stessa in Romagna ma con quali mezzi? Sono ridotta a stentar la giornata, e se non avessi qui al monte tanto da provvedere al pane giornaliero sarei disperata. Però oltre il pane sono mille le spese che abbisognano in una casa, e la casa stessa non è già mia e mi convien pagarla. Imagina quindi il mio stato! ah! che pur troppo sta scritto che io più non abbia un'ora di bene! pur troppo non ho più un cane che mi soccorra! Tutti si sono svaniti, tutti ha fugati la disgrazia: tutti calpestano l'infelice!— Ma perchè prorompo in lamenti? Non è questo quello che volevo dirti. Solo volevo dimostrarti che se finora non fosti pagato ciò non fu per mia colpa. Ma lo sarai; nè vorrei tu credessi che io facessi la dimentica. Intanto abbi pazienza, giacchè tanta ne ho io e pensa che il principale motivo dei miei dissesti d'interessi fu sempre tuo fratello. Il quale se in oggi non ha più che fare con me su queste materie per ciò che spetta a lui, è però indirettamente anche in oggi cagione dell'angustia in che mi trovo o per noncuranza o per indolenza nel trattar gli affari che fui costretta ad abbandonare alle sue mani o per qualche cosa di peggio che non ardisco pensare per non pensare alla mia ultima rovina. Ma intanto poichè Fedele è costà, ti prego fargli leg gere le poche righe che gli scrivo nell'altra facciata della presente. S'egli ti paga la somma dei suoi cinque scudi scaduti fin dall'anno scorso li terrai a conto, se no, bisognerà che abbi pazienza anche per questi. —Tu mi chiedi della Feroniade, ma ti sei rivolto male. Io non ne so nulla. Credo che mia madre, poichè non ha potuto fare il numero degli associati che voleva, vada ora ruminando fra sè al modo di vendere tutti i manoscritti. Dei libri già n'è sparita una buona porzione, inclusivi quelli postillati da papà. Io non ci posso nulla sicchè è inutile parlarmene.

Addio, caro Giovanni: amami e credimi con vera amicizia

la tua aff.ma amica e cugina
Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale storico della letteratura italiana, Vol. 11.°ree;

Milano, 12 ottobre [1829].

Mio caro Giovanni.—Profitto della gentilezza del signor Belli per farti avere queste due righe, e con esse l'avviso della mia mossa per Fusignano su la fine del corrente. Mia madre verrà meco ed appena posso ancor credere a questa sua determinazione; ma insomma verrà meco, e non v'è da dubitarne. Com'ella saprà adattarsi a passare l'inverno colà, ove non v'è sicuramente nessuno di quei comodi della vita alla quale ella è abituata, questo è quello che vedremo. Mi spiacerebbe ch'ella ne soffrisse, ma spero che la sua salute tanto più robusta della mia vi resisterà. Ma vi resisterò io?… non parlo dei suddetti incomodi fisci; di che dunque parlo? non lo so; ho dei presentimenti sinistri, forse fondati, forse no; non so spiegarmi più di così.—Da due mesi sono ammalata, e lo sono stata gravemente per quasi un mese e mezzo.

Oh cos'è la vita! io filo il tempo, come suol dirsi: nulla più mi rianima, nulla più mi rinfranca, nulla più mi tocca. Piango sopra i miei mali, piango sopra quelli degli altri; e poi ripiego il capo e mi assopisco di nuovo stanca di questa triste fantasamagoria di pazzie, di delitti, di sciagure, che mi passa dinanzi. Quando mi riscuoto spero sempre che sia giunta l'ultima rappresentazione: ma l'una succede all'altra senza interruzione, e non ho nemmeno il tempo di respirare. Alcune volte m'imagino di considerare le varie scene di questa vita, come se già mi trovassi trasportata nell'eterne regioni di un mondo migliore. Allora stupisco dei tanti affanni che sconvolgono la mente di questi piccoli animaletti che si chiamano uomini, abitanti di un granello di sabbia e tutto ciò per la durata di un giorno.

Oh come, esaminate al di là di questo giorno, le più distruggitrici rivoluzioni, i più superbi progetti, le glorie più altissime sembrano miserie! io stessa mi sono materia di riso colle mie angustie pel domani. Ma tutta la mia filosofia fa naufragio quando pongo la mano sopra certe corde del cuore; e sento che non posso e non potrò mai rassegnarmi al male che mi vien fatto da chi meno dovrebbe… Bisogna che faccia qui punto e che ti parli di altro. Mandami a Fusignano il disegno di Agricola e i tuoi quadretti; non veggo l'ora di ammirar l'uno e gli altri. Addio, sta sano, amami e credimi sempre con vero affetto

la tua aff.ma amica Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Fusignano, 17 del 1830.

Mio carissimo amico.—Di vera consolazione mi è stata la vostra gentilissima, sì perchè mi annunzia buone notizie di voi, e sì perchè, dopo il benessere dei miei amici, non avvi cosa che più mi rallegri l'animo (tanto per tanti altri versi tribulato) che il sapermi viva nella loro memoria. A quanto mi chiedete circa il bel vostro dipinto, duolmi non potere rispondere nulla di mia opinione, giacchè io era inferma gravemente quando si apri l'esposizione di Brera e inferma giacqui per tutto il tempo, e più, ch'ella durò. Nè ora dirò di quanto sacrifizio mi sia stato l'aver dovuto rinunciare al piacere di conoscere io pure ed ammirare l'egregio vostro lavoro. Potete però ben credere ch'io non restai di chiedere a quanti in quell'occasione mi visitarono, recandomi a conforto l'udire per bocca di ognuno i ben meritati encomii. Ma qui non voglio tacervi un'osservazione, che da certi vostri veracì ammiratori si fece circa quel dipinto, perocchè stimo ufficio di leale amicizia l'avvertire tutto ciò che può servire di norma all'amico. Parve dunque a costoro che voi aveste, nel condurre quell'opera, abbandonato lo stile degli antichi per seguitare la nuova scuola: e diceasi che fareste follia, e che sarebbe una vera perdita per l'arte, se rinunziaste a quello, che vi ha meritato il nome di secondo Raffaello, e nel quale nessuno deve sperare di raggiungervi, per attenervi ad un genere, che, nè ha il pregio dell'antico, nè vi lascia tener libero il campo della pittura. Non so quanto fosse sincero quel giudicio, e voi meglio d'ogni altro saprete farne la debita stima. Appunto per ciò io ho voluto manifestarvelo; e mi sarebbe caro intendere la vostra opinione, sì perchè tutto quello che vi concerne mi sta vivamente a cuore, e sì perchè amerei aver che rispondere alla fatta osservazione, quando ritornerò a Milano. In quanto a me intesi accennare da bravi artisti con tanta intelligenza ai pregi del vostro egregio lavoro, che non so imaginare che cosa abbia egli da invidiare agli altri da voi prima condotti. Scrivetemene, ve ne prego, e perdonate alla mia amicizia questa forse temeraria dimanda. Io rimarrò qui tutto l'inverno e buona parte della primavera: ma fate conto che vi sto chiusa nella neve che ne circonda da per tutto alta quanto mezz'uomo. Ciò non giova sicuramente alla mia sempre mal ferma salute; cosicchè dei tre giorni passo li due ammalata ed inabile ad ogni applicazione. Ecco a che mi hanno ridotta le fiere ambascie dell'animo!!! ma sono rassegnata e aspetto tranquillamente il giorno della mia liberazione, sperando in una vita migliore, dopo questa così afflitta e travagliata.

Addio, mio buon amico, salutatemi Betti, e voi conservatemi la preziosa vostra amicizia alla quale quanto più so mi raccomando.

La vostra aff.ma amica vera
Costanza.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

Fusignano, 18 marzo 1830.

Egregio Signor Cavaliere.—Per essere stata alcun tempo fuori da Fusignano, alquanto tardi mi è giunta la pregiatissima sua in data del 18 scorso: appena però ricevuta mi reco a pregio e a dovere il riscontrarla. Ma di quali parole mi servirò io per esprimerle i vari sentimenti di gratitudine e di meraviglia che mi ha destati? Di gratitudine io dico, per tanta sovrabbondanza di cortesia, quanto è quella di che la S. V. vuole essermi generoso; e di meraviglia perchè Ella pur degnò far scelta dell'oscuro mio nome nell'intitolazione degli egregi suoi versi.

I quali, se dall'un canto l'intima convinzione di quel nulla ch'io valgo mi vieterebbe di accettare, per non incorrere nella nota di presuntuosa, mancami dall'altro il coraggio di mostrarmi così nemica a me medesima, ch'io rifiuti un dono, che reputo di sommo onore l'ottenere. Mi discolpi adunque l'eccesso stesso della sua gentilezza, qualora troppo ambiziosa sembrassi nell'accoglierne gli effetti; e possa l'amorevole memoria che in ogni petto italiano vive del mio illustre genitore e dell'ottimo mio marito, valere di scusa a V. S. presso il pubblico, per aver Ella fatto grazia a donna di sì poco conto, quale io mi sono. Intanto non disgradisca, la prego, i miei ben dovuti e sinceri ringraziamenti pel favore ch'Ella degna compartirmi, il quale, quanto meno è da me meritato, tanto più prova come la benignità dell'animo non vada in V. S. disgiunta dalla chiarezza dell'ingegno. E con questi sentimenti di riconoscenza non meno che con quelli della stima più profonda, ho l'onore di soscrivermi

Devotiss. e obbl.ma serva
Costanza Monti Perticari.

Pubblicata da G. B. Grassi Bertazzi in—Lettere inedite di L. Vigo e di alcuni suoi contemporanei—Catania, Giannotta, 1896. —L. Vigo, nato in Acireale (1799—1879), pubblicò una raccolta di liriche ed un poema, il Ruggiero, ispirato a nobili sentimenti patriottici. Nel 1834 dedicò alla Costanza un volume delle sue liriche chiedendogliene consenso con la lettera seguente:

Ornatissima Signora Contessa.—Il desiderio di fornire all'Italia novella prova di quanto sono in Sicilia venerati i nomi preclarissimi di Vincenzo Monti e Giulio Perticari, mi ha determinato di consacrare a Lei, che sì strettamente a quegli immortali appartiene, un volume di versi, che per la seconda volta vedranno di breve in Palermo la luce. A questo motivo, ch'io reputo sacro, si è aggiunto quello dei di Lei meriti personali, di cui con pari lode e paterna gioia scriveva il di Lei immutabile genitore al suo Giulio in quella nobile lettera impressa nella «Proposta». Son io ben ardito di tributarle un dono, che per dirla con Dante «dovrà saper di lazzi sorbi a chi è uso gustar il dolce fico»; ma nulla ho più da offrirle, e i miei sorbi sono conditi da tale riverenza, che sa quasi di religione, tanto per quei grandi trapassati, quanto per Lei.

Ma senza la di Lei permissione, ornatissima Signora Contessa, non porrò in fronte al mio libro il di Lei nome; è a tale effetto che le dirigo la presente, onde farmi Ella certo del suo gradimento, ch'io estimo singolar ventura ottenere.

Gentilissimo Signore.—Non oserei pronunciar giudicio intorno il dubbio da V. S. gentilmente espostomi, tuttochè a me pur sembri che tenendo fermo il punteggiamento del manuscritto nasca qualche ingarbuglio nella sintassi delle accennate stanze. Ed ancora levando il punto fermo dopo rispetto, mi pare che il sentimento non corra con troppa precisione. A buon conto le invio l'originale manuscritto dell'autore, acciocchè ella s'attenga a quanto crederà opportuno. Ardisco però consigliarla di porre una virgola dopo ostello, e forse se un'altra se ne ponesse dopo mortali, ciò non sarebbe a discapito di chiarezza.

Ho l'onore di riverirla nel segnarmele

um.a serva
Costanza Monti Perticari.

L'autografo è posseduto dal Conte Ippolito Cibrario; io n'ebbi una copia dal Prof. T. Casini.

Milano, 18 settembre 1831.

Mio carissimo ed egregio amico.—Ho ritardato a riscontrare la vostra carissima del 24 agosto, perchè volevo positivamente potervi dire di avere eseguita la vostra commissione: ed ora che il posso, resta che vi ringrazii, siccome faccio, dell'occasione che m'avete aperta di adoperarmi in qualche cosa di vostra soddisfazione.

Avendo mostrato presso questi signori collaboratori della Biblioteca che il pensiero fosse mio, m'è parso di potermi arbitrare di far publico lo stesso dispaccio di cui m'avete acclusa copia, e voi lo troverete in seguito all'annunzio che vi riguarda. Ciò ho fatto, sì perchè i termini di detto dispaccio ridondano tutti a vostra lode, e sì perchè con questo partito ho troncato ogni difficoltà che avesse potuto suscitare l'invidia; giacchè non vi taccio che questo tarlo rode in Milano il cuore a qualcuno per vostro riguardo. Nè ciò deve recarvi meraviglia; il vostro merito, la vostra fama sono ben più che degni di destare gelosia: e aggiungete che lo stile della moderna scuola Lombarda si scosta tanto da quella dei nostri antichi maestri, che non è possibile dichiararsi per l'una, senza deprimere l'altra. Io non sono artista e mi astengo dal giudicare; se però mi è permesso di dirvi in confidenza il mio parere (parere non pur mio, ma di moltissimi anco dell'arte, che però non sono lombardi) vi confesserò schiettamente che i quadri che qui destano più furore, a me non piacciono. Trovo che molti sono ben composti, ed hanno delle parti eccellenti, ma pel loro colorito mi pare che siano tanti abiti di arlecchini e mi fanno l'effetto di tante spille negli occhi. Quella pace, quell'armonia che sì altamente mi rapisce nei dipinti de' nostri antichi maestri, io qui non la riscontro per nulla. Tutto è fuor di natura, meno gli accessori pe' quali cresce ogni giorno la tenerezza e la diligenza in modo a far dimenticare persino il principal soggetto del quadro. E per verità, non può accadere diversamente, poichè a me pare che il nostro secolo, non solo in pittura ma in letteratura ancora, in morale, in istoria sia proprio il secolo degli accessori, e noi stessi, se si riguardi a quelle menti colossali de' nostri antichi che ci hanno preceduto, non possiamo più chiamarci che tanti piccoli accessori della natura. Ma questo tosto potrebbe condurmi fuori de' limiti e perciò qui farò fine pregandovi a darmi vostre notizie e a portarmi, se non lo sdegnate, de' vostri egregi lavori, i quali vi fo fede che vivranno e migliore e assai più lunga vita che gli accessori lombardi. Addio, carissimo amico: mantenetemi viva nella vostra ami cizia, salutate gli amici e credete che niuno più vi stima ed ammira

della vostra aff.ma amica vera
Costanza Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Estense di Modena, coll. Campori.

Lugo. 28 giugno 1832.

Caro amico.—Tutto ciò che mi prova la memoria che tieni di me, mi riesce sempre di vera e cara consolazione. Puoi quindi immaginare con qual piacere io riceva sempre le tue lettere. Che se io non sono troppo diligente nello scriverti, devi attribuirlo al non saper mai, siccome tante altre volte ti ho detto, ove dirigere le mie lettere. Sento da F[errucci] che egli pure è nello stesso buio, ed è perciò che non so se la presente ti troverà ove la dirigo, non dicendomi tu nulla in proposito nella tua carissima. Tu mi fai sperare di rivederti, ma sono stata tante volte delusa in questo mio desiderio, che non oso più abbandonarmi ad esso. Pure voglio che per tua norma tu sappia che io probabilmente passerò qui in Lugo qualche mese, giacchè sono tanti i motivi di dispiacere che mi ha cagionato…, che sicuramente non metterò più piede in casa sua. Ho detto che farò una visita di poche ore alla sua famiglia e manterrò la promessa, se la virtù mi basterà, giacchè non amo lo scandalo, ma ti giuro che la misura è proprio al colmo. I miei interessi sono nel massimo disordine per cagion sua, ed il premio dei beneficii di mio padre, e de' miei incalcolabili sacrificii, riducesi alla mia rovina procurata da lui stesso a sangue freddo, e senza niun freno di umanità. Ora cerco di vender tutto, ma in questi tempi la cosa è assai difficile. Mi contenterei anche di fare un affitto; ma dove trovare il galantuomo in questi paesi? Nessuna legge protegge i poveri creditori, ed io non posso riscuotere da nessuna parte. Aggiungi che la mia salute è divenuta tanto meschina (e le replicate amarezze di ogni genere ne sono la sola cagione), che ormai posso dirmi in uno stato perpetuo di malattia. Se verrai qui, ne vedrai e udrai tante, che non potrai a meno di compiangermi. Desidero anche di vederti per parlarti della edizione che mia madre ha combinata delle opere di mio padre, alla quale vorrei tu ti associassi. Ne scrissi tempo fa a Bolaffi, ma non ho veduta risposta. Forse gli avvenimenti politici avranno fatto smarrire o la mia o la sua lettera, giacchè mi si dice che i governi temono che sotto pretesto di affari estranei si parli e si tratti di rivoluzione. Debbo anche parlarti di certa lettera che mio padre ti scrisse, e che vorrei fosse inserita nell'Epistolario (che farà parte della predetta edizione), come testimonio dell'amore e della stima che mio padre ti portava.

Vieni dunque assolutamente. Che cosa sono per te poche miglia? E quando specialmente s'intraprendono a consolazione di una vecchia e leale amicizia? Intanto scrivimi, e ricordati che pochi, ben pochi, ti sono quanto me affezionati. Io ti rammento sempre col più tenero interesse, e mi faccio caro e sacro dovere, con chiunque parlo di te, di noverare le tante prove di schietta e assai rara amistà che ho da te ricevuto nei giorni più crudeli della mia vita. Nella speranza dunque di presto rivederti, per ora altro non aggiungo, e solo con inalterabile amicizia mi dico

La tua Costanza.

In—Otto lettere della Contessa Costanza Perticari Monti a Laudadio della Ripa ecc.—Firenze, Le Monnier, 1877.—La persona cui accenna senza dirne il nome— è certamente della famiglia Monti.

Lugo, 15 luglio 1832.

Ill. mo Signore.—Ella ha voluto eccedere meco in gentilezza significandomi Ella stessa la cortese cura che si è addossata circa il baule, che mi presi la libertà di farle raccomandare dal Signor Scubbia. Non vorrà quindi, spero, disgradire che, prevalendomi dell'occasione, le ne esprima io pure la mia sincera gratitudine, supplicandola a continuarmi quella preziosa benevolenza di cui mi è pregevole testimonio la sua stimatissima. Le cose contenute nel baule per ora non mi occorrono e perciò potranno restare come sono sino alla mia venuta costà, giacchè di tanto mi si è cortesi e giacchè l'unica mia difficoltà per farlo aprir prima, deriva dal timore che mi si scompiglino gli effetti. Io spero al mio ritorno in Ferrara, ove da gran tempo desidero fermare il mio stabile soggiorno, mi sarà concesso di testificarle di persona a mia riconoscenza e la mia stima, ed intanto reputo mia fortuna il poterle anticipare in iscritto la verace espressione di questi sentimenti con che ho l'onore di protestarmele

U.ma Dev.ma Serva
Costanza Monti Perticari.

L'autogr. è nella Bibl. Estene di Modena, coll. Campori.

Lugo. 26 settembre 1832.

Caro amico.—La tua dolcissima visita è stata come un lampo di consolazione che ha rischiarata la tristezza della mia vita. Se almeno na volta all'anno mi fosse accordato un simile conforto, non mi parrebbe di essere abbandonata da ogni umana affezione su questa terra d'esilio. Indipendentemente da quei sentimenti di vera stima ed amicizia, che a te da tanti anni mi legano, non puoi credere di quanta commozione si penetri il mio cuore al rivedere in te uno dei più schietti e teneri amici del mio Giulio e il solo forse che sia stato per lui capace d'ogni più difficile prova di vero amore. Io non oso abbandonarmi alla speranza che mi hai data della tua gita in Milano, ma nondimeno ne coltivo il pensiero, il quale, se non altro, mi renderà men doloroso il mio ritorno colà. Intanto fa' che almeno sappia ove dirigerti le mie lettere con sicurezza, e dammi di frequente tue notizie. Ti accludo la lettera per Bolaffi: l'altra per Monsignor M… scriverò quando me lo accennerai. Ho differito a quest'ordinario lo scriverti, perchè speravo ricevere qualche notizia del tuo viaggio, ma finora nulla mi è pervenuto. Questo tuo silenzio comincia ad allarmarmi, onde ti prego tormi sollecitamente da ogni inquietudine.

La presente è per raccomandarmi alla tua memoria, per ringraziarti della cara tua visita, e per assicurarti che questa novella prova della tua amicizia sarà gelosamente custodita, insieme alle tante altre da te ricevute, nella più cara parte del cuore. Dimmi quanto conti di trattenerti in Bologna e dove ridurti dopo. Ferrucci caramente ti saluta e ti abbraccia.

Ricordati di spedirmi quandochessia o qui o a Milano copia delle due lettere che ti rimangono di mio padre e vivi tranquillo che nulla si farà su questo rapporto senza tuo consenso. Sopra tutto poi ti prego conservarmi la tua amicizia, e credere a quella che inalterabile ti protesta per la vita

la tua verace ed aff. ma amica
Costanza.

In—Otto lettere di Costanza Monti Perticari a Laudadio della Ripa ecc.—Firenze, Le Monnier, 1877.

Caro amico.—Ho ricevuto la cassa e vi accludo li bajocchi 80. Al contadino ho dato due paoli, non avendo potuto leggere il numero dei bajocchi che m'indicavate. Vi raccomando le accluse e vi accludo l'importo delle medesime e dell'ultima che vi spedii. Vi ringrazio quanto più so delle vostre gentili cure e vorrei io pure essere abile a servirvi in qualche cosa. Alla vostra amicizia sempre mi raccomando e sono

vostra amica aff.ma
Costanza.

L'autogr. è nella R. Bibl. Nazionale Centrale. carteggi Gonnelli.

Lugo, luglio 1833.

Comincio dal rallegrarmi teco della nascita della tua bambina e ti auguro ch'ella possa un giorno recarti ogni più cara consolazione. Qui acclusa troverai la lettera per tuo figlio del quale non posso abbastanza raccomandarti di educare il cuore e di avvezzarlo ad occuparsi sempre e poi sempre, giacchè pur troppo la radice delle odierne perversità nei giovani è l'ozio e l'ignoranza. Lo stesso dico per le femmine essendo bestiale pregiudizio quello che le allontana da ogni coltura dello spirito; ed aggiungo anzi che l'immaginazione essendo generalmente più viva nelle donne, fa duopo maggiormente di fermare questa nostra troppa fervidezza in cose di severa applicazione, perchè i lavori manuali non bastano a tenere occupato lo spirito.

Addio, caro cugino, amami e credimi sempre.

tua aff. ma cugina ed amica
Costanza.

Pubblicata da G. S. Scipioni nel Giornale storico della Letteratura italiana, Vol. 11.o.

Lugo, 27 giugno 1833.

Mio caro cugino.—Perchè tardi risponda alla vostra bella letterina, non crediate perciò ch'ella mi sia stata meno gradita: ma attribuite l'indugiato mio riscontro alle soverchie mie occupazioni. Ora non voglio più a lungo tralasciare di dirvi che l'attestato del vostro affetto verso di me mi è riuscito carissimo e che il mio cuore ve ne rende il più sincero contraccambio, siccome spero potervi un giorno dimostrare; vivendo sicura che voi dal canto vostro procurerete sempre col crescere dell'età di mantenervi buono, quale sento che siete, e di divenire bravo e degno nipote di un uomo che ha cotanto illustrata la nostra patria.

Pregate il vostro papà che vi dica chi fosse quest'uomo e procurate di leggerne le opere per tempo, onde per tempo imbevervi de' buoni studii.—Addio, mio caro cugino, datemi qualche volta la consolazione di ricevere da voi stesso le notizie de' vostri progressi negli studî: abbracciatemi le vostre sorelline e credetemi sempre con vero affetto

vostra aff. ma cugina
Costanza Monti Perticari.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 27 giugno 1834.

Mio caro Giovanni.—Quantunque il mio cuore tuttora ripugni a trattare un argomento di tanto dollore, pure il debito dell'amicizia esige che ti chiami a parte dele mie lacrime. La povera mia madre non è più. Io l'ho assistita fino all'ultimo istante, e ciò che mi consola si è ch'ella è mancata fra tutti i conforti della Religione, e che dal mio canto non ho risparmiato ufficio di pietà figliale. La mia salute se n'era risentita e tuttora se ne risente, ma Dio, spero, mi darà quella forza che per me stessa non ho. Ti accludo due lettere per le due mie zie di costà. Non ho voluto in esse entrare in argomenti d'interesse, perchè non mi pareva delicato. Ma siccome ti prego consegnarle tu medesimo, potrai aggiungere a voce che la cara defunta è morta senza lasciar testamento, ma che ciò non impedirà l'adempimento intero d'ogni suo desiderio. Ora questi, notificati a voce a me stessa, furono che le sorelle avessero lire austriache 500 per cadauna, e 500 pure desiderava che si pagassero alla figlia della sua sorella defunta, Alberica. Duecento lire desiderò si pagassero per cadauno ai tre nipoti figli di Giacomino, e due mila al domestico che con tanto amore l'ha servita ed assistita e che pure assistette con uguale affetto il povero mio padre. Alcuni spogli ha disposto per la cognata ed altri che qui l'assistevano. Lo che sarà eseguito. Ma fatalmente ella aveva fatto vitalizio del meglio e tante furono le spese della sua lunga malattia, e tanti i regali che debbo fare ai medici e ad altri, che, oltre le spese enormi de' funerali, mi hanno esaurita. Tosto però che avrò chiarito qui e verificato quanto resta a raccogliersi, metterò a disposizione delle zie le somme suddette, e di ciò assicurale come se vi fossi obbligata per testamento e forse anche più che se vi fossi obbligata: giacchè tale è la tempra del mio cuore. Scrivimi le tue notizie, compiangimi ed ama

la tua aff.ma cugina
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 27 giugno 1834.

Tornata da Caraverio in Brianza, dove l'assoluto consiglio dei medici e l'amicizia di Aureggi mi hanno condotta, ho trovato sul mio tavolino la carissima tua lettera e di Elena, colla quale entrambi, secondo l'innata bontà delle anime vostre, venite a dividere il mio novello dolore. Oh mio caro! quale lunga catena di disgrazie mi serra da tanti anni la vita! A quest'ultima poi, che mi ha colpito, si aggiunge la penosa considerazione che ogni vincolo di sangue pel quale poteva ancora essere legata al consorzio umano si è spezzato! Io sono sola in quest'universo e questa parola pesa sul mio cuore con tutta la forza del mio fiero destino! Ciò che mi conforta (se conforto vi può essere in simili sciagure) si è di avere potuto prestare ogni pietoso ufficio che per me si poteva alla povera mia madre. Ma oh! quanto ella ha sofferto! il suo stato straziava l'animo e lungo n'è stato lo strazio, come pur troppo era irreparabile il suo soffrire. Non ti farà meraviglia l'udire che la mia salute se ne sia quindi risentita ed ecco perchè il medico ha giudicato che io dovessi tentare di ripararla coll'aria di Brianza. S'ella mi abbia giovato il vedremo forse in seguito, giacchè presentemente non ho riacquistato che un poco il sonno (il quale avevo interamente perduto) ma nulla l'appetito.—La spossatezza fisica è anco cessata ma sento tuttavia l'animo prostrato. Tosto che abbia dato qui sesto agli affari, io tornerò in Romagna, e quale sarà il mio avvenire? Prego Iddio che mi guidi perchè il mio cuore è tanto isolato che me ne spavento. Ignorando se Elena ancora si trovi costà, ti accludo due righe per la medesima che le consegnerai o le farai pervenire. Certo non mi è giunto inaspettato il pietoso tuo ufficio e quello di tua sorella, chè, dopo l'esperienza fatta de' vostri cuori, quale tratto di amorosa bontà può recar meraviglia partendo da voi? ma per fermo niuna parola di consolazione mi ha sì vivamente penetrato come le vostre. Seguitate ad amarmi ed a compiangermi, miei buoni e veri amici, non perchè io abbia titoli a tanta vostra bontà, ma per gustare voi stessi la più soave dolcezza, propria delle anime bennate, quella cioè di porgere la mano agli infelici e sollevarli. Non mi dilungo con Elena, perchè penso che la presente sarà comune ad entrambi, ma io solo ho voluto riserbarmi la cara soddisfazione di ringraziarla. Inoltre me l'abbraccia e credimi per la vita co' più teneri sentimenti di vera amicizia

La tua aff.ma amica
Costanza.

L'autogr. è presso la Contessa Luisa Rasponi in Ravenna.

[Ferrara, 1834].

Carissimo Giovanni.—Avrai a quest'ora ricevuta in mio nome una piccola Madonna con Bambino in miniatura, lavoro di un tuo amico di Ferrara, il signor Boari. Dissi, o piuttosto feci dire al medesimo (poichè io non lo conosco e l'ordinazione della Madonna passò pel canale di Longanesi) che l'avrei spedita a te perchè tu provvedessi a farmela legare costà; ma, oltre quest'oggetto, ve n'è un secondo pel quale ho desiderato farti pervenire quel lavoro. Il secondo oggetto, anzi il principale, è, che quantunque una tal miniatura mi sembri lavorata con amore e ben composta, pure la mi pare toccata con tanta debolezza di colorito, ch'io temo che in breve non si sbiadisca del tutto, essendo per lo più tale il fine delle miniature anche più forti. Vorrei dunque, se sarà possibile, che tu la ritocchi alquanto, poichè mi ricordo che tu usavi in tal genere di lavori immedesimare ne'colori un po'di gomma, il che fa che tutte le tue miniature si mantengano inalterabili. siccome ne ho prova in quelle di che mi hai fatto dono e che ognuno ammira specialmente per la forza del colorito. Oltre ciò, vedi se nel legarla si potesse senza pregiudizio dell'effetto porvi dietro una foglia di talco e insomma fa' tu ciò che credi, ma me la rimanda meno impaurita di mostrarsi. Dico ciò, perchè specialmente nella composizione delle manine del Bambino, vi è voluto molto non pure da me, ma da altri per indovinare ch'egli avesse nelle mani una pera. Anche quegli occhi cerulei poco mi piacciono, perchè non sono amica degli occhi bianchi, ma capisco che nel caso in cui siamo, bisognerà lasciarli così per non disarmonizzare il resto. Ciò che mi preme si è che almeno ci passi sopra colla gomma e ritocchi qualche cosa perchè non si sbiadisca col tempo, e col portarla, anche di più. Siccome la debbo tenere al collo sotto panni, e ch'io non vedrò probabilmente giammai il signor Boari, nè alcuno qui rivedrà il suo lavoro di quelli che già l'hanno veduto, così tu puoi con sicurezza di non offendere l'amico farmi questo piacere del quale ti prego caldamente. Veniamo ora alla legatura. Io voglio spendere poco ed avere una cosa pulita, come suol dirsi. Sicchè la mia intenzione sarebbe che tu la facessi legare in argento ben dorato poichè ho de'lavori così fatti costà in Roma, che dopo molti anni e molto uso, sono tuttora così bellissimi, come fossero legati in vero oro. Conviene solo raccomandarsi che la doratura sia forte. La legatura poi dovrebbe essere un cerchio che chiudesse due vetri: dall'una facciata quello che già v'è per la Madonna, dall'altra un altro vetro sovrapposto ad un fondo turchino con sopra miniato in color d'oro il seguente versetto de'Salmi: Vide laborem meum et erue me a persequentibus me. Metterò a' piedi della presente la disposizione in che desidero siano dette parole e ti prego miniarle tu stesso con carattere corsivo il più chiaro e intelligibile possibile. In ultimo avverti che avendo questo piccolo tableau a stare sotto panni al collo, la legatura, ossia il cerchio che racchiuderà i due vetri, sia di lavoro gentile, sicchè non faccia rilievo ne'panni e sia liscio perchè non si attacchi a cordelle o altro del vestito. Bada però che sia abbastanza ben sovrapposto ai vetri, onde non vi penetri sudore, polvere o altro che rovini la miniatura.

Dalla parte poi superiore del cerchio vi farai fare il suo anelletto per passarvi una catenella con fermezza; e guarda che l'anelletto, sia collocato in guisa che, infilandovi la catenella, la Madonna stia spianata; a meno che non vi facessi fare due anelletti.—Circa quanto mi scrivi nell'ultima tua risponderò in seguito del tuo riscontro alla presente, perchè oggi non faccio più a tempo. Pagai subito Longanesi e tua madre. Ma meglio in altra mia colla quale t'invierò anche due righe per mia zia. Per ora non dirle che ti ho scritto. Mi raccomando la maggiore sollecitudine per la commissione della Madonna di che ti prego e perdona il disturbo. Addio, amami siccome ti amo e eredimi

la tua Costanza.

P. S. La mia salute da qualche tempo è molto migliorata.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Milano, 7 agosto 1834.

Già da qualche giorno io teneva presso di me la tua incisione, ma non prima d'oggi l'ho consegnata secondo l'ordine tuo, al signor P…, giacchè tanti hanno voluto vederla, che mi è convenuto sospenderne la spedizione. Avrei anco desiderato fartene fare lo zolfo da qualche intelligente gessaiuolo; ma l'unico bravo, che soggiorna in Milano, trovasi ora altrove, per cui, non fidandomi di consegnarla ad altri, ne ho fatto lo zolfo io stessa, che unito alla pietra riceverai. Duolmi che non mi sia riuscito perfetto, poichè la scagliola non ha penetrate bene le parti più profonde del lavoro: pure desso abbastanza aiuta l'occhio per conoscere meglio l'abilità usata dal nostro Berini in questa sua opera, che veramente tutti hanno ammirata come una delle sue migliori. Osserverai che la rotondità e la profondità della pietra, rompendo troppo in isbieco i raggi della luce, toglie qualche vaghezza alle parti; ma io non ho voluto che la pietra si assottigliasse. D'altronde facendo trasparire il rovescio, il lavoro apparisce meglio, e lo zolfo meglio ancora lo dimostra. Voleva consegnarlo a Bolaffi, ma oltre che non avrei potuto appagare la curiosità di tanti, spedendolo subito, mi è parso meglio seguire il tuo comando, e prevalermi del mezzo da te indicato, del signor P… Ora siamo tutti impazienti di sentire il tuo parere sopra questo lavoro, ed io più di tutti, e specialmente desidero che me lo esponga schiettamente. Di un'altra cosa debbo avvisarti, intorno alla quale attendo il tuo parere, che serva di norma a Berini per l'altro lavoro. Generalmente avrai osservato che gl'incavi in gemme hanno poca profondità di bulino; invece io ho preferito che l'artista per risparmio di lavoro penetrasse bene nella pietra e desse alla testa molta profondità. Dimmi se preferisci questo genere, oppure l'altro di lavoro più superficiale e spianato. Attendo con impazienza un tuo riscontro. Di me altro non posso dirti se non che, dopo l'ultimo assalto de'miei soliti mali, mi è rimasto un intronamento continuo e tale alla testa che mi tormenta giorno e notte. Alcune volte è sì forte, che persino mi percuote nello stomaco. Ciò è accompagnato dalla più nera delle malinconie, e vi sono certi momenti che, per non tacerti nulla, attenterei persino alla vita, se la religione non mi tenesse in freno. Non credere però che i mali fisici siano la vera cagione della mia tristezza; ella è piuttosto effetto dello stato morale. Troppo avrei a dirti se tutto volessi dirti; ma ciò che certo si è, è che la vita mi pesa e che il consorzio degli uomini mi avvelena. Se verrò in Toscana, siccome ne ho intenzione, certamente i migliori momenti miei saranno consacrati all'amicizia, e perciò io non vi porrò piede se non ti saprò colà. Addio, ottimo amico, amami e credimi per la vita

la tua amica vera
Costanza.

In—Otto lettere di Costanza Monti Perticari a Laudadio Della Ripa, ecc.—Firenze, Le Monnier, 1877.

Lugo, 8 ottobre 1835.

Mio caro Giovanni.—La tua ultima lettera mi avrebbe estremamente afflitta per li sospetti immeritati che dirigi al mio cuore, se piuttosto non avessi interpretate le tue lagnanze come un segno del tuo affetto verso di me. Non ti ho risposto appena l'ebbi, perchè sono stata ne'di passati oppressa dalla domestica sventura avvenuta in casa di tua sorella Caterina nella morte di un suo genero, marito della Marianna. Questa è ora presso di lei, tale essendo per ogni riguardo il suo posto dopo tanta perdita; ed in conseguenza per non essere di soverchio peso alla famiglia, quantunque io sia qui a dozzina, m'è parso conveniente trovarmi un altro alloggio, finchè provvegga definitivamente al mio avvenire. Mi trovo quindi in mezzo ai trambusti d'un traslocamento, e perciò sarò breve. Ti dirò rapporto le tue lagnanze sul mio silenzio, che non solo io risposi al primo annunzio che mi desti della tua infermità, la quale mi fece versare non poche lagrime di dolore, ma di più ti dava nella mia lettera alcuni consigli che credeva opportuni nella tua situazione, onde porre in maggior calma il tuo spirito e attendere con più profitto alla tua guarigione. Tu dici che mi hai scritto poscia, ma non so se la seconda tua lettera fosse risposta alla mia, o no, poichè io non l'ebbi giammai: forse sarà giunta a Milano dopo la mia partenza. Seppi qui arrivata da Sgarbi che ti trovavi in Napoli, ed egli fu testimonio dell'interesse che presi alla tua situazione. Il pregai scrivendoti di farti i miei saluti e dirti che ti avrei scritto quando ti avessi saputo di ritorno in Roma; ma pare ch'egli non siasi curato di farti la mia imbasciata. Egli poscia partì e dalla sola tua ultima ho avute tue notizie che odo abbastanza buone per darmi speranza migliore sulla tua salute per l'avvenire. Ti consiglio a tenerti ben purgato e non aggravarti lo stomaco con cibi di difficile digestione; poco vino, ma nemmeno tropp'acqua, essendo persuasa che il tuo male provenga da malattia nervosa, essendovi tutti noi soggetti in famiglia. Anco la Caterina n'è tormentata assai e ne ha perduta quasi totalmente la vista. Io poi sono, posso dire, in una perpetua convulsione nervosa, e non v'ha dubbio che i miei mali non provengano tutti da tale affezione. Ora che mi trovo più a portata di avere con sicurezza le tue notizie, ti prego non farmele mancare giammai, e sopra tutto non mi fare mai più il torto di credermi così poco sensibile a ciò che ti concerne, poichè anzi tu sai che fra tutti i miei parenti tu sei il solo cui porto particolare affezione. Perdonami, amami, scrivimi e dammi frequentemente tue notizie. Io sono e sarò sempre

la tua aff. ma cugina ed amica
Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Majano, 5 luglio 1836.

Mio caro cugino ed amico.—Di quanta amorosa gra titudine mi abbia riempito il cuore il bello e caro dono che nei due quadretti mi hai inviato per mezzo di Giacomino Manzoni, io non saprei descrivertelo: ben posso assicurarti che se la mia amicizia non si è aumentata (perchè è tale già da più tempo che aumentarsi non può), la cortese tua memoria mi ha però fatto ognor più sentire profondamente il dispiacere della nostra lontananza. E tanto più questa mi è dolorosa, quanto che entrambi caduti in malvagia salute, almeno se fossimo vicini, ci conforteremmo l'uno l'altro, e nel reciproco compiangerci, sapremmo di certo compiangerci dal cuore. Giacomino vorrebbe farmi sperare che molta parte del tuo male provenisse dall'allarmata tua fantasia; ed egli veramente parla della tua salute in modo assai più consolante che non fanno le tue lettere. Ma io ho per massima che in genere di patimenti, colui solo che patisce ha diritto di dire fino a qual punto patisce: e questo voler giudicare de'mali altrui, è cosa che mi è sempre riuscita spiacevole. Perciò senza respingere la speranza infusami da Giacomino, io non posso pensare al tuo stato senza sentirmi profondamente afflitta, perchè vorrei pure saperti risanato e fiorente di sanità. In quanto a me basta il dirti che sono inferma da prima di Natale e sempre peggiorando. Vero è però che quest'inverno sono stata anco peggio che ora non istò: e tanto peggio che vi furono parecchi giorni nei quali si temette anco per la mia vita. Voleva farti scrivere per altra mano; ma temeva di affliggerti troppo. Pregai quindi Domenico Manzoni che scrivendo al fratello lo ragguagliasse del mio stato, onde qualche cosa te ne dicesse; ma ei (secondo che mi ha poscia confessato) nol fece per risparmiarti nuovi motivi di tristezza. Ora sono qui per qualche giorno a Majano e vi sono venuta appunto per tentare se quest'aria mi vuol ridonare qualche poco di forza, e qui venne a trovarmi Giacomino per recarmi le tue notizie e il caro tuo dono, del quale voleva immediatamente ringraziarti; ma il dì appresso la visita di Giacomino, si rinforzarono i miei mali fino a costringermi al letto. Ieri e oggi però mi sento meglio; e, in totale, dacchè sono qui il vomito è diminuito. Ma le nausee, i dolori seguitano sempre, e non mi sento niente rinvigorire. Se io ti dicessi tutti i miei pensieri, ti accrescerei la malinconia, perciò mi taccio; ma non posso a meno di protestarti che io sono veramente vittima delle mie morali dispiacenze. Troppe, troppe sono state le scosse che mi hanno sospinta: e posso proprio dire che dopo la morte di mio marito, io non ho più avuto un'ora di bene. Ma tale fu ed è la volontà di Dio, e Dio certamente non vuole che il ben nostro. Quest'è l'unica àncora di salute che finora mi ha sostenuta, e ben spero nella misericordia Divina che mi sosterrà fino all'ultimo. E tu pure avrai sperimentato che nei mali tanti ed infiniti di cui è circondata la vita, la sola religione è la vera amica dell'infelice, la quale, anche allora che tutto ne abbandona, ella non si diparte dal nostro fianco e nel tempo stesso che con celesti conforti ne aiuta a sopportare il presente, ne addita, in ricompensa d'ogni più gran soffrire, un interminabile avvenire di gioia. In questa dunque confidiamo e preghiamoci scambievolmente dal buon Dio quella pazienza di cui entrambi abbisognamo. Chiesi pure a Giacomino de'tuoi figli; ed egli me ne disse tanto bene, che veramente mi invogliò di conoscerli. Ma… ciò pure è in mano di Dio. Ti prego di abbracciarli per me e assicurarli ch'io li porto nel cuore. Addio, mio caro Giovani; ho fatto miracoli a scrivere una lettera sì lunga, nè certamente l'avrei potuto, se l'amicizia non me ne avesse prestate le forze. Dammi, ti prego, tue notizie; io non ti mancherò delle mie, se la mia salute non peggiorerà di nuovo, nel qual caso ti farò scrivere per altra mano purchè non te ne allarmi. Giuseppe mi disse che aveva accomodato i tuoi affari con Francia: desidero per la tua pace che ciò sia vero; ma l'esperienza mia propria mi fa temere che quello che non accomoderai tu stesso non si accomoderà giammai. Tu ed io avevamo bisogno di un vero amico galantuomo e di cuore… ma questa fenice, se vi è, non si rinviene certamente in questi paesi.

Addio, ti ringrazio, ti abbraccio e mi protesto sempre tua

vera aff. ma amica Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Fusignano, 28 ottobre 1836.

Pregiatissimo Signore.—La ringrazio della gentilezza con che si è compiaciuta spedirmi le lettere giunte costà dopo il mio arrivo. Una di Milano n'ebbi già da più giorni e tre mi vennero ieri consegnate da Primo Monti. Resta ch'Ella compia la sua cortesia, coll'assumersi l'incomodo di farmi sapere a quanto ammonta il mio debito per le medesime. Intanto le ne accludo in questa tre per Milano una delle quali doppia e vi unisco l'affrancatura. Mi disse Primo ch'Ella mi credeva ripartita per Ferrara, ond'è che, per evitare equivoci, resta che io la farò avvertita della mia partenza un giorno innanzi la medesima, e per questi pochi giorni di permanenza, le sarò veramente obbligata, se continuerà a spedirmi di costà le lettere che potessero giungere ancora al mio indirizzo. La prego perdonare tale incomodo e riceverne i miei più sinceri ringraziamenti; mentre colla dovuta stima me le protesto

Uma.a sua serva
Costanza Perticari.

P. S. La lettera doppia è quella diretta al D.re Luigi Remondini.

L'autogr. si trova nella Bibl. Comunale di Lugo.

Ferrara, 19 novembre 1836.

Mio caro Giuseppe.—La commozione che mi destò il nostro addio nello staccarmi da te e dalla tua famiglia, mi tolse ogni facoltà di esprimerti quello che il mio cuore avrebbe voluto. Ma io spero che tu lo conosca abbastanza, questo mio cuore, per averlo inteso senza il soccorso della parola. Per ora non ti dirò altro, se non che il mio pensiero non ti abbandona mai, e che non avrò riposo finchè non ti vegga tolto da ogni cruccio dell'anima e del corpo. A quello pensano i tuoi amici, tra i quali voglio che tu mi conti per una delle più ardenti; ma al secondo fa d'uopo che pensi tu, principalmente coll'aderire a quei riguardi e a quelle cure che il tuo stato esige imperiosamente. Perciò vivi a te e alla tua famiglia, e manda al diavolo quel troppo zelo micidiale per chi nol conosce neppure, che fin ora ha limato troppo la tua salute. Io sono sulle spine finchè non ne sappia migliori notizie. Sperava averne oggi, ma nulla mi hai fatto scrivere, e ciò non va bene poichè tu mi lasci in preda alla mia fantasia e sai quanto questa sia solita a tormentarmi. Intanto io non voglio lasciar scorrere l'ordinario senza scriverti queste due righe, quantunque affollata di faccende, come puoi imaginarti. Dirai a Nina che ancora non ho avuto un ritaglio di tempo per escire, ma che lunedì spero potere adempiere la sua commissione. Mi mandi dunque il Romagnolo quando verrà a Ferrara, e dica al medesimo quello che di più le potesse abbisognare, come farebbe con una sua sorella. Lo stesso ripeterai alle tue buone figlie che abbraccerai per me teneramente, e tutti ringrazierai delle tante cure che di me hanno avuto. Se Primino è tuttora costà, abbracciami anche lui e fa' che immediatamente desso o Vittoria mi scrivano tue notizie.

Io penso a te più di quello che credi, o mio caro Giuseppe; altro non voglio dirti per ora. Merangola, Carlotta, la Contessa Elena col marito ti salutano, e ogni altro che non nomino per brevità. Tu mi saluta Grandi, e fammi serva alla famiglia Pironi. Addio, mio caro; coraggio e confidenza in Dio. Amami come ti amo e credimi sempre

la tua Costanza.

In—Lettere inedite di Vincenzo e Costanza Monti e del Perticari a Giuseppe Monti ecc.—Imola, Galeati, 1883.

Ferrara, 27 giugno 1837.

Carissimo Giovanni.—Così mi giovasse il rimedio prescritto nell' articolo, come mi giova a consolarmi il tuo buon cuore! Ma i professori che ho consultato non lo conoscono e mi mettono in animo gran diffidenza per lo sperimento di un farmaco che può essere delle consuete fantasie de' cerretani, meglio che un sollevamento dell'umanità travagliata. Che se è vero, non è prudenza ch'io prima ne faccia il saggio. Sbalzata dalla mia infermità parto ora pei bagni di Livorno, ne' quali pongo l'estrema speranza dei più miti rimedî. A Dio non piaccia che mi fallisca, onde non abbia a sottopormi a più lunga cura ed a più crudeli operazioni chirurgiche. Se in questa mia assenza mi scrivi, come te lo domando, dirigi le lettere ferme in posta a Firenze, e se intanto ch' io sono colà vuoi che consulti Bufalini intorno a qualche particolare della tua malattia, lo farò con ogni sollecitudine. Aveva in animo di scrivere anche a Giuseppe; ma mi riferiscono che a giorni parte da Roma: quindi per l'incertezza basti che tu lo saluti, se ancora non è partito, e gli prometta a mio nome che gli scriverò giunta in Toscana. Altri scrive la presente in mia vece per non peggiorare la condizione del mio male, ed in verità sono così mal condotta che solo la dura necessità e il timore di più triste stato mi costringono al viaggio che sono per intraprendere. Salutami la tua famiglia ed accogli l'abbraccio della

tua aff.ma amica vera Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Imola, Galeati, 1883.—Maurizio Bufalini di Cesena (1787—1875), illustre medico, fu professore di clinica in Firenze.

Livorno, 9 agosto 1837.

Egregio Signor Conte.—Allorchè mi ebbi la fortuna d'incontrarla sulla via di Ferrara a Bologna, Ella gentilmente volle le promettessi di scriverle l'esito de' bagni ch'io mi preparava a intraprendere per tentare un qualche miglioramento alla mia travagliata salute. Non creda, mio Signore, che quella promessa mi sia escita dalla mente, nè che mi esca giammai dal cuore la memoria della sua cortesia. Piuttosto sono andata differendo d'importunarla sperando sempre darle più felici e più sicure notizie sulla mia guarigione; ed anco perchè solo dopo un dato numero di bagni potea argomentarne gli effetti avvenire. Ma pur troppo ammontano questi già a un venti e più, nè la glandola al petto dà segno di diminuzione.

Quanti professori ho interpellati, tutti convengono che dessa è un resto dell'operazione male eseguita e vi è stato persino chi, dal solo esame della parte estirpata, ha saputo indicarmi, anco prima di visitarmi, il luogo ove precisamente risiede il residuo del male. Tutti esclamano che l'operatore ha tolto senza bisogno la parte sana e non ha conosciuto l'ammalata. Chi mi consiglia una seconda operazione, chi la dichiara non necessaria, e v'ha pure chi dice non essere stata necessaria la prima. In tanta confusione di pareri, io non so a quale appigliarmi, e il mio passato coraggio ha avuto sì tristi conseguenze, ch'io non oso nemmeno più ridestarlo. Tutto ciò le dico perchè non saprei meglio riconoscere la cordiale sua premura che col dipingerle schiettamente il mio stato: ma la prego non farne parola. So che Bononi, per iscusarsi, va seminando menzogne; e v'ha qualcheduno che per salvarsi in faccia al mondo dell'avermi troppo barbaramente tradita circa l'abilità del suddetto, lo appoggia ora con nuovi tradimenti alla verità: avrei potuto smacherarli, ma la vendetta non mi è permessa da' miei principii, e tanto ne sono lontana che nemmeno mi sono fatta lecito il nominare il mio assassino (lo che sarebbe stato un pubblicare la sua ignoranza) presso i Professori che mi hanno visitata. Dio ha permesso così ed io debbo chinare il capo. Parlandole così liberamente, io altro non intendo che darle quell'attestato di stima che unicamente per me si può, ma che pur vorrei con maggiori segni dimostrarle. In quanto al totale poi della salute è migliore quasi assai del momento in cui partii da Ferrara: e ciò che forse debbo ai bagni si è la cessazione del dolore che mi molestava alla glandola. Io mi tratterrò ancora per tutto il tempo propizio ai detti bagni: ma non ne spero più nulla. Ella vede con quanta prolissità ho ubbidito al gentile suo comando, prolissità che ora abbisogna del suo perdono. Ed io mi assicurerò di questo, quando Ella si degni togliere un qualche istante alle sue occupazioni per onorarmi delle sue notizie, le quali desidero mi apportino la consolazione di saperla in quella perfetta felicità, che per tanti titoli Ella merita. La prego porgere i miei complimenti alla sua ottima Signora, quantunque ciò sia forse temerità dal canto mio, non avendo la fortuna di conoscerla personalmente. Mi conservi la sua benevolenza e mi creda con vera stima e considerazione

Sua U. ma e Devot. ma serva
Costanza Perticari.

L'autogr. è nella Biblioteca di Vicenza, carteggio Milan-Massari.

Firenze, 2 settembre 1837.

Mio caro cugino.—Mi è stata cagione d'acuta pena la tetra descrizione che mi fai dello stato di codesta città sì barbaramente trattata dal micidiale cholera, la qual cosa mi duole infinitamente per la cosa in sè stessa, ma specialmente per te e per la cara famiglia tua che vi trovate esposti al pericolo. Io non so consigliarti abbastanza a fuggire subito di costà, se pur siete in tempo, perchè sento dire che sia impedito l'evadere dalla città; ad ogni modo ti prego di porgermi tue nuove più frequenti che per te si possa, nel mentre che io invoco dal Cielo la cessazione del morbo e la conservazione della salute tua e di tutti di tua casa. Ti raccomando poi di farti animo, e di non farti sopraffare dalla paura che è funestissima in tali circostanze. Usa un rigoroso regime di vita, mantieni l'animo in stato di calma, riguardati dal praticare e spera con fondamento d'andar esente dal morbo. La mia salute è discretamente buona e spero che diventerà anche migliore, mercè l'uso dei bagni salati artificiali che vo facendo. Qui si vive senza alcun sospetto di cholera, ma le notizie di Livorno sono quotidianamente peggiori, e di Pisa pure si comincia a parlar poco lietamente.

Piaccia a Dio di far cessare questo flagello tanto fatale al genere umano! Ti prego nuovamente di scrivermi con sollecitudine, e salutandoti caramente colla carissima famiglia tua mi protesto

tua aff. ma Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Ferrara, aprile 1838.

Mio caro Giovanni.—Profitto del ritorno in Roma del signor Mantovani per darti mie notizie, quantunque non saprei dirti nemmen io se desse tendano al peggio o al meglio. Certo è che durante lo scorso inverno sono stata assai male; poi al riscaldarsi della stagione mi parve di migliorare, ed ora da qualche giorno mi trovo di nuovo incomodata da' miei soliti mali, quantunque più mitemente. L'avvenire è in mano di Dio e, ora ne temo, ora mi rinfranco di qualche speranza, ma è una speranza che non mi passa al cuore. La religione è l'unica mia vera confortatrice, poichè del resto io sono talmente isolata da ogni vera affezione, che non mi parrebbe di esserlo maggiormente fra gli estranei, se fossi in America; con questo di più, che almeno colà non avrei la mortificazione di vedermi abbandonata da chi meno dovrebbe e non riceverei i dispiaceri che qua ricevo da chi è dello stesso mio sangue. Cose vecchie, ma cose sempre dolorose. Ti prego di scrivermi due righe del tuo stato e desidero sentire da te confermate le buone notizie che vado ritraendo da tutti quelli che so potermi dare qualche ragguaglio della tua salute. Dimmi se veramente pensi di abbandonar Roma e quando. Ti abbraccerei pur volentieri! Ma sembrami difficile che tu ti determini di ritornare fra costoro. Addio, mio caro Giovanni, amami e credimi sempre

l'aff. ma tua cugina ed amica Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Ferrara, 10 giugno 1838.

Mio caro cugino.—L'ignoranza e la perfidia nanno crudelmente condotta la mia salute al tristissimo stato dell'anno scorso. Perduta la pace dell'animo e risvegliati al petto i miei mali; perchè, come sai, lasciatane la radice, e inutilmente sofferti sì crudeli martirii, ora mi si riproduce la glandola che doveva estirparsi. Così dubitando d'ogni umano soccorso, e nullameno bisognosa di tutti, non sapendo a che determinarmi e temendo di affidarmi fatalmente, ho sempre l'animo in una fiera tempesta. Rimane ch'io ponga ogni fiducia in Dio ed egli illumini coloro ai quali ho commessa la mia cura e renda efficaci i rimedii per la guarigione.—La scorsa state, tu, conosciuta la mia sventura, mi desti relazione di una cura prodigiosa ottenuta costì sopra una donna inferma del medesimo male al petto di che son io, e mi mandasti la ricetta, stampata in un foglio pubblico, che dal medico fu posta in opera in questa cura. Informati pertanto con diligenza se lo stesso medico abbia operato felicemente altre simili cure, o se siano riuscite inutili, ed inviami un'altra copia di quella stessa ricetta che ora ho smarrita. Quanto puoi usa in questa ricerca accuratezza e sollecitudine, affinchè io non lasci negletto alcun mezzo, e tu che veramente mi ami possa darmi se sia possibile qualche conforto. Dammi tue nuove ed attribuisci al pericolo che incorro ad ogni atto del braccio destro se nè pure firmo la presente di mia mano, ed ama

l'aff. ma tua cugina Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Livorno, 26 luglio [1838].

Pregiatissimo Signore ed amico.—Spiacemi non avere migliori notizie a darle della mia salute, la quale pare a me vada peggiorando per tutti i conti. E primieramente le dirò che quantunque l'infiammazione e il dolore delle mignatte siano cessati, non però cessa la trista, conseguenza delle medesime. Ad onta delle frizioni mercuriali e di cicuta, la glandola cresce sempre e di estensione e di durezza ai due punti superiori alla cicatrice che le indicai nell'ultima mia, cioè verso il volto. L'altra nuovamente comparsa, ch'io tutt'ora voglio chiamare corpicciolo piuttosto che glandola, va pure lentamente e insensibilmente crescendo. La parte ammalata della cicatrice si estende, quantunque non sembri aperta nemmeno nei punti che più minacciano. Il resto della cicatrice è più rosso del solito specialmente vicino la parte ammalata e quivi è anche un po' gonfio. Io non l'ho mai toccato con frizioni, anzi procuro che nulla l'offenda, ma ciò poco giova… Ho riprese le pillole a due il giorno, e domani tenterò prenderne tre. Si arroge a tutto ciò che da più giorni l'intemperie della stagione, le continue burrasche di mare, il rinfrescamento sensibilissimo ed improvviso dell'aria mi impediscono il corso dei bagni. Fino dai 7 sono in Livorno, ne abbiamo oggi 26 ed appena ho potuto fare dieci bagni ed anco tre di questi in tinozza, lo che non è mai come farli al mare, non tanto pel cangiamento dell'acqua, come dicono, ma, secondo che io opino, perchè dovendosi scaldar l'acqua al fuoco, ciò dissolve per necessità le parti di che è composta e non la fa essere più quella. Oggi non ho voluto fare frizioni e invece ho steso sopra una pezza parte dell'impiastro portato meco da Ferrara, ammorbidito con pomata di semi freddi e un poco di pomata mercuriale, e così l'ho messo sulla glandola senza toccare la cicatrice. Non ispero oramai più nulla ma l'ho fatto per tentar tutto. Restami in seguito a tentare l'jodio e vado a rilento con tal rimedio, perchè se desso, come temo, non farà effetto, io sento che non potrò a meno di non soccombere alla malinconia, la quale già pur troppo ha preso a dominarmi imperiosamente. Nè giova il dirmi che mi distragga, poichè collo studio non posso, stante l'oppressione della mente e il mio povero braccio, che ognora più mi duole specialmente vicino alla piegatura del gomito e sotto l'ascella: altri divertimenti non potrei averne, non ne dando questo miserabile soggiorno, fatto più per gli animi indurati come il metallo che qui si maneggia, che per niuna idea che abbellisca il consorzio, o tocchi il cuore. Passo i giorni nella tristezza; qualche visita di complimento viene piuttosto a disturbarmi che a sollevarmi: vado a far delle trottate, ma colla Lucia non posso barattar parola. Ho perduto l'appetito, i miei nervi si risentono: non ho speranze per l'avvenire e temo che il mio stato sia peggio che non mi si è detto, e forse che non si crede. Non aggiungo altro: e forse ho detto anche troppo pel medico, ma non per l'amico, che saprà compatire la triste mia situazione e migliorarla forse con qualche speranza.

27.—Ho lasciata ieri aperta la presente per aggiungere le notizie di oggi, le quali non sono migliori: anzi nel medicare la cicatrice, sopra la quale continuo a tener sempre la pomata di semi freddi con isfilacce, mi sono avveduta che vi comincia come un foro, ma poco profondo, per quanto dice Lucia, e indolente. Non bruciore, non battito, nulla che indichi un'assoluta suppurazione. La glandola si risente secondo il solito e forse meno di questo inverno; ma, sia la stagione o altro, sovente mi sento come delle spille, le quali corrispondono anche in parti sane. Trafitture finora mai. La stagione è sempre cattivissima e non pare voglia migliorare. I giorni scorrono e non avanzo coi bagni… Oggi ho un forte dolor di capo, e sempre la stessa tristezza. Se la cura da me intrapresa non avesse portato miglioramento, saprei pazientare e sperar tuttavia, ma ciò che mi scoraggia si è il vedere che da che mi curo vado sempre peggiorando. Dunque i rimedi non sono quelli, o il mio male è tuttora un mistero. La prego, per la bontà ch'Ella mi ha sempre dimostrata, di darmi qualche speranza, se tuttora ve n'è, o pure, qualunque sia, dirmi ciò che Ella ne pensa. L'incertezza in cui vivo è terribile. Mi perdoni e mi compianga. Mi conservi sempre la sua amicizia la quale impegno in tutta la sua estensione perchè, se Dio il concede, trovi pure finalmente un rimedio a tanti mali.

Sua sempre vera ed aff. ma amica
Costanza.

L'originale si trova nella Bibl. Comunale di Ferrara.

Livorno, 10 agosto 1838.

Stimatissimo Signor Conte.—Il motivo per il quale non ho potuto fin qui compiere il mio dovere, quello cioè di farle sapere le mie notizie, è stato il non sapersi per parte mia se ella si trovasse attualmente in Ferrara, o a Vicenza. Saputo però ch'ella dimora in quest'ultima città mi affretto a farle sapere ciò che riguarda la mia salute; essa non è in buono stato giacchè tormentata dal solito male, e mentre mi riprometteva un miglioramento in seguito dell'uso dei bagni salati, il tempo cattivo impedisce ch'io ne usi di continuo, e non me ne deriva vantaggio. Spero però che la stagione facendosi costantemente buona contribuisca al mio miglioramento.

Già da qualche tempo la maschera di Napoleone deve esser giunta all'Ufficio delle diligenze in Vicenza; io sono quindi a pregarla di volerla ritirare e farmela recapitare a Ferrara a tutto suo comodo. Mi abbia per iscusata, Signor Conte, se io non le scrivo di mia mano; i medici me lo hanno impedito, onde tenere in riposo il braccio. Io le sarò veramente obbligata, se ella si compiacerà dirmi qualche cosa intorno allo stato di sua salute. Riceva intanto i miei ossequi e mi creda

sua dev. ma serva ed amica
Costanza Monti Perticari.

L'originale è nella Biblioteca di Vicenza, carteggio Milan-Massari.

Ferrara, 11 ottobre [1838].

Mio egregio e rispettabile amico.—Quella mia lettera scrittale tempo fa da altri a mio nome, benchè tale che commosse a tristezza il gentile animo suo, non era che l'annunzio dei martirî infinitamente più lunghi e crudeli che ho tollerati in appresso. E già bastavano gli spasimi a darmi la morte se anche non fosse stata per se medesima perniciosa la natura del male; perocchè una resipola che per lo spazio quasi di un intero mese si spandeva lungo il braccio destro portando sempre con sè un dolore più insopportabile e reso più intenso dalla lentezza del suo procedere, cagionando febbri, convulsi e costringendo ad una cura di sei salassi, non è punto esagerato il chiamarla mortale: chè così anche la reputarono i medici più insigni. Pure malgrado una sì grave sciagura, sono tenuta alla Provvidenza di averne sfuggita una più terribile, quando la resipola deviò dalla testa e dal petto e quindi dalla glandola, cui se avesse invaso, niuno può immaginare i dolori e gli estremi pericoli nei quali sarei caduta. Non è però che anche a questa parte l'infiammazione non abbia portato gravi danni e martirii: solamente io dico che potevano essere molto maggiori. In somma sono stata costretta a chiamare a Ferrara Medoro non tanto per la resipola, che mi fu egregiamente curata dal mio medico ferrarese, quanto per la glandola alla quale era a temersi che l'indugio della convalescenza fosse fatale per l'applicazione de'necessari rimedii. E nondimeno dopo tanto furore di mali, dopo sì lungo tempo e malgrado la sapienza dei medici e la cura vigorosa e la vigilanza continua, nè pure sento verun sollievo, verun indizio. non dico di salute, ma nè tampoco di convalescenza. Medoro ha deciso ch'io mi rechi a Padova: ma con quali forze? Si insiste perchè io faccia ogni opera onde ricuperarle: ma come risorgeranno, se sempre risorgono nuovi mali? mi armerò di coraggio? ma qual animo non cade all'insistenza di continue miserie? ed a me sono tanto più dolorose, chè ognora mi trabalzano dalla speranza al terrore, al quale, se fosse continuo, sarei più rassegnata.—Egli è in questo stato che mi giunsero i di Lei plichi, accompagnati da lettere piene di tanta carità, cortesia ed amicizia: in uno stato in cui più mi tocca il vero e tenero sentimento e nel quale sento più altamente il bisogno di corrispondervi. E di fatto il cuore le è gratissimo e tutto vorrebbe a Lei dimostrarsi; ma la mano inferma non lo seconda e la mente è prostrata e solo immersa nel pensiero della propria desolazione.

Gli egregi sonetti ch'Ella gentilmente mi ha intitolati mi sono così cari e per l'argomento e per la loro bontà e per la prova d'amicizia e di stima che in essi mi porge. Così avessi animo più lieto e più degno onde meglio mi si addicessero questi onori, benchè io caldamente la prego a tenere per certa la mia gratitudine verso l'ottimo di Lei cuore, non meno della stima per gli egregi di Lei talenti.

Spero che Ella si buono e sì pio non cesserà mai le sue fervide preghiere per me e ch'io vivrò sempre nel di Lei animo colla medesima santa amicizia. Accolga gli ossequi de'miei cugini Monti e Manzoni e quelli

della sua aff. ma serva ed amica
Costanza Perticari.

L'autogr. è nella R. Bibl. Naz. Centrale di Firenze, Carteggi, Proven. De Gubernatis.

Ferrara, 3 febbraio 1839.

Carissimo cugino.—Godo che tu abbia inteso mie notizie dalla bocca di Giacomo Manzoni, avendomi egli nel corso della mia malattia veduto sovente e da me stessa uditene le tristi vicende e i timori e le speranze da cui sono agitata. Così egli ti riferirà e le speranze da cui sono agitata. Così egli ti riferirà ogni minuta circostanza, e farà fede di ciò che appena da me scritto sarebbe credibile, del tempo ch'io giaccio in questo letto di dolori, degli acutissimi spasimi che vi soffro, delle replicate resipole, delle febbri, dei mortali convulsi, delle veglie e della profonda tristezza e della disperazione a cui alcuna volta mi abbandono per eccessivo dolore. Pensa dunque com'io sia stata non una sol volta all'orlo del sepolcro, e che veramente per miracolo ne ho ritratto il piede, se pure non è continuo miracolo ch'io viva sostenendo infiniti mali, di cui la minor parte basterebbe alla mia ruina. Se io credessi ai medici mi consolerei di un lieto avvenire, ma il sentimento de' miei mali m'eleva l'animo a poche speranze. Nullameno consumo i miei di nelle cure prescrittemi o in quelle che nascono dalla necessità di nuovi e crescenti dolori, non per intima persuasione o per fatto che mi giovino, o siano per giovarmi, aggravandosi anzi la malattia, ma perchè io debbo tentare ogni via di salute, e perchè mi vi costringe il dolore, ancorchè altri pensieri me ne distogliessero. Ora poi che il verno infierisce sento moltiplicarsi ed inacerbirsi anche gli spasimi ed esige la fatal mia condizione che piuttosto mi esponga di quello che mi guardi dai rigori del gelo. Questo è il deplorabile mio stato a cui m'hanno ridotta l'ignoranza dei mediei e la persecuzione de' miei nemici. Io ti ringrazio ben di cuore dell'interesse che prendi alla mia salute e del vedertene sempre sollectio ed afflitto. Quindi doppiamente m'accuoro che s'accrescano i tuoi incomodi, e che da me non te ne possa venir sollievo nè pur di consiglio; ma spero che Giacomino ti avrà dichiarato come viva nel mio cuore la memoria di te e quant'io mi dolga che i tuoi mali non abbiano conforto. Mi si dice che costì si è fatta recentemente una nuova incisione del ritratto di mio marito. Se è vero o no, ti prego darmene subito avviso, anzi, se sia, acquistane e mandami dodici copie, valendoti del mezzo più pronto e ritirandone da Giacomo il costo. Dammi tue nuove e salutami la tua famiglia e Giacomino. Amami e credimi sempre

la tua aff.ma cugina Costanza.

In—Versi e lettere di Costanza Monti Perticari ecc.—Firenze, Le Monnier, 1860.

Prefazione Pag. v

1811.

Alla contessa Anna Cassi-Perticari 1

1812.

Al conte Francesco Cassi 2

Al conte Gordiano Perticari 3

1813.

Al conte Francesco Cassi 4

Allo stesso ivi

Allo stesso 5

Allo stesso ivi

1814.

Allo stesso 6

Allo stesso 8

Allo stesso 10

Al march. Antaldo Antaldi 11

Allo stesso 12

Al conte Francesco Cassi 13

Al march. Antaldo Antaldi 14

1815.

Allo stesso ivi

Allo stesso ivi

Allo stesso 15

Allo stesso ivi

Allo stesso 16

Allo stesso ivi

Allo stesso 17

Allo stesso 18

A Paolo Costa 19

1816.

A Giulio Perticari 22

Allo stesso ivi

Al march. Antaldo Antaldi 23

Allo stesso 24

Allo stesso ivi

Allo stesso 25

Allo stesso 27

Allo stesso 30

Allo stesso 32

Allo stesso 34

Allo stesso ivi

1817.

Allo stesso 35

Allo stesso ivi

Allo stesso 36

Allo stesso 37

Allo stesso 38

Allo stesso ivi

Allo stesso 40

Allo stesso ivi

1818.

Allo stesso 41

Allo stesso ivi

Allo stesso 42

Allo stesso ivi

A Urbano Lampredi 43

Al march. Antaldo Antaldi 45

A Giulio Perticari 46

Allo stesso 47

Allo stesso 48

Allo stesso ivi

Allo stesso 49

Allo stesso ivi

Allo stesso 50

Allo stesso 51

Allo stesso 52

Allo stesso ivi

Allo stesso 53

Allo stesso 56

Al march. Antaldo Antaldi 57

Allo stesso 58

Allo stesso 59

Allo stesso 61

Allo stesso 63

Alla contessa Anna Cassi-Perticari 66

1819.

Al march. Antaldo Antaldi ivi

Allo stesso 68

Allo stesso 69

Al march. Andrea Antaldi 70

Al march. Antaldo Antaldi 72

Allo stesso 74

Allo stesso 75

A Urbano Lampredi 77

Al march. Antaldo Antaldi 83

Allo stesso ivi

Alla contessa Anna Cassi-Perticari 85

Al conte Francesco Cassi ivi

Al march. Antaldo Antaldi 87

Allo stesso 90

Allo stesso 91

Allo stesso 92

Allo stesso 95

Allo stesso 96

Allo stesso ivi

Allo stesso 97

Allo stesso 98

1820.

Allo stesso 100

A Salvatore Betti 101

Al march. Antaldo Antaldi 102

A Paolo Costa ivi

A Salvatore Betti 104

Allo stesso 105

Allo stesso 107

Allo stesso ivi

Allo stesso 108

A Gio. Battista Niccolini ivi

Al march. Antaldo Antaldi 109

A Salvatore Betti 110

A Giulio Perticari 111

Allo stesso 112

Al march. Antaldo Antaldi 113

A Salvatore Betti 114

1821.

Al march. Antaldo Antaldi 115

A Giulio Perticari 116

Allo stesso 117

Al march. Antaldo Antaldi ivi

Allo stesso 118

A Salvatore Betti 119

A Giulio Perticari ivi

Al march. Antaldo Antaldi 121

1822.

A Salvatore Betti 122

Al march. Antaldo Antaldi ivi

Allo stesso 123

A Salvatore Betti 124

Allo stesso ivi

Al march. Antaldo Antaldi 125

Allo stesso ivi

A Giulio Perticari 126

Al march. Antaldo Antaldi 127

Allo stesso 129

Allo stesso 130

Allo stesso 132

Allo stesso ivi

A? 133

Al march. Antaldo Antaldi 139

Allo stesso 141

A D. Luigi Nardi 142

Al march. Antaldo Antaldi 143

A Laudadio della Ripa 144

A Salvatore Betti 145

Al march. Antaldo Antaldi 149

Alla Contessa Anna Cassi-Perticari 152

Al march. Antaldo Antaldi 153

A Paolo Costa 156

Al march. Antaldo Antaldi 158

Allo stesso 162

Allo stesso 163

A Filippo Agricola 166

1823.

Al march. Antaldo Antaldi 167

A Giovanni Monti 168

A Francesco Sinibaldi 173

Al march. Antaldo Antaldi 174

A Salvatore Betti 177

Allo stesso ivi

Al march. Antaldo Antaldi 183

A Salvatore Betti 184

Al march. Antaldo Antaldi 193

A Laudadio della Ripa 198

A Salvatore Betti 200

Allo stesso 205

Al conte Gordiano Perticari ivi

Allo stesso 208

A Salvatore Betti 212

Alla contessa Anna Cassi-Perticari 213

A Metilde Ferrucci 214

Ad Adelaide Calderara 215

1824.

Al Salvatore Betti 216

Allo stesso 217

A Luigi Crisostomo Ferrucci 219

Al conte Antonio Papadopoli 220

Allo stesso 222

A Giovanni Monti 225

Allo stesso 227

Allo stesso 229

Ad Adelaide Calderara 233

Al conte Antonio Papadopoli 234

Al march. Antaldo Antaldi 237

A Salvatore Betti 238

A Laudadio della Ripa 239

Ad Adelaide Calderara 240

Al conte Antonio Papadopoli 241

A Giovanni Monti 243

Al Conte Antonio Papadodopoli 247

1825.

A Giovanni Monti 249

A Salvatore Betti 251

Ad Adelaide Calderara Butti 252

A Giovanni Monti 255

Allo stesso ivi

1826.

A Laudadio della Ripa 256

A Giuseppe Monti 257

A Giovanni Monti 261

A Filippo Agricola 262

A Giuseppe Monti 263

1827.

Al conte Gordiano Perticari 266

Allo stesso 268

A Giulio Monti 270

Allo stesso ivi

A Carlotta Monti Merangola 271

1828.

A Giuseppe Monti ivi

A Giovanni Monti 273

Allo stesso 274

Allo stesso 275

A Laudadio della Ripa 278

A Giuseppe Monti 279

A Giovanni Monti 282

Allo stesso 284

Allo stesso 285

1829.

A Giuseppe Monti 287

A Giovanni Monti 289

Allo stesso 292

1830.

A Filippo Agricola 293

Al Cavalier L. Vigo 295

A Giovanni Resnati 297

1831.

A Filippo Agricola ivi

1832.

A Laudadio della Ripa 299

A Luigi Bonetti 301

A Laudadio della Ripa 302

A Luigi Crisostomo Ferrucci 303

1833.

A Giovanni Monti 304

Ad Achille Monti ivi

1834.

A Giovanni Monti 305

Al conte Giovanni Roverella 307

A Giovanni Monti 308

A Laudadio della Ripa 311

1835.

A Giovanni Monti 312

1836.

Allo stesso 314

A Pier Giacomo Caravita 317

A Giuseppe Monti ivi

1837.

A Giovanni Monti 319

Al conte Giacomo Milan-Massari 320

A Giovanni Monti 322

1838.

Allo stesso 323

Allo stesso 324

Al Dott. Leone Mosè Finzi 325

Al conte Giacomo Milan-Massari 328

A D. Desiderio Pallocchi 329

1839.

A Giovanni Monti 331

Agricola Filippo, Pag. 106, 115, 166, 255, 262, 274, 275, 281, 383, 284, 285, 286, 290, 293, 297.

Albani cardinale, 270.

Alborghetti conte, 174, 270, 281.

Alighieri Dante, 15, 19, 20, 21, 58, 60, 94, 123, 132, 167, 199, 203, 206, 229, 230, 231, 232, 250.

Almerici, 54, 55.

Amati Girolamo, 212.

Antaldi Andrea, 69, 70.

Antaldi Antaldo, 6, 8, 9, 11, 12, 14, 15, 16, 17, 18, 23, 24, 25, 27, 30, 32, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 45, 52, 57, 58, 59, 61, 63, 66, 68, 69, 71, 72, 74, 75, 83, 87, 92, 95, 96, 97, 100, 102, 113, 115, 117, 118, 122, 123, 125, 127, 129, 130, 132, 137, 139, 141, 143, 149, 153, 158, 162, 163, 167, 174, 183, 193, 205, 206, 208, 209, 237, 245.

Applani Andrea. 69, 70.

Arienti, 289.

Ariosto Ludovico, 199.

Aristofane, 45, 75.

Aureggi Luigi, 307.

Baldassini, 27, 58, 63.

Baldi, 28.

Bassville Ugo, 236.

Belli, 292.

Bellotti Felice, 220.

Belzoppi, 42.

Bembo Pietro, 58.

Berini, 233, 311.

Betti Salvatore, 101, 104, 105, 107, 110, 114, 119, 122, 124, 145, 162, 163, 165, 177, 182, 184, 193, 194, 200, 205, 212, 216, 217, 218, 219, 238, 251, 283, 284, 295.

Bettini Giacomo, 285, 286.

Biamonti Giuseppe, 11.

Bianchetti, 36.

Bignami, 221.

Bignardi abate, 6, 142.

Biondi Luigi, 115, 120, 212.

Bischi, 38.

Boari, 308, 309.

Boccaccio Giovanni, 58, 62, 76, 79, 199.

Bolaffi, 101, 165, 300, 302, 311.

Bonaparte Napoleone, 7, 82, 328.

Bonetti Luigi, 301.

Bononi chirurgo, 321.

Borgia Cesare,

Borghesi Bartolomeo, 6, 12, 13, 47, 54, 56, 58, 77, 89.

Borsetti, 237.

Borsi, 28, 32.

Brioni conte, 216.

Briganti Cassi Maddalena, 4, 10, 13.

Brunswick (di) Carolina, 38, 74, 75, 97, 102.

Bufalini Maurizio, 319.

Byron Giorgio, 28.

Calcagnini, 281.

Calderara Adelaide, 215, 233, 240, 252.

Canonici Ginevra, 89.

Canova Antonio, 58.

Caravita Pier Giacomo, 317.

Carafa generale, 7, 9, 10, 12, 13.

Caro Annibale, 166.

Cassi Annibale, 6, 7, 9.

Cassi Elena, 4, 10, 13.

Cassi Francesco, 2, 4, 5, 6, 8, 10, 12, 13, 29, 33, 85, 103, 110, 117, 130, 132, 135, 136, 137, 142, 144, 148, 150, 154, 155, 160, 163, 164, 165, 175, 179, 180, 181, 184, 185, 187, 188, 189, 190, 191, 193, 194, 195, 198, 222, 223, 224.

Cassi Luigi, 6, 7.

Cassi sorelle, 38, 52.

Cassi Perticari Anna, 1, 66, 85, 130, 152, 161, 197, 213, 239.

Cassi Lazzari Geltrude, 24, 26, 33.

Catullo Valerio, 77, 90.

Ceni pittore, 28.

Cipolletti P. M., 254.

Cola di Rienzo, 206, 242.

Conciani, 36.

Consalvi Ercole, 81.

Costa Paolo, 19, 28, 47, 74, 94, 98, 102, 112, 126, 156, 127, 210, 221, 225, 235, 236, 243.

Crivelli, 29.

De Andreis, 63.

De Medici Alessandro, 29.

Della Ripa Laudadio, 120, 123, 161, 162, 163, 165, 198, 239, 256, 278, 299, 302, 311.

Del Negro marchese, 29.

De Romanis, 107.

Donnismondi, 17, 26.

Felici Daniele, 7, 57, 129, 130, 132, 139, 141, 144, 151, 161, 165, 184, 195, 197, 209.

Ferri Cristoforo, 148, 157, 160, 161, 175, 179, 185, 189, 190, 191, 193, 194, 195.

Ferrucci Luigi, 173, 219, 299, 303.

Ferrucci Metilde, 214, 219, 220.

Fidenza, 289, 290.

Finzi Leone MosÈ, 325.

Francesconi, 27.

Francia, 316.

Fresio generale, 76, 90.

Fusignani dottore, 48, 52, 69, 105, 109, 116, 120, 121, 188.

Gagliardi Giovanni, 265, 274, 282, 290.

Galilei Gallieo, 17.

Gaudenzio da Rimini frate, 8.

Gattei chirurgo, 37, 109.

Gennari Felici Teresina, 7, 26, 27, 32, 41, 50, 144, 165, 176, 197.

Genoino Giulio, 80, 82.

Giacomelli, 77.

Giorgi Paolino, 39.

Giovanelli, 24.

Grandi, 318.

Gregorini, 6, 135.

Grindlay, 77.

Guadagnini, 74, 83, 89.

Guidi abate, 56, 57.

Guido da Feltre, 28.

Lampredi Urbano, 43, 77.

Lazzari, 33.

Lombardi Bartolomeo, 60, 113.

Longanesi Angelo, 273, 274, 281, 285, 308, 310.

Longo, 105.

Lorenzini chirurgo, 37, 75.

Lucano Marco Anneo, 86.

Macchirelli Odoardo, 81, 243, 244.

Macchirelli Paolo, 21, 27, 33, 34, 35, 46, 50, 51, 52, 56, 63, 64, 71, 88, 100, 131, 141, 151, 165, 167, 168, 174, 176, 183, 184, 197.

Maffei Andrea, 237.

Malvezzi Teresa, 12.

Malvica Ferdinando, 250, 251, 254, 256, 262.

Mamiani Terenzio, 120.

Mantovani, 323.

Manzi, 119, 120.

Manzoni Domenico, 315.

Manzoni Giacomo, 314, 315, 316, 331, 332.

Marchetti contessa, 265, 268.

Marini, 73.

Martinetti Giambattista, 57, 121.

Medoro dottore, 329, 330.

Merangola Monti Carlotta, 271, 278, 318.

Milan Massari Giacomo, 320, 328.

Molinari, 33, 36, 113.

Monepiani, 233, 241.

Monti Achilie, 304.

Monti Fedele Maria, 282.

Monti Fedele, 273, 291.

Monti Giovanni, 51, 106, 168, 205, 225, 227, 229, 243, 246, 249, 252, 255, 261, 273, 274, 282, 284, 285, 288, 289, 292, 304, 305, 308, 312, 314, 391, 322, 323, 324, 331.

Monti Giulio, 271, 273, 281.

Monti Giuseppe, 257, 263, 271, 275, 279, 286, 287, 291, 315, 317, 319.

Monti Primo, 317, 318.

Monti Vincenzo, 5, 76, 98, 102, 110, 112, 120, 124, 127, 133, 141, 145, 153, 163, 164, 167, 171, 172, 174, 176, 177, 179, 183, 191, 192, 193, 201, 202, 207, 212, 216, 218, 220, 221, 223, 225, 226, 234, 236, 239, 246, 251, 252, 256, 259, 261, 262, 264, 266, 269, 274, 276, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 288, 289, 290, 292, 300.

Montrone, 80.

Morosi, 26, 27.

Morosi Bettina, 58.

Mosca Benedetto, 14.

Mustoxidi Andrea, 150, 164, 206, 221, 225, 237, 241, 242.

Nardi Luigi, 50, 122, 138, 142.

Nelli Vincenzo, 212.

Niccolini Giambattista, 108.

Novellucci, 108.

Odescalchi Pietro, 122, 178, 212, 251, 283.

Omero, 17, 262.

Oriani Barnaba, 233, 241.

Pallavicini marchese, 178.

Pallocchi Desiderio, 329.

Panzieri, 53.

Papadopoli Antonio, 220, 222, 226, 234, 241, 247.

Paroli Alessandro, 281, 288.

Perotti Abate, 161, 176, 184.

Perticari Giulio, 2, 8, 9, 11, 19, 20, 21, 22, 26, 36, 37, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 56, 60, 77, 81, 82, 84, 86, 92, 93, 97, 98, 102, 110, 111, 112, 116, 117, 119, 122, 126, 128, 129, 130, 131, 133, 136, 141, 144, 145, 149, 152, 154, 155, 156, 157, 159, 161, 163, 164, 167, 168, 170, 171, 175, 177, 179, 180, 181, 182, 183, 185, 186, 187, 188, 190, 191, 192, 196, 199, 202, 203, 204, 205, 206, 209, 210, 213, 214, 217, 218, 221, 223, 224, 225, 226, 235, 236, 237, 241, 242, 244, 248, 255, 262, 268, 269, 302, 332.

Perticari Giuseppe, 132.

Perticari Gordiano, 3, 66, 84, 106, 131, 137, 141, 149, 155, 158, 159, 161, 162, 175, 176, 198, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 214, 217, 238, 246, 266, 268, 273.

Perticari Ciacchi Violante, 48, 49, 66, 112, 120, 125, 131, 141, 151, 153, 159, 163, 165, 176, 184, 197, 214.

Petrarca Francesco, 206, 242.

Petrettini, 224.

Pietrassanta principessa, 227, 229, 232.

Pinelli Bartolomeo, 229, 231, 232, 250, 254, 255, 261.

Pironi, 138.

Poliziano Angelo, 199, 242.

Portirelli Luigi, 60.

Preda Giampaolo, 227, 280, 287, 289.

Primo Gerolamo, 221, 252.

Puoti Giammaria, 80.

Ranzi Andrea, 153.

Rasori Giovanni, 288.

Raynouard Francesco, 206.

Reina Francesco, 28.

Remondini Luigi, 317.

Renzi, 108.

Resnati Giovanni, 297.

Riario monsignore, 81.

Rossi, 69, 71, 73.

Rossi Martinetti Cornelia, 50, 57, 121.

Rossini Gioachino, 80, 82, 172.

Rostini Bartolomeo e Pietro, 45.

Roverella Giovanni, 56, 103, 132, 135, 157, 159, 168, 187, 215, 307.

Roverella Elena, 307, 308, 318.

Salvagnoli, 142, 239, 250, 251.

Sampieri contessa, 221, 225, 243, 249.

Scarpa Antonio, 192.

Scarselli contessa, 168.

Schiavini Michele, 110.

Sciarra principessa, 81.

Sgarbi, 74, 83, 313.

Sgricci Tommaso, 29.

Sinibaldi Francesco, 173.

Sorangeli, 162.

Scubbia, 301.

Taddei Rosina, 52.

Tambroni Giuseppe, 69, 71, 73, 91, 94, 98, 101, 104, 107, 114, 115, 117, 118, 124, 212, 217, 218, 219.

Tambroni Clotilde, 69, 123.

Tasso Torquato, 167, 177, 183, 199.

Tommasini Giacomo, 128, 158, 170, 188, 243.

Trivulzio Gian Giacomo, 27, 162, 178, 202, 203, 206, 213.

Uberti (degli) Fazio, 146.

Vasi Giuseppe, 105, 228.

Vigo Lionardo, 295.

Virgilio, 62, 86.

Viviani Clarice, 17, 25, 33, 95, 96.

Zagarolo, (di) duca, 81.

Zanucchi 12, 22, 23.

Zaiotti Paride, 273, 275, 279, 280, 281, 287, 288, 289.

Zinanni, 72.

Pag. 53, linea 8—ventuno correggi venturo

» 82, » 25—vendibile » vendibili

» 142, lettera CXXVIII aggiungi A Luigi Nardi

» 148, linea 2—che nel plauso correggi a se stesso che nel plauso

» 180, » 24—credè » creda

» 242, » 16—linea » lima

» 250, » 11—quanto » quante

» 263, » 7—sentito » subito

» 276, » 22—di tutto ciò » da tutto ciò

» 303, Nota 2—Bild. Nazionale Centrale aggiungi di Firenze

» 304, lettera CCIX, 27 giugno 1833 correggi 27 luglio 1833