JOLANDA DE BLASI
I re allo specchio
ROMANZO

VALLECCHI EDITORE FIRENZE



I RE ALLO SPECCHIO



PROPRIETÀ LETTERARIA

Firenze, 1923, Stabilimenti Grafici A. Vallecchi. Via Rieasoli 8 e Via S. Zanobi, 64

NOTA BENE: Questo romanzo non è storico, non è politico. Avvertimento inutile daltronde, perchè i lettori vedranno da sè che il mio libro non vuole nè ricostruire nè deformare fatti e persone conosciute. Esso attinge dalla realtà non altro che motivi d' arte, e li rielabora o bene o male o mediocremente ma solo e sempre con gli strumenti della jantasia.

E ancora. Il piccolo mondo delle corti è tanto lontano dall'esperienza della maggior parte dei viventi, che taluno, immaginandoselo sulla scorta di vieti figurini stuccati e indorati, potrebbe accusarmi di inverosimiglianza o, peggio, di goffaggine. Accusa ingiusta: perchè la mia vecchissima e nobile amica Lady Trench Saint-Georges (la quale non protesta se qui ne scrivo in tutte lettere il nome) mi ha liberalmente offerto le preziose testimonianze della sua notoria e lunga consuetudine nell' intimità di più che una reggia.

J. DE B.

«Guarda il Viserno: par che scenda giù dal cielo!»

Il principe Ruggero Gloria di Cerito alzò gli occhi dal giornale e li volse verso la moglie che, nel richiamo, gli aveva posato una mano sul braccio: occhi limpidi e chiarissimi, a volte vuoti, a volte trasognati, nel viso liscio e grassottello che pur nel vigore dei trentacinque anni serbava un'espressione quasi infantile.

Una scossa dell'automobile in curva lo gettò contro la spalla della compagna, e la visione che avevano suscitato le parole della principessa scomparve dietro il riparo d'una fitta albereta.

«Dicevo del Viserno….» ripetè Maria con un gesto vago «Non si vede più.»

Il principe ripiombò nella sua lettura: la corsa ora proseguì piana ed uguale divorando un tratto libero della strada in salita. La principessa guardò la linea ondoleggiante dei cespugli fronzuti, poi sbadigliò con un piccolo stiramento nervoso.

«Che caldo!»

Ruggero propose:

«Apriamo?»

Maria glielo impedì.

«Per carità! E la polvere?…»

Un'automobile, infatti, li precedeva seminascosta da una nuvolaglia grigiastra: fu oltrepassata, e il principe, con una rapida occhiata, ne riconobbe i viaggiatori, anch'essi, come tutti quel giorno, diretti a Vezio.

«I Good.»; e voltò la pagina del giornale.

«Bestie!» esclamò Maria, ch'era molto seccata «Quelli sì che capiranno!»

Un nuovo silenzio.

Gli alberi diradavano e, tra l'uno e l'altro, come di tra i poggiuoli d'una terrazza, riapparve il serpeggiamento luccicante del Viserno che, lontano dal blocco cittadino di Tàllusa, veniva giù in pendìo dalle colline circostanti e lustrava in alto, nel biancore nubiloso dell'orizzonte.

L'automobile rallentò, piegò a destra, a sinistra, per iscansare un ingombro di veicoli, finchè dovè fermarsi, a una voltata, nell' intrico della circolazione.

Ruggero piegò il giornale, e, per dir qualche cosa, buttò là un'osservazione superflua:

«Che folla!»

«E che gusto! Staremo come le sardine, se Dio vuole!»

Il principe sorrise, nella sua olimpica serenità di uomo cui nulla valeva a turbare.

«E ne avremo per un pezzo! Figùrati: cominceranno alle cinque!»

Maria, impaziente, non replicò: ma la previsione del marito le fece torcer la bocca.

Un colpetto battuto nel vetro dello sportello, dal lato della principessa, li invitò a voltarsi: era la punta d'un ombrellino rosso fiammante, teso da una gran carrozza aperta, ricolma di piume di trine e di sorrisi. La prorietaria dell'ombrellino salutava con entusiasmo, e le compagne facevan coro con un gridìo che non giungeva distintamente all'orecchio dei Cerito.

«Le Bevasco.» disse Ruggero, portando la mano alla visiera del berretto.

Maria, di mala voglia, rese il saluto; ma non abbassò il vetro. Anzi premè tre volte la pompetta della tromba che comunicava col meccanico, e il segnale voleva dire «avanti, e presto». L'automobile si mosse subito, ma a fatica: il meccanico, per la prontezza dell'obbedienza, dovè lavorare d'occhio e di braccio e fare il sordo agli improperii e alle proteste degli altri guidatori. Il principe, che s'era accorto di tutto, rise di gusto.

«Ce l' hai, con le Bevasco!»

Maria, che nel conversare distendeva i proprii nervi, replicò senza acrimonia, con una bouomia biricchina:

«Ce l' ho con tutti questi cretini che vengono a Vezio….»

«Come noi!» interruppe il marito.

«Come noi!» approvò la signora «E noi forse non siamo cretini?

«Meno male! Ti rischiari!»

«Tutti!» continuava Maria, placando sempre più il malumore nella coscienza ironica delle sue audacie paradossali. «Tutti, ad eccezione di Sua Maestà il nostro degnissimo re che ha trovato più divertente il debutto di una qualsiasi Flora Mirabilis al Regio di Valtunia….»

«Macchè!… È andato per questo a Valtunia?»

«Per questo. E ha fatto bene. È più sincero di noi. Di' la verità: che cosa ti importa di Euripide e di I figenia?»

«Nulla!» confessò il principe ridendo.

«Ecco. Il re è del tuo parere; ma ha il coraggio di fare il proprio comodo, nonostante tutte le convenienze artistiche letterarie e mondane dell'universo. E ha ragione: tanto più che…. lui meno degli altri ci capirebbe qualche cosa!»

«Chi è di servizio oggi?» s' informò il principe.

«La Ribaudo e i Della Falce.»

Giungevano sulla piazza di Vezio formicolante come fosse in fiera. Scesero all' imboccatura, per non attardarsi nel folto delle carrozze, e Maria, saltando dall'automobile con la leggerezza di una bimba, respirò a pieni polmoni, contenta della polvere, contenta della calca, e dimentica dei furori di pocanzi.

«Eppure mi divertirò!» disse, prendendo il braccio del marito; e lo trattenne, per camminare adagio, per osservare.

Seguivano dappresso una comitiva di stranieri: donne e uomini carichi di sgabelli, di cuscini, di binocoli, di spolverine, di ombrelli: tutti occhialuti, biondastri, alti, magri, con certe scarpacce solide da alpinisti.

«Quelli là scambiano una rappresentazione classica col polo Nord. Vedi come son bardati?»

Due donne del popolo, dietro a loro, coi capelli polverosi e i ventri multiprolifici, informavano un soldatuccio di fanteria, mostrandogli ciascuna una tessera bianca: avevan parte ambedue di comparse in quella riesumazione dell'Ifigenia in Aulide nell'antichissimo teatro aperto di Vezio, e si davano un tono di mercatine indispensabili senza cui non si potesse mover foglia. Il soldato masticò, spropositandolo, il nome dell'eroina greca, e domandò:

«O che cos' è?»

L'una delle donne tacque, sopra pensiero; l'altra, franca franca, con una parlata sciolta e petulante, diede l' informazione richiesta:

«Il seguito del Quovadisse».

Il principe Ruggero strinse a sè la mano di sua moglie, e Maria susurrò:

«Cominciano i buoni effetti: la plebe respira l'aria del classicismo.»

La truppa dei Good — tre fratelli e due sorelle, milionarii, cavalcatori, giuocatori, superbamente oltracotanti coi borghesi, e coi nobili famigliari fino all' impertinenza —, la truppa dei Good li raggiunse: la principessa oppose una fermissima ritenutezza contro le loro numerose e rumorose strette di mano, e i cinque s'allontanarono con quei loro passi che parevan gettati via dal torso e con quel loro sgraziato sbilanciamento delle braccia, come fossero fantocci male avvitati.

«Uff! Che razza!» borbottò Maria, liberata dall'ossessione dei Good «Ma quando lo ripasseranno l' Oceano?»

Ruggero si fece avanti al cancelletto d' ingresso, e procurò alla meglio di difendere la compagna dal pigia pigia della folla. Daltronde l'eleganza della signora, la scintillante divisa militare di lui, e il nome di Cerito còlto dalle labbra di qualcuno che l'aveva pronunziato e ripetuto all' intorno aprirono un passaggio sufficientemente comodo al principe e a sua moglie.

In un momento essi furono sul ciglione erboso che sovrastava in semicerchio all'ampio digradare dell'antico teatro, e, mentre un vocìo saliva e si spandeva gaio e sonoro dalla gran conca umana, videro, in due colori di sole e d'ombra, un brulichìo immane di teste e un' irrequietezza di moltitudine riversantesi giù per il giro degli scalini concentrici come per tante cascatelle. In basso, il blocchetto quadrato dell'ara avvolta di verdi rami spiccava nel breve emiciclo prospettante la scena, su cui un'affaticata squadra di operai compiva frettolosamente gli ultimi preparativi.

«È magnifico!» esclamò il principe, pur rispondendo ai saluti di coloro che si ritraevano con premura per dar luogo a lui e alla signora.

Maria tacque, con gli occhi fissi più lontano, verso la luminosa profondità, della campagna che dilagava tranquilla sotto gli spruzzi degli alberi in fiore, e qui balzava improvvisa nel ripido ardimento di un poggio, e là mollemente si cullava nel gonfio respiro delle colline. L'aria aperta, in primavera, metteva nell'anima di Maria una dolcezza nostalgica imprecisabile e strana: nel fiato ella sentiva un odor soave come da una grappolata di glicine, nell'orecchio un fremito festante come da un volo di rondini: e gliene veniva una traboccante pienezza nel cuore, e un desiderio giovine di correre e di gridare.

«Ma guarda, guarda!» insisteva Ruggero con la mano tesa verso la folla.

E Maria guardò: pensò ancora un «cretini!», ma questa volta non lo disse.

Cominciarono a scendere, per trovar posto, soffermandosi di tanto in tanto, per salutare. Un' infinità di gente li conosceva, e qualcuno, vedendo la bellissima dama di corte, passò voce che la regina era per giungere: fu subito un alzarsi, un voltarsi, un interpellarsi, e centinaia di occhi si fissarono sul padiglione reale. La moglie di un funzionario, facendosi forte d'una recente presentazione e d'un sorriso ora assai gentilmente ricambiatole, domandò a Maria in modo da essere largamente udita:

«E la regina?»

Maria piegò la bocca a un monosillabo inintelligibile, e passò oltre, lasciando il circolo della grossolana interrogatrice nella più commossa e confusa agitazione.

«Oh, Dio!» susurrò la principessa, arrestando bruscamente il marito. «Tua zia! Se ci vede….»

Non potè finire, nè sottrarsi all' invito della vecchia contessa Bouturline: essa accennava loro con un sorriso che le scopriva i lunghi denti gialli, ed aveva già spiccato un messaggero per chiamarli vicini a sè. Pietro Bouturline, il figlio minore della contessa, li raggiunse facilmente.

«Abbiamo per l'appunto due posti liberi.» informò, baciando la mano di Maria. «Siamo coi Revedina.»

Alto, diritto, stecchito nell'uniforme attillata di tenente di cavalleria, Pietro li precedè per guidarli, mentre Ruggero faceva cenno a sua moglie d'aver pazienza. E Maria, che odiava gli affetti d'obbligo — com'ella stessa con una contraddizione rabbiosetta di parole classificava quelle parentele fredde e cerimoniose —, gli ricambiò un'occhiata carica di forzata rassegnazione. Il gruppo dei convitanti gli accolse con misurata cordialità, e la principessa sedè tra il cugino Gregorio e la moglie di Lotario, il maggiore dei Bouturline.

«Come sei elegante!» esclamò questa, sbirciando Maria con l'occhialetto: e fu chiaro, nel tono della voce, un agguato d' invidiuzza femminile.

La principessa le restituì un generoso complimento, e Costanzina Bouturline, soddisfatta, lasciò che il capitano Revedina tornisse un di que' madrigali che non avevano il pregio della novità, ma ch'ella ascoltava sempre volentieri in ispecie dalla bocca di coloro che la maldicenza del prossimo le dava come amanti.

La testa ossuta della vecchia contessa si protese oltre la corpulenza di Gregorio, per far colare negli orecchi di Maria una delle preziosissime osservazioni ch'ella usava stillare con lenta prosopopea quasi fossero gocce d'oro.

«Ho letta la traduzione dell'Ifigenia — io, nel testo, non posso leggerla: il greco non lo so —: è bella come una statua classica, armoniosa e pura.»

«Ah!» fece Maria; nè seppe diversamente replicare alla vuota e pappagallesca stoltezza della contessa.

La madre del capitano Revedina accolse con entusiasmo il giudizio dell'amica, e si scusò di non conoscere l' Ifigenia.

«L' ho chiesta al gabinetto di lettura;» disse «ma era fuori, in prestito, da tanto tempo.»

Gregorio ripeteva il gesto abituale, che gli cra quasi doventato un tic, di calcare col medio della mano destra la molla degli occhiali perennemente instabili e scivolanti sul suo naso adiposo e sudante.

«Macchè Euripide!» sentenziò, con un risolino che pareva una tossetta incurabile «Sofocle, Eschilo…. quelli sì, gli son superiori!»

Lotario e il principe Ruggero, in piedi, fumavano chiacchierando e guardando il pubblico. Pietro, al solito, stava zitto.

«Non sie di servizio, oggi?» domandò Costanzina.

«No.» rispose seccamente Maria, la quale, sebbene ci fosse sempre in mezzo, non poteva abituarsi all' insulsaggine di quelle conversazioni.

«è vero che il re non viene?»

La principessa stimò più prudente stringersi nelle spalle. Gregorio fece l'occhiolino, e, dopo il solito singhiozzetto della sua ilarità, disse, smorzando la voce:

«Il re è a Valtunia.»

Maria sviò il discorso, accennando le Bevasco che prendevan posto in mezzo ai Good, nell'altro settore soleggiato del teatro. Ruggero, vedendo che il punto di mira era comune, gettò a Costanzina la sua piacevolezza:

«Pare il reparto scimmie!»

«I Good» disse Maria «dovrebbero portarsene qualcuna nel luogo d'origine….»

«Nelle foreste vergini!» finì Gregorio, ridendo.

La contessa Bouturline aspettò che si ristabilisse il silenzio, per commentare:

«I Good sono tre, e le Bevasco sono quattro.»

«Che ingegno, che profondità!» pensò la principessa guardando sua zia, la quale, dopo aver parlato, rimaneva tronfia ad assaporare il succo dei proprii discorsi.

Poi, improvvisamente, si alzò con un gesto vivo di saluto verso una signorina che si trovava un po' più in basso.

«Chi è?» interrogò Costanzina, squadrando la sobrietà poco brillante dell'abito di colei che accaparrava il bel sorriso amichevole di Maria.

«La Rinaldi. Paola Rinaldi.»

«Rinaldi, Rinaldi….» cercò la giovane Bouturline «Ah! Quella…. quella che scrive?»

«Quella che scrive.»

«Dicono che sia una ragazza intelligente!»

«Dicono.»

Costanzina si volse al capitano, interpellandolo a proposito delle donne scrittrici.

«Scommetto» gli disse, protendendoglisi avanti come se si offrisse «Scommetto che lei preferisce le donne che si sanno vestire?…»

«E svestire!» ribattè pronto il Revedina con un riso sfacciato.

Costanzina gli percosse il ventaglio sul braccio.

Gregorio, che aveva veduta un'attrice di conoscenza, si scusò e andò a raggiungerla; Pietro, chiamato dalla madre, prese il posto del fratello.

«Che c'è tra quei due?» gli domandò la vecchia contessa, accennandogli la ragazza che Gregorio salutava.

«Non lo so!» rispose Pietro, che, pur avvezzo a tal genere d' inquisizione materna, non ancora sapeva difendersi da un subitaneo rossore di scrupolo e di fastidio.

La seconda domanda, prevista ed attesa, venne dopo un momento:

«Maritata?»

E Pietro, come sempre in simili casi, gettò l'affermazione invariabile:

«Maritata.»

«Ah!» fece la madre, con un respiro di sollievo «Pareva una bambina!»

«Infatti!» appoggiò Pietro con distratto candore «È l' ingenua della compagnia.»

«Le Fontanarosa!» avvertì premurosamente Costanzina.

Pietro arrossì fin nel bianco degli occhi e si voltò di scatto. Anche la contessa mostrò i segni del più vivo interessamento.

«Avevan detto che non sarebbero venute!» osservò tuttavia, cercandole tra la folla.

Le Fontanarosa, madre e figlia, si avvicinavano. Pietro dava ssguardi disperati all' intorno, per iscoprire qualche posto libero in prossimità. Maria colse a volo l'occasione, e, lieta in fondo al cuore di fare un piacere a Mimì Fontanarosa e a Pietro, ch'era l'unico dei Bouturline per cui provasse una certa simpatia, si mosse.

«Scusate…. Vado più giù, dalla Rinaldi: ho da dirle una cosa.»

Pietro la guardò con occhi di riconoscenza. La principessa chiamò suo marito, per indicargli il luogo che avrebbe occupato.

«Non vieni poi dalla regina?» le chiese Ruggero.

«Vai tu.» rispose Maria, e, con un rapido sorriso a Mimì Fontanarosa che la contessa Bouturline già baciava sulle due gote, scese uno due e tre scalini, e fu presso la Rinaldi.

Il loro saluto fu pieno di sincera cordialità. Si volevano infatti molto bene: ma la patrizia per indolenza, e la scrittrice per timidezza sapevano che il loro affetto sarebbe rimasto nella radice delle anime senza mai fiorire alla superficie d'una relazione stretta e continuata: anche pensavano che fosse meglio così, fermarsi ciascuna alla propria riva, lasciando fluire per il mezzo il corso della vita.

«Ho già assistito a una prova» disse la Rinaldi «l'altro giorno.»

«Bella?»

«Ecco….» fece Paola, come a prender tempo e a cercar le parole: ma fu evidente, da questo suo subito interrompersi, che le eccezioni sarebbero state troppe.

«Capisco, capisco….» e Maria, improvvisamente animandosi, esclamò: «Vede, signorina? Io sono un' ignorante…. No, no….» aggiunse con vivacità, troncando la protesta della Rinaldi «Non mi difenda, perchè ci tengo: sono un' ignorante: non ho mai avuto voglia di studiare, e son riuscita ad imparar sui libri e dai maestri il meno che fosse possibile. Sono un' ignorante, dunque: ma a volte sento le cose per istinto, come…. come le bestie. Non rida, perchè, dicendo così, credo di farmi un gran complimento: io stimo molto le bestie, anche più, assai più degli uomini. Ebbene, il mio istinto mi dice che lo spettacolo d'oggi è un errore ed è una profanazione. Badi, io m' intendo di tragedie greche quanto m' intendo d'algebra: ossia, affatto. Ma, osservando le cose intorno a me, ho finito con l'appropriarmi un codice di leggi che penso siano infallibili; e queste leggi me le ha date la coscienza ch' io ho della predisposta fatalità — se posso dir così — che regola gli avvenimenti umani. Guardi, per esempio: io son sicura che le distruzioni o le corrosioni operate dal tempo siano necessarie e ineluttabili. Tutti, entrando or ora nel teatro, dicevano magnifico; io no, e non m'è piaciuto. Lo ricorda, signorina, com'era il teatro, prima che ricostruissero gli scalini rovinati con queste pietose sanature di tavole e di mattoni? Ci fioriva il mentastro e la ginestra, e appena cinquecento persone avrebbero trovato posto per sedersi comodamente come si sta seduti oggi. Ora mi dica lei: crede davvero che oggi, tra queste cinque o seimila, ci sian più di cinquecento persone che possan capire, sinceramente, genuinamente, fervidamente, l' Ifigenia?…»

Paola sorrise.

«A me pare» riprese Maria «che debba esser così. Eppoi, se ne parla da tanto tempo! E ne parlan tutti, come se avessero Euripide e la Grecia intiera sulla punta delle dita: ma quando mai, e da chi, un discorso, una parola che scoprano l'entusiasmo vero e cosciente? A sentirli, m'è sembrato di leggere un di que' sunti letterarii che qualche volta si trovano sugli opuscoli reclame delle pillole ricostituenti o degli sciroppi per la tosse, tra una marca di fabbrica e una testimonianza di magica guarigione…. Non posso pensare al poi: anche le mie cameriere si crederanno in diritto di esprimere il loro parere: una mi ha già chiesto il permesso di assistere alla seconda rappresentazione. Del resto, guardi lì!» e accennò in alto, verso il cerchio esterno del teatro.

Paola rise, scorgendo in fila lassù una ventina di domestici in cappello a tuba de' quali riconobbe le livree da valletti di carrozza.

«Ha veduta Claudia Rossarol?» domandò, quasi a mostrare che c'era pure un'eletta categoria di spettatori.

«No.» disse Maria, senza premura «Dov'è?»

Paola tese la mano.

«Quasi di fronte a noi» indicò «sotto quel gruppo di ufficiali.»

«Vestita di nero?»

«Proprio lei.» accertò la Rinaldi, porgendo il binocolo alla principessa.

Maria guardò un momento, poi fece:

«Ah!»

Paola sorrise, e osservò:

«Pare che la Rossarol non la interessi molto!»

«Oh, Dio!» si schermì la principessa «Le attrici, in genere, m' interessanó poco.»

«Tuttavia la Rossarol….» oppose Paola; ma fu interrotta dalla sua irreducibile interlocutrice.

«Non discuto, non discuto!» esclamò questa ridendo «Ma, creda a me, i più sfrenati adoratori son coloro appunto che rendono alla Rossarol il peggior servizio. Se lo immagina? Domani leggeremo sui giornali una filza di apprezzamenti che faranno fremere quella povera donna laggiù.»

«Perchè?» domandò Paola candidamente.

«Ma sicuro! Uno scriverà, presso a poco: “Assisteva la grande musa tragica che da troppo tempo tace e no si mostra: nel viso stanco e distrutto passavano lampi misteriosi….” E un altro: “Gli occhi soli vivevano nel consunto pallore del volto….” E un altro: “Stava ripiegata su sè stessa, e il fato della tragedia greca pareva gravarle sulle esili spalle, mentre lo sguardo ardente e doloroso splendeva etc. etc….” Ride?» domandò, interrompendosi, con la biricchina persuasione d'essere un'osservatrice arguta.

Paola rideva davvero, e di gusto.

«Ha ragione, ha ragione…. Non ci avevo pensato!»

«Eppure» proseguì Maria «son le cose che si leggono…. E così, veh! credono in buona fede di farle un complimento alla loro Rossarol…. Se non ci fosse l' isterismo reboante della frase a effetto, bisognerebbe dar querela a questi descrittori!»

Paola puntò di nuovo il binocolo verso l'attrice; e la principessa le chiese:

«La conosce di persona?»

«Non le ho mai parlato, sebbene conservi ancora una rosa disseccata che viene da lei: ne mandò un fascio, tutte bianche, a me e a tre mie compagne d'università che ronzavamo sempre intorno alla sua casa come innamorate. Era un delirio. Cominciammo con l' inviarle due piantine d'azalea — si figura che gran dono?… —; eppoi osammo suonare alla sua porta per esser ricevute. La cameriera c' intimidiva enormemente, più della stessa Rossarol con la quale, in tutto candore, sentivamo una certa intimità di anime affini: una cameriera tremenda, anziana, sgraziata, con un ciuffo di peli sul mento e uno sguardo crucciato e sospettoso. Tuttavia ci fece entrare, e ci lasciò nell'anticamera — un corridoretto oscuro, tappezzato in rosso cupo —. Noi tremavamo, senza fiato: e udimmo la sua voce, indistinta nelle parole, ma nel tono chiaramente stizzita. La cerbera tornò, ci mise fuor dell'uscio, informandoci che la signora non c'era. E noi via, come cani frustati; ma con la fiamma dell'entusiasmo sempre viva ed alta nel cuore. E continuammo a mandare azalee, finchè ci giunse dalla Rossarol un bigliettino d' invito. Andammo, s' immagini in quale stato di esaltazione: eppure nessuna aveva il coraggio di suonare il campanello, per paura della cameriera: finalmente, spingendoci l'una l'altra, ascoltammo il trillo elettrico svegliato dalle nostre mani e dalla nostra aspettativa…. La cameriera, con un sorriso abbastanza gentile, ci disse che la signora si scusava, ma aveva dovuto recarsi a una ripetissionc. E noi, ostinate, escogitammo un'offerta che ci parve racchiudere il più squisito e delicato pensiero: un dramma, una delle creazioni della Rossarol, nell'unica edizioncella che riuscimmo a scovare e che facemmo rilegare in pergamena con sobrietà di fregi dorati. Per ricambio avemmo una letterina in inchiostro viola, a larghissimi caratteri, e quel tale fascio di rose bianche. L'autografo restò a me; ma la Rossarol non ci ricevè mai…. Ricordi lontani, che mi fanno sorridere, e fanno sorridere le mie compagne, quando li rievochiamo….»

«Però l'ammirazione è rimasta?»

Paola accennò di sì, replicatamente; e aggiunse, con un tono di scusa scherzosa al poco fervore della dama:

«Ed anche l'adorazione, principessa!»

«Ma è meglio ora, sa?» osservò Maria «Saper tacere il proprio omaggio è a volte la più grande offerta di devozione.»

«Vede?» disse Paola dopo un momento «Il mio cantuccio è doventato un centro di pubblica attenzione…. Tutti la riconoscono!»

«O riconoscon lei!» corresse la principessa.

«No, no…. Gli sguardi sono molti più di quei pochissimi che di solito mi sono indirizzati. E….» aggiunse con un'esitazione sorridente, «la letteratura non è mai fissata con occhi di tanto vivo compiacimento!»

Maria si schermì dalla sincera lusinga di quelle parole:

«Sono incerti del mestiere: aureola di corte!»

«La regina!» esclamò Paola, pensosa «La vede tutti i giorni?»

«Se non tutti, quasi.»

«Dev'essere infinitamente buona, noh?»

«Oh, sì!»

Avevano abbassato la voce, e la Rinaldi indugiava nelle interrogazioni generiche, per non ferire con la vivezza del proprio interessamento la grazia cordiale della principessa.

«È intelligente?»

«Molto: ma…. vede la vita tragica, senza saper discernere quello che può valerne la pena da quello che non mette conto d'esser preso sul serio. È profondamente ingenua, e non acquisterà mai l'esperienza delle cose.»

Paola, dopo aver riflettuto un momento, azzardò la sua domanda, velandola con un sorriso di timidezza:

«Ora, principessa, lei inorridirà della mia ignoranza…. Ma, che vuole? È un mondo così lontano da me!… Non so immaginarlo…. L'etichetta delle forme, a corte, non s'allenta mai?»

Maria lietamente la incoraggiò:

«Non inorridisco, perchè il suo è un dubbio più che naturale. Lontana da quel mondo lei è, sì, materialmente; ma non spiritualmente. Se ci vivesse in mezzo due giorni, finirebbe col non trovarci nulla di straordinario. No, no: alla reggia si sta come in uno dei nostri salotti, con un po' più di amido e un po' più di noia: non altro.»

«La regina non ha amiche?»

«Amiche? Non saprei…. È gentilissima con tutte: con me un po' meno che con le altre: non so se per antipatia, o se per segno di maggiore stima».

La Rinaldi la guardò, senza comprendere.

«Sì.» spiegò la principessa «Potrebbe anche essere che mi considerasse un po' oltre la vernice mondana e quindi con me si riposasse, quando è stanca, dalla tensione dell'esteriorità. Ma forse è soltanto antipatia!…»

«Antipatia no, non può essere!» fece Paola, convinta.

«Vero, eh?» esclamò, ridendo, la principessa; poi, tornando alla serietà delle sue confidenze: «Ha una tenerezza immensa peril il fratello….»

«Il piccolo duca?» interruppe la Rinaldi vivacemente.

«Il piccolo duca, sì, o, meglio, il granduca Stefanolo di Planacomba…. Un eroe leggendario: eroe di passività e di tristezza…. Povero ragazzo!» commentò poi, con intensa espressione di simpatia.

«Lo conosce?… Mi perdoni, mi perdoni!» disse quindi Paolo senza attender la risposta «La mia curiosità deve parerle gretta, e….»

Maria non la lasciò finire.

«In lei no: per questo oggi le ho detto tanto, e di argomenti tanto riservati. Lo conosco, sì: fui per due settimane nel castello di Planacomba, con la regina. Ho avuta perciò l'occasione — rarissima davvero — di vederlo spesso e di parlargli qualche volta. Alcuni lo fanno passare per pazzo, altri per moribondo: non è nè pazzo, nè moribondo: malatissimo e un po' maniaco, questo sì. Una malattia strana, che no ha nome, credo, in medicina: si esaurisce in lui una gran razza d' imperatori fastosi e di principi gaudenti…. Grave peso, per un ragazzo che non ha venti anni!»

«è vero che somiglia la regina come goccia a goccia?»

«Verissimo: una somiglianza da fare impressione…. Fin la voce si scambierebbe. Il granduca è più magro; la regina è un po' più alta: son le uniche diversità. Ma la regina, pur sempre così pallida, ha una salute di ferro; e lui….»

Una profonda scappellata, giù, dallo spazio libero vicino alla scena, le fece attente ambedue.

«O'Anghelos!» esclamò Paola.

Questa volta Maria guardò dirittamente, con un' intenzione manifesta che andava oltre la curiosità. Marino d'Anghelos aveva incastrato il monocolo nell'orbita, e il gesto, mosso con studiata lentezza, dava all'esame di lui un carattere d' insolenza, quasi una pacata e sicura presa di possesso. Allora la dama di corte, dopo avere per un lungo momento sostenuto lo scintillìo freddo ed acuto del cristallo fissato su lei, distornò gli occhi, e si raccolse in un sussulto delle spalle che la Rinaldi non seppe intendere se generato da noncuranza o da malessere.

«Lo conosce?» domandò alla principessa, pur fatta accorta dalla sfacciata insistenza dello sguardo di d'Anghelos che tra i due non doveva esser corsa una presentazione.

«Di vista, com'è naturale.» rispose Maria «Lei sì, non è vero?»

«Poco: tanto quanto basta per riceverne il saluto.»

Quasi involontariamente gli occhi di Paola e della principessa si volsero verso il luogo dove sedeva Claudia Rossarol, la grande attrice: per la lontananza non potevano distinguerne il lineamento; solo la videro stretta in un'ampio mantello, come se, in mezzo al tepore dei raggi primaverili, il freddo l'avesse còlta. Questa simultanea direzione dei loro sguardi le fece sorridere: ma non dissero nulla.

L' improvviso agitarsi della folla troncò le conversazioni: giungeva la regina. Crepitò un applauso, isolato: e sùbito lo scoppio dell'entusiasmo popolare si levò in una fragorosa dimostrazione di saluto.

Wanda Romagnano Paleologo, regina di Venustria, nata dai granduchi di Planacomba, era apparsa nella tenda reale e vi s'affacciava con lieve inchino alla festosa accoglienza della folla. Dietro a lei due dame e un gentiluomo muovevano i seggioloni d'altissima spalliera bordata che stavan presso e dattorno alla poltrona della sovrana. Mentre l'applauso smoriva e una musica invisibile attaccava le note — or gravi come un canto chiesastico, or rimbalzanti come una cadenza di marcia — dell'inno venustriano, Maria informò Paola Rinaldi:

«Vede, là, a sinistra della regina?… È la marchesa Ribaudo…. Carina? Sì, molto: e molto elegante anche…. L'altra è una dama di palazzo: la principessa Della Falce, col marito, gran maestro di cerimonia.»; poi sùbito disse: «Mi sia guida lei, ora…. Che cosa fanno?» e accennò ad Armando Lodi, l'organizzatore della rappresentazione, che, nello spazio libero sotto l'ultimo scalino occupato dal pubblico, impartiva ordini a due operai.

«Ah!…» esclamò la Rinaldi «Stia attenta: forse accendono il fuoco nell'ara…. Fuoco sacro, veh!»; e sorrise, guardando la compagna.

«Non dubiti!» ribattè la principessa, scherzando «Sono compresa del prodigio.»

Una fiamma, dal blocchetto inverzurato dell'ara, fiorì improvvisamente come una gran pigna tortuosa e saltellante: gli occhi, anzi, non ne sostenevano il tremito ardente. Si levò, per la folla, un mormorar di proteste:

«Non ci si vede!… Non ci si vede!…»

Armando Lodi, a qualcuno dei più vicini che direttamente lo interpellava, fe' un gesto, come a dire “aspettate”; e infatti la vampata s'allungò, s'affinò, s'appiattì, guizzò di nuovo con un balzo, quasi liberandosi dal sostegno alimentatore, piegò a destra, a sinistra, vacillò, disparve, e solo ne restò un breve crepitìo fumoso che presto tacque, mentre l'odore molle delle resine bruciate vagò per l'aria in un ondulamento di respiri.

La tenda reale si popolava di gentiluomini e di ufficiali. La principessa, cortesemente, preveniva le domande della Rinaldi.

«Il duca di Varo…. sì, quello che s'affaccia ora dal palco: intelligente, certo, ma disperde troppo le facoltà che Dio gli ha date…. Guardi, guardi: il generale Costanzo, là, dietro la regina: no, non è in uniforme…. Vede? Una barbetta bianca, a punta…. Sì, ecco: è lui.»

«E quell'ufficiale?» interrogò Paola.

«Quale?»

«Ma…. ufficiale medico, mi sembra: viene avanti ora…. bacia la mano della regina.»

«Ah !» fece Maria «è mio marito.»

La Rinaldi guardò attentamente il principe Ruggero, e quindi portò il proprio esame sulla compagna.

«Una bella coppia.» concluse, sorridendo.

«Perbaccó!» esclamò gaiamente la principessa.

Quasi obbedendo a un rapido richiamo, i pochi che, rimasti in piedi, circolavano per gli spazii liberi s'affrettarono a raggiungere i proprii posti. Marino d'Anghelos passò lentamente sotto la gradinata dov'era la principessa, ed ancora il pacato e fermo sguardo di lui la cercò traverso allo scintillìo del monocolo.

Tutto, in un momento, fu silenzio ed attesa.

Uno squillo si levò per la campagna, lungo sonoro: poi si spense dolce dolce in una nota cantante. Parve, a quei pochi tra gli spettatori che conoscevano il miracolo della poesia greca, parve che il lento sònito argentino svegliasse i miti dal sonno secolare: un'ansia quasi angosciosa li tenne, e il brivido religioso ingorgò il respiro nei petti. Gli altri, i profani, percossi da una vaga commozione si fecero attenti al rivelarsi della bellezza nuova.

Già, sulla scena, Agamennone usciva dalla costruzione finta a rappresentare la tenda d'accampamento in Aulide, e già, invitato da lui, il vecchissimo servo lo seguiva. Le prime parole dell'Atride che scruta il cielo all'approssimarsi dell'alba, e studia le stelle, e lamenta il ristagno dei venti sul mare si dilatarono nella solennità delle immagini sobrie che quasi modestamente velavano l'èmpito dello splendore poetico; ed il servo canuto, con la sua tarda e paziente filosofia che persuade il re ad una più pacata visione delle cose, metteva nella concitazione del dialogo una compostezza sentenziosa d' ingenua serenità. E narrava, Agamennone, come a lui — prescelto dai Greci a guidare la vendetta di Menelao contro Paride, il rapitore dell'adultera Elena — l' indovino Calcante abbia prescritto di sacrificare la figlia Ifigenia sull'altare di Artemide onde propiziare all'armata la buona navigazione dal porto di Aulide verso la distruzione dei Frigi. Agamennone vuole e disuole: già avendo chiamata Ifigenia col pretesto di darla in moglie ad Achille, ora il suo cuore paterno si ribella al voto disumano ed egli comanda al servo di recare un messaggio a Clitennestra perchè arresti la venuta della fanciulla ignara.

Ed ecco, sulla scena novamente deserta, apparire una schiera di giovinette biancovestite e inghirlandate: uscenti dalla gola buia d'un portico fondo, esse avanzavano leggermente sulla mollezza dei sandali, e circondavano l'ara: quattro vi s'appoggiarono vicine, e ne furono come gli spigoli viventi, dritte nei ricchissimi pepli, coronate di più vividi fiori. Ma un tenue ritmo che sgorgava da invisibile fonte sùbito scompigliò la simmetria e le invitò alla danza: si mossero con giri alterni, lievi sul suolo erboso come uno svolìo di colombelle, e più e più volte s'aggrupparono e disciolsero, illustrando tacite le figure della fievole armonia. Poi cessò la musica, e le candide pellegrine s'accolsero immobili secondo il disegno in cui già prima si erano ordinate.

Così il coro delle calcidiche vergini, nate sulle rive dell'Aretusa, apprestavasi a rivedere e compatire il sacrificio trionfante d'Ifigenia, stirpe d'eroi. E sotto il cielo limpido e mite del vespro che s'accennava in un chiaro permanere di lucentezze a ombra del sole calante, dai ruderi del teatro antichissimo alitò nell'aria primaverile l'arguto stupore delle voci femminee. Dall'una all'altra le quattro corifèe vicendevolmente passavano il discorso che, stillante di freschezza nella descrizione del cammino compiuto per giungere in Aulide ad ammirare la magnificenza possente dell'armata greca, si gonfiava d'un soffio leggendario a nominarne i guerrieri veduti: Ajace di Telamone e Ajace d'Oileo, Protesilao e Palamende, il divino Ulisse e Nireo — il più bello dei Greci —, e Achille — figlio di Teti e allievo di Chirone — corrente a piedi e tutto in armi a gara d'un carro trainato da quattro cavalli. Indi la percossa fantasia delle vergini coloriva di pittoreschi attributi il ricordo del naviglio cospicuo: i cinquanta legni impetuosi dei Mirmidoni recanti sulla poppa l'emblema d'oro delle dee Nereidi; e, in egual numero di vele, la flotta degli Argivi; ed i sessanta vascelli dell'Attica segnati dall' immagine di Pallade sul carro alato; e quelli dei Beoti cui è simbolo il drago di Cadmo; e quelli dei Focesi e quelli dei Locridi; e le cento navi di Micene, città dei Ciclopi; e le navi di Pilo fregiate dal tauriforme fiume Alfeo; e quelle degli Epèi; e equelle, di bianchi remi, che Megete conduce dalle inaccesse Echinadi; e tutte e tutte…. finchè la terza antistrofa del coro si concludeva nell'asserto dell' invincibile potenza ellenica.

Or qui — dopo il diverbio di Menelao, che ha sorpreso e ricacciato indietro il vecchio messaggero, con Agamennone, il quale è agitato tra l'amor paterno e il timore della vendetta dei Greci s'egli deluda l'oracolo divino —, or qui l'arrivo di Ifigenia, accompagnata dalla madre Clitenuestra e dal tenero fratello Oreste, ingrandiva la visione fantastica fuor dei convenzionali e angusti limiti delle scene dipinte. Infatti avanzava di lontano, lungo un vialetto tortuoso tagliato tra i bossi, un cocchio aggiogato di sei cavalle bianche: le code fluenti spumeggiavano battute dal vento, e i colli tenuti in arco dalle tirelle purpuree davano un saldo ed ornativo appoggio alle teste lunghe e nervose ed alla irrequieta insofferenza dei freni; il segno purpureo s'allargava sui vigorosi petti equini in più vasto fregio; e le zampe, mosse simultaneamente nella composta maestà dei passi concordi, s'allungavano e si piegavano al ritmo della corsa. Il modo inaspettato del giungere, e quel tràino pomposo che sbucava dal fondo remoto della campagna come se veramente volesse partecipi allo scenario poetico i puri elementi e la dolce stagione fecer sì che un ampio soffio di miracolo involgesse le persone e le parole. Ne zampillò, mentre le vergini del coro s'affaccendavano intorno alle sopravvenute, più vivace e più tenera e più accorata la vena del dialogo tra la figlia gaiamente inconscia ed il padre tristemente consapevole.

«Dammi» questi le dice «la tua mano destra, e baciami: amaro bacio, poichè a lungo dovrai rimanertene lontana dal padre…. Oh! dolce petto e dolce riso, oh! biondi capelli, come la città dei Frigi ed Elena sono a voi gravi e funeste!… I miei occhi, se ti tocco, si bagnano di lagrime!… Va', va': entra nella casa, o figlia.»

E ella casa Clitennestra raggiungeva Ifigenia, ed Agamennone ancora s'allontanava per consultare l' indovino Calcante.

Novamente il coro riprendeva la magnificazione bellica e preconizzava il rimorso dell'adultera suscitatrice di tanta strage:

«Verrà, dunque, verrà con le sue navi e con la sua forza guerresca l'armata dei Greci alle turbinose onde argentine del Simoenta: verrà innanzi ad Ilio, innanzi all'apollinea pianura troiana dove è fama che Cassandra, coronata di vividi lauri, lasci fluire al vento le bionde chiome quando il dio la inspira co' suoi fatali soffi profetici. Staranno i Frigi attorno alle mura di Troja, mentre sui rapidi vascelli Marte vestito di bronzo giungerà spinto dai remi per le acque del Simoenta e vorrà con gli scudi e con le lance dei Greci ricondurre in terra greca, via dalle case di Priamo, Elena, sorella dei celesti Dioscuri. Poi, avviluppando di punte omicide Pergamo — arce dei Frigi — e le sue torri di pietra, strappando le teste troncate con le spade, rovinando intiera la città, spremerà il pianto dagli occhi delle figlie e della sposa di Priamo. Allora la figlia di Giove, Elena, verserà molte lagrime per avere abbandonato il suo sposo. Oh, che io non provi mai — nè io, nè i geniti della mia genitura — questo che alle donne dei Frigi farà dire: “Chi, ah, chi, trascinandomi così lamentevolmente per le chiome intrecciate, mi svellerà dalla mia patria perduta?… E sarà per tua colpa, o figlia del cigno dal lungo collo, se pure è vera tradizione che Leda t'abbia partorita all'uccello alato sotto la cui apparenza s'era trasformato il dio, o se piuttosto il racconto non sia che una leggenda vana falsamente serbata agli uomini elle favole delle Pieridi!”».

Tali deprecazioni faceva il coro, e taceva all'appressarsi d'Achille: mossagli incontro Clitennestra e parlando di nozze a lui che nulla sa dell'ordito inganno, sopravviene il servo ed all'una ed al'altro dichiara la verità pictosa. Or ecco Clitennestra umiliarsi nella polvere e scongiurare l'attonito eroe con ardente passione:

«Non arrossisco io, no, di cadere alle tue ginocchia, io mortale, a te nato d'una dea. Soccorri, o divino, la mia sventura e colei che vanamente fu chiamata tua sposa. Io te la conducevo qui perchè fosse la tua compagna, per te io l'avevo coronata…. e me la sgozzeranno. Per il tuo capo, e per la tua mano destra, e per tua madre ti supplico. Il tuo nome mi ha perduta, ed è giusto che il tuo nome mi salvi. Non ho alcun altro altare ove rifugiarmi, se non le tue ginocchia; non ho amici, all' infuori di te. Tu hai udito il crudele e protervo proposito di Agamennone: e che posso io fare, io donna, in mezzo ad un'armata d'uomini pronti al male e senza freno? Osa stendere su me la tua mano protettrice, e saremo salve; se tu rifiuti, la rovina è su noi.»

Queste ed altre parole singultava la misera, e prometteva Achille valido aiuto. Accordatisi i due per tentare il salvamento della giovinetta, l'esuberante onda poetica del coro tornava a versare i suoi nitidi splendori, esaltando la sorte di Teti e compiangendo quella d' Ifigenia:

«Oh, quale dolcissimo canto nuziale sgorgò dai flauti e dalle cetre quando le Pieridi di belle chiome vennero ai suoni ed alle danze per le immortali nozze di Pèlco: coi sandali d'oro batterono il suolo, e per le selvi dei monti ombrosi — care dimore a' Centauri — con voce soave levaron la lode del figlio d' Eaco e di Teti divina. Qui dal cratere di fianchi dorati attinse il bere agli dèi Ganimede, celeste coppiere di Giove; e sulla sabbia di bianco splendente le figlie di Nèreo, marina prole, girando in cerchio tesseron caròle per celebrare col ritmo de'passi le fauste nozze. Ed i Centauri, equestre frotta, cinti di verdi erbose ghirlande, venner brandendo le lance di pino, e conclamarono: “Chirone, esperto di profezie, l'annunzio ha dato. Una gran luce, o figlia di Nèreo, una gran luce di te nascerà: andrà il tuo figlio co' suoi Mirmidoni scudati e astati, e incendierà l'arce e la terra di Priamo: sarà vestito con armi d'oro, dono materno e lavoro del dio Vulcano”. Così sancirono gli dèi le nozze. Ma te gli Argivi, o Ifigenia, non per le nozze, sì per la morte coroneranno: inghirlandata, le belle chiome, come giovenca di pel maculato uscita pura dagli antri del monte, sprizzerà il sangue dalla tua gola: nè tu fosti nudrita al suon delle canzoni pastorali e ai gridi dei bovari, ma alle cure crescesti d'una madre che t'allevava perchè fossi sposa d'uno dei figli d' Inaco.»

E di nuovo Agamennone veniva a fronte di Clitennestra e dei figliuoli.

«Perchè, bambina, perchè piangi?» domandava a Ifigenia il re, celando male l'ansia e il turbamento «Perchè non mi guardi più con candido riso, e, fitti gli occhi al suolo, ti copri il volto?»

Gli rispondeva Clitennestra dirittamente accusandolo e imprendendo con lungo discorso a dissuaderlo dalla funesta decisione. E Ifigenia, tutta tenera e implorante:

«O padre, perchè non ho io la blanda voce d' Orfeo che affascinando muoveva le pietre e tutti raddolciva co' suoi canti?… Ma io non posseggo altra scienza che quella del pianto, e ti offro le mie lagrime. Alle tue ginocchia avvinco, supplice ramo, il corpo che Clitennestra diede al giorno per te. Ah, non farmi morire innanzi tempo: è così dolce vedere la luce! Non fare che io scenda alle dimore sotterranee!… Per prima io ti chiamai col nome di padre, e tu mi chiamasti figlia; per prima, raccolta tra le tue braccia, ti donai le mie carezze, e tu a me. E mi dicevi: “Potrò vederti, o figlia, nella casa d'uno sposo vivere felice e florida com'è degno di me?” Ed io rispondevo, attaccata al tuo collo e col viso premuto contro la tua barba che pur ora la mia mano ti tocca: «“Quali voti formerò io per te? Quando sarai fatto vecchio, potrò accoglierti con tenera ospitalità nella mia casa, e, grata, circondarti di cure?” Io sì, io serbo la memoria di quelle parole, ma non tu: tu che le hai dimenticate e vuoi trarmi alla morte…. No, te ne scongiuro in nome di Pelope, e per tuo padre, e per la madre mia qui presente che, dopo avermi partorito con dolore, un'altra volta soffre e si tortura…. Ma che c'è di comune tra me e gli amori di Paride? Donde egli venne alla mia perdizione?… Volgi, o padre, gli occhi verso me: concedimi uno sguardo ed un bacio, perchè almeno io porti meco morendo questo ricordo di te, se le mie preghiere non valgono a piegarti…. O fratel mio, Oreste, ancor troppo debole difensore sei tu pe' tuoi cari; ma piangi, piangi con me, e chiedi a nostro padre che non faccia morir la tua sorella!… Anche i fanciulli hanno l' intuizione della sventura: ed il piccolo Oreste, vedi, senza parlare ti supplica. Ah, risparmiami, abbi pietà della mia vita!… Noi, noi che tu ami, ambedue ti supplichiamo, lui tenero bimbo ed io giovinetta…. Padre, niente di più dolce agli uomini che vedere la luce: insensato è chi desidera la morte! Meglio vivere infelicemente che gloriosamente morire.»

Tale si spandeva per l'aria l'ardente prece della fanciulla, ed era simile, quella sua voce chiara che i singulti rompevano, a un corso di limpide acque cui facessero intoppo le rozze punte delle pietre: e saliva, l'affannata implorazione, su dalle caste labbra verso il lume del cielo che pareva intenerirsi e compiangere. Più concente ne risultava l' inflessibile angoscia del padre, e più duro il suo improvviso partire.

«Ahimè, ahimè!» lamentava Ifigenia «O madre, madre, una stessa dolente querela conviene ormai a te ed a me. è finita: non vedrò più il giorno, nè lo splendore del sole. Ahimè, o valli nevose della Frigia, e voi, montagne dell' Ida, che foste culla a Paride, a quel Paride che fu allevato come un bovaro tra i bovi, quant'era meglio ch'egli, bambinetto, non fosse stato mai deposto in vicinanza dell'onda cristallina, là, ove sono le sorgenti delle Ninfe e la prateria smagliante di freschi virgulti e le rose e i giacinti, florida mèsse che colgono le dee!… Se ne va colui che mi ha generata, o me misera, se ne va e m'abbandona indifesa…. O madre, madre, infelice ch' io sono!… Oh, quannt'è amara per me Elena fatale!… Sarò uccisa, e morrò empiamente assassinata dalla mano empia del padre!»

Così il canoro flutto ancora si frangeva ai rudi spigoli della funebre necessità, e quale si ripercote il murmure del ruscello nelle conche delle vallette brevi, tale faceva il coro eco ai singhiozzi.

Ma il pianto ed il compianto non reggono a lungo. Achille, venuto con un manipolo d'uomini ad aiutar la giovinetta, non nasconde che la lotta sarà difficile e che aspre e sanguinose contese divamperanno nell'accampamento dei Greci: financo i suoi Mirmidoni — essi anzi per primi — gli rifiutano l'obbedienza ed ostilmente minacciano; e bisognerà ch'egli con pochi altri s'opponga alla moltitudine in armi che Ulisse sta per condurre onde trarre Ifigenia al sacrificio. Lo strazio fratricida, dunque, sarà il grave prezzo alla pur malsicura salvezza della vergine.

E d'un tratto fiorisce, ferma e adamantina, la parola d' Ifigenia, e il miracolo eroico prorompe.

«O madre, e tu, straniero, ascoltatemi, e udite la mia decisione. Io son risoluta a morire: e questa morte voglio riceverla gloriosamente, ripudiando lontano da me ogni debole sentimento. Su me l' Ellade tutta — l'immensa Ellade — fissa ora i suoi sguardi; e sta in me, unicamente in me, la partenza della flotta e la disfatta dei Frigi, così che i barbari, avendo crudelmente espiata la colpa del loro Paride, non attentino più alle donne e alle spose della Grecia felice. Questo sarà il frutto della mia morte, e, liberatrice della patria, gioirò d'una gloria divina. Ecco, offro il mio corpo alla Grecia: uccidetemi, e siate vincitori. I secoli serberanno a lungo la mia memoria.»

«Figlia d'Agamennone» le risponde Achille «un dio farebbe la mia felicità, se m'accordasse d'averti in isposa. Più forte cresce nel mio cuore il desiderio di te. Rifletti dunque: io son pronto ad aiutarti e a tenerti compagna nella mia casa: sarei disperato — e Teti me ne sia testimone — se non ti salvassi a costo della mia vita contro tutti i Greci. Pensa, o Ifigenia: la morte è un terribile male.»

«No, no: troppe battaglie e troppe stragi è già costata la bellezza di Elena. Tu non devi morire per me, o straniero, nè uccidere alcuno. Lascia che io salvi la Grecia!»

Voli di rondini si versavano giù, trillando, dalla chiarità serena: pareva si tuffassero a fiore del gran flutto umano, e ne rapissero cantando l'eterno divino ideale. Precipitavano a stormi, saettando e gridando; s' inseguivano vicine e turbinavan veloci; poi, d'un balzo, lampeggiavano alte nel sole.

«Madre, non piangere. E voi, giovinette, esaltate la mia sorte, onorando Artemide, figlia di Giove. Che l' inno si levi, e sia fortunato presagio alla Grecia. Preparate i canestri, e divori la fiamma i grani dell'orzo lustrale. Si ponga mio padre a destra dell'ara: io vado, e dono ai Greci salvezza e vittoria. Conducetemi, conducete me che distruggo Ilio ed i Frigi. Inghirlandate i miei capelli; portate l'acqua per le libazioni; celebrate Artemide, danzando intorno al suo tempio, intorno al suo altare, Artemide sovrana, Artemide beata: e valga il mio sangue a cancellare l'oracolo che trattiene la flotta!»

Fitte e brune le rondini scendevano e salivano tra terra e cielo, gittando richiami e cerchiando lo spazio di rapidissimi giri. Un vento lieve scavalcò l'insellatura delle colline e venne, fino e diritto, ad arruffare le fronde e a flettere i rami: il frùscio si propagò per la campagna come un estatico susurro. Aperto e fresco il grido d'Ifigenia raggiunse nel cielo le argute aeree pellegrine.

«O veneranda, veneranda mia madre: ora sì, ora per un istante ti darò le mie lagrime, chè poi non mi conviene versarne. O terra natale, o Argo e Micene, care dimore! Quivi io nacqui alla salvezza della Grecia, nè però la morte mi duole.»

Il vespro tingeva di molli colori opalini i tenui veli dell'ètere, e il vento soave, più largo e più lene, portava un respiro fragrante di fiori novelli. Rondini e rondini, più basse, più alte, salutavano con strepito giocondo il lungo tramonto.

«Giorno che rechi la fiamma del sole, lume raggiante di Giove, io trasvolo ad altra vita, ad altro destino. O dolce luce, addio!»

Se ne va, se ne va Ifigenia, cigno dell'Ellade; ed avanza, trionfatrice dell'alta Ilio, per abbandonare al ferro omicida la tenera gola, onde irrori il suo sangue la sacra pietra della dea crudele. Incoronata di rose, ella dispare, splendente visione di gloria.

Or la musica invisibile ridesta le danze del coro. È dapprima un lento e quasi torbido gocciare d'accordi brevi e tronchi che misurano, ad uno ad uno, i passi gravi e solenni delle saltatrici. Poi l'armonia s'illimpidisce ed affretta, e cresce, all'unisono, la rapidità dei balzi leggeri. Il suono s'affioca, più dolce: il movimento lo segue, com posto e pieghevole. Pause e fughe s'addoppiano: e il ballo, docile, le illustra. Infine s'avventa, sonoro, un gaio trionfante tumulto: è un'ebbrezza di volteggi e d'arpeggi, e così esatta è al ritmo degli strumenti la rispondenza delle vertiginose e candide ghirlande creantisi e dissolventisi sull'erba smeraldina, che le due sublimi arti della tragedia — musica e danza — l'una l'altra si sovrappongono e si colmano in conclusa pienezza. Indi, come s'afforzò, tale si spegne il festante tripudio: e il silenzio si fa profondo all'arrivo del messaggero che reca a Clitennestra la narrazione del sacrificio compiuto.

«Quando giungemmo al bosco sacro della divina Artemide, e al florido prato dove l'armata dei Greci stava raccolta, i guerrieri subito si strinsero in folla intorno a Ifigenia; e il re Agamennone, vedendo la figlia avanzare al sacrificio, gittò un lungo gemito, distolse il capo e si coperse il volto per nascondere il pianto. Ma lei, fattaglisi dappresso, così gli parlò: “Eccomi, o padre. Volentieri abbandono il mio corpo sull'altare della dea, perchè sia immolato alla salvezza della patria e di tutta la Grecia. Il mio augurio è questo: vivete felici, e, ottenuta la lancia che porta vittoria, fate ritorno alla vostra terra natale. Che nessuno mi tocchi: coraggiosamente offrirò la mia gola in silenzio”. Tali cose ella disse, e ciascuno, undendola, ammirò il grande animo e la virtù della vergine. Poi, nel mezzo dell'adunata, Taltibio, cui ciò era cura, comandò raccoglimento e silenzio. Ora l'indovino Calcante, estrattala di sua mano dal fodero, depone una spada tagliente in un bacile d'oro tra i grani dell'orzo, e incorona la fronte della giovinetta. E il figlio di Pèleo, Achille, prendendo il canestro e l'acqua lustrale, ne asperge all'intorno l'altare, ed implora: “O figlia di Giove, cacciatrice Artemide, tu che rivolgi nella notte la tua chiara lampada, gradisci questo sacrificio che l'esercito e il re dei Greci ti offrono. Per il sangue puro della bella vergine, accorda fausta navigazione alle nostre navi, e concedi che noi ruiniamo con la lancia l'arce di Troja!” Gli Atridi e tutti gli armati chinano a terra gli occhi. Brandisce il sacerdote la spada, pronunzia l'invocazione, e scruta sul virgineo collo il punto dove sicuramente colpire. Un'angoscia mordente mi serra il cuore, e piego il capo…. Ma ecco, d'un tratto, manifestarsi il prodigio: tutti avevamo nettamente udita la percossa mortale, eppure nessuno di noi potè vedere dove fosse sparita la giovinetta. All' incredibil miracolo, il sacerdote gridò, e l'armata intiera fece eco al suo grido: sul suolo giaceva, palpitando, una cerva di forme ingenti e bellissime, il cui sangue con abbondanza bagnava l'altare della dea. Calcante, tutto lieto nel cuore, esclamò: “Capi dell'esercito greco, e voi, popolo in armi, guardate questa vittima che la dea ha collocata innanzi all'ara, questa cerva corritrice di montagne. Ella l' ha preferita alla fanciulla, perchè l'altare non fosse contaminato d'un delitto. Artemide è placata ormai, e ci accorda propizia traversata all'assalto di Troja. Incoratevi, dunque, e ciascuno vada alla sua nave, chè oggi stesso conviene partirci dal cavo golfo di Aulide e metter vela e remi sul mare Egeo”. E, quando la spoglia della vittima fu consunta nella fiamma, pregò dagli dèi il trionfo dell'armata e il ritorno felice. Allora Agamennone m'inviò a te perchè, narrandoti queste cose, ti annunziassi la sorte divina di Ifigenia, e la gloria immortale ch'ella s'è conquistata per tutta la Grecia. Ed io, che sono stato presente al miracolo, io ti ripeto: certamente tua figlia è trasvolata su tra i celesti dèi. Epperò sciogliti, o Clitennestra, dal tuo dolore, e perdona al tuo sposo. Gli dèi salvano coloro ch'essi amano: e questo giorno veramente ha visto morire e rivivere la figlia tua.»

Rondini e rondini tra terra e cielo. E dal ciclo un persistente chiarore di bianche Iucentezze, e dalla terra un effluvio pungente di sapide erbe campestri rideste dalla frescura del vespro.

Testimone la primigenia natura, un'altra volta, a distanza di secoli, il mito eroico s'era compiuto.

Il nunzio non aveva ancora terminato il suo racconto quando il principe Rugero si mosse prestamente dal palco reale. Egli seguì la curva d'uno degli ampii gradini tra schiena e ginocchia di popolo, con molti “permesso, scusi” cui taluno degli spettatori s'arrendeva con buona volontà per dargli posto e tal altro rispondeva di mal garbo con un mugolìo e un'occhiataccia; giunse ad una delle divisioni libere che tagliavano la conca del teatro dritte di su in giù e scendenti a scalini alti e stretti; cercò con lo sguardo il luogo dov'era sua moglie; riprese per breve tratto il cammino inagevole sull'arco del gradino dove questa trovavasi; le fu finalmente dappresso non senza difficoltà.

«Maria» susurrò «vieni subito. La regina ti vuole.»

La principessa di Cerito fece una smorfia d'impazienza; ma si preparò, rassegnata, ad obbedire. Sapeva già che cosa significasse quel richiamo: la regina, congedando bellamente le dame e i gentiluomini di servizio, desiderava certo tornarsene in città con lei: segno evidente di malumore, o di febbrile esaltazione, o di stanchezza. A corte c'eran tutti avvezzi, e nessuno vi faceva più caso, se non per riaguzzare una punticina d'invidia contro la preferita. S'alzò dunque Maria, raccogliendo la borsa e l'ombrellino; poi, chinandosi verso Paola Rinaldi, le strinse il braccio.

«Me ne vado…. No, no, non si muova!» raccomandò «Beva, beva fino in fondo l'amaro calice…. Addio, cara, mi voglia bene.»

Fe' un cenno di saluto al gruppo dei Bouturline, e, poco riguardosa com'era del prossimo suo quando i nervi la pungevano, si mise dietro al marito senza curarsi di scivolare tacitamente inavvertita: diede così l'esempio dei preparativi di partenza ai più frettolosi e distratti tra gli spettatori, suscitando per contro un coro di proteste nella maggioranza più attenta o più stretta al diritto di godere fino all'ultimo il prezzo del biglietto. Ruggero la guardò due o tre volte supplichevolmente, temendo, con una più esplicita sollecitazione, di provocare il peggio.

Entrarono nel palco reale, mentre il clamore impetuoso della folla plaudente più e più volte tuonava dalla valletta circolare.

La regina complimentava Armando Lodi, l'artefice della festa; e il principe Della Falce, dritto presso i due, ascoltava il colloquio con aria di rassegnazione distratta. Maria, senza avvicinarsi, ricambiò con un inchino il sorriso che la sovrana le accennò; poi, fredda fredda, se ne venne verso un gruppetto donde la principessa Della Falce e la marchesa Ribaudo la chiamavano con ostentata espansione.

«Allora vai tu con la regina?» le disse la Della Falce, stringendo il ti e, gorgogliando l'erre fino all'inverosimile; e aggiunse, ipocritamente: «Non mi par vero, figùrati!… Ho un'emicrania!… Questo spettacolo davvero mi ha sconvolta!»

«I brividi, i brividi m' ha fatto venire!…» echeggiò la garrula voce della Ribaudo «Non ho più la testa sulle spalle!»

«Come siete tenere!» esclamò Maria; poi, rispondendo al generale Costanzo che la interpellava: «Divertita?… Oh, mio Dio, generale!… Come ha cuore lei di parlare di divertimento, quando due signore stanno per isvenirsi!»

«Hai un bel canzonare!» protestò, agra, la Ribaudo «Sono cose che scuotono….»

«Tieni!» scherzò Maria, scegliendo tra i molti ninnoli che la marchesa portava ad una lunga catena d'oro una minuscola fialetta splendente «Non hai i tuoi sali qui?… Niente paura, care: dopo mangerete con più appetito.»

La Ribaudo s'addolcì e rise; e la Della Falce, anch'essa placata, esclamò:

«Appetito?… Ce n'è d'avanzo, con quest'arietta frizzante!»

La principessa di Cerito si volse a Valentino di Varo:

«E lei, duca, non dice nulla?»

«Ma sicuro!» esclamò la Dalle Falce «Perchè non parla lei?»

«Probabilmente perchè non ho nulla da dire!» rispose Valentino con un sorriso lieve.

«Ha sonno?» gli domandò la Ribaudo.

«Che muso, oggi!» incalzò la Della Falce «Più lungo di quello d'Agamennone…»

«Lasciamo stare i confronti classici» interruppe Maria «Ancora non siamo profonde in materia, e si va a rischio di sballarne delle belle!»

«Tanto più» aggiunse Costanzo «che Agamennone non fu poi coniugalmente molto felice!»

«Ben gli è stato!» fu pronta la Della Falce a ribattere «Per il gran conto che faceva dei figliuoli di sua moglie!…»

«…. e suoi, anche suoi!» riprese allegramente il generale «Principessa, rispetti, almeno finchè si può rispettarla, la temporanea onestà di Clitennestra!»

«Insomma, duca, non dice nulla?»

Valentino s'inchinò alla Ribaudo, e rispose con esagerata dolcezza:

«Sono scapolo, marchesa!»

«Non secchiamolo!» avvertì la principessa di Cerito «Ci ascolta e ci risponde con una pazienza così angelica e con una candidezza così melliflua, che, giurerei, lo fa per spirito di mortificazione…. Se insistiamo scoppia….»

«…. o scappa!» finì la Della Falce.

«Nè l'una cosa nè l'altra.» assicurò il duca con sufficiente buona grazia «Io sono qua….»

«…. vittima pronta al sacrificio!» motteggiò la Ribaudo.

Maria le diede sulla voce:

«Ma insomma!… È un' ifigenite acuta questa. Smettila.»

«A proposito, duca!» sollecitò la Della Falce «Stasera conosceremo sua cugina. Ce ne dica un po' qualche cosa!…»

«O se non l' ha mai vista!… Glielo abbiamo domandato almeno dieci volte.» fece Maria.

«Non io, non io!» protestò l'altra «È vero, duca?»

Valentino allargò le braccia, evasivamente.

«Può essere, principessa. Ma me ne hanno parlato tanti, che non so più a quanti ho ripetuta la brevissima storia. Io son cugino del marito: lui, lo conosco; lei, non l' ho mai veduta.»

«Oh, questa poi….»

Ma la principessa di Cerito la interruppe:

«Brava, meravìgliati anche tu!… Come se non fosse lecito non conoscere un parente, e per giunta un parente acquistato!… Se volete anche togliere all'umanità la consolazione di ignorare un componente lontano della famiglia, tutti dovremmo far lega col mondo intiero.»

«Sta' zitta un minuto secondo, e lascialo dire!» esclamò la Della Falce, con uno scherzoso gesto di minaccia a Maria.

«Ho già detto, principessa.» confermò il duca «Che più?… Stasera, come tutti voi altri, sono invitato a corte per la presentazione della marchesa Franca di Pietracamela, nuova dama di Sua Maestà. Colla miglior volontà dell'universo, non potrei proprio aggiungere una sillaba di più al mio modesto e veritiero racconto. Ne sono spiacente per la loro legittima curiosità di colleghe, ma….»

Tacquero. Armando Lodi se ne andava, accompagnato fino all'uscita della tenda dal principe Della Falce; e la regina Wanda, inoltrandosi vicina al gruppo, interpellava direttamente Maria.

«Viene con me, principessa?»

«Vengo, Maestà.»

«È tardi, noh?» domandò la sovrana.

Molte risposte si levarono insieme, e tutte discordi:

«Le sette…. Le sette e cinque…. Le sette e due minuti….»

«Le sette e un minuto.» rettificò il principe Della Falce mostrando in giro l'orologio «Puntualità garantita.»

«Non voglio trattenerli.» disse la regina, con un movimento circolare della mano a guisa di saluto collettivo «Si rammentino che stasera gradirò la loro presenza. Ci sarà la marchesa di Pietracamela: un'ora d' intimità…. Buonasera, signori, li ringrazio.»

Era la formula del congedo: un po' brusca come sempre, e appena corretta dalla mitezza benevola del tono. Ruggero uscì dal palco innanzi a tutti, andando verso l'automobile reale. Wanda prese il braccio di Maria e s'avviò: passando vicina a Valentino, si soffermò interrogandolo:

«Che glien' è parso a lei dello spettacolo, duca dei poeti e poeta dei duchi?»

«Maestà!» rispose Valentino, celiando «Son designazioni, queste, che valgono una condanna!…»; poi, serio: «Non è impressione che si riassuma in una parola.»

«Ha impegni?» gli domandò la regina.

«Nessuno. Son venuto borghesissimamente in tram e conto di tornarmene a piedi per una bella scorciatoia che mi terrà lontano dalla polvere.»

«Se teme la polvere, venga con noi e ci sacrifichi la sua solitaria passeggiata: scenderemo in città, prendendo il versante opposto della collina. Ritarderemo un po', ma avremo la strada libera. Vuole?»

Egli s'inchinò.

«Volentieri, Maestà.»

Wanda salutò ancora il gruppetto, ed uscì con la principessa di Cerito. Il duca di Varo le seguiva. Fuor del teatro il solito assembramento della folla curiosa acclamò alla sovrana: ella piegò ripetutamente il capo, con un'ombra di stanchezza sul volto. Entrò, rapida, nell'automobile; Maria le sedè accanto e i due uomini di fronte. Con un prolungato suono di tromba la carrozza si mosse: lenta dapprima tra inchini e profonde scappellate, poi lestamente fuggendo all' improvviso volgersi e ristare di qualche passante, velocissima infine all'assalto della salita che portava sul culmine del colle donde la via, fiancheggiata d'abeti, scendeva alla città.

Ruggero fu il primo a rompere il silenzio.

«Quante delusioni, Maestà!… Credendo immutato l' itinerario del ritorno, la strada comunale a quest'ora rigurgita certo d'una calca inverosimile.»

«Bella cosa fare un dispetto al prossimo!» esclamò Maria con la consueta punta d' impertinenza soddisfatta.

«Maria, Maria! Ama il prossimo tuo come te stessa!» ammonì allegramente il principe; e aggiunse: «C'era già un correre a precipizio per la conquista di un buon posto.»

«Non dispiace a Vostra Maestà di defraudare così i diritti dei sudditi?» domandò, ridendo, Valentino.

La regina non fece eco a quella gaiezza; anzi una ruga triste le si affondò tra ciglio e ciglio.

«Mio Dio!» mormorò «“Diritti” e “defraudare”: come ha detto bene, duca, credendo di scherzare. Infatti, l'unica cosa a cui siano buoni i sovrani nel nostro tempo è quella di offrire uno spettacolo coreografico. Eppure siamo avari anche di tanto poco!»

Valentino evitò di secondare l'amara severità di quel commento, ed accentuò la leggerezza del tono.

«Maestà, non possiamo seguirla in codeste sue elucubrazioni filosofiche e…. sovversive!»

Il principe di Cerito sentenziò burlescamente:

«Felici i popoli di quei re che ragionano come anarchici!»

«Ridete, ridete!» disse Wanda, rischiarandosi «Scommetto che Maria non mi dà torto?»

«Maria lo sa, ma on 'l dirà….» canterellò la principessa, parodiado un'arietta d'opera «Tutti siamo inutili e tutti siamo utili a questo mondo.»

«Che massime assennate!» fece Ruggero.

«Che dotti consigli!» appoggiò Valentino.

La regina sorrise.

«Lo schiavo d'Agamennone le ha fatto scuola, principessa?»

Maria ebbe un moto di vivacissima biricchineria.

«Chi? Quel vecchio podagroso?… Bell'arnese! Da licenziarsi su due piedi!… Noioso come la pioggia, e buono a nulla: se avesse chiacchierato meno e avesse corso di più, sarebbe stato meglio.»

«Ecco la principessa che mis canzona anche Euripide!» protestò lietamente il duca.

«Macchè Euripide!» ella ribattè «Se ci tiene, glielo lascio. Ma non mi canti le lodi di quel Matusalemme decrepito!… Ah, che infelice idea ebbe Agamennone ad affidargli il messaggio! E sì che c'era sottomano il piè veloce Achille che si divertiva tutto il giorno a fare il passo di carica!…»

«Là, là!» esclamò Wanda «Maria ha acceso il suo fuoco di fila!… Rispetti i miti, almeno!…»

«Non faccio per dire, ma le rappresentazioni classiche ti fanno un bell'effetto, veh!…» constatò Ruggero.

«Oh, sì!… Dammi ad intendere che ti persuade molto, a te, tutto quell'arruffio di gente che non si sa di chi sia figlia!… Dio, che pasticcio di parentele!… L'Eacide, il Pelide, gli Atridi, la prole di Giove, la generata dal cigno…. Ora si nasce più semplicemente, noh?»

La regina si divertiva.

«E dire che avevo pregato il duca di Varo di accompagnarci per discorrere un po' seriamente di questo argomento che lei frantuma con la sua ironia!…»

«Benissimo!» dichiarò la incorreggibile «A lei, duca! Reciti l'ultimo atto della tragedia. Io mi cheto.»

Valentino sorrise.

«Non sia così severa, principessa!… Lei, facendo la burletta, è un critico feroce. Non nego che qualche cosa, ed anche in una certa abbondanza, fosse riprensibile; ma c'era in ogni modo un complesso di bellezza che non si distrugge. Bisogna convenire, per esempio, che la grande aria primaverile allarga il respiro: e non solo materialmente, ma, se posso esprimermi così, sopratutto moralmente. La finzione, con uno scenario simile, s'attenua fino a scomparire: ci si immedesima nella realtà non tanto per uno sforzo d' illusione, quanto per una legge di natura. La vita vissuta sotto il sole acquista una solennità che unisce religiosamente gli uomini alle fonti genuine della creazione.»

«In questo almeno sarà d'accordo anche lei, principessa?» domandò Wanda.

Maria ormai non era più in vena di serietà.

«Sfido io!» rispose «L'illusione, anzi la realtà, come dice il duca, era perfetta: specialmente sul principio, quando, alle cinque dopo mezzogiorno, Agamennone vien fuori a scrutare le stelle e a fiutare i venti dell'alba.»

«Con te non se n'azzecca una!»

«Vede!» continuò la principessa «Mio marito mi dà sulla voce perchè le sciupo i suoi effeti oratorii!»

Il duca fu pronto a secondarla giocondamente.

«Ahimè, principessa!… Lei ha una tale acutezza di percezione, che è impossibile tenerle testa.»

«E così dileguano i soffii della poesia!» si rammaricò la regina sul medesimo tono.

«Altro che dileguare!» fece Maria, indicando la vallata che la via liberamente dominava «Questa è vera poesia, nè la balbettano gli uomini.»

Guardarono: la città fumava, nel fondo, in una nebbiolina donde qualche timido lume occhieggiava, e le cupole e le torri soffuse di quei veli ne venivan su come portate da un incantamento di leggerezza; lungi dai caseggiati brillava la riga tortuosa del fiume; e le montagne intorno acquistavano dalle ombre un morbido ammanto azzurrino. Il cielo, roseo là, dove mitemente spegnevasi il bracere del sole, impallidiva salendo verso il tremito delle prime stelle; e l'ecclesa profondità della vòlta eterea s'in mergeva nella liquida trasparenza dell' infinito. Come Valentino, ch'era seduto in faccia alla regina, prevenne il gesto di lei abbassando il vetro dello sportello, un'ondata refrigerante di vento vivace li involse. I cipressi, posti a guardia della strada sull'orlo che s'affacciava verso la valle, fuggivano in rapida teoria erti e bruni; dall'altra parte le abetine cineree s' infoltivano e infoscavano lungo il pendìo, esalando l'acutezza delle resine. Il vespro era nell'aria come un'immensa goccia di luminosa freschezza che tardasse a cadere; e, a guisa d'un serto di viole, tenui vapori parevano lievemente sostenerla sulla linea dell'orizzonte.

«Ecco.» declamò il duca, dissimulando sotto l'ostentazione di una pomposa eloquenza la commozione che ogni cosa bella gli suscitava nel cuore «Ecco: ora Proserpina si scioglie dalle braccia di Vulcano lo zoppo, e le ancelle la veston tutta di perle, ond'ella sorga tra poco ne' suoi lucenti monili ad illuminare la notte terrena.»

«Luna crescente, stasera.» disse Maria.

«Un diadema regale….» madrigaleggiò Ruggero con un cenno verso la sovrana.

«E Vulcano tornerà alle fucine sonanti» proseguì Valentino «e batterà sull'incudine i rossi ferri donde sprizzeranno scintille fin nei paesi degli uomini: e ciascuna casa ne avrà la sua lampada e il suo focolare, e, quando le fiamme vacilleranno, sarà perchè il fabbro divino, pensando alla dolce Proserpina, avrà rallentato il gesto delle possenti percosse.»

«Ancora Euripide e compagnia, o…. Valentino di Varo?» domandò la principessa ridendo.

«Valentino, Valentino!» scherzò prontamente il duca «Valentino…. sebbene sì poco valente.»

«Bada» lo ammonì Ruggero «che la modestia è una gran brutta peste.»

Ci fu un momento di silenzio.

«Oh!» fece la principessa, rompendo la pausa «Siamo ammutoliti?»

«Pensavo alla vanità della nostra vita.» disse Wanda «Non protestino, perchè parlo specialmente per me…. è una fiaba, è vero, quella d' Ifigenia; ma è ad ogni modo il prodotto poetico d'una realtà che doveva essere molto diversa da questa dei tempi nostri.»

«E che vorrebbe Vostra Maestà?!» esclamò Maria «Che l'esistenza fosse complicata come allora?»

«Complicata?… No. Semplice anzi, perchè era utile e fattiva. Le complicazioni cominciano quando l'inerzia impera. Noi ormai non siamo che i simboli vuoti d'un passato che fu colmo di significati. Per esempio, abbiate la cortesia di dirmi che cosa faccio io?»

«Ma…. Vostra Maestà fa la regina!» rispose la principessa con arguto candore.

«La regina: appunto.» replicò Wanda amaramente «Mi sa spiegare lei che arte, che professione, che mestiere è, oggi, quello dei re?… Che cosa sacrifichiamo noi al nostro popolo? Che bisogno ha esso di noi? Che vale che noi abbiamo nelle vene giovinezza ed ardore? Che volontà è la nostra? E come la eserciteremmo, la nostra volontà?…»

«La disquisizione pessimista rifà capolino!» interruppe il duca.

«Minaccia, per di più, di doventare un trattato.» aggiunse Ruggero con comico spavento.

«Non sia, Maestà, più nichilista dei nichilisti!…» raccomandò gaiamente Maria.

«Badi che nessuno la oda, Maestà!» incalzò Valentino «C' è da chiamarsi addosso una condanna per aperta professione di dottrine incendiarie, e noi, poveri innocenti, saremmo accusati di complicità.»

«Auff!…» s'impazientì la regina, vivamente contrariata «Siete insopportabili anche voi come gli altri!… Con voi credo di poter parlare liberamente, e invece eccovi irrigiditi nelle assurde convenzioni d'un'etichetta oppressiva!»

Maria la riprese dolcemente, con quell'avviluppante carezza ch'ella sapeva dare alla voce quando voleva affettuosamente persuadere.

«Non meritiamo il suo rimprovero, Maestà. Perchè sofisticare sul còmpito che la sorte ci ha affidato?… Tutti veniamo al mondo con una data predestinazione: è necessario dunque accettarla, e guardare più al bello che al brutto delle cose. Eppoi» continuò sorridendo «Vostra Maestà si stimerebbe davvero molto felice, se un oracolo, Dio non voglia, le imponesse d'essere sgozzata per mano del padre?…. Oh, la poesia delle tragedie greche è una ben malinconica ispiratrice!»

Wanda crollò le spalle, chiudendosi nel proprio scontento.

«Non c'intendiamo, Maria.»

Una tromba gettò, dietro a loro, più e più volte un sonoro richiamo. La carrozza reale si spostò per dar luogo, e un'automobile rossa, bassa ed aperta, guizzò velocissima, come una freccia di fuoco: ma pur nella rapidità fu veduto colui che guidava largamente scoprirsi il capo e salutare.

«Eh!… Che diavoli sono?!» esclamò la principessa, rabbrividendo per quel saettìo che le era balenato allo sguardo «Si romperanno il collo, se vanno così!»

Valentino informò:

«D'Anghelos: era lui al volante.»

Poco dopo la corsa dell'automobile reale rallentò, presso alla barriera daziaria.

Un impiegato novellino, col berretto piegato su un orecchio, s'avanzò masticando tra i denti il gambo di un garofano rosso: alzò la sua mazzettina con gesto dittatorio; ma un vecchiotto rubicondo che gli era poco lontano lo raggiunse d'un balzo, e, scappellandosi profondamente, lo trasse indietro con unabrusca strappata. Il giovincello spalancò la bocca, e il garofano cadde. Non fu intempo a salutare, che già l'automobile aveva ripreso la corsa.

Ora procedevano per una viuzza piana, incassata tra i muri grigi che chiudevano i poderi delle ville e da cui s'affacciavano con lieve ondeggiamento i rami degli ulivi. D'un tratto, nel buio invadente, brillarono i fanali dell'automobile.

«Accendiamo?» domandò Ruggero, portando la mano alla chiavetta elettrica e guardando la lampadina interna della carrozza.

«No, lasci.» lo pregò la regina «Passeremo più inosservati.»

Il principe obbedì, e Maria approvò:

«La detesto anch'io, questa luce che esibisce i viaggiatori agli occhi dei passanti con una sfacciataggine veramente antipatica.»

«Eppure» notò Valentino «è una luce che riscalda molti cuori e molte fantasie, quando rivela una rapida visione femminile.»

«Per quel che valgono, a volte, certe belle signore!…» mormorò Wanda.

«L'amore senza stima» replicò ridendo Valentino «è una delle cose più naturali che esistano.»

«Una punta di cinismo?» fece Maria «Non le sta bene, caro amico: lei per riflessione e mio marito per natura son forse gli unici idealisti della corte di Venustria.»

«Grazie, principessa.»

«Non sapevo d'essere oggetto da parte di mia moglie di uno studio psicologico così lusinghiero.»

«Se non vi dispiace essere in tre» disse la regina «ce n'è anche un altro.»

«Chi?» interrogò Valentino.

«Il generale Costanzo.»

«Verissimo!» esclamò Maria «Costanzo è candido come i suoi capelli bianchi.»

Erano già entrati nel cuore della città, e rasentavano il palazzotto massiccio dell'ambasciata di Altamagna.

«A proposito!» rammentò Wanda «Stasera, nonostante l' intimità del primo ricevimento alla marchesa di Pietracamela, avremo con noi il barone di Loën.»

«Che antipatico!» e Maria arricciò il naso.

Nessuno levò la voce in difesa del maltrattato ambasciatore d'Altamagna; anzi la regina spiegò, quasi giustificandosi:

«Non ho potuto fare a meno d' invitarlo. è stato per contentare il principe Della Falce che me ne ha insistentemente pregata.»

«Ah!» fecero nello stesso tempo Valentino e Maria.

Si guardarono, sorpresi di quella lor medesima impressione, e sorrisero. Segno che ambedue s'erano accorti come tra la principessa Della Falce e il giovine segretario Straczy ch'era l'ombra del barone di Loën sbocciasse una tenera intesa sentimentale.

«Daltronde» s'affrettò il duca a commentare «il barone di Loën è pur sempre il più galante diplomatico che l'Altamagna abbia mai inviato in Venustria!… Vuol esser pronto a deporre il proprio omaggio ai piedi di tutte le nostre dame.»

«È un intrigante ed è un grossolano.» sentenziò Maria che aveva la parola franca.

Il tacito consenso venne di nuovo a sottolineare il giudizio della principessa. E Ruggero disse, dopo un istante:

«È un furbo di tre cotte quello lì!»

L'automobile, senza diminuire la velocità, imboccò nell'atrio della reggia, traversò due cortili interni e con sicura manovra si fermò di colpo a piè d'uno scalone.

«Buonasera, amici: e grazie della vostra buona compagnia.»

Ruggero e Valentino, ch'eran saltati a terra, s'inchinarono profondamente.

«Buonasera, Maestà.»

Wanda strinse la mano di Maria.

«A tra poco.» ripetè con un affettuoso cenno di saluto; e salì sveltamente, mentre un campanello trillava, in alto, per annunziare il ritorno della sovrana.

I due uomini ripresero il loro posto, e l'automobile, rapidissima, uscì di nuovo per ricondurre i principi di Cerito e il duca di Varo.

Quando, appena entrata nelle suc stanze, ebbe l'annunzio che il re era d' improvviso tornato un'ora prima, Wanda, sussultando, arrossì vivamente. Nervosa e trasognata, ella sedè davanti allo specchio, lasciando che Camilla — la cameriera preferita — le s'affaccendasse intorno per il cambio degli abiti.

Era così. Albano andava spesso qua e là, inseguendo i suoi molteplici svariati e non sempre nobili capricci, e Wanda, vedendolo ricomparire coi segni delle tempestose avventure, lo accoglieva con un irrefrenabile impeto di vergogna innanzi a sè stessa e innanzi al mondo intiero che tanto facilmente poteva penetrare i più intimi segreti della reggia.

Eppure gli voleva bene, a quel ragazzaccio di ventisei anni bello elegante e fatuo, a volte cavalleresco e a volte villano, ingenuamente vizioso, donnaiuolo, bevitore, spensierato, tenero come un bimbo e duro come un barbaro, avaro e scialacquatore, incostante e testardo, egoista, bizzarro e violento, spregiudicato e superstizioso, impastato di debolezze e di brutalità, intelligente senza adattamenti spirituali e ignorante con piena franchezza. Gli voleva bene ancora, per quanto dal tempo della sbocciante fiammata d'adorazione che nei giorni del fidanzamento l'aveva tenuta in un'ansia di tumultuose speranze fossero passate molte raffiche di delusione sull'ardore e sull'amore.

Da poco assunto al trono di Venustria — paese novellamente costituitosi a dignità di nazione dopo lunghe e fortunose vicende politiche —, Albano II Romagnano Paleologo, erede d'un giovine regno in quella capitale e in quelle città i cui nomi splendevano di gloria e di sapienza nel ricordo dei secoli, Albano era balenato agli occhi di Wanda come il principe sacro ed immenso che Dio prescegliesse a fornire opere di magnanima possanza.

Cresciuta in vista del mare e dei monti nel solitario castello di Planacomba, piccolo e privato dominio rimasto agli ultimi e puri discendenti d'un sangue imperiale, Wanda era venuta su col cuore intatto e sereno. Ma la serenità della fanciulla principesca era folgorante di sole, e l' integrità ne era salda ed aguzza come una vetta chelimpidamente si lanciasse all'assalto dei cieli. Nudrita di molte letture, ella di preferenza aveva irrobustito l' intelletto e lo spirito con la ricca e florida mèsse della poesia, delle leggende e della storia: epperò il carattere le si era foggiato in un' impronta di romanzesco eroico che i sogni e la fantasia avevan sempre meglio e più nitidamente sigillato. Esperta e spedita in ogni esercizio fisico, robusta e coraggiosa, Wanda somigliava un di quei sani virgulti selvaggi che coronavano di nobile grazia le siepi correnti lungo la riva del sonante mare di Planacomba. E, poichè compagno unico dell'adolescenza le era stato il fratello Stefanolo, un giovinetto che pareva non aver nulla in sè di terreno, anch'ella, pur così piena d' impeto e di luce, s'era esternata dal mondo, vivendo nella vita come una persona di fiaba.

Stefanolo, il suo dolce minore, chiudeva nella infermità del corpo un'anima inafferrabile: tardo nel comprendere le cose più comuni, egli possedeva per gli argomenti strani una sottilissima agilità di percezione. Il lugubre e l'angelico s'avvicendavano in lui con una mutevolezza inquietante: a volte era pauroso come uno spettro, a volte soave come un cherubino: non era umano mai, e non sembrava una creatura di carne e d'ossa. I suoi discorsi spesso incoerenti ed oscuri sapevano anche toccare i vertici più alti ed inaccessibili del pensiero: e giungevano a quei culmini con una tal trasparenza di leggerezza irreale, che l'ascoltatore ne rimaneva preso comein un incanto fantastico. Non di rado accadeva che la sua fibra debolissima fosse percossa dallo spasimo inane di un male convulso che lo abbatteva di schianto al suolo e lo torceva spaventosamente in una disperata e feroce agonia di tutto l'essere: gli accessi eran seguiti da una lunga ebetudine o da una febbre di miracolosa lucidità. Per la sorella egli aveva tenerezze squisite, e, pur nei momenti dell'ottusione o del delirio, la vezzeggiava con un lamentìo malinconico e monotono di bimbo ammalato. E Wanda lo amava maternamente, nè, ai tempi della lor solitudine, si sgomentava per le anomalìe del giovinetto. Ora invece sì, ella si struggeva di continuo nel ricordo di lui; e, nel periodo delle sue visite al castello di Planacomba, il cuore le si sconvolgeva in un' ansia torturante.

Ora molte cose eran mutate: Wanda ormai conosceva le realtà degli uomini: e che la vita dev'essere, il più delle volte, una piatta esercitazione di volgarità frivole e colpevoli. Ed era stato proprio Albano, il bel principe ch'ella aveva circonfuso di generosità e di gloria, colui che primo e direttamente l'aveva iniziata alla materiale e insospettata dottrina del mondo: Albano che, incontratala ad una caccia imperiale cui insolitamente ella partecipava, se n'era con violenza acceso e, nonostante le opposizioni politiche di statisti intriganti e autorevoli, l'aveva, in pochi giorni, fatta regina di Venustria.

Con che verginità d'anima ella era venuta verso il paese solatìo e verso il popolo che aveva lingua sì musicale e ingegno sì pronto e si molteplice virtuosità; con che tremito d'entusiasmi ella aveva cinto la corona regale in quella metropoli su cui i fasti dell'imperio e della cristianità s'eran posati come l'aquila si posa sulla rôcca sublime; con che fervore di intelletto ella aveva guardato alle città donde nella lontananza sempre astante dei secoli era germinato il fiore rinascente dell'arte; con che pietoso cuore ella s'era idealmente mossa incontro alle miserie e alle sofferenze dei reietti e degli umili che costituivano il polso e il flagello della nazione che diventava sua!… E che tesoro di riconoscente e devoto amore ella portava all'uomo che liberalemente le offriva di dividere con lui tanta bellezza e tanta potenza!…

Ahimè, come rapida e meschina la discesa dal sogno alla realtà! In pochi mesi l'edificio delle illusioni era crollato: ed ella s'era trovata prigioniera nelle false angustie d'una vita sciocca di forzata gaudente che l'ossessione d'una corte più pettegola che fastosa e più maligna che magnifica inchiavardava con strette e pesanti catene. E nel suo compagno non solo la supina acquiescenza all'offesa contro ogni sana attività e contro ogni regola fecondamente operosa, ma anzi l'esasperazione morbosa di tutte le bellezze e di molti vizii.

Di gente con cui trattenersi senza essere soffocata dal tedio o dal disgusto non c'erano intorno a lei che il generale Costanzo, i principi di Cerito e Valentino di Varo: gli altri, anche se onesti e tranquilli, avevano indoli sì opache ed apatiche che le mettevano addosso un'uggia serrata a qualsiasi respiro. Eppure la principessa di Cerito — orgogliosissima e insofferente nelle forme, ma nell'intima sostanza tagliata tutta d'un pezzo in una umiltà religiosa che le faceva considerare la vita propria e l'altrui con una placida rassegnazione che sembrava indifferenza —, la principessa di Cerito non poteva pienamente accordarsi con lei che avrebbe voluto rovesciare le basi del mondo e che si rodeva per la stagnante inerzia in cui era costretta; nè lo poteva Ruggero, ottimo figliuolo, ma uomo di obbedienza più che d'iniziative, parco di parole e freddo di carattere; e nemmeno il duca di Varo ch'ella a torto giudicava più cerebrale che appassionato, e che, nonostante la felice abbondanza dell'eloquio e l'apparente aderenza dello spirito alle cose, era riservatissimo e schivo nè mai si concedeva interamente. Restava il generale Costanzo, la cuì anima Maria aveva definito candida come la canizie che gli coronava la salda, e robusta vecchiezza: e Costanzo, in fatto, le era il più idealmente vicino per una cotale ingenuità d'entusiasmi, e per l'avventuroso eroismo che lo avea reso leggendario e popolare e che nel cuore gli aveva irrorato una freschezza sempre nuova di forza e di fede. Pochi, dunque, ed imperfetti gli amici: donde amarissimo il rimpianto per l'antica solitudine così colma di illusioni, e per l' inesperienza più ricca e consolante del sapere, e per l' inutile distacco da quel suo caro e povero Stefanolo ch'era rimasto nell'eremo di Planacomba tristemente battuto tra l' imbecillità e la follìa….

Albano, allorchè s' incontrarono nella sala da pranzo, venne incontro a Wanda col brio cerimonioso che gli capitava d'avere nei momenti di buon umore; e i suoi inseparabili — il generale Marco Triverna e il comandante Ugo Roscio — la riverirono l'uno con l'abituale ipocrita unzione, e l'altro col galante ossequio che sempre usava con lei: in verità sapevano ambedue che la sovrana li detestava, e, per conto proprio, la trovavano insipida ed antipatica. Il re tuttavia — vedendo deserti alla tavola i tre posti del cerimoniere e delle due dame di servizio che Wanda poco prima aveva congedati — non si trattenne dal muovergliene un'aspra osservazione: odiando la solitudine, egli non concepiva che altri potesse preferirla, e in ogni modo mal consentiva che si derogasse alle norme dell'etichetta. Il comandante Roscio interloquì per placare l' irritazione di Albano, e questi infatti rise agli scherzi del non chiamato difenditore. La delicatezza e il disdegno di Wanda ne furono punti: ma ella tacque, e si contentò, a monosillabi, di prender parte qua e là ai discorsi dei tre lieti commensali. I quali parlarono di molte frivole cose, fiorettando il dialogo vivace con quei commenti maliziosi e fatui che non piacevano alla regina. Albano le domandò, d'un tratto, notizie di Stefanolo: ella rispose di mala voglia, senza espansione, perchè sapeva che il marito avea sempre teso l'arco degli scherni contro il giovinetto; ed Albano appunto parlò di invitarlo alla reggia di Venustria e di sveltirlo dalle malinconie con una ginnastica di mondanità elegante e galante. Triverna e Roscio assentivano, sottolineando ilarmente i più scapigliati propositi del re; e Wanda si chiudeva in un mutismo di scontentezza e di ostilità. Poi fu la volta della marchesa di Pietracamela, la nuova assunta alla dignità cortigiana: Albano e la regina l'avevan conosciuta, incontrandola or qui ed or lì a cerimonie inaugurali o commemorative o festive, e, per diritto derivatole dal doppio titolo della nobiltà e del censo, la avevano prescelta all'ufficio di dama. Così ella abbandonava la residenza di Ghenna — una delle superbe città marinare del regno — e veniva a Tallusa, dove suo marito, il marchese Leonardo di Pietracamela, archeologo di profonda dottrina e di buon gusto, era simultaneamente chiamato a dirigere il ricchissimo Museo Antiquario. Roscio ricordò d'essere stato assiduo — al tempo d'una sua permanenza in Ghenna — nel salotto della marchesa: e disse della signora ch'era bella e simpatica. Il re, storcendo la bocca, notò che bella era, sì, ma di figura troppo rigida e di troppo fredde maniere per andargli pienamente a genio: convenne, daltronde, ch' ella era decorativa e che l'estetica della corte se ne sarebbe avvantaggiata. Wanda formulò un giudizio vago: graziosa ed affabile: non ne aveva sufficiente dimestichezza per poterne meglio fermare una sicura impressione. Ma le tornò sgradita la lusinghevole insistenza del comandante Roscio, e s'augurò in cuore che la marchesa, almeno, non partecipasse di quella leggerezza che saliva d'ogni intorno come un gorgo fangoso.

Le persone che cominciarono verso le dieci ad aggrupparsi nei salotti reali eran le stesse che i sovrani di Venustria chiamavano quando volevan serbare alle riunioni un carattere d' intimità. Ma l'affiatamento di tali riunioni era più dovuto a un vincolo di casta che a vera intimità: epperò, meglio che la benevolenza sincera delle amicizie affini, vi dominava lo spirito fallace della consorteria.

Vennero Maria e Ruggero, Valentino di Varo, e i principi Della Falce; vennero i marchesi Ribaudo, il generale Costanzo, e il duca e la duchessa Francalanci di Monterosso; venne il gobbo principe Ferdinando Iese con la moglie Orabile e con la sorella donna Alessandra; e il conte di Fivignano, e la vecchia contessa di Marbello ch'era la madrina del re. L'arrivo dell'ambasciatore d'Altamagna e del giovine segretario Straczy fu commentato da un ondeggiamento di stupore: per la prima volta il barone di Loën compariva ad una serata intima; ma le signore lo avevano in grazia per la munifica ed inesauribile cortesia e gli uomini gli riconoscevano la generosa protezza e la perfetta discrezione nel favorire gli amici: epperò quasi tutti gli rivolsero sorrisi e cenni di compiacimento e di cordialità.

«Ecco l'orso ammaestrato.» bisbigliò Maria al duca di Varo.

«Il pubblico è facilone. Guardi, principessa, quante occhiate di benvenuto.»

Ora la contessa di Marbello — la quale per inveterata sordità portava seco uno strumento a guisa di tromba e lo usava ponendolo tra la bocca dell' interlocutore e il proprio orecchio — tratteneva l'ambasciatore con tenace insistenza per dimandarlo delle cose d'Altamagna. Chiusa com'era alle voci ed ai rumori circostanti, per lei le conversazioni brevi e spigliate non esistevano più: da ciò il suo gradimento verso chiunque le parlasse posatamente e lungamente, e quelle interrogazioni complesse e studiate cui non si poteva rispondere a monosillabi. Di mente colta e vivace, nonostante l'età e l' infermità, ella sapeva rendersi piacevolissima; ma la fatica del comunicare con lei, specie nei momenti del brio tumultuoso, le allontanava i compagni: così che la vecchia signora il più delle volte se ne rimaneva da parte con una sua dama la quale docilmente le riferiva di che ridesse un gruppo avvivato d'allegria, o di che si discutesse dove l'attenzione appariva evidente intorno a un parlatore. Il barone di Loën spiegò che prima gli conveniva di salutare particolarmente le altre persone: sarebbe poi tornato a lei, e avrebbero chiacchierato insieme; intanto le lasciava il visconte Straczy, obbediente ad ogni curiosità. Non passò molto tempo, e la principessa Della Falce venne a prender posto accanto al giovine diplomatico, assumendosi garbatamente l' incarico di partecipare alla conversazione con la signora di Marbello. Valentino e Maria udirono la vocetta secca di Ferdinando Jese che all' indirizzo dei due commentava:

«Quelli là, eccoli sistemati!»

E la duchessa di Monterosso gli rispondeva, pur con un'occhiata di soddisfatta bramosia pettegola:

«Maligno!»

Poichè Maria s'era voltata, il gobbo le bisbigliò, ammiccando:

«Ha visto?»

Ella si strinse nelle spalle.

«Non cominci colle sue insinuazioni, sa?»

«Puritana!» disse la Monterosso a fior di labbro.

«Ma no!» ribattè Maria «I fatti degli altri non mi interessano. Lasciate vivere la gente!»

«Impertinente!» lo redarguì la Monterosso con malizia.

Il gobbo colse soltanto allora il doppio senso cui si prestava la sua frase, e scoppiò a ridere.

«Si dia meno arie, andiamo!» ammonì Maria con una punta di insofferenza per la frequente lubricità che ricorreva nei discorsi di Jese.

Valentino sviò l'argomento, impedendo così al principe di ripetere una volgarità.

Albano, in quel mentre, s'avvicinò al gruppo, seguito dal conte di Fivignano e da Ugo Roscio.

«Il conte» disse «ce l' ha col vestiarista della rappresentazione di oggi a Vezio.»

Ferdinando Jese approvò largamente:

«Accozzi di colore dell'altro mondo, Maestà. Non c'era che Ifigenia: perchè era tutta bianca.»

«E le parrucche?!» esclamò con ridente terrore la principessa di Cerito.

«Fantasmagoriche!» sentenziò il conte di Fivignano, passandosi una mano sulla lucente calvizie.

Il re lo burlò cordialmente.

«Meglio i cranii al naturale, eh, conte?»

«Altro che fantasmagoriche!» incalzò Maria «Quelle povere vergini calcidiche sembravano un'esposizione polverosa di merceria: matasse di cotone intignato, varianti dal giallo verdastro al giallo rugginoso.»

«L'epopea del biondo!» motteggiò Valentino.

«Già, duca; lei che sa tante cose…. classiche, mi sa spiegare perchè le donne greche erano tutte bionde?»

«Giunone era bruna!» proclamò Roscio.

«Può giurarlo? L' ha conosciuta?» domandò la duchessa di Monterosso.

Albano allargò le braccia con comico gesto di rassegnata indulgenza.

«E quale donna non ha conosciuto il nostro Roscio?…»

«Vostra Maestà mi lusinga!» rise questi.

«Giunone era una dea!» borbottò il conte di Fivignano.

E Ferdinando Jese, ghignando:

«Più amare per più conoscere!»

«Tu sbagli, caro amico.» corresse Valentino, ironico «Più conoscere per più amare!»

Annunziavano il marchese e la marchesa di Pietracamela. Vi fu, in tutti, un sùbito serpeggiamento di curiosità: le conversazioni tacquero, gli occhi si fissarono sul vano della porta; e gli uomini dimostrarono francamente il proprio interessamento, mentre le signore mal lo dissimulavano con un'ostentazione di fredda e obbligatoria condiscendenza.

Valentino, vedendo apparire la marchesa, si chinò all'orecchio di Maria.

«A proposito di bionde, eh, principessa?»

La duchessa di Monterosso, che aveva còlta la frase, storse la bocca.

«Non è bionda: è rossa!»

Maria osservò sinceramente:

«È bella!»

Il duca di Varo le sorrise.

«E lei, principessa, ha il coraggio delle donne belle: riconosce la bellezza delle altre.»

Intanto la marchesa Franca di Pietracamela erasi avanzata nel mezzo del salotto, e innanzi alla regina, la quale la accoglieva con amichevole affabilità, piegava l'alta persona in un molle e profondissimo inchino di grazia e di reverenza. Baciò la mano di Wanda. Poi, come il re le si appressava, ripetè a lui l'atto del saluto con una sfumatura di minor devozione e di rigidità maggiore.

«C'è finalmente una donna che sa inchinarsi con garbo e signorìa!» mormorò Ferdinando Jese a Valentino.

La cerimonia del benvenuto continuava. Si iniziarono le presentazioni: scambio di sorrisi, di strette di mano, di mezze parole. Leonardo di Pietracamela che portava nei gesti della mondanità una meticolosa perfezione d'ossequio apparve sùbito gradito al circoletto femminile. Non così eguale nè così generale fu l' impressione prodotta dalla marchesa: qualcuno commentò che era brutta e caricata, qualche altro invece la guardava con manifesta ammirazione. Le donne poi — ad eccezione della regina, di Maria e della contessa di Marbello — la videro con occhio ostile e borbottarono l'agrodolce delle lor sentenze: troppo lunga, troppo magra, troppo bionda, artefatta, pretensionsa; e la Ribaudo confidò perfino ad Orabile Jese:

«Me l'avevan detto che si tingeva. Ma fino a quel punto non è permesso!…»

Orabile — ch'era tutta occupata a studiare le mosse del re verso la nuova venuta — accolse con benigna complicità l' insinuazione dispettosa.

A poco a poco l' impeto delle conversazioni si rafforzava, e s'allargava intorno ad un unico argomento: lo spettacolo di Vezio. Il duca di Monterosso si volse a Costanzo:

«Con un esercito di Ifigenie, dica la verità, generale, si sentirebbe forte contro ogni nemico, eh?…»

Il vecchio soldato taceva, ridendo con un balenìo di fervore negli occhi.

«Oh, per carità!» esclamò Ferdinando Jese «Una guerra oggi?… Le guerre non esistono più!»

«Impossibile!» approvò il principe Della Falce «Sarebbe un controsenso!…»

Il marchese Ribaudo teneva bordone, ripetendo:

«Macchè guerra! Macchè guerra!…»

Il re crollava il capo, e doveva confidare ai suoi vicini — Triverna e Fivignano — qualche cosa di molto comico, perchè i due ridevano saporitamente; poi aggiunse, forte:

«Sogni!… Fantasie!…»

Wanda guardò il generale che torceva le labbra con una piega d'amarezza o forse di malizia tra le rughe del viso, e mormorò:

«Se non ci fossero i sogni e le fantasie, poveri noi!…»

«Finchè nel mondo esisteranno due uomini» disse Ugo Roscio «la guerra sarà come un fulmine che può scoppiare da un momento all'altro….»

«Ma no, ma no!» si scalmanava il barone di Loën, perdendo la flemma abituale «Le relazioni amichevoli tra le nazioni garantiscono la pace….»

Un coro femminile gli fece eco:

«Ben detto!… Lasciate da parte la guerra!… Che orrore!… Pace, pace!…»

«Ne siamo noi i custodi!…» ribatteva l'ambasciatore «Non ci fate offesa!»

Valentino s'indirizzò a lui deliberatamente:

«Barone, prima dell'amicizia c'è la patria!»

«D'accordo, d'accordo….» masticava il barone «D'accordo; ma….»

«Imperialista!» gridò il re al duca di Varo, ridendo «Non intorbidate le acque…. Viviamo, e après nous le déluge!…»

Valentino non rispose, e si fece un improvviso silenzio. Le parole di Albano erano apparse stonate anche a coloro che non ne avevano misurata la sconveniente leggerezza. Il conte di Fivignano — che, brontolando “la guerra? la guerra?… così si fa, la guerra….”, simulava col gesto l' imbracciatura del fucile — rimase a mezzo della frase e dell'atto. E la signora di Marbello, avendolo di fronte e vedendolo in tal modo armeggiare, domandò:

«Qualche partita di caccia?»

L' interrogazione della contessa inconsapevolmente ed opportunamente dissipò le nebbie.

«Benedetta sordità!» commentò il principe Jese all'orecchio della duchessa di Monterosso.

«A presto, a presto!» s'affrettò a ripetere il barone di Loën, chinandosi verso la vecchia dama.

Questa avvicinò alla bocca dell'ambasciatore la tromba del suo apparecchio, ed ancora domandò:

«A quando le formidabili battute del vostro granduca Ernesto?»

«In autunno, Eccellenza, come al solito…. Ma ho ragione di ritenere che Sua Altezza Imperiale il granduca ereditario inviterà molto prima i suoi augusti amici e le loro floride corti: credo che prepari qualche sorpresa.»

Mentre esclamazioni di contento e sollecitazioni di curiosità s' incrociavano d'ogni parte, Maria susurrò a Costanzo:

«Come se n'empie la bocca del suo serenissimo principe!… Lo guardi!… Non sembra rosolato nel lardo?…»

Albano intanto elogiava la magnifica ospitalità dei castelli imperiali del granduca ereditario d'Altamagna.

«Favolosa!» ripeteva «Favolosa!… Nulla è impossibile ad Ernesto, quando si tratta d'abbellire il soggiorno dei suoi invitati. Ed anche Olga, la granduchessa, a poco a poco s'è fatta alla sua scuola.»

L'ambasciatore, con un sorriso compunto che velò il malessere prodottogli dall'osservazione del re, sviò il discorso: Olga era la moglie morganatica di Ernesto d'Altamagna e non ancora i diritti di lei erano stati riconosciuti dal vecchio e rigido imperatore. Disse:

«La Maestà Vostra rivaleggia col mio signore per lo splendido fasto con cui accoglie i fortunati prescelti. Rammento le regate nel golfo di Paleopoli, l'anno scorso.»

Maria novamente mormorò a Costanzo le sue impressioni:

«Peccato che non ce ne siano affogati una mezza dozzina!…»

Wanda parlava pochissimo: s'era intrattenuta con la marchesa di Pietracamela, ed ora aspettava con impazienza il momento di interrompere la generalità rumorosa della conversazione. Infatti ella respirò di sollievo, quando il re accennò a passare nella sala da giuoco co' suoi soliti compagni di partita: Triverna, il conte di Fivignano e il marchese Ribaudo. I convitati allora, secondo la consuetudine, si sparpagliarono per le stanze attigue nelle quali — tutte piccole e chiare — scintillavano le tavole sontuosamente apparecchiate per la cena notturna. Straczy e la principessa Della Falce non abbandonarono la vecchia signora di Marbello: anzi le rimasero appresso con mille premure, vigilando che al suo gagliardo e proverbiale appetito non mancasse alcuna delle varie e prelibate leccornie che ornavano la copiosa ricchezza delle mense; e Ferdinando Jese, allargando il cerchio delle piccanti confidenze, indicò il gruppetto alla Ribaudo, mormorandole:

«La fame della contessa di Marbello non ha avuto mai salse così dolci!»

Maria, passando vicina a Wanda che s'era fermata sulla soglia di uno dei salotti, notò il pallore di lei e lo sguardo acceso.

«Vostra Maestà non si sente bene?» interrogò con premura.

«Ma no!» rispose la regina con un gesto vago «Sono un po' stanca!»; e aggiunse, abbassando la voce: «E seccata, sa?…»

«Pazienza, Maestà, pazienza!» disse la principessa sorridendo «La pazienza dev'essere il companatico dell'umanità….»

«…. perchè il pane cotidiano non sia indigeribile, eh?» fini Wanda con una punta d'asprezza; poi, volgendosi alla Pietracamela che s' appressava: «Venga con noi, marchesa!»; e sedè ad un tavolino, invitando le due signore ad imitarla.

Ugo Roscio, Valentino e Leonardo di Pietracamela s'accostarono.

«Rimpiange molto il soggiorno di Ghenna, marchesa?» domandò Roscio.

«Non acuisca le mie nostalgie, comandante: Ghenna è indimenticabile!»

«È una città» osservò Valentino «che non m'è mai riuscita simpatica.»

«Per questo» disse Leonardo «sei stato avarissimo anche a noi delle tue visite.»

«Non sa, marchesa» esclamò Maria «che tutti son cascati dalle nuvole, quando il duca di Varo ha dovuto confessare di non conoscere ancora la cugina?»

«Imperdonabile! Imperdonabile!» e Roscio ammiccava maliziosamente «Ne sei almeno confuso e pentito?»

«Il rossore m' invermiglia ancora le gote!» scherzò Valentino, notando invece tra sè che sul viso bianchissimo di Franca traspariva sovente l'ondata rosea del sangue «Già mi sono con umiltà scusato, e la marchesa s'è degnata d'assolvermi.»

«Assoluzione plenaria?» domandò la regina.

«Assoluzione plenaria, Maestà.» affermò la Pietracamela.

«Peccato!» fece Roscio «Una dura penitenza gli sarebbe stata bene.»

«Mia moglie» commentò Leonardo sorridendo «è di buonissima pasta.»

«Sicuro! Non è colpa mia, ma è così!»

A Valentino spiacque che nell'atteggiamento e negli sguardi della marchesa fosse a quando a quando evidente una punta di lusinga incitatrice che corrispondeva alla palese galanteria di Roscio. Egli instituì mentalmente un paragone tra le dame che gli erano innanzi: la regina, chiusa a qualsiasi genere o tentativo di sdolcinatura sentimentale; la principessa di Cerito, ardita talvolta nel giuoco delle mondane scherme, ma sempre difesa dal riso franco e pronto e dalla costante ironia; e questa marchesa di Pietracamela, ora, che mutava in modo così sconcertante l'espressione della fredda affabilità con le grazie morbide e irritanti della civetteria. E Valentino — che pur era indulgentissimo e, forse più, indifferente — provò un inspiegabile senso di sordo malessere e di disagio. Egli scrutava il volto della nuova venuta con inconscia attenzione: la linea della bocca, piccolissima, aveva una piega di blanda malinconia; e gli occhi, di tanto in tanto oscurandosi per l'ombra stanca delle palpebre pesanti, parevano corolle di fiori che i petali gravassero con l'effusione della lor molle dolcezza.

«Taciturno il duca stasera!» osservò la regina.

Valentino trasalì.

«Effetti dell' Ifigenia!» motteggiò Maria.

«Le è piaciuta, l' Ifigenia?» gli domandò la marchesa.

Egli rispose con parole vaghe, distratto: pensava con una velatura di stupore e di rammarico che pur gli era stato possibile, a Vezio, di non accorgersi della presenza della Pietracamela…. Trasalì una seconda volta, ma ora non per richiamo altrui, sibbene per la percossa interiore dei proprii sentimenti. Di nuovo guardò Franca con un lungo sguardo ch'ella mostrò di notare perchè arrossì lievemente. E Valentino distolse gli occhi, avvertendo nel cuore come un palpito di gratitudine per quell'attenzione e quella confusione che in lei gli erano apparse evidenti.

Straczy attraversava in quel momento il salotto, guidato dal principe Della Falce: il giovine diplomatico, ch'era molto rosso e impacciato, camminava ondeggiando e guardando a destra e a sinistra con una disposizione sempre pronta e mal repressa agli inchini, e con un sorriso discretamente idiota fitto sulle labbra.

«Questi diplomatici» gettò là il principe Della Falce passando e soffermandosi un istante dinanzi alla regina «non hanno mai un minuto di respiro: chiamata al telefono, comunicazioni urgenti dall'Ambasciata…. Li pescano anche in mezzo al beato gorgo del riposo scrale!…»; ed uscì, con quella sua aria di rassegnazione ironica e distratta che, imprimendogli sull'alta figura smilza e dinoccolata un suggello tra di noia e di sbalordimento, lo faceva somigliare a un punto interrogativo o esclamativo.

Il visconte gli tenne dietro, aguzzando fino allo spasimo la maschera del sorriso.

«Va' là, va' là!…» masticò Roscio all'indirizzo del principe «Accompagnalo anche!…»

«Povero Straczy!…» scherzò blandamente la regina «Mi fa l'effetto d'un cane cùcciolo che si sforzi d'apparire bene ammaestrato.»

Roscio ripetè l' intenzione del commento salace:

«Un cùcciolo che si permette qualche libertà da…. adulto!»

L'osservazione cadde; e Maria disse:

«Vedrà, marchesa: ora il barone di Loën le presenterà il suo tributo floreale.»

Franca non capiva.

«Sì.» spiegò la principessa «L'ambasciatore possiede nei suoi giardini un' infinità di serre dove c'è una coltivazione intensiva di magnifiche rose; e subissa le sue conoscenze sotto una profusione di queste offerte profumate.»

«Non v'è rosa senza spina!» canterellò, burlando, Valentino.

«Pericoloso il barone?» s' informò Leonardo con un fine sorriso.

Il duca s'affrettò a replicare:

«Oh, io parlo in tutt'altro significato!… Politica pericolosa, non altro.»

«Bene!» esclamò gaiamente Franca «Guarderemo di non farci corrompere dalle esalazioni d'Altamagna…. È così?»

Tornava il principe Della Falce.

«L' ho insediato nella cabina telefonica.» disse, alludendo a Straczy «La via per venire di qua la ritroverà da sè.»

«Oh, i diplomatici hanno buon fiuto!» esclamò Roscio.

«Son diplomatici per questo.» ribattè il principe; e guardò Roscio, socchiudendo gli occhi.

«Notizie importanti dall'ambasciata!» commentò il marchese di Pietracamela.

«Volevano il barone in persona, ma si contenteranno del segretario, noh?»

«Che n'è del barone?» domandò la regina.

«Chiacchiera coi Jese e coi Monterosso, Maestà, e vuota parecchie coppe di champagne…. Perciò ho preferito di scomodare Straczy che stava digiunando in compagnia di mia moglie.»

Tutti guardarono il principe: ma questi parlava con indifferenza, occupato a scegliere da un vassoietto il pasticcino più dorato.

Rientrò il visconte Straczy, frettoloso e rigido, senza sorridere più; s'accostò a Della Falce, lo sollecitò vivamente:

«La prego…. Permetta a Sua Eccellenza di comunicare con l'Ambasciata…. Si tratta di cosa riservatissima.»

Quando i due si furono novamente allontanati, Valentino osservò:

«C'è del torbido. Che premura hanno dal palazzo d'Altamagna?»

«Si sarà ucciso qualche attachè!…» scherzò il comandante Roscio.

«Eh, perbacco!» fece Maria «Son così lesti di mano all'Ambasciata?…»

«Il preteso suicida» disse Leonardo ridendo «avrebbe potuto scegliere un'ora più conveniente!»

Il principe Della Falce, Straczy e il barone di Loën riattraversarono il salotto; e il barone, ch'era molto accesso in viso, si volse alla regina, scusandosi:

«Vostra Maestà mi perdoni…. Il servizio, il dovere…. Vostra Maestà mi perdoni….»

«Dio, com'è rosso!» notò Maria «A momenti piglia fuoco!»

«Lo champagne» esclamò Franca «è il carminio naturale degli uomini….»

«…. e delle donne!» finì Roscio «Perchè non beve, marchesa? Sempre astemia?»

«Se ne ricorda?» gli rispose Franca «Sempre!»

Valentino per la seconda volta notò la grazietta un po' leziosa dedicata dalla Pietracamela a Roscio; e ancòra ne ricevè una puntura di malumore.

La principessa di Cerito, assaporando con gusto il frizzante vino ambrato, interpellò il duca di Varo:

«Mi dica lei…. Ce l'avevano, al tempo di Ifigenia, questa delizia?»

«Non so se l'arte di Dioniso giungesse fino all'artificio.» burlò Valentino, scuotendosi «Leonardo di Pietracamela con la sua dottrina archeologica potrà informala meglio di me. Ce n' hai, Leonardo, frammenti di coppe per champagne tra le reliquie del tuo musco?»

«Ci farò uno studio speciale e riferirò.» rispose il marchese con comica serietà «Quel che è certo si è che lo champagne scorreva nelle vene di Venere.»

Roscio rise grassamente.

«Una bottiglia che si vuot erebbe tutta d'un fiato!…»

«Rieccoli.» avvertì Maria, udendo uno scalpiccìo di passi.

Infatti i tre riapparvero: il barone era pallidissimo e avanzava quasi barcollando, mentre il segretario aveva una profondissima ruga tra ciglio e ciglio e tremava visibilmente.

«Càspita!» susurrò Roscio «Che s'è incendiato l'archivio?…»

«Ma sì, ma sì!» diceva il principe Della Falce all'ambasciatore «Sua Maestà il re la scuserà…. Venga con me, l'accompagno io….»

«Oh, oh!» fece Leonardo, guardando per il vano dell'uscio dietro al gruppetto «Cose gravi!»

Roscio s'era alzato, pieno di curiosità.

«Che diamine è accaduto?»

«Non ho mai visto il barone di Loën in quello stato!» esclamò la regina.

Maria continuava tranquillamente a sbocconcellare.

«Gli avranno fatto saltare in aria l'Ambasciata!» mormorò, masticando.

Qualcuno entrava nel salotto, interrogava Roscio. S'era prodotto un senso generale di stupore: che aveva il barone?… Sì, l'avevano chiamato al telefono; non si sapeva che cosa gli avessero comunicato; aveva una faccia da far pietà; s'accomiatava dal re; forse il principe Della Falce era al caso di informare…. Tacquero: l'ambasciatore s'avvicinava alla regina.

«Maestà….» balbettava «Domando scusa…. è necessario che me ne vada….»

Wanda gli tese la mano.

«Qualche cosa di spiacevole?»

Il barone aveva i singhiozzi alla gola.

«Terribile!… Terribile!…» ripetè con gesto desolato «Domando scusa…. domando scusa….»; ed uscì quasi correndo con Straczy.

«Ebbene?» fece la regina, volgendosi a Della Falce.

Questi allargò le braccia.

«Non so…. Non gli si cava una parola di bocca…. è istupidito.»

Albano si fece largo nel circoletto che serrava il principe.

«Ma, nsomma, si può sapere?…»

Della Falce riaffermò la propria ignoranza.

Ferdinando Jese azzardò, in mezzo al profondo silenzio degli astanti:

«Sia morto l' imperatore d'Altamagna?»

Nessuno rispose.

«Via, via!» proruppe nervosamente il re «Non date il malaugurio!»

Un confuso mormorio fece eco alle parole di Albano: domande, risposte brevi, ipotesi, esclamazioni.

«L'Ambasciata non è lontana.» consigliò Valentino «Il barone, con la premura che aveva, dovrà giungervi a momenti. Vostra Maestà faccia telefonare: può essere che informino.»

La proposta fu accolta, e il re diede l' incarico d'eseguirla al principe Della Falce. Intanto rientraron tutti nella più grande sala dov'eran prima adunati. La signora di Marbello interrogava direttamente Albano, il quale represse a stento un moto d' insofferenza.

«Ma non so…. non so…. Non sappiamo nulla.»

L' inquietudine del re guadagnava a poco a poco i presenti: l'ansia ingrandiva di minuto in minuto come un occupante ingombro di sgomento.

Quando, finalmente, il principe Della Falce venne verso Albano e gli bisbigliò qualche cosa all'orecchio, l'universale curiosità si tese come un arco. Il re trasalì violentemente.

«Oh!» esclamò; poi girò gli occhi intorno, disse: «Hanno assassinato Ernesto d'Altamagna e la granduchessa Olga.»

Era mattina: un gran sereno si versava dal cielo sulle vie della città, e una carezza calda e lieta di limpido sole avvolgeva il traffico affollato, colorendo vivacemente uomini e cose. Un'aria tepida, un azzurro intenso, una luce gioconda.

La principessa di Cerito e Paola Rinaldi s'erano incontrate; e, come Paola andava all' Università per portare un libro a un'amica, Maria, udendo che il luogo dell'appuntamento era il gabinetto dei papiri, aveva con scherzoso sussiego rivendicato a sè una larga quota di sottoscrizione per la società studiosa di quella scienza sibillina.

«Sono mescolata anch' io, dunque, nelle vecchie e misteriose scritture. Se non temessi d'essere indiscreta, la mia curiosità le chiederebbe in grazia d'essere introdotta nei sacri penetrali.»

Paola aveva lietamente consentito.

«Non voglio svelarle nulla prima della visita.» disse «Mi piacerà poi ascoltar da lei la sua vergine impressione.»

«Profanerò il tempio?»

«Ma neanche per idea!… Del resto, a quest'ora il pontefice massimo non c'è: troveremo soltanto le vestali, e le vestali sono amiche mie. Dunque….»

«Il pontefice massimo è il professor Vidali?»

«Proprio. Vedo che lei è bene informata. Lo conosce?»

«Di fama e di vista: bellissima figura.»

«Magnifica. È un uomo che, se posso esprimermi così, «respira greco»: la sua scienza è pane, vero pane: nudrita salda semplice sana.»

«Ha l'aspetto…. di che?… M'aiuti lei: d'un filosofo?»

«Secondo che filosofo, principessa. Lei l' ha veduto, noh?… è alto, ma un po' curvo; ha il volto nobile e sereno, ma v'è talvolta una piega d'amarezza e un guizzo d' ironia. Si china dall'Olimpo giù verso la terra: ecco.»

«Nientemeno?!»

«Bisogna ascoltarlo, a lezione: si capisce allora che cosa sia il senso della felicità artistica. Traduce con una pacatezza che è accentuata dalla pronunzia lenta della sua origine meridionale: a volte cerca le parole, le ripete, le muta tra una pausa e l'altra, ma non dà l' impressione dello sforzo: anzi pare che s' indugi, tranquillo e sicuro, ad accarezzare e scarnire le frasi: arriva fino al midollo delle cose, ma senza violenza, così, per natura. Non si può esser passati per la sua scuola, senza aver sentito ch'egli è il migliore di tutti. Alcuni studenti lo temono, a torto: è buono, affabile…. è vero, sì, ha la convinzione che la massima parte dei suoi esaminandi non sa niente di greco: ma la conoscenza degli errori umani produce l' indulgenza, noh?… Eppoi è un ministro generoso d'aiuti: i suoi discepoli diretti ne fan la prova ogni giorno. E non è l'orso chiuso nella tana della sua disciplina. Credo che adori la musica. È un conversatore arguto e piacevolissimo. Tra i miei maestri d' Università è quello ch' io ricordo con più sincero fervore d'ammirazione….»; s' interruppe ridendo: «Che panegirico, eh?»

Maria protestò.

«Mi dolgo di non sapere nemmeno l'alfa, beta…. Debbo darle fede sulla parola. S'è laureata in letteratura greca lei?»

«No: molto comunemente in letteratura paesana. La laurca!… Che cosa stupida, sa?»

«Oh, signorina! M'apre un mondo nuovo oggi. Si confessi.»

«L'effetto non è il medesimo per tutti…. Altrimenti non si spiegherebbe come le più delle mie colleghe preparino innanzi tempo il biglietto da visita con tanto di dottore o dottoressa. Che designazioni orrende per una donna! Da rabbrividire…. Io, quando uscii dall'aula della mia discussione, avevo una rabbia che mi sarei mangiata. Mi parve d'aver ricevuta una patente di stupidità: altro che coronazione di sapere!… È stata una delle mie giornate più dispettose e più tristi.»

La principessa considerava la sua compagna con uno sguardo di stupore e di simpatia.

«E pensare che avrà ottenuto il massimo della votazione!» esclamò.

«Il massimo: e non me ne sentivo che maggiormente avvilita.»

«Capisco quello che dice. Nonostante ciò, le farò una domanda per cui crederà che io non abbia capito nulla. Che aspetta lei dalla vita?»

Paola tacque: poi, con un sorrisetto d'esitazione, rispose:

«Molto, principessa.»

Maria le posò una mano sul braccio, e le s'accostò più vicina.

«Sentiamo. Che cosa?»

«Una cosa che è ridicola, detta così di punto in bianco. Eppoi è così difficile a dirsi e a definirsi!…»; ancora indugiò, con un ritegno di dubbio e quasi di rossore; ma proseguì nella effusione confidente: «La gloria?… No. Parole!… L'arte, l'eccellenza nell'arte?… Che so io?… Insomma, sono cose che non si dicono. Ne parlo a lei ora, ma non ne parlo mai con nessuno. Spesso mi domandano: “Che fa? Che scrive”?; ed io rispondo: “Niente….” Com'è possibile mettersi lì a snocciolare le proprie idee e i proprii sogni?… Ma è peggio: la gente ci crede, ed eccovi il “peccato”, eppoi i consigli, eppoi le esortazioni…. Io continuo a far le viste di niente. Fino a quando?…»

Maria, attenta, ripetè:

«Avanti! Vede come l'ascolto?… Si confessi!»

La Rinaldi sorrise, con una punta di disdegno.

«È una corte anche questa: la corte delle lettere. Buffa, sa?… E non le parlo dell'anticamera!… Affollata di eterne giovani autrici che non si stancano, nell'attesa senza fine, di lustrar le panche e di sbirciare chi entra, chi resta, chi passa…. Nell'anticamera ci sono anch'io, cioè no, non io, non la mia anima nè il mio ingegno, ma quella figura di me che agli altri piace di associare nel tumulto inane e faccendiero dell'anticamera: e pensano che io tenga a quel poco che ho fatto e che invece è già lontano da me e deplorato…. Ah, che miseria, principessa, che miseria!… Mi vien la voglia feroce di dar gomitate, e farmi largo, e mandar tutti a ruzzoloni…. Che piaga, le scrittrici….!»

«E lei crede che gli scrittori uomini siano perfetti?»

«Non perfetti, ma diversi. L'uomo è sempre più a posto della donna; e la donna, nelle arti liberali e nelle professioni in cui s' è installata, è ancora una parvenue.»

La principessa rise.

«Com' è severa, signorina!»

«No, cara, non mi giudichi male. Sono indulgentissima, anzi; e, se esercito la severità, la esercito duramente contro me stessa. Voglio essere qualcuno, sì, ma solo dopo aver fatto qualche cosa.»

Accennò il palazzo dell' Università:

«Cì siamo. Non le par già di respirare odor di mummie e consimili?…»

Entrarono nell'atrio.

«Sento un altro odore io!» esclamò la principessa ridendo «L'odore delle scuole: asili ed atenei ne sono impregnati: un che tra di rinchiuso e di minuzzoli di pane. Noh?…»

Paola fe' coro giocondamente.

«Ha ragione. E qui più che altrove. Nell' Università di Tallusa, facoltà di lettere e filosofia, c'è la tradizione degli studenti sgobboni, malinconici, anemici e…. sudici. Ma sì! È una prerogativa. Già la massima parte son preti e signorine: il resto son mezzi uomini, occhialuti, calvi, e molto intignati. Oh, non corrotti, no; ma senza gioia, senza giovinezza e senza genialità. Una scuola insomma, come si direbbe in istile barbarico, di tutto riposo…. Ma io, con le mie chiacchiere, le impedisco di ammirare!»

Con gesto d' ironica magnificenza la Rinaldi indicò le statue di gesso bruttamente piantate su basi di tavole dipinte a venature marmoree.

«Questa è la galleria degli uomini illustri. Saluti, principessa!… Lì» e mostrò un uscio a vetri nascosto da un polveroso tendaggio verde «è l'Aula Magna.»

«Ci sono stata» rammentò Maria «non so più per quale discorso inaugurale: feci, in quell'occasione, uno studio profondissimo sugli affreschi del soffitto.»

Paola proseguiva nell'ufficio di guidatrice.

«Vede qui?… C'è la sala delle dissertazioni di laurea.»

«La sua?»

«Ma sì, anche la mia.»

Voltarono per un ampio corridoio tutto fiorito alle pareti di crudi arabeschi.

«C'era, un tempo, il museo indiano.» spiegò la Rinaldi «Ora s'accede alla biblioteca, là in fondo. Mi ricordo — raro guizzo di questi smorti annali goliardici — che un giorno ci appiccicarono un cartello con la scritta: “sala dei passi perduti”.»; s'arrestò dinanzi a una porticina, annunziando: «Gabinetto dei papiri. Entriamo, principessa?»

«Sono nelle sue mani, e Minerva mi sia, propizia.»

Paola battè un colpetto, girò la maniglia.

«è permesso?»

Le due studiose sollevarono il viso dall' intento e tacito lavoro, e invitarono le sopravvenienti. La principessa di Cerito le osservò curiosamente, mentre la Rinaldi faceva le presentazioni, esplicando lo scopo della visita. Una — alta, elegante, di bellissime forme — aveva modi d'affabilità signorile: gli occhi miopi, ritemprandosi dalla stanchezza della lettura difficile nella vista lieta dell'amica e della sua compagna, s'affrettavano in un battito ripetuto, come il cuore d'uno che abbia corso a lungo; il volto esile, profilato sotto l' incorniciatura dei capelli lucidi e nerissimi, contrastava con la pesantezza delle mani larghe e molli: ella parlava piano e posatamente, ma, nella precisione, arguta e vivace. L'altra, più giovine, avea un aspetto rude — i tratti spiccati come quelli d'un conio primitivo —: ritrosa, di poche parole, rideva spesso, e il riso, illuminandola, l'aggraziava.

«Vedere?… Ben volentieri!… Il guaio si è che la nostra scienza, come Paola pomposamente la chiama, non ha molto apparato. In verità c'è poco da vedere….» e, con mossa eloquente, l'ospite più docilmente cortese abbracciò intorno la piccola stanza; additò via via le cose che illustrava: «Lo scaffale dove sono i papiri già letti; là, invece, sono quelli ancora indecifrati…. Qui, nelle cassette, i frammenti che debbono essere esaminati, ordinati, e posti sotto vetro…. La nostra piccola biblioteca di consultazione; i volumi dei papiri pubblicati…. Il nostro tavolino da studio, e…. e non saprei: non c'è altro, proprio.»

«Sei stata un'esattissima guida materiale.» osservò la Rinaldi; poi, con enfasi burlesca: «Ora infondi lo spirito negli oggetti, e parla, o sapientissima!… La principessa è un'ascoltatrice ideale, e….»

«…. e» finì Maria scherzando «si sente molto umile tra cotanto senno. Davvero, siano gentili verso la mia ignoranza: questa dei papiri, anzi delle signorine dei papiri, è una cosa così strana e lontana dal comune che io sono armata d'acutissima curiosità…. Per esempio» e si volse alla più giovine e silenziosa «quando siamo entrate, avrei giurato che la signorina fosse in estasi davanti ad uno specchio…. Il riflesso della luce m' ingannava: ora vedo, invece, che lei studiava un papiro sotto vetro. Non è da tutti leggere in cornice, eh?… Perchè li tengono in questo modo? Per conservarli?»

L' interlocutrice della principessa era doventata di fiamma; ma tale era l'accento di cordialità graziosa e sorridente di colei che le parlava, che ogni ritenutezza ne veniva spezzata e disciolta.

«Sì, ed anche per averli distesi e pronti alla lettura.» rispose.

L'altra mise la mano nella cassetta dei frammenti, ne prese e trasse qualcuno con accorta delicatezza.

«Guardi.» disse «I papiri ci arrivano così: frantumati, raggrinziti, confusi…. Sembrano foglie di tabacco biondo, noh?… Son fragilissimi, chè la fibra vegetale è ben secca e facilmente si trita: non sarebbe possibile maneggiarli a lungo senza guastarli…. C'è anche un'altra ragione: sono, come vede, frammenti; alcuni poi minutissimi: molta parte dell' intiero papiro è andata perduta o s'è consunta: epperò bisogna indovinare le lacune e distanziare convenientemente i pezzi che ci rimangono, in maniera che ciascun dei resti occupi il proprio luogo e permetta, a prima vista, di ricostituire l' immagine del papiro com'era e come noi ci sforziamo di rendere nella nostra interpretazione.»

«È ingegnosissimo!» esclamò Maria.

«Non è un procedimento nuovo» continuò l'espositrice «ma richiede molta pazienza. Bisogna esaminare i frammenti, scernerli in ordine coerente, inumidirli per farli docili alla dispiegatura, disporli in legami di continuità e in calcolati stacchi d'intervallo; poi si premono tra un vetro e l'altro, e si chiudono intorno con una listerella gommata che ha un dato colore per ciascuna categoria.»

La principessa ammirava.

«E questo lo fanno loro?»

«Il più che possiamo. I preparatori, anche lavorando dietro indicazioni precise, combinano a volte certi pasticci che Dio ci scampi!…»

S'avvicinò alla scaffalatura nelle cui caselle eran raccolti i papiri sotto vetro, ne porse alcuni a Maria. Avevano l'aspetto di quadretti sottili, segnati in giro dall' incollatura della carta bianca, rossa o grigiastra: ve n'eran di misura svariata — i più, rotti e tormentati dall'offesa del tempo —.

«E loro ci leggono?» domandò con candido stupore la principessa, guardando i caratteri per lei incomprensibili che, dove più nitidi e dove più scoloriti, segnavano di linee oscure e diseguali l'arsiccio fondo bruno del papiro strappato e disgregato.

«Oh, sì!» fece la studiosa, ridendo; le tolse di mano il papiro e lo osservò: «Questo anzi è chiarissimo.»

Nuova esclamazione della principessa.

«Beata lei!… E che c'è scritto?»

«Nulla d' interessante: il contratto della vendita d'un asino.»

«Ah! Ah!… A buon mercato, almeno?»

Paola scherzò:

«Ora gli asini son più cari: ecco la differenza!»

La signorina pazientemente levò dal fondo dello scaffale uno straterello di piombo, sulla opacità della cui tinta cinerea e bluastra la graffiatura delle lettere metteva un luccichio fine e minutissimo.

«È una formula d' incantesimo perchè il cuore della persona invocata soggiaccia all'amore…. Come vede» commentò gaiamente «i disdegni e le speranze d'amore hanno fatto ben presto la propria comparsa nel mondo!… A proposito» aggiunse «le mostrerò un documento curiosissimo, unico del genere…. Dov'è?»

La compagna la aiutò nella ricerca, scovò per prima il papiro, e si volse alla principessa che la sollecitava di domande.

«è una dichiarazione rilasciata da una donna a un uomo: ella giura di convivere con lui fedelmente, promettendogli cura ed affetto; e si obbliga di non somministrargli nè farmachi nè filtri nè altre sostanze nocive, nè in cibo, nè in bevanda.»

«Oh, com'è strano!…» diceva Maria «E loro van discoprendo l' intimità di questa vita così lontana da noi?»

«Cose del primo scorcio dell' Era volgare.» precisò la Rinaldi «È un' indiscrezione da far mettere i capelli bianchi, noh?»

«C'è un po' di tutto.» spiegò l'una delle studiose «Formule di magia, procedimenti giuridici, frammenti letterarii, liste amministrative, epigrammi mortuarii, contratti di mercato, spigolature d'archivî pubblici e famigliari, lettere, letterine…. La sabbia del deserto ce li ha serbati: noi li riportiamo sotto il sole.»

«E con che pazienza!» elogiò Paola «Con che passione! Queste due signorine — vede, principessa? — sono larghe e perspicaci conoscitrici della lingua greca: e non all' ingrosso, e non nei tersi limiti dell'aurea purezza letteraria, ma in ogni gamma delle variazioni moltiplicatesi di secolo in secolo, in ogni diversità peculiare di luoghi e di paesi, fin nel tritume inafferrabile della consuetudine parlata, fin nella specia lizzazione corrente delle formule giuridiche, contrattuali, epistolari….»

«Non hai finito, di'?…» la interruppero in coro le due giovani.

Paola non dava retta.

«Sono i vostri meriti che non hanno fine…. Voi superate la difficoltà materiale della lettura, siete abili nell'esame filologico, siete profonde nella scienza antiquaria dei costumi, delle leggi, delle religioni, dei popoli…. E via di questo passo. Smetto per non farvi troppo arrossire.»

«Con Paola non si ragiona!» scherzò la più loquace e compiacente illustratrice «Ma guardi…. Un tormento per i nostri occhi. Sono i papiri carbonizzati. Gli scopritori indòtti gli hanno tagliati per il mezzo del rotolo in cui si avvolgevano, eppoi hanno venduto i cartoni sui quali avevano ingommato i pezzi così divisi e rovinati, disperdendoli senza criterio d'ordine tra gli scienziati di tutto il mondo…. Son faticosissimi a leggersi: con un giuoco di luci bisogna far brillare il fondo nero della sostanza abbruciata per cogliere l'opaco della scrittura…. È questione di vista acuta, ripeto. Paola esagera.»

Il sole, di striscio, gettò una lama di luce traverso alla stanza. Maria guardò il lampeggiamento dorato che danzava nella dritta scorta di quello splendore improvviso, e n'ebbe come una percossa di stupore: dunque c'era l'azzurro, nel mondo, e la grande aria libera che bagna la vita?… Sorrise con un sùbito attonimento malinconico, rivedendo quelle due creature chiuse nella fredda dottrina. La assalì l' inutile volontà di scuoterle e frugarle nel fondo del cuore per iscoprire il loro cantuccio di sole, ed ebbe fretta d'uscire muoversi e respirare in cospetto della sana e aperta letizia che involge la terra e gli uomini quando il cielo è sereno e la stagione è dolce.

Queste impressioni ella riferì a Paola, allorchè novamente furon nella via.

«Può essere una parentesi breve della vita.» disse «Ma non tutta la vita!… Del resto» si corresse, con una scrollatina di spalle «la superficialità e la saltuarietà delle relazioni umane son quelle che traviano il nostro giudizio ed anche, ciò che è peggio, la nostra stessa esperienza…. Io ho veduto le sue compagne per mezz'ora, e niente ormai più portà farmi disgiungere l' idea del tedio arido e buio dall' idea dei papiri. Quando ho còlto quello zampillo di sole, mi son sentita soffocare, per me e per loro. Eppure son giovani, noh?… E non sono brutte. Anch'esse, forse, corrono od hanno corso per i campi; e certo sanno ridere, e certo sanno amare…. Non importa: le ho viste così, e non le conosco che così.»

Paola rideva.

«Oh, che arzigogolo di pessimismo le è derivato da questa visita!…»

«Hanno studiato con lei?»

«No: una era già laureata, quando mi inscrissi all'Università; l'altra venne dopo di me. Povere figluole!… Son buone e sono liete, le assicuro; ma sono, sì, — come dire? — sono diverse. Per esempio, esse debbono avere di me una stima inferiore. Intende ciò che voglio dire con questo orribile aggettivo?»

«Intendo; ma non intendo in che cosa….»

«Ma sì!» interruppe la Rinaldi «Ed il motivo è proprio quello che lei, principessa, ha definito or ora: la superficialità della conoscenza. Eppure ho vissuto a lungo con loro!… E non è bastato perchè sapessimo l' intimo l'una dell'altra. Son certa ch'esse pensano ch' io voglia dar la scalata all' ingegno mondano: mi spiego: credono che in me non ci sia profondità, e ch' io m'affanni a raggiungere quel successo efimero che posson dare un libro di novelle mediocri e una conferenza cui corre molto pubblico. Una stima, insomma, nella quale entra una bell'occhiata dall'alto in basso. Ed io, a mia volta, ammiro ma non invidio la loro dottrina. Siamo pari, e siamo egualmente ingiuste. Il mondo è pieno di malintesi.»

«Così per tutte le sue compagne?» domandò Maria.

«No: una ce n' è con la quale m' è rimasta una consolante comprensione spirituale. Ossia….» dubitò dopo un momento, pensosa «forse il malinteso c'è anche qui. Ella è molto benevola verso me, e crede alla sincerità del mio sforzo e alla potenza di questo sforzo: ma, appunto, può essere ch'ella si illuda e che io mi lasci troppo facilmente abbagliare dalla sua fiducia affettuosa. In ogni modo, è una colleganza d' idee e d'amicizia che non s'è perduta: epperò le voglio bene, e mi è molto cara…. è così triste — sa? — allontanarsi dalle compagne che sono state tanta parte della nostra prima giovinezza!… Le ritroviamo, a intervalli, con un volto mutato e quasi ostile: s'è levata tra noi la barriera insuperabile dei lunghi giorni passati senza più alcuna comunanza. Quelle che conoscemmo bambinone ingenue e spensierate, le rivediamo tutte chiuse in un agghindamento di leggerezza e di civetteria pronta a scattare; oppure con un sussiego estraneo di signorine già fatte che hanno le loro visite e i loro thè e i loro comitati di beneficenza; o ancora strette alla cronaca dell'antica scuola con un gretto compiacimento che sa di pettegolezzo e di meschinità…. La scuola è un'accomunatrice meravigliosa, ma, quando ne siamo usciti, si distacca interamente da noi. Perfino i maestri che più ci furono paternamente diletti, bisogna incontrarli fuori perchè si ristabilisca la continuità dell'affetto: se andiamo a cercarli tra le pareti di quella che fu la nostra scuola, il senso del disagio non si sormonta: noi non sappiamo che dire e loro ci sbrigano con un sorriso distratto di frettolosa costrizione. Questa è la verità, e gli sdilinquimenti che si scrivono in proposito dagli autorelli tutti cuore e tutti dovere e tutti ricordo sono convenzionalismi stampati e non realtà vissuta.»

La principessa riportò alla visione del presente la nostalgica ed amara fantasticheria di Paola.

«Lei è una crudele anatomizzatrice del passato.» disse «Chi sa che sfavorevoli mutamenti trova in me, poichè ci vediamo così di rado!… Son due mesi dall'ultima volta: fu alla rappresentazione di Vezio, rammenta?»

«Rammento benissimo. Ma la nostra amicizia…. Mi permette di chiamarla così?»

Maria sorrise, con un'effusione di tenerezza.

«Permetto?… No: ringrazio.»

«La nostra amicizia» proseguì la Rinaldi «non può cadere sotto il danno comune…. Noi apparteniamo a due mondi così diversi ed opposti, che dobbiamo nutrirla unicamente con lo spirito. Non c'è ninete di materiale, e quindi di caduco, che ci leghi: lei non può interessar me con le alte istorie della sua vita di gran dama, io non posso interessar lei con gli umili fatterelli della mia vita di piccola borghese…. Non protesti! È così, ed io non adopro nè ironia verso il suo stato nè dispregio verso il mio. Quando lei parla a me e quando io parlo a lei, di necessità siamo portate a generalizzare: le persone scompaiono, scompaiono i casi singoli; e si resta in quella indeterminatezza astratta che può illudere ma non deludere e che sola è condizione per alimentare durevolmente un sentimento umano. Non è forse vero?»

La principessa approvava; e Paola, alzando il viso verso la calda serenità del cielo, disse:

«Per esempio, tra tutta questa gente che cammina in compagnia, e gesticola, e ride, e s'apppassiona, e si arrabbia, noi certo siamo le uniche che possiamo ora e domani parlare quietamente tra noi del sole come d'una bellezza che ci appartiene, e ci comprende, e ci protegge…. O fratel nostro, sole!» ella invocò con una morbidezza di scherzo nella voce commossa; e Maria sorrise, e sentì che Paola le era infinitamente cara.

Valentino di Varo, col corpo abbandonato nell' immobilità della contemplazione, sentiva il proprio cuore fremere e balzare e cantare. L'acqua del fiume, giungendo al dislivello della pescaia, si gettava giù con fragore, e quel suo corso azzurrognolo che scendeva di lontano con una pacatezza levigata simile ad un nastro acreo che si sucdasse tra rive terrene, venendo al salto si scapigliava e si rompeva con un impeto vitale d'allegrezza e di forza: non più, nell'improvviso rapido gorgoglio, il riflesso tranquillo delle cose soprastanti, ma uno spumeggio bianco e fitto fitto, un capriccioso e violento voltèggìo di spruzzi e di zampilli. Valentino guardava, co' gomiti fermi alla spalletta: saliva fino a lui l'odor umido e fresco dell'acqua ancòra intrisa nel sapore della terra, e il croscio dell'ondata gli percoteva l'orecchio con un romore inebbriante di sanità gagliarda. Correre, spezzare, vincere! Imbeversi di luce, martoriarsi di tormento, risorgere più affinati e più alti, levarsi e perdersi nella purezza dell'infinito: così: come l'acqua al gorgo, come le sue gocce sottili che si spiumavano in un tremolìo di scintille rapite su nel vento. Gli tornò alla memoria la parola d'un poeta: “O anima dell'uomo, quanto somigli all'acqua!” Anch'egli era arrivato al suo torrente. La piccola vena cristallina della fanciullezza aveva trillato in mezzo alle vette che non conoscono l'umana miseria, eppoi timida timida era scivolata di qua e di là a tentare i nuovi cammini — dove sperdendosi nell'arida sabbia assetata, dove ritraendosi innanzi all'ostacolo troppo grande —, ma pur riuscendo in qualche luogo a fluire virgineamente per i meandri di un nascondiglio intocco; e s'era ingrossata, la piccola vena, e la sua giovine impazienza aveva smosso il torbido della fanghiglia, e patito il morso della tempesta, e goduta la frenesia della libertà; indi l'ampio corso s'era avanzato con quieto vigore in mezzo agli argini floridi e solatii, svolgendosi in una poderosa calma estatica ed in una austerità che chiedeva il sorriso unicamente al raggio sereno ed alle stelle. Ora, ecco, la contenuta robustezza era venuta al punto dello slancio…. Valentino distolse gli occhi dalla vertigine spumeggiante, e guardò fin là dove la vista poteva cogliere il primo lustrare del fiume che scaturiva da un folto di lontane verzure: ne seguì la linea dolcemente tortuosa che pareva, sotto il cielo, uno specchio immobile di luce; poi, più vicina, scrutò la corrente che si muoveva con un soprammetter di trasparenze volubili e fresche, accelerandosi e assottigliandosi quanto più s'appressava a quel gorgo che finalmente la trascinava e rompeva come in un supplizio in cui l'anima canta.

Valentino viveva nello spasimo dell'attesa. Fuor del regno di Venustria le nazioni s'eran gettate e si gettavano ancora in una fantastica ridda di guerre. L'assassinio del granduca ereditario d'Altamagna era stata la scintilla che avea appiccato l'incendio: il giustiziere appartenendo ad un popolo che l'Altamagna iniquamente teneva sotto il giogo, n'eran nate odiose e vessanti imposizioni che avevan provocato la santa ribellione degli oppressi; ma, come le armi e le difese sono approntate dagli uomini, le umane passioni nobili e ignobili avevano allargato il cerchio della battaglia, e quivi si pugnava da un lato in nome della giustizia, dall'altro in nome della violenza. Tale era per Valentino l'origine della guerra: lontano sempre dalla politica, alieno dai misteri diplomatici, indifferente ai problemi sociali, egli accettava questa spiegazione senza volerne indagare le più remote e più intime ragioni. Sapeva di giudicare, così, all'ingrosso; ma gli bastava. Spesso, trovandosi in mezzo ad amici e a conoscenti che ne discutevano sottilmente i motivi e la parte del torto e la parte del diritto, egli si chiudeva in un'ostinata distrazione, e non pensava che al fatto il quale andava compiendosi: vedeva la guerra con l'intelletto ardente d'un cantore di gesta, la sentiva col cuore ingenuo d'un popolano per cui le finezze diplomatiche e le complicazioni politiche non hanno che un solo nome, — patria —. E quella guerra lontana, ma non estranea, gli metteva addosso uno struggimento di passione. Qualcuno già aveva varcato i confini e s'era buttato nella guerra degli altri. Valentino, pur assillato dall'esaltazione, non era stato capace di seguirne l'esempio: versare il proprio sangue su straniero suolo e sotto vessilli stranieri gli pareva un'avventura inconsiderata o un martirio così puro e così personalmente disinteressato che troppo eccedeva dalle sue forze umane. Starsene spettatore, dunque, finchè non si levasse la bandiera nazionale; e rodersi nell'ansia e nel dubbio che l'appello della patria suonasse vano ai reggitori e che la terra di Venustria, rimanesse inertemente avvolta nel lenzuolo dell'ignavia.

«Ah, Venustria, Venustria!… Sonorità di sillabe ch'empiono d'armonia l'anima de' tuoi figli amanti!… Venustria, antica e giovine madre, donna divina ch'eri avvezza a misurare il mondo con passi di battaglia! Indomita guerriera che, dopo la mischia vittoriosa, riposavi il tuo corpo sano sul suolo duro e pietroso in mezzo alle vive raffiche del mare!… Ora dunque ti venderesti mollemente alle grasse moine d'un barbaro trafficante che con le sue mani untuose e pesanti ti sprimaccia le coltri perchè tu chiuda gli occhi e tu dorma?… Hai dimenticato che il sangue ti feconda?…»

Valentino si ritrasse dalla spalletta che dominava il balzo dell'acqua, e camminò lentamente lungo il Viserno. L'aria s'addolciva nel vespro, e il cielo, in fondo, fiammegmeggiava per le vampate del sole calante: aguzze e nere contro quel caldo mare di luce si levavan le vette dei cipressi. Il fiume, come più s' allontanava dal croscio della pescaia, faceva uno sciacquio morbido e lene, quasi che le sue piccole onde intoppassero nelle pagliuzze d'oro del riflesso; e, dove i ponti calcavano tra una riva e l'altra, l'ombra era frigida e verde. Rampollavano le prime stelle, e sul bruno dei colli vicini qualche lume palpitava come un timido cuore.

La natura era in pace.

«Franca!» disse Valentino a mezza voce; e sorrise.

La amava?… No: era meno che amore, era più che amore. L'immagine di lei gli fioriva nell'anima come l'intatta primavera d'un cespuglio virente in mezzo al tumulto che l'aratro fa sulla terra. Ch'ella gli penetrava nel cuore, Valentino l'aveva sentito e capito sùbito, fin dalla sera del primo incontro: egli era sempre troppo vigilante su sè stesso, perchè gli sfuggisse l'inizio d'un sentimento; e daltronde era convinto che non fosse possibile donare inconsciamente il proprio spirito ad un vagheggiamento e svegliarsi dipoi, d'un tratto, con la coscienza presa e sorpresa. Il famoso colpo di fulmine allora?…

Quando, per la prima volta, egli s'era presentato nel salotto della marchesa di Pietracamela, lo aveva fatto fuor d'ogni regola d'etichetta. Eran quasi le sette, l'ora del pranzo. Aveva domandato di lei, se fosse in casa e se fosse sola: mentre aspettava, con un gran batticuore, se l'era veduta venire incontro, sorridente e cordiale. Valentino si trovava ormai là, presso lei, come un bimbo o come un selvaggio.

«Ci son dei momenti» aveva detto «nei quali odio atrocemente le visite. Così stasera: sono venuto non per farle una visita, ma perchè sentivo il desiderio di vederla. Ecco.»

Mentre parlava, pensò: “Ora mi mette alla porta, ed è finita.” Gli pareva d'aver la febbre. Ma Franca serbava una grazia tanto affabile e tranquilla, che il terrore di lui svani per dar luogo ad una trepidazione dolce e quasi puerile che gli metteva dinanzi agli occhi e dentro il cervello un fumo lieve di ebbrezza. Le confidò, interrompendola in un discorsetto ch'egli non ascoltava nemmeno:

«Ho avuto paura che non mi ricevesse!»

Franca sorrise, placidamente.

«E perchè, mio Dio?»

Il giovine la guardò negli occhi, e la sua voce si fe' seria.

«Perchè» rispose «non può esserle sfuggito che la mia maniera di venire a lei è molto strana!»

La marchesa non s'era nè turbata, nè irritata, nè stupita.

«No.» aveva replicato «È così naturale, invece!… Non siamo cugini forse? Il cerimoniale delle solite visite sarebbe stato una stonatura.»

Valentino s'era alzato, per congedarsi.

«Se ne va? Non aspetta Leonardo? Non vuol rimanere a pranzo con noi?»

«Me ne vado. Volevo veder lei e basta.»

Franca cercava di trattenerlo.

«Non insista. Non mi sciupi la mia serata.»; e, prendendo la mano che Franca gli porgeva, egli, ritenendola tra le sue, aveva domandato: «Qui, a Tallusa, ha molta gente che le vuol bene?»

«Ma no, nessuno: ci sono da così poco tempo!»

«Io, allora. Molto bene. Le dispiace?»

Franca non aveva mutato il suo sorriso calmo e gentile, e, liberando la propria mano, aveva risposto con affettuosa cordialità:

«Dispiacermi?… No, cugino: ne sono, anzi, contentissima.»

«Vero?»

«Verissimo!»

Valentino, dopo un secondo d'esitazione, le aveva ancora domandato:

«Che cosa pensa di me?»

«Penso che è giovine, molto giovine….»

«Ventisei anni, sa?»

«Matusalemme!…» aveva esclamato la marchesa, burlando «Lei è un ragazzo, cuginetto: un ragazzo simpatico; ecco che cosa penso.»; e, accompagnandolo fuor del salotto, aveva soggiunto: «Leonardo mi rimprovererà perchè l'ho lasciato andar via. Sarà per un'altra volta, eh?…»

Valentino s'era inchinato profondamente, senza rispondere: ed era uscito avendo nel cuore una piccola immensa luce come quella prima stella che batteva lassù, in alto, nell'azzurro vespertino del cielo.

Poi s'erano incontrati, spesso: chè il modo della loro vita era fatto per ravvicinarli. Valentino, ripensando alla grave dolcezza degli occhi di lei quali li aveva osservati a corte, la sera dell'annunzio tragico, li aveva somigliati, per l'oro della pupilla che scintillava nell'oscura freschezza dell'iride, alle violette doppie. Glielo disse, un giorno, come se l'evidenza del paragone gli fosse balzata soltanto allora alla mente. E Franca aveva spalancato le pàlpebre col volto disteso e quasi sbiancato da un sorriso interno che appena traspariva, e, figgendogli addosso uno sguardo chiaro dove la punta sottile dell'ironia si disfaceva in una tenerezza di compiacimento, aveva esclamato:

«I mici occhi?! Sì, sono insipidi: come le violette doppie.»

«Odoran di fresco e di sole: pallidi e oscuri, e un po' tristi anche.»

La marchesa aveva scherzato:

«Chi?… Gli occhi o le violette?»

«Gli occhi e le violette: e sono, gli uni e le altre, il mio fior preferito.»

«Ragazzo, ragazzo!…»

Ella gliela lanciava spesso, questa parola: “ragazzo”, e la voce le si fletteva in una piega morbida di benevolente dolcezza. Ma, sùbito dopo, il tono della sua conversazione riprendeva una placidità gentile ch'egli finiva, anzi, col trovare troppo gentile. Pur gli piaceva, a Valentino, quella quieta alterezza impenetrabile che s'inteneriva, a volte, in un improvviso e rapido cenno di commozione. Con lui Franca non usava la schermaglia palese della civetteria: aveva, sì, di tanto in tanto, gesti ed atteggiamenti ch'egli sentiva mossi a sua intenzione, ma in tal caso non lo guardava mai, ed era, in apparenza, dimentica di lui.

«Lei capisce tutto, Franca: anche quello ch'io non dico.»

«Ragazzo!…»

«Si rammenta, l'altro giorno?… Il vecchio scienziato parlava di numismatica al pubblico disattento che non manca mai ad una conferenza e che s'annoia d'ogni conferenza. Sulla seggiola inoccupata ch'era dinanzi a me ella aveva posato il suo collaretto bianco di piume. Se n'è accorta, vero?… Io mi chinavo, ed arruffavo con l'alito la leggerezza di quell'onda spumosa…. Lei se n'è accorta, Franca, e ha capito perchè, vero?…»

La signora di Pietracamela rise.

«Sì, che avevo visto Eolo sul mio boa, e il suo attuccio di scolarino che fa le biricchinate sotto il naso del professore…. numismatico!»

E quel collaretto era stato un'altra volta il soave messaggero di ciò che non si osa. S'erano incontrati, Franca e Valentino, in un viale fuori della città. Oh, giornata fresca di vento puro e vivida di solo brillante!… I colli circostanti cran limpidi e vicini come gli orli d'una coppa in cui la primavera versasse il dolce liquore della sua più canora vendemmia.

«Lei che sa tutto, Franca, mi spieghi: com'è che, d'un tratto, una creatura fino ad allora ignota si leva davanti a noi, ed il nostro cuore vi riconosce il segno chiaro e visibile di tutta la bellezza misteriosa e tormentosa ch'è nella natura?…»

Aveva parlato con accento di scherzo e con una lieve enfasi che toglieva al suo discorso l'audacia dell'allusione evidente.

«Io so» aveva risposto Franca «che queste cose le dicono i poeti, e lei è un poeta.»

«Io?… Perchè mi canzona?»

«Ma no, non si schermisca. Non è merito suo: si nasce poeti così, come si nasce gobbi.»

«Ha notato?» diss'egli, dopo un momento «Il sorriso è uno scudo invulnerabile: è, per la parola, quello che i puntini di sospensione sono per la scrittura. Si scherza, e l'anima trema.»

Rientrando in città, eran saliti insieme ad una esposizione di pittura. Prima che dal gruppo dei visitatori si staccassero gli amici e i conoscenti a separarli, Valentino, chino accanto a lei su una piccola tela ch'era appesa nel bass della parete e della quale egli non colse che una vaga impressione di tinte nebulose e perlacee, mormorò:

«Che è, Franca, che è voler tanto bene, tanto bene?…»

Egli non scherzava più, e veramente l'anima gli tremava nella voce.

Franca, risollevandosi, lo guardò a lungo negli occhi.

«Voler bene?» ella ripetè lentamente «Tanto bene?… è una cosa triste, molto triste.»

S'allontanò sùbito, salutò due signore ed un ufficiale. si unì con questi e uscì dalla sala. Quando, poco appresso, egli la rivide seduta co' suoi compagni intorno al tavolino del thè, la marchesa era pallida e silenziosa: scorgendolo, ella prese il collaretto di piume bianche, se lo portò alle labbra come per un gioco distratto; poi tuffò il viso in quella morbidezza oscillante, e i suoi occhi, le dolci violette intense e malinconiche, per un attimo si donaron tutte a Valentino.

Ma il giorno dopo, allorchè il duca, osservando ch'ella aveva il collo libero e nudo, le ricordò con un esitar di riguardosa tenerezza quell' istante di struggente comprensione, la signora di Pietracamela si chiuse in un sorriso ghiaccio e sbadato.

Perchè Franca s'induceva sempre a cancellare la dolcezza che pur sapeva donargli?… Per distrazione o per proposito? Per indifferenza o per ravvedimento? Per leggerezza o per dovere?… Questo il duca non riusciva a comprendere, e la sua ansia s'avvincendava nell'esaltazione e nel dubbio. Daltronde egli non chiedeva niente alla sua donna, nè voleva chiederle niente. Era innamorato, sì, ma innamorato come un fanciullo timido e puro cui ella avrebbe potuto abbandonar gli occhi e la fronte senza che una voglia torbida lo assalisse e la sfiorasse. Era innamorato, e non aveva nessuna curiosità sulla vita di lei. Gli sarebbe anzi spiaciuto conoscerne quei particolari che, inevitabilmente, avrebber velato lo splendore dell'immagine ch'egli portava nel cuore: gli atti e i pensieri d'ogni giorno livellan gli individui in una stessa mediocrità dalla quale invece Valentino aveva sottratto la sua bella Franca bianca e bionda, alta e sottile. Ella non era, per lui, la compagna dei desiderii umani: no: eragli come un anello di congiunzione tra l'anima e l'infinito, come la chiave che aprisse i soprannaturali misteri.

«Lei è la sorella del mare.» le diceva, avvolgendola nella dolce esaltazione delle immagini e delle parole.

«Io lo adoro, il mare!» esclamava Franca, d'impeto; e un piccolo brivido nostalgico la coglieva, fremendole in tutta la persona.

«Ha veduto il color dell'acqua dopo il tramonto?… Si fa ghiaccio e profondo. Come i suoi occhi, a volte, quando non sono dolci. Allora non son più gli uomini quelli che posson parlarle, Franca, ma il vento aperto e la notte fitta di stelle.»

La marchesa rideva.

«Lei è un sottile facitore di paragoni, Valentino. Mi consenta che gliene tornisca uno anch'io. Sa che in musica v'è una piccola nota chiamata appoggiatura la quale, messa davanti a un'altra nota, ne prende il terzo o i due terzi del valore?… Ha capito il paragone?»

«Sì!» fece, pronto, Valentino «Io sono l'appoggiatura e lei la nota generosa.»

La signora di Pietracamela protestò.

«Se mi capovolge anche i termini del mio paragone, ora!… Ah, che ragazzo irragionevole! Ci sono due Franche: la vera, che son io, e quella che ha lei nel suo cervello.»

«No. Franca ce n'è una sola!» disse il duca, con tenera ostinazione «Eppoi, in ogni modo, la vera Franca non è lei, ma quella che ho io in me.»

«Bravo!!»

«Lei, tutt'al più, è la Franca reale, non la vera.»

«Vuole spiegarmi la differenza?»

«Certamente: la realtà è caduca, la verità è eterna. La realtà patisce tutti i danni della vita, la verità rimane intatta sui culmini divini.»

«In parole povere: io invecchio, e la sua fantasia no.»

Valentino la riprese, un po' supplichevole e un po' violento.

«Non mi fraintenda. Mi fa dispiacere. Non voglio.»

«E lei vuol fare un piacere a me, allora?» domandò la marchesa.

«Tutto quello che posso, Franca: lo sa.»

«Ebbene, non mi parli così, sia buono!»

Valentino la guardò, e tutta l'anima gli fu eloquente nello sguardo lunghissimo. La voce di Franca si fe' morbida e leggera.

«Valentino, caro, ragazzo!» ella disse, staccando lentamente le sillabe, come se sfogliasse i petali di un fiore: ed era pallida, dolce, triste: «Mi ubbidisca, Valentino. Il silenzio ancor suole — aver prieghi e parole.»

Egli avrebbe voluto inginocchiarsi, per adorarla.

«Ah, Franca!» rispose «Ha ragione: non è necessario parlare.»

Valentino, tuttavia, non tenne la promessa. Se ne scusava, accusando lei in colpa di quel suo trasgredimento. Egli sapeva tacere, ma occorreva per ciò che la marchesa gli rivolgesse un rapidissimo e quasi inavvertibil cenno di bontà comprendente e consenziente; se, invece, — come più spesso accadeva — ella s'improntava ad una cortesia fredda vuota e lontana, il giovine era irresistibilmente investito dalla passione di ravvicinarsela tutta, un attimo, con la calda audacia d'una parola che gli meritava insieme il velato rimprovero e il palese compiacimento della sua diletta.

Una volta — non la vedeva da due giorni — egli si spinse verso la casa di lei. La marchesa di Pietracamela abitava in una contrada cittadina dove le strade eran brevi larghe e solitarie. Batteva i selciati e si levava su per le costruzioni la pietra serena, la pietra grigioazzurrina di qualità tenera e aerea che s'imbeve del colore del cielo, e, nei vespri lunghi di primavera, serba una chiara lucentezza. Il sole, infatti, era caduto da poco, e per la ragnatura metallica delle cancellate che circondavan le ville s'intravedevan le tremule chiome degli alberi ancor ruffate, in alto, nell'oro del tramonto. Valentino scòrse Franca, in fondo alla via, venire innanzi con una vecchia signora che s'appoggiava al suo braccio: — una parente, certo, della quale i Pietracamela avevano atteso l'arrivo —. Ella avanzava col suo passo armonioso: forse, poichè procedeva lentamente, la mossa del ginocchio che s'arcuava e si distendeva in ritmica mollezza era il prodotto d'una grazia studiata, ma pur così leggiadra alla vista, che il giovine ne fu percosso quasi da un miracolo d'apparizione. Sembrava che la luce, aderendole intorno alla persona, si muovesse con lei e si spostasse a ondate come una cosa salda e sensibile; e l'ultima vibrazione di quell'impulso splendente ch'ella, inconscia, diffondeva da sè giunse fin nel cuore di Valentino come il refrigerio d'una spuma leggera. La marchesa e la signora voltarono l'angolo della via; il duca di Varo seguì il medesimo cammino: ora si trovava di poco dietro a loro, percorrendo l'opposto marciapiede. Franca, udendo il passo vicino, rivolse gli occhi e lo vide: ricambiandogli il saluto, arrossì violentemente, e sùbito nascose il viso, chinandosi dall'altra parte a parlare verso la compagna. Aveva scoperto, in quell'atto, il collo e la nuca: le s'imporporava la sorgente bionda dei capelli. Fu un attimo: chè si volse ancòra, e incontrò le pupille di lui con uno sguardo indifferente e distratto.

Valentino la invocava tanto e sempre: cosicchè, sorgendogli ella dinanzi nei luoghi e nelle ore meno abituali, egli aveva l'impressione d'aver ottenuta la presenza di lei con la potenza del suo desiderio. Non che questo accadesse di frequente: ma gli era sì gran dono vederla e parlarle che ad ogni occasione consentita l'anima gli si placava in un sentimento di piena felicità.

L'aveva incontrata, una mattina, nell'ala del primo cortile d'un antico convento.

«Lei, Franca, è per me la grazia bramata, non la grazia inattesa.» le disse, venendole accanto.

Erano soli. La guerra delle altre nazioni aveva richiamato e riteneva lo stormo dei visitatori barbari. Le pietre sepolcrali incastrate pei muri e sul pavimento svolgevano la teoria funerea delle loro epigrafi simmetriche, e la consunzione del tempo aveva levigato e ingiallito le figure marmoree giacenti in composto e pio atteggiamento.

«Siamo in mezzo al popolo dei morti.» osservò la marchesa.

«Eppure» aggiunse Valentino «questa severità arida e fredda è molto meno màcabra dei moderni cimiteri aperti sotto il sole e vividi nel verde. Qui è il regno dell'armonia triste, e forse neppur triste, ma quieta e silenziosa. Là invece è la mascherata tragica, il grottesco lùgubre….»

S'interruppe e s'arrestò per decifrare l'iscrizione di una lapide.

«Ah!» commentò «Tutti buoni, tutti saggi…. Se la storia del costume umano dovesse ricostruirsi sulle testimonianze delle epigrafi mortuarie, non esisterebbe che la virtù».

Parlava come se veramente la fiorettatura d'un qualsiasi argomento di conversazione formasse l'unico scopo della sua volontà in que' minuti; ed evitava di guardare Franca. In realtà lei, lei sola, occupava il suo cervello, il suo cuore ed i suoi occhi. Non c'era altra creatura che lei nel mondo, non c'era altra bellezza.

Ella s'era chinata a leggere una divisa grafita sulla lista diagonale che traversava uno scudo di pietra inchiavardato alla parete.

«Mi aiuti, messer lo duca. E latino questo. Che dice?» Il giovine s'appressò.

«E servitute libertas.»

«Ossia?…»

«Letteralmente si traduce male. “Dalla schiavitù la libertà.” Sente?… Il concetto non è reso e il suono è brutto. “Tu m' hai di servo tratto a libertate” dice anche un poeta; e lo dice bene. Ma…. occorre girarvi intorno con altra frase. Ci son delle cose o delle idee…. o delle persone» ed egli s'infiammò subitamente «che diventano il centro più intimo ed essenziale delle nostre azioni, dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti: codesta è, certo, una schiavitù. Ma l'anima, quando s' è data tutta, acquista una facoltà così sottile di percezione, una ricchezza così vasta di sensibilità, una potenza così nobile di astrazione che il vertice della più sublime libertà spirituale è vittoriosamente raggiunto. E allora si può dire: “Sono il tuo schiavo, epperò sono il padrone del mondo.” Capisce, Franca?»

«Capisco.» fece la marchesa con un sorriso fine fine.

Quando furono nella sala lunga e stretta ch'era percorsa e avvivata, come da una spina dorsale, dai doppii leggìi su cui s'aprivano i grandi messali miniati —, Franca si tolse i guanti per isfogliare più speditamente le preziose carte. Sul fondo denso delle pergamene illuminate dalle figure brillanti trasvolavano le sue mani sottili fresche e bianchissime. Valentino, d'un tratto, le prese i due polsi, la obbligò a riunir le palme e a levarle in alto a guisa d'un calice. Ella, docilmente, lo lasciava fare.

«Guardi!» le disse.

«Ebbene?»

Il giovine piegò la fronte, pur senza sfiorarle, verso le mani di Franca.

«Si potrebbe tuffarci il viso come in un'onda cristallina.»

S'allontanò sùbito da lei; la chiamò:

«Andiamo su, alle celle?»

Salirono. Il corridoio era ampio nudo buio: le piccole porte senza battente sfilavano umili e uguali nell'un lato e nell'altro. Valentino seguiva la marchesa che soffermavasi appena innanzi ad ogni celletta, senza entrare: di tanto in tanto, in quel rapido passaggio, la persona di lei fragile e altèra si rivelava dall'ombra nel quadro improvviso della luce, ed egli ne intravedeva la linea del profilo segnata da una diffusione radiosa e ammorbidita, dietro la nuca, dallo spolvero d'oro dei capelli.

«Non entra?» domandò Valentino, semplicemente.

Ella acconsentì; e la celletta che li accolse — spoglia ed angusta, con una finestrella fioca angosciata da due ferri in croce — diede a Valentino il senso vertiginoso della lor solitudine. E forse Franca avvertì la medesima impressione, perchè, accostandosi alla parete dove la squallida e divina santità d'un affresco accennava un sorriso d'estatico martirio, scrutò il dipinto con ostentata attenzione e ne parlò con una frasetta vuota e disinvolta; poi uscì immediatamente nel corridoio.

Uno dei custodi offrì con sollecitazione discreta la sua merce di fotografie.

«Vedute del Museo…. Il chiostro di San Domenico…. Il chiostro di Sant'Antonino….»

Il duca interpellò Franca con lo sguardo: ella fe' cenno di no, passô oltre. Scendendo la scala, gli disse:

«Una visitina nel chiostro delle campane, e me ne vado: è tardi.»

«Il chiostro di Sant'Antonino?»

«Sì: l'ho ribattezzato io. Le piace?»

«Non ci sono stato da un pezzo: mi guidi lei.»

Il disegno del sole e dell'ombra tappezzava nettamente i porticati del chiostro: nel mezzo, un giardinetto rigoglioso ed aprico sulla cui verzura la statua bianca del Santo s'innalzava benedicente, e intorno la vivacità delle lunette affrescate che ne celebravano i miracoli. Sulle colonnine di pietra riposavano le vecchie campane delle chiese di Tallusa: era una immobil processione di fede e di silenzio. Franca, di tanto in tanto, ne tentava col batter delle nocche la qualità sonora: rispondevan esse con un singhiozzo opaco al primo colpo, svegliandosi a malincuore dalla lor torpida quiete; poi il suono s'illimpidiva in un fremito lungo, ed il ronzìo metallico durava e propagavasi dall'una all'altra, come se volesse inseguire ed avvolgere la sua suscitatrice. Ella ristava un momento, reclinando il capo, in ascolto. Le conosceva tutte, come le canne d'un organo. Le più piccole erano più indocili e acute; le maggiori avevano una rispondenza grave e obbediente. Dritta presso la dolce curva di quelle coppe riverse e vuote d'armonia, Franca pareva un'Ebe che con miracoloso gesto vi mescesse di nuovo la liquida ebbrezza musicale.

La visione della donna giovine e viva popolava l'antica solitudine del luogo.

Valentino la guardava ora, e taceva: ma lo sguardo fisso ed intenso non lo contentava più, non lo placava. Era come se una ventata improvvisa e violenta avesse sprigionato dal grande e limpido fuoco del suo amore una scintilla inquieta che vagasse per addentare una preda da arroventare e avvampare: qualche cosa di torbido gli saliva dal fondo dell'anima ad offuscarlo, e un senso d'irritazione contro sè medesimo lo teneva in una morsa di tormentosa angoscia. Il volto della marchesa, soffuso d'un'accensione rosea per l'ombra calda del velo color di viola, gli appariva in una tentazione nuova e impensata.

Ella disse:

«Quand'eravamo a Sibiglia, ci trovammo sulla torre mentre suonavano le campane. Se mio marito non m'avesse sorretta, credo che mi sarei buttata giù: un'onda di fragore che annega, una vertigine rombante che dissenna…. Non le è mai capitato, a lei?»

Il duca fe' cenno di no. Quelle parole lo accompagnarono per una fantasticheria brutta ambigua e crudele: il marito, l'uomo, Leonardo, colui che sorreggeva Franca nella vertigine!… La vide, per la prima volta, donna d'altri e spasimò di gelosia; per la prima volta la desiderò tutta sua, sua nella bellezza, nel sorriso, nella confidenza, nella passione, nel languore.

«Che ha?» gli domandò Franca, rompendo il silenzio.

Valentino, senza parlare, accennò ancora col capo un diniego chiuso ed ostile. La marchesa non replicò. Lasciò il chiostro, s'avviò verso l'uscita. Quando gli tese la mano per salutarlo, i suoi occhi ebbero un'insistenza tenera, un po' malinconica, un po' accorata.

«Amici?…»

Bastò l' interrogazione tra supplichevole e ridente di quel congedo perch'egli riprendesse il dominio sereno del proprio cuore. La guardò allontanarsi alta diritta e sicura: tutto lo spirito gli si inchinò estatico ed umile come in una genuflessione.

Questo il duca ricordava nella sua solitaria passeggiata lungo il Viserno e su ogni ricordo indugiava con un pieno abbandono di sè stesso. Soltanto alla più recente memoria della voglia improvvisa ed ardente ei resistè ribellandosi. Non così, non così…. S'egli l'avesse presa, l'avrebbe perduta: l' inganno, l'opportunità del momento còlto come lo colgono i ladri, l'umiliazione dell'insidia e del segreto, la complicità degli accomodamenti, la bassezza gelosa e compiacente d'una relazione furtiva e inconfessabile lo avrebbero avvelenato. E allora?… Portarsela via, lontana, rompendo allo scandalo il diritto ch'ella aveva alla tranquillità e all'onestà della vita?… Sì, forse questo, se l'inerzia volgare dei soliti tempi gli avesse consentito d'acquistare la felicità a prezzo di una rovina.

Ma ora il balzo virile dei popoli in guerra, il sangue che si spargeva, il sacrificio delle madri, il lutto delle famiglie percosse, il cruento e crudo affermarsi d'una dignità collettiva che escludeva l'egoismo, ora no, tutte queste nuove cose impedivano di prepararsi un nido d'ebbrezza ed esulare lo spirito dai fatti del presente. Ora no, no: combattere si doveva, e trascinar la patria in un santo agone di gloria.

Era tardi, già buio. La curva delle spallette parallele sul corso del Viserno appariva segnata dalla doppia linea delle fiamme dei finali; e il fiume non era più che un fruscìo lento di bagliori. In alto poche stelle, velate dall'albore che la città illuminata effondeva: il cielo invisibile.

Valentino rientrò nel cuore delle strade popolose. Gli assembramenti ormai consueti dell'altre sere eran più fitti, e più calmi anche, come se preparassero lo scoppio d'una decisione. Quale?… Egli tremò, con un impeto d' ira e di disgusto: visi volgari, balenanti qua e là una punta di curiosità soddisfatta. Si vedevan gruppi di poliziotti irrequieti e nervosi: i capi andavan su e giù, provocanti, innanzi alla folla: pareva che aspettassero un pretesto od un ordine. Si levò un fischio, solo, un po' roco: ondeggiò, si spense…. Un attimo di silenzio, di sospensione degli animi. Nulla. Una voce gettò un'arguzia plebea all'indirizzo dell'inesperto fischiatore. Qualche risata gli rispose, mentre i fischi — un coro acuto questa volta — intonavano un concerto sibilante. Il duca si trovò a faccia a faccia con due degli schiamazzatori, due giovinastri male in arnese che con le dita alla bocca cacciavano un ululato potente eppoi sghignazzavano guardandosi e urtandosi co' gomiti.

«Che avete?» egli domandò, brusco ed aggressivo «Perchè ridete? Perchè fischiate?»

Quelli, sorpresi e forse intimoriti, tiraron via liscio liscio, perdendosi abilmente nella calca. La gente fece largo a Valentino, con occhiate sospettose: egli capì d'essere scambiato per un poliziotto. Strinse i pugni, allontanandosi: avrebbe voluto scrollarlo, quel gregge ottuso ed incosciente, avrebbe voluto soffiar nel cuore d'ognuno la sua passione e sollevare il popolo come un sol uomo per gettarlo volonteroso e fervente sul campo di battaglia. Aveva fretta d'uscire dal gorgo della folla ch'ei si sentiva attorno e contro la persona col senso d'una cosa viscida e ignobile. Ora i fischi tacevano, e il giovine ne aspettava l'ingrato e clamoroso rinnovarsi in una tensione repulsiva di tutti i suoi nervi. Ecco un grido: “La guerra! Vogliamo la guerra!…” Valentino s'arrestò di netto: temè di non aver compreso. “La guerra! La guerra!” Fu come una favilla che appiccasse l'incendio: scoppiarono, qua e là, crepitii di battimani; poi un fischio, soffocato da un urlo tonante: “La guerra! Vogliamo la guerra!” Valentino sentì una percossa nel cuore, un caldo alle tempie, un velo allo sguardo…. La folla che refluiva verso le prime file dei dimostranti lo urtò immobile, quasi radicato al suolo. Le grida sorsero, presso a lui, intorno a lui, gli empirono il cervello ed il sangue d'una ebbrietà che gli mozzava il respiro. Si udì uno squillo di tromba: la ressa ondulò, e, d'un tratto, mentre il secondo squillo sovrastava il tumulto, si gettò in corsa a sinistra. Una parola serpeggiava, saliva, scintillava come un trofeo di battaglia: “All'Ambasciata d'Altamagna!… Abbasso l'Altamagna!” Un giovinetto biondo, senza cappello, si piantò innanzi a Valentino, gli ficcò in viso due occhi immensi, chiarissimi:

«Viva la guerra!» urlò, agitando in alto le braccia.

Erano in pochi, chè già il grosso del popolo aveva fatto impeto fuor della piazza. Si presero tutti per mano, buttandosi veloci dietro il boato lontanante della gran fiumana. Il giovinetto aveva intonato con una voce limpida e calda:

«Col capestro, col capestro vincitore strozzeremo, strozzerem l'imperatore!»

Allo sbocco una catena di poliziotti li arginò. Strappi brutali li separarono, a spinte, a manate: i più fuggirono; e Valentino, preso tra due guardie, vide il compagno biondo difendersi violentemente contro gli impeditori. Un delegato accorse.

«Fermo!» gridò al biondo «Ti fo mettere le manette, sai?»

Quello si quietò: rimase dritto, a testa alta.

«Come ti chiami?»

Il giovinetto sorrise, senza rispondere: era tranquillo ed altero, non pareva l'infuriato di pocanzi.

Il delegato si voltò a Valentino.

«E voi?» domandò, aspro e rude.

«Sono il duca di Varo! Abbasso l'Altamagna!»

«Per Dio!» esclamò il poliziotto, con un balzo.

Lo guardò: lo riconobbe, per averlo visto tante volte insieme coi sovrani. Si tolse il cappello, fe' cenno alle guardie di lasciarlo.

«Signor duca!… Lei?!»

«Avanti!» disse Valentino «Portatemi in questura!»

«Ma no, ma no!» masticò il delegato «Lei è libero…. libero…. È un errore, diamine: lei è il duca di Varo, lei!»

L'altro protestò:

«Nossignori!… Non c'è duca, e non c'è errore: sono un cittadino che vuole la guerra, ecco.»

«Ma sì, ma sì!» e il delegato, imbrogliandosi, masticava sempre più «Sì, certo, so il mio dovere…. Non mi metta in impicci, per carità!… È libero, liberissimo…. Quante volte gliel' ho da dire, santo Dio?!»

Valentino alzò le spalle.

«Faccia lasciare quel ragazzo.» disse, accennando il suo compagno «E le do la mia parola che me ne vado.»

Il funzionario sospirò, levò gli occhi al cielo.

«Il nome, almeno, il nome!…»

Interrogò direttamente il giovinetto:

«Come si chiama lei?»

Davanti al mutismo dell'arrestato, il poveraccio sbuffò e si contorse.

«Ostinàti, ostinàti!… Sempre così!… Va bene, va bene: il signor duca lo conosce, non domando altro io!»; e diè l'ordine agli agenti.

Questi ebbero appena allentata la loro stretta che il biondino, con mossa fulminea, si piegò e scattò come una molla tra le guardie schierate a custodire e vietar l'accesso alla strada per la quale s'eran messi i dimostranti. Prima che alcuno si decidesse a rincorrerlo, era già lontano, visibile sotto i fanali nel mezzo della via, e cantava:

«Mi chiamo Venustria, son terra d'eroi….»

Il delegato imprecò, sollecitò sgarbatamente i suoi uomini. Valentino rideva. E la voce si perse nell'ombra:

«Col capestro, col capestro vincitore strozzeremo, strozzerem l'imperatore!»

Avevano lasciato le automobili giù, nella piazza di Vezio, in fondo alla ripida stradetta di ciottoli e d'erba per cui eran saliti alla terrazza che s'affacciava sulla valle a piè del convento francescano.

L'ora fiammeggiante del tramonto imbraciava di rosso tutta l'ampia veduta, e gli stracci bigi del fumo e delle nebbie, impigliati attorno alle torri e alle guglie della città sottostante, parevan cenere che covasse il fuoco della vita.

Rimasero taciti, contemplando. La regina s'accostò al parapetto, vi s'appoggiò, un po'lontana dai compagni che si raccolsero più indietro, muti ancora nello stupore di quello spazio infinito. I rintocchi della campana, su da San Francesco, ruppero il silenzio, e un fruscìo di vento si levò, fino e puro, scolorendo in un tremito frequente le distese degli olivi. Un mendicante, con la pipa nascosta dictro le curve spalle, strisciò dattorno esibendo monotonamente la sua lamentela: poi, soddisfatto, si rannicchiò a terra, quieto nel sudiciume, e fumò. Qualche donna salì la gradinata della chiesa, entrò per la funzione dei vespri, voltandosi indietro a sbirciare il gruppo dei signori.

Franca accennò alla sovrana.

«Che ha?» domandò, piano.

«Il male nostro.» disse Valentino seriamente «Male di guerra.»

«Ah!» fece la marchesa «Non ne parla mai.»

Maria guardava Wanda, con negli occhi un'ombra vaga di tenerezza un po'sospirosa forse ed un po'ironica. Ella la conosceva meglio e più di tutti gli altri, i quali, se anche s'erano accorti che il cuore della regina era preso in un'ansia desiderosa d'azione per l'onore e la gloria della sua terra di Venustria, non avevano tuttavia indovinata la tempesta violenta dei sogni che sembravano di minuto in minuto voler prorompere in folli propositi. Maria sì, aveva intuìto: e, pratica e positiva di natura, lei ch'era usa a considerare le volate della sovrana con una scrollatina di spalle e con un criterio tra ilare e insofferente, ora no, dinanzi a quella specie di furor contenuto, cupo a volte come un ristagno plumbeo donde scoppierà l'uragano, ora no, non sapeva francamente sorriderne, e il sorriso si velava d'una trepida perplessità, e il pensiero le richiamava l'immagine di Stefanolo, il piccolo duca, l'ombra tragica e grottesca della magnifica eredità spirituale dei Planacomba.

Valentino si volse a Ruggero, gli domandò sottovoce:

«Il re?»

Per la prima volta Albano era direttamente tratto in quei loro discorsi pieni di speranza e di dubbio; e per la prima volta, dopo l'evidenza fino ad allora inconfessata de' suoi atti e delle sue parole restìe, ne fu formulato il giudizio chiaro preciso e disperante:

«Peggio che ostinato: incosciente.»

Maria s'era accostata alla regina. Si chinò sul parapetto presso lei, quasi sfiorandola: Wanda non si mosse. L'altra la guardò, col piede urtò contro la ghiaia per farla accorta che qualcuno le era vicino. Allora quella si volse, sorrise appena a Maria, riprese la positura di prima, ma non tornò a nascondere il viso tra le mani. Aveva gli occhi lucidi, era pallida, sembrava che il tremore interno le desse lo spasimo di un movimento inquieto e nervoso alla bocca. E Maria, penetrata da un senso di simpatia profonda verso quella pena che non si rivelava, cominciò a parlare pian piano, con nella voce un'intonazione di carezzante cantilena come s'adopra per vezzo a consolare i bimbi:

«C'era una volta una regina, e nell'anima era piena di fiamme: e le fiamme la consumarono: e la povera Maria, ch'era l'amica della regina, rimase con un pugnetto di cenere a piangere e a lamentarsi…»

Wanda si sollevò vivamente, e non rispose nulla, onde meglio celare la commozione che, per quel vigile affetto della compagna, saliva a premerle la gola. Solo quando fu più presso agli altri, propose, accennando la chiesa:

«Entriamo?»

Fu la prima a varcarne la soglia, e subito s'inginocchiò nell'ombra.

Ruggero e Maria già l'avevano seguìta, quando il duca di Varo trattenne Franca che, ultima, saliva l'ultimo scalino della gradinata. Era dritta e sola sullo sfondo del cielo, e il viso, percosso dalla lucentezza ghiaccia che ormai occupava il levante, spiccava di candore contro l'occaso sulfureo ch'ella aveva alle spalle.

«Franca!» disse Valentino.

La marchesa, con un piccolo gesto di rassegnazione ridente, s'era fermata, aspettando.

Egli la guardava, alta su quel luogo ch'era la più decisa spartizione del crinale del colle: il doppio e diverso fulgore che la vestiva gli diede immagine d'aver dinanzi una creatura divina che in sè simboleggiasse il varco tra il giorno e la notte, una creatura misteriosa — e tanto cara —, intangibile — e tanto amata. —

Dall'interno della chiesa giunse il canto, d'un tratto. E Franca piegò il capo, accennando d'entrare; gli domandò con quieta dolcezza:

«Andiamo?»

Anch'ella lo guardò, in quell'atto, e i suoi occhi avevano un'intensità soave: occhi miracolosi, fresche ed oscure violette; e la sua voce era lenta, gravata d'una carezza triste che frugò il cuore di Valentino fino allo spasimo. Un attimo, e Franca si riprese nella sua frettolosa e distratta indifferenza, inasprita da una puntura impaziente.

«Via! …Che si fa qui? Io vado.»

Sparì subito dentro la chiesa, e la porta, nel rapido aprirsi del passaggio, gettò agli orecchi di Valentino il canto religioso in una folata sonora ed improvvisa.

Una malinconia profonda lo oppresse.

All' un de' lati della chiesa s'infoltiva un boschetto di cipressi: sotto i ciuffi del verde oscurissimo l'aria aperta penetrava fra i tronchi neri e lisci come traverso ad un bizzarro intercolunnio e ne appariva la valle dell'opposto versante chiusa in lontananza dalle massicce montagne d'un contrafforte: cresceva l'ombra, versandovi il presentimento freddo del buio, e qualche lama d'acque, nei botri, biancicava tra il fosco.

Valentino venne là, sul margine del cipresseto: poteva scorgere, in una conca di quell'infinito e gelido ondulamento campestre, le linee semicircolari dell'antico teatro di Vezio, deserto e tetro come una morta città. Quivi s'erano incontrati la prima volta, in mezzo alla folla e al clamore, ed egli non l'aveva veduta. Ora, nella solitudine, imperava su Valentino il pensiero di lei, il tormento di lei: tutto eragli in quell'istante dubitosa speranza: sogno di patria e sogno d'amore; e lo scrollava la volontà terribile di torcere il destino che pareva schernirlo. La donna e la terra gli sfuggivano. Sincero ed impetuoso, egli capiva che l'ardore dei suoi sentimenti si spezzava in un'apparenza di platonismo decadente e di vuota declamazione. La stretta delle vicende lo impigliava nel ridicolo e nell'inerzia.

Nel ciclo verdigno la falce adamantina della luna saliva dalla montagna. Su, in alto, nella più fonda valle eterea, una stella fiammeggiava: tenera, viva, palpitante.

Egli sentì che la sua violenza si fiaccava.

«Franca!»

Pensò se saprebbe tenerla nelle braccia, e sussultò come se veramente il capo biondo di lei gli fosse chino contro il cuore, come se veramente egli potesse piegarsi a baciare quella fronte, quegli occhi, quella bocca…. Che farebbe? Che direbbe? Quale forza sovrumana lo aiuterebbe a sostenere nelle pupille lo sguardo di lei triste, dolce, lungo, grave di carezze? E il volto, il divino volto impallidito, come si starebbe docile alle sue labbra tremanti ed assetate?…

Entrò nella chiesa per vederla, rivederla subito, essere vicino a lei. S'arrestò presso la porta, investito dal coro delle voci virili che i frati intonavano dietro la grata. L'oscurità impastata nel bagliore rossastro delle poche candele pareva agitarsi al gran soffio di quel bello e saldo fragore che s'infrangeva contro le volte, echeggiando, ed empieva il luogo d'una vibrazione robusta, sopravvincente i rochi accordi dell'organo. Egli rimase immobile: vide la regina e la principessa di Cerito, inginocchiate; vide Ruggero in piedi presso l'usciolino della sagrestia; e l'altra gente, poca, qua e là per le panche; e lei infine, Franca, seduta in un angolo d'ombra. Il canto s'effondeva vigoroso: s'aveva l'illusione che sotto il saio dei salmodianti lucesse una corazza di battaglia, tant'era pieno e sicuro l'impeto armonioso di quei petti. Voci che avrebbero formato una barriera, nel sonito delle quali Valentino adorò il Dio degli eserciti. Di tra i ferrei rosoni della cancellata che chiudeva l'altare egli potè discernere i profili dei francescani: tutti adusti e ossuti, convenienti a quel canto: dov'era la tradizione fratesca dell'adipe gaudente, dove la macilenta pietà delle orribili discipline? Li immaginò sani e quieti nella lor vita, candidi e sereni amanti della primavera liliale, spiriti fraterni ricchi di conoscenza e di carità. Eppur le voci si slanciavano come un inno di guerra!… Li sentì contemplatori della bontà attraverso la bellezza, e la stessa tremenda angoscia della crocifissione gli tornò nel cuore con gli accenti d'un antichissimo pianto della Madonna, dove il cordoglio per la bellezza è più toccante di quello per la bontà:

O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio! O figlio bianco e biondo, figlio, volto giocondo!

Eppur le voci tonavano come uno scroscio d'assalto!… Li vide, al ritorno dalla cerca, curvi su per la salita del convento sotto la soma dell'olio o il sacco delle noci, fermarsi e inginocchiarsi al tabernacolo del crocevia:

Povertade poverella, umiltade è tua sorella!

Eppur le voci rapivano le spire dell'incenso in un turbine gagliardo!…

E Franca era là, levata in piedi per l'appressarsi della benedizione, fredda e tranquilla in un composto atteggiamento.

Valentino sentiva l'anima spezzarglisi in un'alterna confusa vicenda d'aspirazioni e di smarrimenti, mentre il gesto largo e pio dell'officiante ripeteva lì, tra quelle mura, il segno della Croce redentrice.

Non era buio ancora, quando uscirono: scendendo, avean di fronte la plaga più luminosa del cielo e sul capo le prime stelle. La regina e le due dame partirono subito; Valentino si congedò da Ruggero, rifiutando d'accompagnarlo nell'altra automobile.

«Fo due passi: ho voglia di muovermi.»

«A quest'ora?»

«E la bella ora. Addio.» e, scostatosi, fe' cenno al meccanico di dare la marcia.

Rimase solo sulla piazza, guardando la vettura che si allontanava, pensando l'altra già lontana che s'era portata via la sua Franca. La strada per cui si mise cingeva ampiamente la collina, e digradava, di villa in villa, attraversando due paesetti, giù fino a Tallusa. Si faceva scuro nell'aria, e impallidiva il cielo a poco a poco: i lumi della città punteggiavano la distesa della valle, in basso, verdognoli e freddi dov'eran più fitti; caldi e palpitanti via via che si diradavano, lontani, ai casolari dei monti. Gli alberi eran freschi e misteriosi nell'immobilità effusa dello spazio. Ora di comunione, pur nella solitudine, quando sembra che uomini e cose voglian naufragare nello struggimento dolcissimo di un pieno abbandono.

Il duca procedeva adagio, soffermandosi a tratti, e un passo suonò dietro a lui, nel silenzio, un passo rapido e diritto che lo fece indugiare ancor più per il desiderio d'esser sopravanzato e tornar nella quiete. Il camminatore lo raggiunse, e andò sicuramente verso lui:

«Siete voi, Valentino?»

Questi riconobbe Marino d'Anghelos, lo salutò cordialmente.

«Occhi di lince e fiuto di cacciatore. Come fa a indovinarmi?»

«Le anime in tormento s'incontran nella notte.» scherzò il poeta: ma non era tutto scherzo, chè proseguì con un vigore severo e sincero: «Siamo immersi nell'angoscia dell'attesa. Non udite anche voi il fragore delle armi? Se non avessi ancora fiducia, credo che davvero non oserei più comparire sotto lo sguardo del sole.»

«Come ha potuto accorgersi ch'ero io?» insistè Valentino.

«Sono un po' mago, amico!» sorrise d'Anghelos «Ma non questa volta: ero sulla piazza di Vezio quando avete abbandonato le vostre dame ed il compagno. Avrei potuto chiamarvi allora: ho preferito d'inseguirvi e cogliervi nella vostra meditazione.»

S'incamminarono insieme, lentamente. Il duca vinse quel piccolo disagio d'insofferenza che sempre gli dava il voi usato dagli artisti come un privilegio di famigliarità condiscendente, e lo percoteva, sulle prime, quasi sonasse falsamente ostentato: poi, a poco a poco, l'accento caldo e franco di Marino d'Anghelos dissipava la leggera irritazione. E il giovine, mentre questi parlava semplice e sicuro, lo riconosceva assertore della stirpe magnanima ond'erano usciti ambedue, ascoltava con un senso d'infiammata reverenza quell'uomo meraviglioso su cui correvano tante leggende stupide e brutte, e lo sentiva invece pronto a donarsi per una grande idea come fosse un cuor puro di vent'anni, lo sentiva degno più che tutti gli altri del sacrificio e dell'inno. Marino aveva una voce limpida rapida travolgente, e ne vestiva la sua visione esatta con una grazia virile di superba ingenuità: nella solitudine notturna pareva che un vento si movesse a rapirne le parole e gettarle come olocausto di semi fecondi sulla città ancor torpida e ignara.

«Si sveglieranno!» disse Valentino convinto «Se lei parla al popolo, il nostro volere trionferà. Non s'aspetta che un guidatore.»; e raccontò l'avventura di qualche sera innanzi, quando per poco non l'avevano arrestato.

Marino scosse il capo.

«Un guidatore?» interrogò, assorto in fervente umiltà «E che varrebbe, senza l'improvviso slancio del popolo anonimo, la lunga meditazione di me, d'Anghelos, di voi, duca di Varo, e di pochi che, come noi, hanno un nome e si son martoriati nell'attesa?… No, no: l'eroismo e l'atto cosciente di un solo possono essere scintille vivide e splendide, ma il fuoco, il gran fuoco che distrugge, riscalda, illumina e purifica è alimentato dalla massa del popolo, tremendo e immane come una catasta delle cui molecole l'una brucia e accende l'altra e le vampe si sprigionano or qui or là ed in quel loro vagare e guizzare non si sa donde precisamente esse siano originate, finchè la marea delle fiamme dilaga e sale, investe e sommerge, nè il rogo si spegne se tutta la materia non sia combusta e convertita in ispirito ardente. Un guidatore?… Io forse?… Parlerò, sì, ebbene parlerò: perchè il dèmone della presunzione ci trascina fuori dalla via che vorremmo: crediamo di esser necessarii…. Eppoi?.. Ah, Valentino, vedete! Fondersi nella folla, diventare il simile dei simili, dimenticare sè stessi e la propria personalità, non esser più che un cuore tra migliaia di cuori pronti a battere del medesimo palpito, un braccio tra migliaia di braccia pronte a tendersi ed armarsi per un unico scopo: questa, questa sarebbe la più sublime, la più gioiosa rinunzia!»

Tacquero. Le parole di Marino d'Anghelos li avevan l'uno e l'altro veramente tratti dall'àmbito egoista in che ciascun'anima si chiude, ed essi, andando per quella fresca ed oscura via, da nessun romore scorti che non fosse l' indefinibile misterioso agitarsi della natura al soffio della notte, si sentiron pervasi dall'ardente mansuetudine che nelle grandi ore agguaglia tutta una razza in un'obbedienza generosa e magnifica. Tale astrazione e tale abbandono si rendevano men difficili a Valentino che ormai, da quando Franca gli era apparsa, s'andava a poco a poco come slegando dai vincoli umani e materiali e viveva già assorto in una specie di rapimento spirituale. L'altro, d'Anghelos, aveva ali possenti per levarsi d'un balzo dalle misere contingenze fino alla perfetta vista eterna. Ed erano ambedue puri, in quel momento, maravigliosi campioni della patria.

Dopo un lungo silenzio Marino prese il braccio del duca.

«Beato» egli disse, concludendo nelle sue parole il volo che le loro anime avevan compiuto durante quella pausa «beato chi, ridiscendendo in sè stesso, ritrova i pensieri candidi che non lo disquilibrano dall'altezza a cui era salito.»; e aggiunse: «Chi è come voi, Valentino.»

Il giovine sussultò, sentì di arrossire.

«Io?», e parve voler proteggere il suo segreto minacciato.

«Voi.» ripetè l'altro con benevola fermezza «Non vi difendete contro me. Io non vi domando nulla; nè so il nome della creatura che v' ha mutato, nè il perchè. Da un pezzo avete un cuor nuovo. Me ne sono accorto, ecco.»

Valentino sorrise, con un po' di sgomento tuttavia, perchè sentì che dalla perspicacia del compagno veniva aperta per la prima volta una relazione tra l' intimo suo e il mondo esterno.

«Ed io,» proseguì il poeta, riprendendo la frase di un grande con un tono lieve che toglieva ogni preziosità alla citazione «ed io, accorgendomi del domandare che mi faceano, rispondea loro che Amore era quelli che così m'avea governato: dicea d'Amore, però ch' io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si porìa ricoprire. E quando mi domandavano: per cui t' ha così distrutto questo amore? ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro».

Era una sera dolce, e le antichissime parole, spogliate d'ogni urtante rudezza d'allusione indiscreta per quel loro ritmo d'arcaica lucidezza, furon le più adatte per decidere Valentino a confidarsi.

«È un amor sovrumano.» egli disse «Non può misurarsi alla stregua dei sentimenti comuni. È qualche cosa d' irraggiungibile cui io tendo vanamente con tutta l'anima, se pure a volte mi sembri che potrei arrivarci con un atto volgarmente umano: ma quando lei è lontana, non lo voglio; se m'è vicina, non oso. Mi pare anche che, se sapessi che mi vuol bene — e non lo so —, sarebbe distrutta in me una parte di questa mia felicità tormentosa. Ho paura d'offenderla, e mi domando invece se il mio ritegno non la deluda e inasprisca. Mi dica lei, d'Anghelos, lei che ha veduto a fondo nel cuore di tutti i poeti: che ne facevano le angiolelle medievali de' loro candidi trovatori? Ne ridevano, non è vero? Ed essi lo sapevano: quei che cantavano sol per il leggiadro esercizio della gaia arte del tempo, si rassegnavano; quelli che, così, donavano sinceramente sè stessi, forse ne morivano. Non è vero, d'Anghelos? Siamo troppo vili o troppo coraggiosi di fronte al destino: ci arrestiamo per timore o per rinunzia. è l'annientamento della nostra forza, o è l'olocausto della nostra passione?… Non so se lei m' intenda, d'Anghelos. È difficile intendere uno che non vuole definire con parole brutali il proprio sentimento.»

Marino taceva, nè il duca scrutò, traverso al buio, se il viso di lui esprimesse una qualsiasi approvazione.

«Mi domando» soggiunse il giovine dopo un momento «come ella apprenderebbe la notizia della mia morte.»; gli parve che d'Anghelos cominciasse un gesto, riprese sùbito:

«No, non lo dico perchè io pensi a morire. è una semplice curiosità la mia. La brutta tentazione del suicidio non s' è infiltrata mai nel mio spirito. No, era per curiosità ch' io dicevo. Vorrei, se accadrà — non andremo noi a combattere, d'Anghelos? —, vorrei ch'ella conoscesse la notizia quand' è sola, perchè allora soltanto si mostrerà s' ella mi ama oppur no, e perchè mi sarebbe doloroso che qualcuno potesse cogliere la rivelaione di quel suo segreto che nemmeno io ho penetrato.»

Mentre compiva la frase, un sùbito foco che solcò il firmamento mosse i loro occhi.

«Una stella filante!» esclamò il duca, guardando nell'alto cristallino umidore dove il guizzo s'era perduto.

«No!» fece vivamente d'Anghelos, precorrendo l' idea del compagno.

Il duca sorrise, attenuò con un accento spigliato d' interrogazione la gravità del presagio che s'era con vario modo imposta ai loro spiriti:

«Il voto ch' io formulavo sarà esaudito?»

Si volsero ancora verso il cielo: le immobili stelle non risposero più.

Intanto l'automobile che prima era partita dalla piazza di Vezio scendeva lentamente alla città, chè questo era stato l'ordine della sovrana. Ella sentiva che l'ansia e l' incertezza non potrebbero durare più a lungo: i suoi nervi erano sforzati in una tensione dolorosa che doveva di necessità risolversi in un atto deciso. Quale? Wanda non sapeva ancora, e voleva ritardare il momento in cui si sarebbe trovata a faccia a faccia con Albano. Si vedevano tutti i giorni ora, perchè il re da un pezzo non si muoveva da Tallusa: ma l' irritazione e il sospetto intercorrevano nei loro rapporti ed eran doventati insostenibili per lei. Nemico: lo sentiva nemico per la cocciuta irriducibilità contro cui s' infrangevano ogni allusione ed ogni accenno diretto all'argomento che da mesi ormai bruciava nello spirito di tutti. Albano, fatuo e leggero sempre, non era giunto a questi estremi: ma s' infastidiva, mettendo in conto delle ubbie di sua moglie anche quegli occhi ardenti severi interrogatori coi quali, più che con le parole, ella lo riconduceva ostinatamente al molesto problema Wanda sentiva che tale condizione di ambiguità non poteva prolungarsi, eppur vedeva con terrore il momento di un gesto irrimediabile. L'aveva in sè, cocente come non mai, tutta quella febbre di scontentezza e di violenza, e per là prima volta parlò, vinta dalla confidenza che le due compagne le inspiravano, vinta ancor più dal tumulto che le ferveva confuso nel cuore e voleva e doveva trovare, finalmente, un'aperta via di conclusione.

«Ecco l'ora, Maria: l'ora tragica dei regnanti. Ricorda l' Ifigenia?… Era un presentimento che mi dava tanta amarezza in quel giorno. Ricorda?»

Maria rispose solo con un piegar del capo: comprendeva d'essere impotente a frenare l'esaltazione di Wanda.

«Io sì, tante cose ricordo!» proseguì la regina «Una specialmente, che lei non conosce, marchesa, e neppure lei, Maria, poichè non ne ho detto mai nulla, a nessuno.»

La principessa di Cerito e Franca ascoltavano: questa con istupore attento, chè per la prima volta la sovrana, la quale pur le aveva sempre dimostrata una singolare benevolenza, parlava dinanzi a lei con quella voce che pareva rivelarne la più nascosta e impetuosa sincerità.

«Son passati due anni. Tornavamo alla reggia dopo una cerimonia: il re era nella seconda carrozza; precedeva la nostra: eravamo insieme, principessa, io e lei, col generale Costanzo.»

«L'attentato!» esclamò Maria, non intendendo il nesso che poteva intercorrere tra quel preambolo e la cosa annunziata.

«Ah!» fece la signora di Pietracamela, e rammentò gli echi della terribile giornata in cui la bomba lanciata da un anarchico lasciò illesa la regina e uccise e ferì una diecina di altre persone.

«Ecco.» disse Wanda «Questo lo sanno anche loro, e Maria lo sa a prezzo della propria esperienza: la nostra amica è forte, marchesa; ebbe molto, molto più coraggio di me che tremavo come una foglia…. No, no, Maria, mi lasci dire, tanto non è di questo che voglio parlare. Ciò che loro non sanno è la visita ch'io feci, dopo, a quel disgraziato. Era rimasto ferito egli stesso, per lo scoppio, agli occhi: si trovava in una stanza delle infermerie delle carceri. Non lo vidi in volto perchè era tutto fasciato: aveva appena la bocca libera, con una voce esile, pura, la voce di un bimbo. Non sapeva e non seppe ch'ero io. Era un esaltato, ignorantissimo del resto di politica e di dottrine sociali: mi disse, nonostante ciò, delle cose terribili, piene d'una verità tanto più implacabile quanto più rozza e meno sottile. Gli domandai se sapeva d'aver fallito il colpo d'aver seminata la strage tra gli innocenti, d'aver mirato alla carrozza della sovrana e non a quella di Albano. Non sapeva niente: aveva soltanto compreso, nell'atto di gettare la bomba, che colpiva la regina invece del re. Non era turbato dall'errore commesso. Disse che le regine son le complici — parole sue —, complici necessarie dei re. Aveva ragione lui. Perchè aveva voluto uccidere? Perchè c'è la miseria nel mondo, e i sovrani, padri del popolo, devono soccorrere a tutti i bisogni: se non ci riescono, se non possono, se non vogliono, sono inutili, anzi dannosi, ed è necessario sopprimerli. Argomenti assurdi, irragionevoli?… A me parvero tremendamente logici e inconfutabili, appunto perchè presentati così tutti d'un pezzo, senza concessioni, senza arzigogoli, poggiati sul primo e più elementare diritto degli uomini che in origine si elessero un capo. Mi disse, quel giorno, cose che non avevo udite mai, che non avevo mai sospettate. Tentai, sì, di opporgli che non era vero, che i re peccano per ignoranza e per impotenza…. Non vedevo, mentre parlavo, altro che la bocca di quel volto tutto nascosto: vedevo soltanto un sorriso d' incredulità, d' inesorabilità, d' ostinatezza…. un sorriso strano, così isolato com'era, senz'esser compiuto dall'espressione degli occhi. Ed io gli dicevo che la regina, forse, era una donna di pietà, che amava il suo popolo, che voleva bene al suo popolo: e il sorriso era là, in mezzo alle fasce bianche, un sorriso d'ossa, un sorriso di scheletro, non di muscoli, non di carne, non d'anima: denti duri e gialli in contrasto con la morbidezza candida delle bende. Egli non si piegò, opponendomi perfino che la regina, ad esempio, se fosse rimasta incolume non avrebbe mai pensato di andare a lui e parlargli e portargli il suo perdono, e che, se l'avesse fatto, sarebbe stato sol per gravargli la coscienza; e aggiunse che due idee lo tormentavano: l'angoscia per la madre in miseria e il dubbio che le pervenisse un soccorso dalla falsa pietà ostentatrice di qualcuno della famiglia reale…. Che cosa avrebbero risposto loro a quella testarda alterezza che, sola, lo salvava dallo struggimento del rimorso? Io gli risposi che stesse tranquillo per sua madre cui sarebbe dato aiuto da me — da me, signora X, s' intende —, e gli dissi — sì, anche questo — che nessuno di coloro ch'egli aveva voluto distruggere avrebbe avuta mai la carità di dimenticare e di provvedere ai congiunti dell'offensore.»

Tacque un istante, indi riprese:

«Ecco quello ch' io ricordo, ora.»; e sull'ultima parola Wanda appoggiò la voce, facendola grave e significativa di tutte le cose inespresse.

«Ebbene?» esclamò la marchesa di Pietracamela «Vostra Maestà, ricordando, è sotto l' incubo di un' impressione, non sotto le strette d'un ragionamento.»

La regina crollò il capo, pensosa.

«Già.» disse poi «Ma bisognerebbe pur vedere se le grandi azioni si compiono con la ragione o col sentimento. Io credo, proprio, che grandezza non ci sia se non c' è impulso.»

Maria era veramente inquieta: comprendeva che la sovrana ormai non parlava più per accademia e che maturava nell'animo qualche straordinaria audacia.

«Così» domandò «Vostra Maestà vorrebbe creare la logica a colpi d' incoerenze?»

«Anche, se sarà necessario per il bene del popolo.» disse Wanda, transformando in un'affermazione positiva il dubbio ipotetico della principessa.

«Ma i popoli, Maestà, si considereranno mai pienamente felici?»

«No, marchesa, perchè i popoli sono una riunione d'uomini, e gli uomini, si sa, vivono con le loro piccole contingenze fatte di dispiaceri e di insoddisfazioni personali….»

«E allora, Maestà?»

«E allora, marchesa, domando io a lei: crede che gli uomini abbiano un'anima?»

La principessa di Cerito fu a rispondere più pronta di Franca:

«Certamente!»

«Immortale?»

«Immortale.» asserì ancora la principessa.

Wanda si rivolse a lei.

«E crede» continuò «che gli uomini debbano conquistarsi a prezzo di sacrifici e di dolori la ricompensa eterna?»

«Lo credo.»

Franca taceva, con un piccolo moto delle sopracciglia levate un poco in alto: chi l'avesse osservata avrebbe potuto dubitare che la fede delle compagne non fosse la sua.

«Ebbene» concluse la regina «l'anima del popolo è la patria: dunque la patria può essere immortalmente felice, e l'obbligo dei re consiste nel guidarla a questa felicità. Ma» aggiunse subito con ardore «bisogna che essi, prima degli altri, paghino di persona.»

La principessa di Cerito appoggiò una mano sul braccio di Wanda, la guardò intensamente.

«Serata di sogni, Maestà?»

Wanda rise, per sottrarsi a quell'esame.

«Sono incorreggibile, Maria, e lei lo sa…. Mi passan per la mente delle cose enormi, come se vivessimo in un secolo lontano, quand'eran possibili i miracoli….»

«Maestà» disse la marchesa di Pietracamela, secondando lo scherzo «impieghi anche me ne' suoi miracoli: bisogna scrollare la vita: altrimenti ci si alza la mattina e la sera si va a letto e…. e basta: troppo poco: siamo doventati automi.»

Eran giunte, e le due dame lasciarono la regina al palazzo.

Wanda trovò in sala, insieme con Albano e i due aiutanti Roscio e Triverna, la vecchia contessa di Marbello ch'era tornata quel giorno medesimo da una sua villa vicina: fu flieta d'accoglierla perchè le conosceva un'anima nobilissima e non dubitava che avrebbe parlato francamente con Albano. Infatti, dopo il pranzo, la contessa disse:

«Sentite, cara: ho domandato al re che cosa intenda di fare, e non mi ha risposto, o, meglio, non ha avuto il tempo di rispondermi perchè siete venuta voi e siamo andati a tavola. Ditegli dunque che si ricordi della mia domanda, e che io aspetto.»

Volse la tromba del suo apparecchio verso la bocca di Wanda, e, come questa indugiava a parlare guardando il re, insistè:

«Avete compreso?»

Il re accendeva la sigaretta al fiammifero offertogli da Marco Triverna: sbuffò con impazienza la prima aspirazione del fumo, poi venne presso alla sua madrina.

«Ma sì che ho risposto!» esclamò «Ho risposto che la politica non può asservirsi ai fanatismi di pochi esaltati: abbiamo dei trattati d'alleanza che sarebbe pericoloso spezzare. L'Altamagna ha le unghie forti: non bisogna correre il rischio di farsi dare una zampata.»

La contessa, che aveva udito benissimo, tolse via dall'orecchio il suo congegno.

«Wanda, ditegli che non capisco.»; non lasciò a nessuno il tempo di replicare, e interpellò d'un tratto la sua vecchia dama di compagnia:

«Smedley, non volevate riammirare il panorama della città illuminata dall'alto della torre del palazzo?»

La fedele ottima donna si credè in dovere d'uniformarsi subito al desiderio che la sua signora le attribuiva.

«Sì.» confermò nel suo gergo gutturale, pur non indovinando la recondita ragione di quell'ordine «Era stato questo un gran desiderio per me.»

La contessa di Marbello drizzò un sorriso bonario ai due aiutanti di Albano.

«Lei, Triverna, lei, Roscio: sono tanto gentili cavalieri che non si priveranno del piacere di accompagnare la nostra amica.»

Roscio gettò la sigaretta, prestandosi con gaia garbatezza alla trovata della contessa. Triverna masticò un po' d'amaro, e diè uno sguardo al re. Questi non potè frenare un gesto d' insofferenza, intuendo ciò chè s'annunziava nel colloquio preparato dalla madrina.

«Fa fresco stasera. Che idea!»

Ma la signora di Marbello aveva interrotto le comunicazioni riponendo il cornetto in una borsa che portava dallato e finse d' intendere a modo suo:

«Sì, molto bello, e miss Smedley sarà veramente soddisfatta.»

Non c'era più da aggiungere una sillaba, ed anche Triverna s'acconciò ad obedire.

Rimasti soli i sovrani con la contessa, Albano si sdraiò dispettosamente su una poltrona. Wanda lo guardava con un'ansia e una speranza indicibili: così giovine egli era e bello e forte, che in quell'ora d'attesa ella sentì risorgersi nell'anima una virginea vampa d'amore, come nel tempo delle prime illusioni. Venne pian piano dietro a lui, s'appoggiò con i gomiti alla spalliera, gli accostò al viso una carezza timida, piena di trepidazione.

«Così» disse la contessa «possiamo discorrere. Quattro orecchi: i miei non contano: c'è una sufficiente garanzia d' intimità.»

Wanda sfiorava con la bocca i capelli del re, aspettando da lui una parola maschia e generosa, dimenticando le angosce e gli inganni, volonterosa di trasfondergli nel cuore la sua fermezza grave di passione e pronta all'eroismo. Le sembrava inverosimile ed impossibile che il sangue dell'antica stirpe non accendesse le vene del suo bel compagno, e già lo vedeva tramutarsi d'uomo in arcangelo e procedere, idolo del popolo, in un'aureola di vittoria e di gloria.

«Dunque?» domandò la signora di Marbello «Sono venuta apposta stasera per sapere che sei degno dei tuoi padri. Vi sono momenti in cui un re, a dispetto di tutte le costituzioni, deve saper governare e non solo regnare. Ho meditato a lungo, ho interrogato, ho indagato: i tuoi uomini politici, tranne pochi, ragionano come ragionavi tu un minuto fa quando non ho capito ciò che mi hai detto.» addolcì con questa malizia sorridente la severità del suo giudizio, e proseguì: «Raccogli intorno a te i migliori, coloro che non hanno paura delle zampate dell'Altamagna: tarparle le unghie bisogna perchè non faccia male, e non starsene rincantucciati senza diritto al sole e alla libertà perchè la bestia è in agguato. Sii la coscienza de' tuoi sudditi, e fai tacere i vigliacchi e i venduti. Un re deve assumersi la responsabilità dell'azione, e non, con la scusa delle responsabilità, trincerarsi nell' inerzia. Hai venticinque anni, un nome glorioso, un regno giovine, un popolo ardente: non puoi esitare. Dunque?»

Albano ascoltava soltanto per metà le parole della sua madrina: il fastidio di dovere opporsi e discutere paralizzava già la sua attenzione, e daltronde il contatto lieve e caldo delle mani di Wanda, dell'alito di Wanda lo intorpidiva un po', come un'effusione nuova ed inattesa. Gli rincresceva di muoversi per accostar la sua voce all'orecchio della contessa e, sebbene lo irritasse la certezza che, a non risponderle, ella avrebbe continuato nella sua requisitoria, rimaneva quieto, sentendosi scivolare fin nella nuca il fiato di Wanda: le prese anzi uno dei polsi perchè non si staccasse da lui, scherzando con quelle dita sottili che gli tramavano attorno un giuoco inconsueto di tenerezza. La signora di Marbello li guardava ambedue e, fine osservatrice com'era, con una puntina di malizia che interrompeva la sua amara constatazione capì che la sua causa sarebbe meglio affidata alla regina: le doleva di dover ancora una volta persuadersi che Albano era lo schiavo delle impressioni meno nobili e più fuggitive, le ripugnava anche di veder sottoposta l'austerità d'una decisione regale alla contingenza miserabile d'un amplesso. In un lampo ella intuì questa cruda necessità, ma ne vinse il disgusto, sicura che in altro modo non ci sarebbe nulla da sperare.

«Les dieux s'en vont…. et les rois aussi!» ella borbottò alzandosi dal divano.

Il re fu costretto a seguirne l'esempio, e, credendo giunto il momento delle spiegazioni, si dispose con malumore a parlare. Aveva appena cominciato un “mia cara madrina” che prometteva un' infinità di riserve e di circonlocuzioni, quando la signora di Marbello lo interruppe.

«Hai tutto il tempo.» ella disse «Sei una persona ragionevole» alzò mentalmente gli occhi al cielo e sospirò per questa grossa bugìa «e un po' di riflessione sarà la più salutare. Io vado a far cercare miss Smedley che ha delle idee romantiche così giovanili…. Ridete? Non bisogna ridere, povera donna!… No, no, non venite: so andar da me. No, vi dico, obbeditemi una volta tanto: a Roscio e a Triverna penserò io.»

Albano le baciò la mano, inchinandosi profondamente, lieto in cuor suo d'essersela per allora cavata a così buon mercato. La contessa abbracciò la regina e le susurrò quasi impercettibilmente:

«Soyez brave, ma fille!»

Accompagnò il suo consiglio con uno sguardo che voleva dir mille cose, e forse anche questa indulgente e salata: “Non è poi tanto terribile, eh?”

Wanda comprese, arrossì fin nel bianco degli occhi. Il re, non appena uscita la signora di Marbello, tornò a gettarsi sulla poltrona.

«Vieni qua, Wanda.»

Ella si sentiva stranamente a disagio: un che di nuovo, di oscuro, di ineluttabile la opprimeva e le gonfiava il cuore. Ora avrebbe voluto sottrarsi, scomparire.

«Vieni qua, Wanda.» ripetè Albano.

Wanda s'avvicinò lentamente, evitò il braccio di lui che si stendeva per trarla più dappresso, si riappoggiò come prima alla spalliera della poltrona. Egli rovesciò il capo all' indietro, socchiuse le palpebre.

«Albano!» mormorò la regina, e un groppo di parole le si annodò nella gola.

Che dirgli? Come persuaderlo?… Ella vedeva la piccola vena di rossore che gli saliva alla fronte, gli vedeva in bocca la contrazione del sorriso disegnato dal desiderio. Ebbe voglia di fuggire per quel che in un attimo le lampeggiò nell'anima: intuizioni vive e precise, ma tanto fulminee che la sua mente non era capace di fermarle.

«Wanda, Wanda, mia reginetta….» ripeteva il re pain piano, e la prendeva ai gomiti, la costringeva a venirgli sulle ginocchia.

La premè contro il suo petto, cercò voracemente la bocca di lei, la baciò a lungo, soffocandole il respiro. Wanda si abbandonava con una docilità che non le era nuova, ma nuovo, sì, ella sentiva correrle nel sangue un brivido di rispondenza all' incalzante ardore del marito. Che torbida, che improvvisa passione s' insinuava d'un tratto nelle sue fibre?… Ed ecco le saettanti velocissime visioni darle per un attimo la ragione di quello spasimo e di quell'avidità, eppoi scomparire senza traccia, lasciarle il cervello vuoto e i sensi in tumulto nello squallore del suo pensiero, nel languore della sua carne. Tentò di resistere alla debolezza che la occupava, gli poggiò le mani contro le spalle, si ritrasse.

«No…. No…. Albano, no….» con un balzo, pallidissima, ella si levò, guizzò via in mezzo alla stanza.

Albano rise, male intendendo il rifiuto di lei, e, accostatosi all'uscio, fu pronto a girar la chiave nella serratura.

«Così?… Ora?…» e si riavvicinò con le braccia tese.

Wanda scivolò lungo la parete, corse alla porta; ma, prima ch'ella fosse giunta ad aprire, il marito le afferrò la mano, tolse la chiave, se la mise in tasca.

«E dunque?» gli errava sulle labbra un sorrisetto ch'era tra lo scherzo e la minaccia «Siamo soli ora, siamo sicuri così.»

«No…. no….»; ma la voce le morì nel bacio di lui, ed ella rese il bacio, disperatamente. «Albano…. Se tu sapessi…. Vedi? Vedi?… Ti voglio bene, sì…. Tanto…. Non mai come in questo momento…. Te lo voglio anche come vuoi tu…. Se tu sapessi!… No, no, lasciami, ti prego…. Ascoltami prima….»

Lo respingeva e nel tempo medesimo lo avvinghiava a sè, con un tremore, con un pallore che gli si imposero più delle parole.

«Wanda!»

La lasciò, la fece sedere su una poltrona.

«Che hai?»

Non aveva mai esercitato il cervello a voler capire sua moglie: le pieghe sentimentali e le complicazioni psicologiche non erano per lui. Quando l'aveva incontrata, s'era incapriccito di quella vergine aspra e forte come una bacca selvatica, e nel tempo brevissimo del fidanzamento aveva creduto che l'adorazione manifesta di lei gliel'avrebbe subito resa infiammata compagna di piacere. Deluso dalla smarrita passività con cui ella aveva accolto la troppo brutale rivelazione dell'amore, eppoi irritato dall'ostilità ch'ella non sapeva più nascondere nelle loro relazioni coniugali, Albano ora si trovava assolutamente impreparato a quella dedizione convulsa che Wanda gli offriva di fatto, pur negandosi con la voce rotta ed affannata. Vedendola così, temè un attacco di nervi, non comprendendo egli stesso se l' inatteso e strano impeto di lei lo seccasse o gli tornasse gradito. Rimase in piedi, guardandola, interrogandola con gli occhi, senza saper che fare o che dire. La condizione di re lo aveva abituato a trovar nelle sue conquiste una molto maggiore semplicità: le dame del gran mondo gli si eran date con un'acquiescenza lusingata da cui non riusciva ad esulare interamente la formalità del rispetto; le altre gli avevan concesso un'ebbrezza pronta, talvolta spavalda e canagliesca, ma sempre gioconda e spensierata. Epperò l'atteggiamento di Wanda gli metteva addosso una perplessità non conosciuta, sferzandogli i sensi e nell' istante medesimo ghiacciandolo moralmente.

«Che hai?» ripetè: l'accento della domanda non aveva più nulla di dolce, ed anche gli occhi gli s'eran fatti foschi.

Ella fu percossa da quel tono e da quello sguardo, rivedendo d'un tratto nel marito il maschio rozzo e prepotente. N'ebbe paura, ed ebbe paura di sè stessa, tanto si sentiva diversa dal consueto, tanto angosciosamente la bruciava una nuova fiamma piena di spasimo e di febbre. Si fissarono un lungo minuto, senza parlare, come nemici. Wanda fu la prima a rompere il silenzio.

«Albano, senti.»

Voleva riacquistar la sua calma, ragionargli; ma egli la ghermì con furia, la riversò sopra un divano, la possedette scompostamente, in un turbine di breve godimento.

Quando Albano si rialzò, Wanda rimase abbattuta contro i cuscini, immobile. Lo strofinìo d'un fiammifero ch'egli accendeva per la sua sigaretta, la fece trasalire.

«Spengi.» ella disse, senza levare il viso.

«Spengo? Che cosa?…» e gettò a malincuore il fiammifero «Ti dà noia ch' io fumi?»

«No. La luce.»

«La luce?… Per farne?»

«Spengi!» disse lei una seconda volta.

Albano obbedì: la soddisfazione dei sensi lo aveva placato, dandogli un umor conciliante. Girata la chiavetta elettrica, accese un altro fiammifero, e, prima d'accostarlo alla sigaretta, cercò nell'ombra rossastra una poltrona: si sdraiò, cominciò a fumare.

«De profundis!…» esclamò burlescamente, allungando le gambe in uno stiramento beato di tutte le membra.

Poi tese l'orecchio: capì che Wanda si ricomponeva, e rise.

«Non la vuoi la cameriera, eh?»

Ella non rispose; a tastoni si mosse, e Albano, udendola, domandò:

«Che fai? Vuoi la chiave?…»; poi scoppiò ancora la sua risata giovine e maliziosa: «Oh, bella!… Non la trovo…. L'avevo messa in tasca, noh?… Dove sarà?… Dove sarà?… Fra le trecce della bella…. Fra le trecce della bella….»: canterellava, scherzando, accentuando due sbadigli in fila.

Wanda era giunta presso la finestra e la spalancò. Entrò nella stanza un fiotto d'aria fresca, e il chioccolìo della fontana, di giù, dal giardino. I grandi alberi eran fermi, come montagne nere; solo le vette d'un filare di cipressi vicini oscillavano leggermente, lambiti dalla luna che s'affacciava in alto sopra i tetti del palazzo. Suonò la mezzanotte: dodici tocchi sordi, come feriti nella lor limpidità. Quello scampanìo dell'ora che rompeva il silenzio parve a Wanda un falso e teatrale complemento d'una qualche istrionica finzione che le sovrastasse sull'anima. Non sapeva che. Aveva voglia di ridere e di piangere, ma senza gioia e senza espansione. L' ira e la vergogna che un momento prima le avevan fatto desiderare l'oscurità si consumavano in un sentimento di rassegnazione triste. Ma, per contro a quell'abbattimento e a quella stanchezza della materia che in lei suscitava l'ultima vibrazione del fremito non mai per l' innanzi provato, il suo spirito si levava a poco a poco quasi in un fantastico delirio. Una folata di vento improvviso scrollò gli alberi e piegò i cipressi: il getto della fontana tacque per un istante, rapito e sospeso dal soffio, poi ricadde con uno scroscio e uno sciacquìo disuguali.

«Ecco.» disse mentalmente Wanda, senza rendersi più conto, dopo la paroletta conclusiva, del paragone ch'ella aveva fatto tra sè ed il quieto mormorìo che il vento avea sconvolto.

Rotornò nel mezzo del salotto, chiamò il marito. Albano si scosse.

«Che vuoi?… Ah, davvero che m'addormentavo, sai?… Accendi: ci vuol la chiave per uscire.»

Wanda non gli badò. Non le importava più nulla d'essere rude, di compromettere con asprezza incisiva la causa che le stava a cuore. Che poteva aspettarsi da lui? Contro quali rivelazioni d'egoismo, di gretteria e di viltà si sarebbe infranta ogni esortazione?… Tanto valeva andare dirittamente allo scopo.

«Che cosa risponderai domani?»

«Io?… Domani?…»: in buona fede Albano non comprendeva.

«Fai dare i passaporti al barone di Loën.»

Egli balzò in piedi.

«Ah, ma è una persecuzione questa!… Non ve n'occupate, fatemi il piacere!»

Muovendosi per andare ad accendere le lampade, urtò in un mobile, s' irritò.

«Che credi, dunque?… Che io doventi di stoppa per il primo bacio che ti sei degnata di darmi mettendoci dentro un po' di nervi?»

La luce brillò, investendo vivamente ogni angolo della stanza. Egli vide Wanda, diritta ed ostile.

«Hai finita la commedia, ora? Vuoi incenerirmi?»

Wanda arrossì: ma l' ingiuria aveva trovata la sua collera più che la sua coscienza. Le pareva di vivere in un altro mondo: qualche cosa di terribile si operava in lei.

«Perchè vuoi lasciarti prendere la mano dagli altri? Sia tua l' iniziativa. Non sai anche tu che alla guerra ci verremo in ogni modo?»

Albano scattò.

«Guerra!… Una parola!… C'è chi la beve come un bicchier di vino inebbriante. Ma il popolo non lo ubriacherete, no, perchè ne va del suo sangue, e non si sa per il piacere di chi si dovrebbe versarlo!…»

«Non fare l'apostolo, chè non ti riesce. Sii sincero. C' è altro.»

L'interruzione fredda di Wanda lo esasperò.

«E se anche?… Il barone di Loën, che tu vorresti spedire con tanti ringraziamenti, il barone di Loën è amico nostro più che tu non creda!»

Gli occhi della regina lampeggiarono.

«Dunque È vero?»

«è vero che cosa?… Quello che vanno abbaiando alcuni giornali a cui non si può metter la museruola come vorremmo?… Mercato? Prostituzione? Tradimento? E via di questo passo con le grandi frasi?… Nossignori!… Il contorno tragico ce lo mette chi non sa e chi è in malafede. Eh, perdio!… Se ho la sicurezza che la mia mano armata me la taglieranno con un colpo di spada, ma io la stendo, questa mano, per firmare piuttosto un contratto amichevole che mi torna di vantaggio — di vantaggio, nota bene —, e non faccio il pazzo, non faccio lo spaccamontagne!»

Wanda serrò le mascelle per non prorompere.

«E ti schiereresti con l'Altamagna?»

«Io non mi schiero. Io sto a vedere, e quando, per pagarmi la parte di spettatore, mi si offre un compenso che con i cannoni non riusciremmo mai ad ottenere, discuto, e non mi metto la maschera di quei puritani che vogliono mandare il popolo al macello!»

Ella ascoltava con un martellìo nelle tempie che le confondeva quelle parole in un fiotto assordante e doloroso.

«Non è possibile!…» esclamò «Ma non ti rammenti chi sei, non ti rammenti da chi discendi?»

Aveva parlato con una voce così soffocata, ch'egli credè già fiaccate le resistenze di lei e che quell'argomento fosse il fior retorico dell'avversario che non ha ragioni più salde da opporre. E allora s' imbaldanzì, scoppiò in una risata.

«Brava!… Chi sono? Un re. Chi erano i miei antenati? Dei re. Ma i tempi mutano, cara!… Ci vorrebb'altro che ripeter sempre i medesimi gesti!… Se dunque uno stolto mi sfidasse al giudizio di Dio, io, perchè qualcuno degli avi ha fatto anche questo, dovrei davvero scalzarmi i piedi e camminare sopra la brace ardente?… E perchè, allora, non partiamo in Crociata?… E perchè non ristabiliamo la tortura e non l'applichiamo all' inventore del telegrafo senza fili?… E perchè…»

Wanda lo interruppe, violenta.

«Basta, taci!»

Sapeva che Albano, incapacissimo di ragionare secondo il taglio della logica, era poi inesauribile quando si trattava di sgranare una litania di sciocchezze per sviare la coerenza dei discorsi e concludere a modo suo. Ma sentiva ch'era mostruoso decidere delle sorti della patria con quell'artifizio di spropositi sostenuti con un candore che pareva la migliore e più convinta espressione della sincerità, e ch'era invece una goffaggine maligna alla cui pania forse ora mordeva lo stesso barone di Loën, credendo d'aver che fare con un uomo eccessivamente semplice, e finendo per servire, oltre che i proprii scopi, anche quelli inconfessati della vigliaccheria e della testardaggine del re di Venustria.

«Tacere?… Ma sì: è una virtù che dovrebbero avere anche gli altri…. molti altri; e lasciar fare a chi sa e può.»

Tanta era la baldanza di Albano che Wanda doventò cattiva, volle colpirlo con acredine per penetrare finalmente dentro il cuore di lui, al di là di quella scorza parolaia dietro la quale egli si difendeva come dietro uno scudo.

«Che sai?… Che puoi?… Vuoi che ti dica il motivo vero?… Hai paura. Sì, sì, hai paura: ma per te, non per il paese, non per il popolo. Hai paura della guerra come ne ha paura il più vile dei tuoi sudditi, quello che domani cacceranno nella mischia spingendolo col calcio del fucile…. Hai paura perchè tuo padre è morto in guerra, combattendo bravamente contro questa medesima Altamagna che ti prende al laccio come un coniglio, perchè non ti può mettere il capestro al collo…. Per ora!… Ma te lo metterebbe, e a noi con te, se ti lasciassimo fare…. Hai paura, hai paura, hai paura!»

Wanda ripeteva l' insulto, esasperata dall' impassibilità di lui e dal sorriso che non lo abbandonava. Per la seconda volta in quella sera sentì che la realtà è una cosa turpe e che è necessario oltrepassarne i confini per giungere ad un atto sublime. Di nuovo un fiammeggìo di visioni le abbagliò il cervello, senza ch'ella potesse fermarne pur una, senza ch'ella potesse comprendere da quali profondità del suo spirito si levasse quel delirio della mente. D'un tratto guardò il dipinto che sovrastava dalla più ampia parete del salotto: v'era effigiato il padre di Albano, con le mani strette sull' impugnatura della sciabola, a capo scoperto, severo e quieto. Ella tese le braccia verso la figura immobile del gran re, poi drizzò il dito minaccioso al volto di Albano.

«Romagnano Paleologo!» disse, con un'amarezza mordente di sarcasmo.

«Eh, via! Finiamola!» esclamò lui, alzando le spalle «Del resto, sai che c'è?» e parodiò con enfasi dispettosa il tono di Wanda «C' è che i Planacomba valgono i Romagnano Paleologo! E se io ti sembro il discendente degenere contro cui invochi i fulmini degli antenati, e ti ostini nonostante questo a parlarmi come se io fossi degno di loro…. ebbene, c' è un altro discendente di nobilità magnifica, uno che tocca il tuo sangue più da vicino, perchè è della stirpe dei Planacomba, i Planacomba che dettero meravigliosi soldati!… C' è tuo fratello, Stefanolo, “il piccolo duca”!…»

La regina trasalì, ma pur il nome di Stefanolo le giunse quasi inconsciamente aspettato e folgorò ne' suoi nervi come una luce di salvezza. L' irreale s' impadroniva di lei, la più assurda fantasticheria le travagliava e trasformava il cuore, illimpidendosi a poco a poco nella sua mente in una visione esatta che le dava le vertigini.

«I vostri avi» proseguiva Albano, trionfante «furono, nei secoli, alleati della mia casa, e ne ebbero servigi, e li resero. Un'altra cosa rammenta: Caterina di Planacomba, moglie d'un Romagnano Paleologo, diede alla sua nuova patria undici figli, tutti maschi, e aveva portato in dote, se non erro, una sciocchezza come otto milioni!…»

Wanda non perdeva una parola di lui, sebbene fosse stranamente ansiosa di afferrar con l'udito il canto della fontana, giù, dal giardino: ancor più: pur ascoltando la tirata di Albano e nello stesso tempo prestando l'orecchio a cogliere il rumore dell'acqua, ella esaminava in sè questo sdoppiamento, e constatava la verità del fatto che nei momenti più difficili il pensiero corre a certe divagazioni puerili le quali forse nascono da un celato senso superstizioso.

Il re non rallentava l' ingenerosa requisitoria: sentiva confusamente che Wanda potrebbe doventargli la più temibile avversaria, e voleva ormai ridurla al silenzio e all' inazione.

«Tu dici che i tempi non mutano?… Eh, cara mia, non basta portare con apparente disinvoltura romantica i riccioli sul collo, i calzoncini di pelle, la tunica bianca e la cintura di seta azzurra!… Non basta tenere al fianco una spada dorata e batterla contro gli sproni d'argento!… Non basta camuffarsi in questo modo da principino imperiale dell'ottocento, come fa tuo fratello!… Ci vuol altro per esser degni degli avi….»

Wanda taceva. Per quanto ogni dileggio contro Stefanolo la raggiungesse come una sferzata, tanto più cocente perchè s'accaniva sopra la disgrazia d'una povera creatura, ella taceva: le insolenze di Albano erano il fermento che nutriva la sua folle decisione.

«Eppoi, insomma, non immischiarti di politica!… Non ne hai il diritto. Nota, a proposito di tempi che mutano, che i matrimonii dei sovrani si facevano con la testa sulle spalle, e si badava cioè ad assicurare la discendenza, ad arrotondare il tesoro, a preparare alleanze…. Io, il mio matrimonio, l' ho fatto perchè ebbi l' ingenuità di scaldarmi alla luce delle tue aurore boreali…. Che ricompensa ne ho avuta? Figli no: e non te l' ho mai rinfacciato perchè, in fondo in fondo, io vivo per me, per me solo, e non me n' importa un bel niente di quelli che verranno. Dunque, figli no. Ricchezza nemmeno, perchè mi farai l'onore di riconoscere che le non laute superstiti rendite dei Planacomba le ho lasciate tutte a tuo fratello. Aiuti di parentela?… Avanti! Ecco il momento!… Di' a Stefanolo che venga ora a portar la sua spada in Venustria e a bandire la nostra guerra!…»

La regina tremò. Una parola come questa ella voleva, ma non l'avrebbe mai sperata così precisa e così calzante. Le parve che una nube di fuoco la avvolgesse tutta, e impetuosamente gridò:

«E se lo facesse davvero?»

Albano s' interruppe, di colpo.

«Chi?» domandò.

Wanda ebbe la stessa sensazione cieca e disperata d'uno che si getti in un precipizio.

«Stefanolo!» rispose a voce alta.

Egli rise con un'esplosione d' ilarità villana, senza nemmeno degnarsi di ribattere quella che gli sembrava una presunzione buttata là per perdere il tempo.

«Stefanolo, sì. Chi ti dice che la sua anima, estranea a tutto ciò ch' è volgarità d'ogni giorno, non si risollevi per entrare in un fato grandioso?»: parlava ora freddamente, lucidamente: anche il cuore non le martellava più nel petto, riprendeva il suo ritmo placato.

Albano smise di ridere.

«Ma, davvero, siete matti tutti e due?»

Rise lei questa volta, sfidandolo con uno sguardo così fermo e al tempo medesimo così indecifrabile, che il re rimase interdetto.

«Matti?» fece Wanda.

Riversò il capo all' indietro, si riappuntò i capelli sulla nuca con rapido gesto, poi lo guardò una seconda volta, a lungo, nella stessa maniera sibillina.

«Chi sa!» esclamò, quasi rispondendo ad un suo intimo pensiero «L'avvenire è nelle mani di Dio.»

Albano, per resistere alla suggestione che si operava in lui, rievocò nella memoria la figura di suo cognato: lo rivide tormentato dall' instabilità e dall'ottusione del cervello, anelante qualche volta alla grande aria ed agli esercizii fisici, ma tosto rabbrividente d' insofferenza e abbattuto dalla stanchezza; lo rivide, pallido e debole, curare dinanzi allo specchio, con meticolosa manìa, l'abbigliamento strano che usava portare, ricopiato da una vecchia divisa dei Planacomba; oppure stender numeri e numeri sulle pagine d'un centinaio di taccuini tutti già traversati di calcoli e di cifre; ne riudì i discorsi vani ed incoerenti e l'urlo che accompagnava l'assalto della convulsione. Da questi ricordi gli tornò la sicurezza, ed ebbe voglia di celiare.

«Su, dunque!… Non lo creai colonnello onorario dei corazzieri di Tàllusa? Ne prenda il comando!… Dopo la prima vittoria, parola d'onore, lo faccio caporale effettivo!»

Wanda — che un momento prima non avrebbe esitato ad insistere magari violentemente, perch'egli prendesse sul serio quelle sue parole audaci che nascondevano un più audace proposito — ora provò quasi un sollievo a sentirlo così libero e tranquillo. Le schermaglie verbali non erano il suo forte, e, passato il pericolo, pensò con timore che la sua precipitazione avrebbe potuto compromettere tutto.

Mentre egli, brontolando ch'era tardi, cercava la chiave facendo volare da una parte all'altra i cuscini del divano, Wanda si tormentava per trovare le frasi adatte ad esprimere una sua recondita idea.

«Ascolta.» ella disse intanto «Devi giurarmi una cosa, giurarmela sulla tua vita.»

Albano, che s'era impadronito già della chiave insinuatasi tra la spalliera e il sedile, si diresse crollando le spalle verso la porta.

«Mi pare che basti, per stasera e per sempre, noh?»

«Senti.» ripetè lei in fretta «Se non mi ascolti, ti porterà disgrazia.»

Albano si fermò: dinanzi ad ogni minaccia di malaugurio aveva una debolezza invincibile.

«Non fare la profetessa, ti prego. Mi secca, lo sai. Che c' è? Che vuoi ch' io giuri? T' ho parlato chiaro, è inutile, è….»

«Nulla che sia contro le tue decisioni.» lo interruppe Wanda «è un desiderio mio che tu soddisfarai, perchè non t' importerà affatto di contrariarlo. Ma giura, prima.»

«Si tratta di guerra?» domandò Albano, diffidente.»

«No.» rispose la regina, dopo un'esitazione impercettibile.»

«Ebbene, giuro.»

«Sulla tua vita?»

«Sulla mia vita.»

Wanda respirò.

«Ecco.» disse «Non so se ti sei accorto che stasera ci siamo dette delle cose atroci.»

Egli fece un gesto di noncuranza.

«Atroci.» ribattè Wanda «Ti ringrazio di non serbarmene rancore, e non te ne serbo nemmeno io. Ciò non toglie che le nostre parole sieno state di quelle che non si dimenticano tanto presto…. Abbiamo palesato e precisato l'abisso che ci ha sempre separati: è un abisso, mi pare, che non si colma. Non ti sembrerà strano — è vero? — ch' io desideri d'allontanarmi per qualche tempo.»

Tacque, per aspettare una risposta.

Albano pensò che sarebbe quella infatti la miglior soluzione: tanto più che, lasciando la corte, ella non avrebbe avuto modo d'occuparsi e d' intrigarsi di politica. Suggerì egli medesimo il luogo più remoto dal mondo degli affari e delle questioni internazionali.

«Non mi oppongo. Vai a Planacomba. Intanto» e rise, un'altra volta ironico, ormai certo che il nome di Stefanolo era stato unicamente una spacconata per aizzarlo «potrai insegnare la scherma a Stefanolo.»

Wanda non alzò gli occhi, temendo di tradirsi.

«Andrò, ma ad una condizione. Quella che tu hai giurata sulla tua vita.»

Il re s' inalberò, sospettoso.

«Ancora?»

«Che tu mi lasci là fin quando lo crederò opportuno, e che tu non cerchi in nessun modo di vedermi, qualunque cosa accada, finchè io stessa non ti chiamerò…. Hai giurato, ricordati!» insistè, vedendo ch'egli rimaneva perplesso; e aggiunse: «Che ti costa? Non senti anche tu che non sapremmo proprio che cosa dirci, noi due?»

Albano sbadigliò: aveva sonno, e daltronde era convinto di non rischiar nulla a contentarla.

«Tornerai?» domandò, perchè gli parve gentile non arrendersi ad assoluta discrezione.

Wanda sentì corrersi un brivido per le spalle.

«Se Dio mi dà vita» disse «tornerò.»

«Quando?»

Ella lo guardò senza rispondere.

«No…. Intendevo dire quando…. quando parti?»

Ancora una lieve esitazione.

«Presto. Tra una settimana.»

«Va bene.»

«Giurato sulla tua vita, è inteso?»

«Ma sì! Giurato sulla mia vita: è inteso.»

La regina gli porse ambedue le mani, d' impeto.

«Senza rancore!» esclamò; ed i suoi occhi, mentr'egli si chinava a baciarle le dita, espressero in un baleno la tenera indulgenza che si può avere verso un bambino.

Rimasta sola, Wanda si passò una mano sulla fronte. Spense i lumi un'altra volta, si riaccostò alla finestra.

Notte silenziosa, scapigliata a quando a quando da una folata di vento.

Ella ebbe l' impressione di trovarsi di nuovo in mezzo a uno scenario: e questo, invece di ghiacciarla nella morsa della falsità, la accendeva anzi d'una fiamma sincera, tanto più ardente, quanto meno alimentata dalle circostanze reali. “Per la mia patria e per tutta l' Ellade io muoio!”: avrebbe voluto gridarle dinanzi ad una folla clamorosa queste parole che ora le ribattevano nel cervello. Il ricordo della tragedia eroica le tornava vivo alla mente e si mescolava alla sua febbre con sì vertiginosa e dolorosa passione, che Wanda si fece forza per ritrovare l'equilibrio del suo spirito.

«Che ho fatto?» pronunziò ad alta voce.

Quasi rattenne il respiro, perchè le parve d'esser nella condizione di chi, precipitato da una grande altezza, non sappia ancora se le sue membra siano intatte o sfracellate dal colpo. D'un tratto balenò a' suoi occhi il volto della principessa di Cerito: le sembrò d'esserne guardata con un sorrisetto affettuosamente ironico. Per non cedere alla riflessione, volle romper l' incubo della solitudine, ripetere i gesti consueti, rientrare nelle piccole contingenze della vita. Suonò il campanello: tre tocchi; poi s'avviò verso il suo appartamento.

Camilla le venne incontro, rapida e silenziosa. Mentre acconciava i capelli della regina per il bagno serale, Wanda la guardò riflessa nello specchio: era bionda e ben fatta, e, sebbene il viso non fosse bellissimo, l' insieme della figura rendeva il tipo della femminilità perfetta. Quell'esame doveva avere un perchè: infatti Wanda scosse il capo, eppoi sorrise, domandandole come se scherzasse:

«Ti sentiresti, Camilla, di stare ventiquattr'ore a cavallo?… Di passare in mezzo a un campo di feriti e di morti?…»

La cameriera restò col pettine a mezz'aria, non sapendo che risposta dare a quell'uscita. Ripensò confusamente alle poche volte nelle quali, costretta a prender parte nel sèguito di qualche breve cavalcata, aveva rimesso il piede a terra con un respiro di sollievo; e ripensò allo sgomento di una sera della sua infanzia, quand'era passata con la nonna dinanzi a un cimitero di campagna, aperto come un podere, e la vecchia s'era segnata e aveva mormorato una preghiera. Ma prima che alla luce di quei lampi della memoria ella avesse potuto concretare un' idea, la regina esclamò:

«Peccato, peccato, Camilla!… Sei stata sempre buona e fedele…. Non mi capisci?… Eh, non importa, Camilla!… Ci sarà tanta, tanta gente che non mi capirà!…»

Si prendeva il thè nel giardino reale. Il barone di Loën e Straczy avevan fatto puntualmente la loro apparizione alle cinque e mezzo. Wanda non s'era potuta opporre: il re le aveva categoricamente imposto di prestarsi, prima della partenza per Planacomba, ad un'ultima dimostrazione di condiscendenza. Egli tuttavia aveva stimato opportuno di non avvertire di quella presenza gli altri soliti convitati, per non provocare diserzioni da parte di quei pochi ch'egli sapeva ferventi sostenitori dell'altra idea, contando così sulla sorpresa e sullo stretto dovere di riverenza ch'essi in ogni modo dovevano all'ospitalità sovrana. La sola contessa di Marbello s'era permessa un' impertinenza che, con molta buona volontà nel sorriso verde dell'ambasciatore, aveva potuto passare come uno scherzo pepato. Infatti, vedendoselo inchinare profondamente dinanzi, la vecchia signora aveva tardato a stendergli la mano, e gliel'aveva pôrta infine, dicendo ad alta voce:

«Mi meraviglio, signor barone. Non m'aspettavo di vederla qui. E le do la mano con piacere, perchè, non si sa mai, potrebbe anche essere l'ultima volta che ci incontriamo.»

Il barone di Loën aveva rimediato con un lungo discorso di dolcigno ossequio, eppoi s'era rifugiato nei calorosi saluti dei marchesi Ribaudo, dei Monterosso, di Triverna, di Ferdinando Jese e del conte di Fivignano. Gli altri lo avevano accolto con freddezza appena appena cortese; e il generale Costanzo aveva ostentatamente evitato di stringergli la mano.

Straczy e la principessa Della Falce, seduti vicini come per caso, non osavano nemmeno guardarsi, perchè il principe — la prima volta in vita sua — sorvegliava sua moglie con un'ostilità schernitrice così palese, ch'essi non avevan più fiato di dirsi una parola.

«Della Falce» malignò Ferdinando Jese, che aveva occhi di demonio, all'orecchio inesauribilmente compiacente della Monterosso «si ricorda che i denti gli sono già spuntati: in tempo, forse, perchè non gli spunti altro.»

Era un chiosco vastissimo di verzura: si vedevano tutti, ma, per parlarsi da un punto all'altro, dovevano alzare la voce. Ed infatti ad ogni momento le conversazioni s' incrociavano ed elevavano, provocate più spesso da qualche frase del re ch'era allegrissimo e pareva l'uomo più libero di spirito che fosse al mondo: allora, sovrastati dal rumorìo generale, i dialoghi confidenti si legavano sicuri nè giungevano oltre gli orecchi cui eran destinati. Così Wanda, avvicinatasi al generale Costanzo, aveva potuto mormorargli:

«Non se ne vada, generale. Ho bisogno di parlare da sola a solo con lei.»

«Agli ordini di Vostra Maestà.»

Come Triverna, che da un po' di settimane pareva un segugio sempre in caccia di segreti, era arrivato presso di loro, la regina disse forte:

«Un'altra tazza di thè, generale?»

Costanzo s' inchinò.

«Prego Vostra Maestà di non attentare ai miei sonni. Mi basta quella che ho preso.»

Ella passò oltre, squadrando Triverna che si tirò da parte e venne così a trovarsi accosto al circoletto formato da donna Alessandra Jese — la brutta sorella del principe gobbo —, da Ruggero di Cerito, dalla marchesa di Pietracamela e dal comandante Ugo Roscio.

«Le assicuro» protestava sinceramente Roscio, indirizzandosi a Franca «che io non mi occupo affatto di politica. Se la guerra verrà, mi ricorderò di essere un soldato. Quello che si fa per prepararla o per scongiurarla non m' interessa.»

«Eccolo» interloquì Triverna, battendo sulle spalle di Roscio «eccolo il nostro marinaio che sente la velleità di fare il mestiere. Ma il primo dovere del soldato è quello di procurare la salvezza della patria, anche se questa salvezza non comporta la soddisfazione di menar le mani. Dico bene, marchesa?»

La marchesa lo guardò con un sorriso ironico.

«Soddisfazione?» ripetè, sillabando «Dunque anche lei si frena a stento, noh?»

«Per la patria e per il re, prima di tutto.» replicò Triverna senza scomporsi «E loro, che sono sudditi fedeli al par di me, posson vedere con gli occhi proprii che il re è gentilissimo con i suoi ospiti.» ed accennò un gesto significativo verso il barone di Loën che pontificava in mezzo al gruppo dei suoi simpatizzanti.

«Infatti!» esclamò donna Alessandra sarcasticamente, accennando a sua volta il luogo dove in quell' istante Albano discorreva anche troppo galantemente con Orabile Jese «Il re è gentilissimo con mia cognata.»

Ruggero di Cerito e Franca si scambiarono un'occhiata, sorpresi ambedue dall' intenzione manifestamente velenosa che aveva dettato le parole della sgraziata principessa contro la bella moglie di suo fratello.

«Io sono della scuola sovrana!» disse Roscio, allegramente «Chi di loro» e guardò a volta a volta la marchesa con un lampo di fervida ammirazione e donna Alessandra con caricato sdilinquimento «chi di loro, signore, signore adorabili, mi permette di essere gentilissimo?»

«Irresistibile!» gli gettò Franca, con una canzonatura piena di civetteria.

Ruggero offrì una sigaretta alla Jese, dicendole con impassibile compunzione:

«Si rivolga a me, donna Alessandra. Col comandante Roscio non c' è fondamento: giuramenti da marinaro, non lo sa?»

Triverna scivolò via per andare a portar la sua vigilanza e la sua propaganda in un altro crocchio.

La regina s'era seduta accanto alla contessa di Marbello, intorno a cui già si trovavano Maria, Leonardo di Pietracamela e Valentino. Miss Smedley riponeva pazientemente in una borsa certi oggettini d'avorio antico che la contessa le aveva fatto portare per sottometterli al giudizio del marchese di Pietracamela.

«Badate di non lasciarne qualcuno nella ghiaia, Smedley.» avvertiva la vecchia signora con quella bonarietà di brontolona affettuosa che spesso assumeva verso la sua dama fedele.

«Oh, no!» protestò miss Smedley, compiendo con cura il suo lavoro «Sarebbe ghiotto per chi lo trovasse, specialmente dopo la delucidazione del signor marchese.»

«Delucidatore di idoletti eburnei!…» rise Leonardo «Mi piace immensamente questa qualifica, miss Smedley. Leif fa dei progressi di lingua meravigliosi.»

Valentino fe' cenno alla contessa di Marbello di volerle parlare, e le domandò se sarebbe andata al teatro Nazionale dove s' annunziava fra tre giorni la ripresa d'un dramma di d'Anghelos.

«No.» diss'ella, appena udita la parola teatro, senza aspettar di comprendere la fine della frase «Io me ne torno in villa. E non mi si rivedrà, se non quando sia scongiurato il pericolo dei brutti incontri.»: una boccaccia sbarazzina che la ringiovanì singolarmente accompagnò questa poco amichevole allusione all'ambasciatore d'Altamagna.

Wanda — che s'era a bello studio posta in modo da non vedere Albano il quale continuava il suo chiacchiericcio animato e ridente con Orabile Jese — s' informò della rappresentazione.

«Oh, se Vostra Maestà v'assistesse!» esclamò il duca di Varo che aveva proprio mirato a suscitare l' interesse della sovrana.

«Perchè?» domandò la regina, subitamente attenta.

Valentino crollò il' capo, già pentito in cuor suo.

«No, no, è meglio di no. La Maestà Vostra non può nè esporsi così, nè assumere una responsabilità.»

«Perchè?» insistè Wanda, abbassando la voce «Si prepara qualche cosa?»

«D'Anghelos parlerà.» spiegò Valentino, cautamente anche lui, fidandosi delle persone che lo ascoltavano «S' è messo d'accordo con un delegato di fegato che giuoca a questa maniera la sua posizione. A mali estremi, estremi rimedii.»

Li interruppe la contessa di Marbello che, segnando sopra un suo taccuino le notizie apprese da Leonardo di Pietracamela, volle sapere da lui come si scrivesse un certo nome.

Wanda fu la prima a riallacciare il discorso.

«E se io venissi davvero?»

Valentino trasalì.

«Sarebbe un bel gesto!» esclamò irrefrenabilmente il marchese di Pietracamela.

«Maestà» rispose dopo un momento il duca, serio «non oso nè sperarlo, nè consigliarlo.»

«Che c' è da temere? Dimostrazioni ostili?»

«Al contrario.» disse Valentino «O abbandonar la sala, e allora meglio non venire. O rischiare una dimostrazione impegnativa» e calcò sull'aggettivo «di vero e proprio entusiasmo.»

«Va bene.» fece Wanda; poi si volse alla principessa di Cerito: «Se andessi, Maria, lei e suo marito mi accompagnerebbero?»

«Vostra Maestà non può dubitarne.» affermò la principessa «Ma….»

La regina la interruppe.

«Il ma» osservò, sorridendo tristemente «è il punto nero della devozione. Ed io, invece, ora più che mai, ho ed avrò bisogno di amici devoti fino…. fino all' inverosimile!»

«Non era per questo.»; e Maria lesse negli occhi della sovrana un accoramento e al tempo stesso una supplica così profondi, che s'affrettò a soggiungere, sinceramente: «Anche oltre l' inverosimile, Maestà.»

«Ecco.» disse Wanda, rasserenata.

Leonardo avanzò con fervore una preghiera.

«Se Vostra Maestà volesse fare a Franca ed a me l'altissimo onore di comprenderci tra questi amici?»

«è convenuto.» rispose la regina «Lei verrà con la marchesa al Nazionale. Direttamente nel mio palco. Alle dieci?» e guardò il duca di Varo.

Valentino aveva l'anima piena di speranza. S' inchinò con atto di riconoscente commozione.

«Alle dieci, Maestà.»

Il barone di Loën si congedò presto; e Straczy, appena scòrse l'ambasciatore sulle mosse per osseqiare il re, fu beatissimo di balzare in piedi dalla seggiola dov'era inchiodato alla tortura e di salutare in fretta i suoi vicini: la principessa Della Falce e il marito. Il principe infatti s'era accomodato da poco accanto ai due, riprendendo la sua consueta aria indifferente, e proprio allora aveva detto, di punto in bianco, esibendo il suo discorsetto come se buttasse là delle osservazioni sbadate:

«Che casi curiosi si dànno nella vita!… Ora il mondo è diviso in nazioni belligeranti. Dev'esser terribile avere sposato, per esempio, una donna nata in paese nemico. Ma c' è qualche cosa di più terribile ancora: esserne l'amante!…»

Straczy e la principessa allibirono; e il principe, guardando il fumo della sua sigaretta, continuò:

«Diamine!… Il matrimonio, dopo tutto, è un contratto obbligante che subentra ai liberi diritti dell' individuo; sicchè la diversa ed avversaria nazionalità dei coniugi urta contro un vincolo di legge che, naturalmente, è meno sensibile del vincolo dei cuori. Gli amanti, invece!… Ben più, ben più: quelli che non lo sono ancora, ma che stanno per doventarlo, e, patatràc, d' improvviso i loro paesi si dichiarano guerra!…»

Straczy ora gli alzò gli occhi in faccia per vedere se si trattasse d'una provocazione diretta; ma Della Falce pareva che non si occupasse nè di lui nè della moglie, e che parlasse per pura accademia di perditempo, reprimendo perfino uno sbadiglio.

«Terribile!… Terribile!…» esclamava senza mutare la freddezza del tono «Io penso che cosa farei in questo caso…. Eh, mi sanguinerebbe l'anima, certo!… Pure…. pure direi addio alla bella vagheggiata, e, se ne avessi, le renderei tutte le sue lettere e i dolci pegni di speranza e d'amore…. Una sigaretta, Straczy?»

In quel momento il barone di Loën s'era alzato, e Straczy, sconcertato, non aveva trovato di meglio che allontanarsi precipitosamente, dopo aver balbettato due parole di scusa e di saluto.

Quando l'ambasciatore e il suo segretario se ne furono an lati, il principe guardò sua moglie.

«Ti senti male?»: c'era un' insolita vena di tenerezza nella sua voce.

«No…. Sì…. Un po' di mal di capo….»

E come, in verità più morta che viva, rifiutava col gesto di odorare una fialetta che il marito le porgeva, egli insistè con gravità piena d' intenzione:

«Ma sì, ma sì…. Dài retta ai miei consigli…. Ti farà bene.»

Poi, incurante delle malignità che in qualcuno avrebbe provocato la partenza loro sùbito dopo quella di Straczy, la condusse via immediatamente. Al cancello, l'aiutò a salire in carrozza, chiuse lo sportello e se n'andò a piedi da un'altra parte.

Il re proponeva una gita fino al luogo di confluenza del Viserno con un fiumicello rapido e impetuoso dove al tramonto i pescatori potevano offrire sufficiente motivo di curiosità per giustificare quell'espresso desiderio. Orabile Jese, naturalmente, era la prima dama della partita. Si trovarono sùbito parecchi volonterosi che si prestarono come compagni, e quattro automobili piene di giocondità di malizia e di festevolezza uscirono poco dopo dal giardino.

I rimasti, anch'essi, si disponevano ad andarsene.

«Valentino, vieni con noi? Pranzi da noi stasera?» invitava Leonardo di Pietracamela.

Il duca aveva sul cuore l' indifferenza dimostratagli per tutto il pomeriggio da Franca, e rifiutò. Un momento in cui potè parlarle, le domandò:

«S' è divertita?»

«Io?» e la marchesa lo fissò con candida meraviglia «No. Perchè avrei dovuto divertirmi?»

«Così!» fece Valentino senza rasserenarsi, ripensando all'assiduità di Roscio «Rideva tanto!….»

«Non me ne sono accorta.»

«Le assicuro.»

«Può essere. Del resto, non si ride mica sempre perchè ci si diverte!»

Valentino non rispose.

«Nervi?» interrogò lei, con una lieve tenera ironìa.

«No. Niente.»

Franca non insistè, ma, allontanandosi, gli riprese tutta l'anima con un lungo sguardo di dolcezza.

Ormai nel giardino non c'erano, con la regina, che la contessa di Marbello, miss Smedley e il generale Costanzo. I marchesi Ribaudo — cui toccava quella sera il turno di servizio a palazzo — erano andati col re e con gli altri.

«M'aspetti alla fontana dei leoni.» susurrò Wanda al generale «Quando sarò sola, verrò.»

Aveva capito che la contessa voleva parlarle e che probabilmente attendeva di poterlo fare senza testimoni. Miss Smedley fu mandata a ordinar che cogliessero un mazzo di rose.

«Che c' è di nuovo, dunque?» domandò la signora di Marbello.

Un gesto di diniego fu la risposta.

«Nulla?»

«Nulla.»

«L' ho pensato subito» disse la contessa dopo un istante «quand' ho visto quel barone del malaugurio…. Ma, allora, c'è del nuovo alla rovescia? È vero ciò che si dice?»

Wanda sentiva pesarsi nel petto tutta l' inutilità delle dichiarazioni, delle accuse, delle proteste; epperò parlava poco, e lasciava intendere più che non spiegasse.

«È una cosa enorme, indegna!… Io non voglio nemmeno discorrerci, con Albano!… Ma gli farai sapere che non porrò più il piede nel luogo dove lui respira, se non si ravvede. Non basta; me ne andrò all'estero, metterò il mondo sossopra, lo coprirò di ridicolo e di vergogna!…»

«No.» disse la regina «Aspettate. Tutto può accadere. Anche ciò che pare impossibile.»

«E tu?»

Wanda sussultò.

«Io?… Parto.» rispose, chinando il viso.

«Come hai detto?»

«Parto.»

«Parti?… E dove vai?»

«A Planacomba.»

«Ah, bene! Ah, benissimo!» proruppe la contessa, delusa, irritata «Uno non se n'occupa, e l'altra va in villeggiatura…. Io rinunzio a comprendervi. Buon viaggio!… Smedley, dov'è Smedley?… Dove s'è cacciata quella benedetta donna?»

Wanda le posò una mano sul braccio, la trattenne.

«Ascoltatemi.»

«Che c' è? Che altra bella notizia avete da darmi?» e la tromba dell'apparecchio si drizzò ostilmente verso la bocca di Wanda.

«Abbiate fiducia in me. Non posso dirvi, perdonatemi. Ma, se Dio m'aiuta, non mi risparmierò.»

Aveva gli occhi pieni di lagrime e la voce così ardente di sincerità, che la vecchia signora si rabbonì, credè a quella oscura promessa.

«E Dio ti aiuti, figliuola!» esclamò «Ho sempre pensato che tu sei migliore di lui…. No, no, non è un complimento, e quindi non c'è bisogno di discuterlo. Sì, ho fiducia in te, Wanda. Scusa la mia asprezza di pocanzi.»

La regina, davanti a quella bontà, ebbe un impeto d'espansione.

«Se sapeste!… Se sapeste!…»; e ripetè: «Non posso dirvi, perdonatemi!»

L'altra, senza pure averle intese, indovinò le parole di Wanda. Le prese una mano, la guardò profondamente negli occhi.

«Non importa.» disse con un accento di incomparabile dignità che rivelò in lei la vecchia razza dei nobili della prima monarchia «Il segreto sovrano è sacro, perchè contiene il destino dei popoli.»

Vedendo comparire in fondo al viale miss Smedley, cambiò tono, e vinse la propria commozione con l'assalirla d'un diluvio di osservazioni.

«Mio Dio, Smedley!» le gridò «Con tutte quelle rose sembrate una santa in processione!… Non vedete che siete in ritardo? Vi siete dimenticata che dobbiamo passare dall'orefice?… Raddrizzate il vostro cappello, vi prego: avete l'aria di soffrirne il peso, come se portaste una cupola!»

La regina sorrise, e accomodò con le sue mani il maltrattato cappello sulla testa della povera miss ch'era rossa di confusione.

«Arrivederci, Wanda. Qualunque cosa vi occorra, ricordatevi che a questo mondo ci sono anch' io.»

Quando già si erano dilungate d'una ventina di passi, la signora di Marbello spedì novamente indietro miss Smedley ad avvertire ch'ella ripartiva l' indomani a mezzogiorno per la sua villa. La regina, da lontano, le fe' un cenno d' intesa e di saluto; poi si mosse, rapida, per raggiungere il generale Costanzo.

Il cuore cominciò a batterle forte, come se tentasse di sfuggire all' inseguimento di quell' idea che, balenatale durante il penoso colloquio con Albano, la aveva poi lasciata in una specie di stordimento morale, per imporsi ora nitidamente al suo cervello e al suo spirito. La follìa di ciò che voleva le apparve per la prima volta in tutta pienezza, ed ella misurò con terrore la barriera immane delle mille e mille difficoltà che avrebbe incontrate. Più s'avvicinava al luogo dell'appuntamento, e più la sua disperazione cresceva. Il senso di trovarsi in mezzo a qualche cosa di fittizio la rioccupò, ma non con l'esaltazione eroica d'una tragedia, sì bene col pietoso squallore d'una farsa. Che avrebbe detto a Costanzo?… Il coraggio le mancava. Costanzo aveva acquistato virtù e conoscenza con l'attività di lunghi anni faticosi: era un soldato, un vecchio, un uomo serio. Come parlargli e persuaderlo alla complicità d'un proposito assurdo? Le sembrò d'aver vissuto per tre giorni in preda ad una imperdonabile leggerezza, e le parole scambiate un minuto innanzi con la contessa di Marbello le tornaron nell'orecchio con un' inflessione grottesca di ieratica solennità, rimordendola amaramente. In un lampo rivide Albano sfacciatamente ridere con Orabile Jese, rivide il barone di Loën pompeggiarsi tra gli stessi gentiluomini di corte, riudì il “ma» della principessa di Cerito…. Sentì che la realtà è più forte di tutti i sogni, e le parve d'esser vinta prima di cominciare a lottare.

Il fremito spumeggiante della fontana la trasse dalla sfiduciata meditazione.

«Tant' è!…» mormorò, affrettando il passo «Costanzo mi crederà pazza…. Mi seppellirò a Planacomba, non vedrò più nessuno.»

Piegando fuori da un vialetto oscuro, si trovò sullo spiazzo dove la vasca sorgeva. Il generale le venne incontro.

«Mi scusi.» ella gli disse «Ha aspettato molto?»

«Ma no, Maestà. Pochi minuti appena.»

«Vuole accomodarsi?» fece Wanda, indicando un sedile di pietra.

Egli obbedì, si pose accanto alla regina.

«Ho da parlarle d'una cosa grave. è anche difficile a dirsi…. Non mi badi se andrò avanti a forza d' interruzioni e d' incoerenze…. Mi fido di lei come d'un padre. Sia indulgente con me…. Cerchi di capirmi e d'aiutarmi, per quanto strano le possa parere ciò che le dirò.»

Costanzo la guardò.

«Va bene.» rispose.

Wanda sentì allargarsi il respiro: quelle due parolette serie e tranquille, non sciupate da nessuna diluizione di proteste d'ossequio, le restituirono un briciolo di calma.

Tacque a lungo, con gli occhi fissi al punto più alto dello zampillo, dove l'acqua si frangeva e le gocciole sì spiumavano, ricadendo: lassù, intorno al getto che s'apriva, c'era ancora la luce del sole. I quattro leoni di pietra che decoravano ai lati la fontana sembravano illividirsi nell'ombra quando gli occhi li ritrovavano dopo aver mirato il roseo scintillìo di quel fiore liquido che perennemente sbocciava.

«Si può mettere insieme una legione di volontari?» domandò la regina, d' improvviso «Si può gettarli alla frontiera a sconfinare nel territorio dell'Altamagna? Creare così uno stato insanabile di guerra?»

Costanzo non parve affatto sorpreso dalla subitanea precipitazione della sovrana.

«Ci ho pensato molto anch' io.» confessò «Si può fare — tutto si può fare!… —, ma è pericoloso. Una legione di volontarii, senza l'appoggio del governo, andrebbe incontro ad un sacrificio certo e totale. Il risultato? Militarmente nullo. Dopo di che: o il popolo capisce il significato eroico di quel gesto, e allora si comincia bene; o il popolo lo fraintende e non ne vede che la disfatta materiale, e allora si comincia malissimo. Nel primo caso si procederebbe di bene in meglio, nel secondo si rischierebbe d'andare di male in peggio. Io mi sono sempre fidato del popolo, che ha un'anima immensa, capace delle azioni più grandiose; ma, per destare quest'anima, l' ho sempre allettata con una sostanza o almeno con un'apparenza di vantaggio immediato. Senza di ciò, dico la verità, non mi fido più. Vostra Maesta mi comprende?»

Wanda sospirò, desolatamente.

«E allora?…»

«Daltronde» soggiunse il generale, assorto «gli uomini ci sarebbero, ma il capo?… Oh, non m' illudo!… Io sarei pronto, ma sono vecchio. Sì, sì, un bel dire! La venerazione, la saggezza, la reverenza…. Tutte magnifiche cose che non valgono il prestigio d'un impeto giovine, imprudente, travolgente…. Per avere trent'anni di meno, darei la vita dieci volte!… Avevo sognato, Maestà, dopo la mia ultima battaglia, che, quando gli eserciti di Venustria si sarebbero mossi un'altra volta per rivendicare definitivamente tutti i nostri diritti sull'Altamagna, avevo sognato che la nuova guerra avrebbe creato il nuovo condottiero, e pregavo Do che mi consentisse d'essere ancora vivo per mettere al servizio della sua giovinezza la mia esperienza e il mio consiglio….»; tacque un istante, poi continuò, abbassando la voce: «Vostra Maestà mi perdoni…. Un tempo, m'ero anche illuso d'averlo trovato, questo giovine. Era il figlio del mio sovrano morto sul campo, era il mio sovrano di oggi. Cavalcavo al suo fianco, in una giornata di sole: egli aveva quindici anni, e, giuocando, spronava il suo puledro come se lo lanciasse all'assalto. Fu e restò soltanto un giuoco…. Vostra Maestà mi perdoni.

Wanda non l'aveva interrotto mai: le tempie le ardevano, il cuore ricominciava a batterle nel petto una fanfara di speranza.

«E» domandò «se il suo sogno si fosse invece avverato?»

Costanzo allargò le braccia.

«Ah, Maestà!… Se il re fosse con noi, non ci sarebbe bisogno di escogitare rimedii!»

«No, no!» disse Wanda impazientemente «Non il re : un altro.»

«Chi?»

«Non importa. Un altro.»

Il generale la guardò, ormai certo che la sovrana non parlava per ipotesi. Serbò un momento il silenzio, poi esclamò :

«Un altro?!… Non vorrei che Vostra Maestà si facesse delle illusioni. L'uomo che sarebbe necessario oggi non può venir fuori dalla folla per imporsi a poco a poco. Dovrebbe avere un gran nome, esser già in qualche maniera popolare, e balzar su d'un tratto a trascinare con sè anime e braccia…. Ma…. ma…. difficile!… Egli dovrebbe avere una posizione tale da….» anche Costanzo doveva ormai concretamente pensare a qualcuno, perchè cercava le parole, sogguardando sempre la regina, e queste parole assumevano un significato individuante e preciso «una posizione tale che il re non potesse ingaggiare pubblicamente con lui un duello d'ostinatezza….»

Egli s' interruppe.

«No.» fece poi, crollando il capo «Non è possibile. Anche questi son sogni!»

Wanda si vedeva così miracolosamente accompagnata per la sua strada, che quasi non osava interloquire. Ma, come il silenzio ora si prolungava, domandò pianissimo:

«A chi pensava, generale?»

Costanzo si passò una mano sulla fronte.

«Non è possibile, Maestà.» replicò.

«Dica ugualmente.» insistè la regina «A chi pensava?»

Costanzo la guardò ancora, scrutandola.

«Perchè Vostra Maestà vuole obbligarmi a pronunziare un nome che certo le dispiacerebbe?…»

Ma, poichè Wanda non abbassava gli occhi ed aspettava, egli disse:

«Il fratello di Vostra Maestà.»

La regina s' illuminò così radiosamente in vista, che il generale trasalì.

«Crede?» fece lei, con un sorriso.

Costanzo era perplesso.

«Ma…. Se è vero quello che dicono…. Non so…. Io ho conosciuto appena Sua Altezza il granduca Stefanolo…. Vostra Maestà medesima era, del resto, tante volte affannata per la salute di lui!…»

«Si guarisce!» esclamò Wanda, ritrovando tutta la sua audacia.

Il generale non disse nulla: non capiva se dovesse prestar fede oppur no.

La regina s'alzò, venne presso alla vasca, s'appoggiò al pilastro che sosteneva uno dei leoni. Fe' cenno a Costanzo d'avvicinarsi; gli domandò:

«Ebbene?»

Le loro voci eran protette e confidentemente difese dal fruscìo dell'acqua. Il sole era sparito. Pareva che la luce accordasse le sue note di colore con la fresca e pura armonia della fontana.

«Maestà, Stefanolo di Planacomba è uno dei principi più popolari che esistano oggi al mondo. Pochi l' hanno veduto, ma tutti parlano del piccolo duca. Egli ha intorno a sè un'aureola di mistero e di simpatia. Se domani si sapesse che vuol condurre in persona l'esercito di Venustria, credo che sarebbe difficile a chiunque lo tentasse vincere l'onda di fervore che s' innalzerebbe intorno a lui per seguirlo.»

Un brivido corse le spalle di Wanda. Ella era dritta contro il basamento di pietra, e il suo volto, giungendo all'altezza dello scudo sorretto dalla zampa del leone, s' incorniciava nell'arma dei Romagnano Paleologo: l'artiglio della belva le sfiorava i capelli. Pensava a qualche cosa…. a qualche cosa di puerile, forse, perchè l' interrogazione ch'ella rivolse a Costanzo fu accompagnata da un sorriso timido ed esitante.

«Come…. come bisogna essere per andare alla guerra?»

Rise anche il generale, comprendendo la domanda meglio dall'espressione e dalla voce che non dal significato delle parole con cui era formulata.

«Maestà» rispose, ripetendo con una puntina di blanda affettuosa canzonatura la frase bizzarra di Wanda «per andare alla guerra non bisogna essere in nessun modo speciale. Tutti doventano guerrieri all'odore della polvere. Ne ho visti, che sembravan signorine, farsi resistenti come lame d'acciaio.»

«Ma» fece la regina «il condottiero che lei sogna non dovrebbe limitarsi ad andare semplicemente in guerra come tutti gli altri? è vero?»

Costanzo tornò a parlarle gravemente.

«Vostra Maestà vuole che usciamo dall' indeterminato?»

«Dica!» assentì Wanda, provando di nuovo l'acuta sensazione che il freddo della fontana la ghermisse alle reni.

«Ecco, ci spiegheremo meglio così. Al piccolo duca, Maestà, io domanderei una cosa…. una cosa difficilissima o sublimemente facile, non so. Virtù ed esperienza tattica? No. Ci son io. S'egli dimostrerà di averne, tanto meglio; altrimenti, non sarà necessaria. Io conosco la nostra frontiera, Maestà, come un colono conosce il suo campo, come un pescatore conosce il suo specchio d'acqua. E conosco il nemico. Assumo io la responsabilità della condotta tattica della guerra. Il piccolo duca dovrebbe essere….»

S' interruppe di colpo. Poi martellò con accento infiammato e veemente pochi periodi rapidi e brevi:

«Vostra Maestà non ha mai veduta una bandiera in battaglia. Che cos' è? Nulla e tutto. Dirige e regola la mischia? No. Eppure le sorti del combattimento dipendono in massima parte da lei. Quando appare, i soldati doventano invincibili; dove passa, consacra la vittoria…. Maestà, il piccolo duca dovrebbe essere come la bandiera di Venustria.»

Il getto dell'acqua perpetuamente cantava. Wanda, immobile, sentiva sulla sua fronte l'ombra dell' artiglio proteso.

«Occorre molta resistenza fisica, non è vero?» domandò ancora, socchiudendo le pàlpebre.

«Molta. Ma s'acquista, e la volontà dei nervi supplisce.»

«Una resistenza…. uguale alla mia, per esempio?» e aggiunse in fretta, quasi giustificandosi: «Si tratta di mio fratello, capisce…. è del mio sangue. Però le domando.»

Il generale sorrise.

«Io ho veduta Vostra Maestà alle grandi cacce rimanere a cavallo sedici ore, e contentarsi d'un riposo brevissimo à la belle étoile, per ricominciare con più ardore di prima.»; ed esclamò: «Basterebbe anche meno, Maestà!»

«E l'orrore dei morti?»

«Anche le suore vanno sul campo. è una pietà, ma ci si abitua.»

Tacquero ambedue lungamente. Costanzo fu il primo a rompere il silenzio.

«Non so se Vostra Maestà ha parlato seriamente. Io ho detto in coscienza tutto ciò che sentivo e speravo.»

Wanda si mosse infine dalla sua positura. Veniva il momento più arduo del colloquio ch'ella aveva voluto, e lo affrontò risolutamente, con lo sguardo fermo e la voce decisa.

«Lei sa che io rassomiglio a mio fratello in una maniera che ha del prodigio.»

Il generale le fissò gli occhi in volto, stupito.

«è vero.» affermò, senza comprendere la logica di quella osservazione «Ho potuto constatarlo anch' io, riportandone un' impressione di grande meraviglia.»

«La mia voce è simile alla sua.»

Questa volta egli s'arretrò, come colpito.

«Maestà!»

«Stefanolo ha diciott'anni: il suo viso è imberbe.»

Ora il vecchio soldato pareva impietrato per la sorpresa.

«Io parto tra quattro giorni per Planacomba.» continuò Wanda «Il re lo sa. Gli ho anche detto — no, anzi, me l' ha fatto dire lui, o per ischerzo o per insulto — che Stefanolo avrebbe potuto condurre l'esercito. Ho la promessa che a Planacomba egli non verrà, nè mi chiamerà, nè mi cercherà.»

Costanzo dovette fare uno sforzo per distogliersi dalla suggestione che gli occhi della regina producevano in lui: vi si leggeva un' idea così allucinante, ch'egli pensò d'aver corso troppo con la fantasia e d'avere scioccamente interpretato quelle frasi che miravano certo a significare altra cosa.

«Vostra Maestà mi scusi.» disse, sorridendo di sè stesso «Mi ero distratto, ed ero andato con la mente lontano tante e tante miglia, che….»

Non proseguì: Wanda gli faceva di non con la testa, e lo guardava con i medesimi occhi allucinanti.

«Maestà!»… egli balbettò, sopraffatto «Ma allora?!…»

«Allora, come vede, la sostituzione sarebbe semplicissima.»

La regina aveva pronunziato queste parole umilmente, quasi confessando una colpa e temendone la condanna. Un èmpito di commozione velò lo sguardo di Costanzo. Egli afferrò le mani della sovrana, se le portò devotamente alle labbra.

«Dio la benedica, figliuola, per la sua profferta generosa. Per aver vissuto questo momento, rinunzierei a non so che di grande e di caro. Ci sono delle illusioni nel mondo che sembrano effondere intorno un bagno di purezza, e ripagano di cento e cento disinganni. Dio la benedica, figliuola!»

Wanda tremò: la rapidità di quel consenso spirituale la spaventava più d'uno scatto di proteste.

«Illusioni?» mormorò.

Il generale la guardò con una tenerezza piena d'ammirazione.

«Vostra Maestà sia persuasa che il suo gesto non sarà stato inutile. Dovessi cercarla in un antro custodito dai draghi, giuro che ripescherò la divina imprudenza della mia giovinezza: a qualsiasi costo, guerra…. e vittoria!»

Era allegro, pareva che davvero vent'anni gli fossero caduti dalle spalle, tanto l'aveva ringagliardito di fede e di volontà la prontezza magnanima della sovrana. Ma, vedendola ansiosa e smarrita, comprese che bisognava dissuaderla da quel folle proposito senza offenderne la nobiltà dell' intento.

«Non esagero» egli disse con dolcezza «ripetendo che questa è una delle ore migliori della mia vita…. Io ero tuttavia dubitante: lo confesso. Ma per la gente di poca fede viene il castigo. Vostra Maestà ha saputo dare al mio vecchio cuore una lezione d'audacia che non sarà dimenticata. Le basti questo: oso dire che è già molto, perchè ormai non abbandonerò l' impresa.»

Wanda si morse le labbra.

«Dunque rifiuta?» proruppe, con i singhiozzi alla gola «Dunque considera la mia proposta come un effetto stupidissimo di isterismo? Non crede alla mia sincerità? Le appare ridicolo e insensato tutto ciò che ho detto?»

«Supplico Vostra Maestà d'ascoltarmi e di non attribuirmi nessuna di queste sciocche impressioni. L'alta idealità del suo proponimento è fuor di dubbio. Son le circostanze materiali che non si possono infrangere!… Vostra Maestà, pensando alla sostituzione, ha veduta la necessità del segreto. Non dovrebb'essere la regina — è vero? —; dovrebbe essere, per tutti, il granduca Stefanolo. Ora, nella promiscuità del campo, Vostra Maestà comprende che l' inganno non si rende più possibile.»

«E perchè?» fece Wanda, ostinata «La sua osservazione varrebbe se io dovessi, appunto, mischiarmi come un soldato qualsiasi in mezzo ai soldati. Ma la qualità di principe imperiale, lo so per esperienza, comporta tale una separazione dagli altri che, stringendo anche più i freni dell'etichetta, io sarei assolutamente al sicuro da ogni indiscrezione.»

«Assolutamente no, Vostra Maestà mi permetta.» replicò il generale «Ma ammettiamolo. Resta pur sempre che isolati non si può rimanere, e che proprio la qualità di principe imperiale esige un corteggio, un sèguito….»

La regina s'era rinfrancata dal suo sgomento: aveva temuto di urtare contro una irriducibilità che non consentisse alcuna discussione, ed invece Costanzo, enumerando gli ostacoli, pareva offrirle egli stesso il modo di abbatterli ad uno ad uno. Non lo lasciò finire.

«Corteggio e sèguito che possono benissimo ridursi, per quel che si riferisce alla vera intimità, ad un aiutante di campo.»

«E un' indisposizione che sopravvenga? Una ferita?»

Wanda sorrise.

«Se l'aiutante di campo è anche un medico, si può far fronte all' indisposizione e alla ferita!»

Costanzo tormentava nervosamente la sua barbetta.

«Scommetto che Vostra Maestà ha già in vista la persona?»: e le spalancava in volto due occhi spiritati da cui s'ostinava a non esulare quell'ammirazione affettuosa ch'era il miglior conforto all'ardire di lei.

«Naturale!» ella esclamò «Il principe di Cerito.»

«Gliene ha parlato?»

«No. Ma son sicura di lui e della principessa. Ho pensato a tutto. Anche ad aver vicina di quando in quando un'amica che possa venire senza destare alcun sospetto: Maria. Nessuno poi troverebbe da ridire sulla scelta dell'aiutante: si sa che Stefanolo è sofferente, e il principe di Cerito è uno scienziato di valore.»

Il generale taceva. Wanda capì che non doveva dargli il tempo di riaversi da quella muta impressione di perplessità.

«Generale, mi ascolti!… Sono una donna, è vero, ma sono una regina. Se lei crede, com' io voglio credere in questo momento, che quella dei monarchi sia una missione divina, non deve opporsi, ma deve dire con me: “Muoviti, e il miracolo si compirà!” È ardua la via? Che importa? Non di questo si tratta…. Guardi, generale, guardi!… Le par giusto, le pare lecito che due dinastie come sono state quelle dei Romagnano Paleologo e dei Planacomba si spengano così fiaccamente e vengan meno a sè stesse proprio nell'ora in cui dovrebbero gettar luce sul mondo?… E perchè Dio avrebbe messo in me, proprio in me — donna e sola —, un tale spirito di volontà, se poi l'unica scintilla dovesse rimanere fredda ed inerte?… Può essere un'allucinazione la mia, ma può essere anche una predestinazione questa somiglianza fisica che Dio mi ha dato con l'ultimo erede dei Planacomba…. Lei pensa che io tremerò? Sì, ma d'orgoglio; sì, ma di gioia sconfinata, se tanto mi sarà concesso!… Lei non udrà mai dal mio labbro una parola di stanchezza nè una parola di rimpianto. Io sarò dove lei vorrà; e passerò in mezzo ai soldati con un cuore così traboccante di fede e d'amore, che Dio me ne terrà conto e non mi reputerà indegna di osare e di vincere…. In memoria del suo vecchio sovrano, Costanzo, mi aiuti. Le giuro che non se ne pentirà!… Ricordi la sua giovinezza, Costanzo, ricordi la fedele compagna che divise con lei le vigilie, le fatiche, le speranze di più d'una battaglia…. Ricordi ch'ella le morì tra le braccia, senza un lamento, in una notte squallida di sconforto, mentre il pericolo era alle spalle, mentre il nemico frugava per azzannare la preda. In nome della sua donna coraggiosa e forte, non mi respinga!»

Che era?… Forse l'ombra che s' incupiva tra il folto del giardino, raccogliendo nel piazzale un chiaror bigio che rilampeggiava nel getto spumoso della fontana, contribuiva a far sì che l' invocazione di Wanda assumesse un misterioso potere. E Costanzo vedeva sorgere tra sè e la regina il fantasma eroico dell'amata, di colei che per tre anni gli era vissuta al fianco senza nulla chiedergli all' infuori dell'amore, nè agi, nè quiete, nè riposo, partecipando d'un'esistenza rude e travagliata, nei ripari improvvisati, in mezzo al fragore delle armi, tra i combattenti e i moribondi; nè, ghermita immaturamente dalla morte, aveva potuto cogliere il trionfo del suo compagno, ma s'era spenta in una notte di disperazione e di tempesta nella capannuccia offerta per misericordia da un pastore.

«Vostra Maestà» egli disse con la voce oppressa «ha toccato la fibra più sensibile del mio cuore…. E forse anche» aggiunse «del mio rimorso. Comunque, non è la stessa cosa. La mia povera grande creatura era mia: ne ero responsabile solo dinanzi a lei e dinanzi a Dio. Wanda Romagnano Paleologo è una regina. Non è la stessa cosa.»

«Ma per questo appunto!» ella esclamò «Non comprende che è il mio dovere?… Responsabilità? Nessuna. Qualunque cosa accadesse, lei, Costanzo, parteciperà agli occhi di tutti dell' inganno universale. Sarà come se io avessi sorpreso la sua buona fede, come se….»

Il generale la interruppe.

«Crede Vostra Maestà ch' io pensi a questo?»

«No, no, mi perdoni, è vero!» e Wanda tacque, spiando sul volto di Costanzo il risultato della lotta che certo egli aveva ingaggiato con sè medesimo.

Dopo un lungo minuto, Costanzo disse:

«Non so se è bene o se è male quello ch' io faccio, e daltronde non so quello che farò…. Vostra Maestà vada a Planacomba intanto, e…. e si prepari. Scriverò. Non è un impegno, è l'attesa degli avvenimenti.»

Le prese una mano, la strinse vigorosamente tra le sue: parve voler soggiungere qualche altra parola, ma non potè. E lasciò la regina, senza aspettare il congedo, senza salutare.

Wanda si chinò contro il parapetto della fontana, immerse le dita nell'acqua ch'era doventata lucida e nera: poi, risollevandosi, si fece il segno della Croce e guardò il cielo.

La regina avrebbe pranzato in casa dei principi di Cerito, per accompagnarsi con loro al Nazionale. V'era giunta prestissimo, lasciando ignorare ad Albano lo scopo della sua serata: tanto presto, che Maria, quando la sovrana giunse ancora inaspettata, si trovava in giardino con Paola Rinaldi. Ella, prima d'essere avvertita dai domestici, riconobbe Wanda attraverso il fogliame d'una spalliera di verzura. Vivamente, senza spiegare la ragione della sua fuga improvvisa, pregò l'ospite di attenderla un minuto e raggiunse la regina mentre saliva la scalinata che penetrava nella villa.

«Ho anticipato, Maria. La disturbo?»

«Vostra Maestà scherza.»

Entrarono.

«Dunque si va? è deciso?» domandò la principessa.

«Ma sì, cara!» esclamò Wanda ridendo «Non mi faccia prediche…. Le serbi a tra poco: ne avrò bisogno, ed io la ascolterò pazientemente senza lasciarmi convincere. Va bene così?»

«Va benissimo!» sospirò Maria con rassegnazione burlesca «Ma protesto contro questa parte di spauracchio che Vostra Maestà vuole attribuirmi in tutti i modi.»

La regina aprì il mantello nero che strettamente la copriva, e apparve l'abito bianco, semplicissimo, molto scollato, segnato nel punto dove si chiudeva sul petto da una fiamma sanguigna di rubini.

«Novità!» fece la principessa, guardando il fermaglio.

«Non è vero che è bello?… Le racconterò poi. Mi accompagni intanto: e non mi releghi, per carità, negli appartamenti di rappresentanza.»

Andarono. Mentre Wanda posava il ventaglio e la borsetta, Maria le disse:

«Prego Vostra Maestà di concedermi un secondo. Saluto una signorina ch'era con me in giardino, e torno subito.»

«Visite?… Vede che l' ho disturbata?»

«Ma no, ma….»

«Chi, se è lecito?»

«Paola Rinaldi. Mi pare di averne parlato qualche volta a Vostra Maestà.»

«Ah!… La sua grande scrittrice in fieri?»

«Proprio lei.»

La regina ebbe un attimo d'esitanza.

«E…. e non si potrebbe vederla?»

«Se Vostra Maestà lo desidera!…»

«Me lo accorda con poco entusiasmo.» e Wanda rise «Perchè?»

«Non lo creda!… Pensavo che la Rinaldi è venuta per la prima volta in casa mia, e che vive in un mondo così diverso! Certo non s'aspetta di….»

«Oh, per amor di Dio!» interruppe la regina «Ne ho abbastanza delle udienze ufficiali in cui so già prima di far la domanda quello che mi sarà risposto!… No, no: guardi, è un' idea!… Mi ostino. Voglio vedere che differenza passa tra la realtà della vita e il modo di concepire d'una persona che scrive i romanzi. Non le dica che son io…. Sono una signora qualsiasi. D'accordo?»

Maria, andando a raggiungere Paola, pensava con apprensione che la regina era d'un' inconsueta vivacità che non le pareva nè di buona lega nè sincera. Da tempo ormai ella aspettava il sorgere d'una qualche cosa che non avrebbe saputo precisare, ma che sentiva imminente: ne aveva in cuore come una puntura di sgomento, senza spiegarsene il perchè. Ora poi s'àggiungeva nel suo spirito un tantino di fastidio per l' improvviso desiderio di Wanda: le seccava la piccola soperchierìa ch'ella dovrebbe usare alla Rinaldi per compiacer la sovrana, avendo in uggia tutto ciò che sapeva di teatralità, e sembrandole indelicato di mettere avanti quella povera figliuola come una curiosità da baraccone. No, nemmeno questo. La Rinaldi era capitata da lei per caso, portando la copia d'un manoscritto scovato in archivio — un sonetto inedito d'una rimatrice del cinquecento per le nozze della eccellentissima signora marchesa Francesca Bembi con un principe Gloria di Cerito —: non si trattava dunque d'una visita, ma d'una di quelle saltuarie occasioni per le quali le due amiche s' incontravano, sole, senza intromettersi l'una nel mondo dell'altra. In questa maniera unicamente non c'era distanza tra loro. Epperò la principessa si prestò alla volontà della regina con un sentimento di malumore. Non fu cosa facile convincere Paola ad entrare in salotto; ma le sue riluttanze cederono alle preghiere di Maria, e così ella venne dinanzi alla sovrana, non intendendo neppure il nome d' imprestito susurrato in fretta per la necessità della presentazione.

Wanda guardava la Rinaldi, e non parlava: era ripiombata in una meditazione assorta e silenziosa. Stava seduta contro luce, e la Rinaldi che le era quasi di fronte non poteva scorgerne bene i lineamenti: daltronde la scrittrice pareva non occuparsi di quella compagna impostale dalla cortese insistenza della principessa, la quale doveva supplire con la sua vivace avvedutezza alle esigenze della conversazione: e, poichè lo faceva avviando con garbo Paola ad interessarsi e a rispondere, era naturale che questa non si curasse più che tanto della signora sconosciuta, se non per considerarla come un' intrusa che le dava noia e che avrebbe volentieri mandata a prender aria dieci miglia lontana.

«Che bel divertimento!» pensava Maria, mentre ad alta voce domandava notizie della poetessa che aveva composto le rimette nuziali «L' ha voluta vedere per far la statua di sale!…»

«Eleonora Contarina. Non peggiore delle sue colleghe, del resto. Far versi è un'abilità come un'altra: e pare che a quei tempi fosse un'abilità specialmente femminile.»

«Dica la verità: devono esser noiose come la pioggia, noh?»

«Con qualche sprazzo di sereno: è una ventata che butta via la nuvolaglia del convenzionalismo e rivela un po' d'anima. Ma rara. Si somigliano tutte, e son noiose, è vero.»

Anche Paola parlava con un accento diverso dal consueto: freddo e svogliato, quasichè recitasse una lezioncina.

«Ha scritto mai un romanzo lei?» domandò la regina d'un tratto.

«Senti che razza d' interrogazioni a picco!» masticò tra sè la principessa, contrariata.

La Rinaldi, sorpresa, si volse verso Wanda. Ora, abituatasi alla semioscurità della stanza, il viso della signora le apparve più nitidamente: prima di rispondere la guardò con un certo che di manifesta attenzione. Poi sorrise con un baleno d' ironìa scherzosa che non aveva nulla di pungente.

«Sembra di no!…» disse.

Avrebbe voluto aggiungere che, se avesse già scritto e pubblicato un romanzo, si sarebbe augurata di non imbattersi in una domanda simile; ma capì che avrebbe detta una sciocchezza orgogliosa, e corresse le sue parole.

«No, non l' ho scritto.»

Maria si morse le labbra per non scoccare un' osservazione insolente all' indirizzo della sovrana che le pareva mettesse in pericolo la qualità non comune della sua amicizia con Paola. Le accadeva spesso d'esser còlta da un sentimento d'animosità contro Wanda: non perchè non le volesse bene — chè anzi le era sinceramente affezionata —, ma perchè, insofferente d'ogni genere di freni e di costrizioni, non sempre poteva sfogarsi con una delle sue sfuriatine precipitose che le riportavan la calma nello spirito, e doveva rodersi invece la sua smania per poi annunziare a Ruggero ch'era una vita impossibile, che lei avrebbe dato le dimissioni, e che non si sentiva di durare nella pazienza e nell'obbedienza verso una Maestà Sua che non capiva niente. Esagerazioni ed intemperanze che il principe di Cerito smussava, dopo aver lasciato passare la grandine, e che del resto svanivano da sole infondendole di nuovo nel cuore un impeto di tenerezza quasi materna per quella creatura che non sapeva prendere il mondo col suo bene e col suo male e che trovava sempre la maniera di tormentarsi.

In quel momento, appunto, avrebbe incenerita Wanda con un'occhiata. Lì per lì, non trovò di meglio che affermare:

«Lo scriverà, stia tranquilla!»; ma le parve proprio troppo poco, e seguitò: «Allora non ci sarà bisogno di domandarglielo, perchè lo sapranno anche…. anche i lampioni del palazzo reale!»

«Allez!» borbottò poi mentalmente «Questa volta l' ho detta!»

La regina rise di gusto.

«Proprio quelli!» esclamò «Ha ragione, quelli sono il prototipo della specie: fanno lume agli altri — ma soltanto la notte —, e non ci vedono per sè.»

«Dio, com' è arrendevole!» pensò la principessa che s'era subito pentita e rabbonita «Purchè quest'altra, con la sua santa modestia, non abbocchi all'amo per cambiar discorso e — chi sa mai? — non venga fuori con una dottrina sovversiva!»

Ma il suo timore fu vano. Paola, che non distoglieva lo sguardo dal volto della regina, non disse nulla, e Wanda riprese immediatamente il filo della conversazione.

«Mi sono espressa male. Mi scusi, signorina. Intendevo domandarle se ha mai pensato a scrivere un romanzo.»

«Oh, quanto ad averlo pensato!» fece la Rinaldi con un gesto gaio «Il pensiero è uno sbarazzino indisclipinato, e può darsi che il mio si sia presa anche questa libertà.»

«Vede dunque che non sono andata troppo lontana?» sorrise Wanda con evidente simpatia.

«Eh, no! A parlar di corda in casa dell'appiccato non si va mai troppo lontani.»

«Con la differenza, spero, che l'argomento non è altrettanto doloroso e…. indiscreto?»

«Secondo!»; ma Paola si affrettò a soggiungere: «Questa volta no.»

«La signorina Rinaldi ci fa grazia, sa?» disse Maria, la quale, constatando la stabilita cordialità dei dicorsi, aveva ritrovato il suo buonumore «Di solito, quando le si parla del suo lavoro, doventa ispida come un gattino arruffato. Dove si vede che la pece degli scrittori non intinge tutti i campioni.»

Paola le si indirizzò supplichevolmente.

«Principessa, lei oggi è risoluta a mettermi su una scala per farmi guardare le cose dall'alto in basso. Ruzzolerò?»

«Non mi pare che debba girarle troppo facilmente la testa.» osservò la regina, conciliandosi così la riconoscenza di Maria.

La Rinaldi sorrise, in verità poco a suo agio.

«E va bene!… Ora, prego, punto e da capo.»

«Come lo concepisce lei il romanzo?»

La principessa venne in aiuto di Paola.

«Signorina, non si spaventi. Sono domande che sembrano pistolettate, ma vedrà che saranno incruente.»

«No. Sono domande troppo complesse o troppo semplici…. Candidamente confesso che non so rispondere.»

«Realismo?»

«Ci vogliono spalle solide, per caricarsi di questo tema. E il romanzo realista dev'essere perfetto, altrimenti è insulso o peggio che brutto: è disgustoso.»

«Idealismo allora?»

«E che cos' è l' idealismo?… Un'astruseria, se non s'appoggia sulla verità, o un volo molto pericoloso tra terra e cielo: si minaccia di perdersi tra le nuvole o di piombar giù nella polvere. Daltronde tutte codeste categorìe son buone per i barattoli dei pedanti: l'arte non è una farmacìa che si componga con le ricette e si misuri con le bilancine di precisione.»

«Dunque abolisce le distinzioni?»

«Per l'esame dell'opera compiuta, no: sebbene anche qui bisogni intenderle discretamente, e solo per comodità di studio. Ma per la formazione dell'opera? Assolutamente sì.»

«Conclusione?» esclamò la principessa «Non c'è da sapere come lei la pensi!»

Paola protestò.

«Tutt'altro!… Il guaio si è che non so io stessa come la penso. Veda: il romanzo intimo, tra due personaggi, non mi riuscirebbe. Bisogna aver troppo la testa lì, e la mia…. vaga, o non ha costanza, o non ha profondità. Dipende dal modo di riflettere artisticamente la vita. Ora, secondo la mia capacità di rappresentazione artistica, la vita è molto indefinita. Il romanzo ch' io scriverei, se sapessi trattarlo fino a meritare l'attenzione del pubblico, solleverebbe una quantità di critiche giustificate. Sarebbe — come dire? —, sarebbe…. sparpagliato. Ci metterei dentro della gente che canterebbe, per conto proprio, abbastanza bene, ma…. ma…. certo mi mancherebbe la bacchetta orchestrale per accordarli tutti in tono. Forse è difetto di logica serrata e costruttiva, forse è la mia maniera di vedere il mondo da spettatrice che rifiuta la fatica delle conclusioni e si distrae guardando o fantasticando nei campi più disparati. Credo che non mi sfuggirebbe l'esattezza efficacemente riproduttrice di molti quadri esteriori della vita, ma, se m'addentrassi oltre la superficie, son sicura che giungerei ad una esaltazione inverosimile e poco persuasiva di conflitti d'anima.»

«Eppure» disse la regina «la vita offre dei grovigli talmente assurdi che, se un romanziere li osasse, sarebbe tacciato di follìa.»

«Non lo nego. Ma la difficoltà sta appunto nel contenere l' inverosimile in una linea d'arte. Agli uomini di carne e d'ossa è permesso — se posso esprimermi così — d'essere stonati; ai personaggi delle favole no; perchè i giorni che passano s'incaricano di metter le cose a posto e di raddrizzare gli errori degli nomini, mentre invece i personaggi delle favole cadono e rimangono nel grottesco insanabile.»

Wanda s'era oscurata.

«E chi ci dice» mormorò «quale sia l'errore e quale la verità?»

La principessa scrollò la testa.

«Le cose semplici, santo Iddio! Quelle sono sempre nella verità.»

Paola la guardò un momento, poi si volse alla regina.

«Errore, del resto, non significa necessariamente sbaglio. Errore, nel senso classico, è divagazione dello spirito. Dalla divagazione alla deviazione è breve il passo: ma non è legge costante. L'errore è un abbandono dell'anima alla marea della fantasia; pericoloso, sì, ma senza pericolo poco si esperimenta e poco si conosce.»

Maria osservava la sovrana.

«Come si naviga a gonfie vele, eh?» disse, con un pizzico di canzonatura bonaria «Attenzione alle sirene e mi raccomando Scilla e Cariddi!»

«Principessa, vede che è lei, proprio lei, quella che mi fa ruzzolare?» si rammaricò la Rinaldi scherzosamente.

«Non son io. È il senso pagano, è il senso classico, come lei dice. La morale cristiana è meno complicata. La preferisco.»

«Si può esser buoni cristiani, e….»

Maria non lasciò che Wanda terminasse la sua frase.

«A parole!… Scusi se l' ho interrotta, ma tra la religione loro e la mia c'è una differenza. Se loro hanno una seccatura, o il miracolo a tambur battente perchè si son ricordate di dire “Gesù mio, aiutami”, o il vago errore di cui parla la mia Paola e che si sa qualche volta dove comincia e non si sa mai dove finisce. Se ho una seccatura io, basta l'ombra d'una chiesa a discioglierla o a farmela accettare con pace senza correr dietro ai rimedii…. classici.»

«Non disconosco la bontà del suo sistema.» disse Paola sinceramente «Ma non tutti hanno questo privilegio.»

«Per carità! Un privilegio che, per ottenerlo, basta stender la mano!»

«I gesti semplici sono i meno facili.» insistè la Rinaldi «Bisogna avere un equilibrio….»

Maria era insofferente d'una confutazione che le pareva falsa e vana.

«No, no, non c' è bisogno d'acrobatismo per questo!… Eppoi, eppoi….» sorrise, ritrovò tutta la sua graziosa biricchineria «Altro che romanzo! Se si sèguita, doventa un trattato di etica comparata; più noioso delle rime di Eleonora Contarina. Come sono stupide le rime dei poetucoli! Cuore e amore; bontà e felicità; bella e donzella; tenzon e garzon; virtù e…. non se ne può più!… No, Paola, non si diverta, perchè la mia osservazione è giusta, ma è cretina. Senta. Torniamo al suo romanzo. Lo faccia senza amore, dia retta a me!»

«Perchè? Non ci crede?» e Paola rideva.

«Non svii la questione. Io parlo del romanzo.»

«Ci metterò un amor…. sovrumano. è contenta?»

«Un amor che non fa rima con cuor?… Difficile! Diranno che non se n' intende, perchè l'amore è sempre così…» e determinò con una mossetta eloquente la sua maliziosa definizione.

La Rinaldi si alzò.

«Principessa!…»

«Se ne va?»

«Avrei dovuto esser fuori da un pezzo. Ma la loro cortesìa mi ha procurato il piacere di portare con me il suo ultimo consiglio…. per non ascoltarlo, si capisce, perchè i buoni consigli non si ascoltano mai.»

Wanda salutò Paola con affettuosa benevolenza e Paola rispose semplicemente “grazie”, senza attardarsi in nessun giro di attestazioni complimentose. Fu invece molto espansiva con Maria come se avesse voluto indugiare a dirle qualche cosa: ma l'apparizione di una livrea nel vano della porta la fece correr via con quel ridicolo spavento che non poche nature ritrose provano dinanzi all' impassibilità con cui i domestici delle grandi case velano il loro sussiego impertinente.

«Simpatica!» fece Wanda, non appena la Rinaldi fu uscita.

«Le piace?»

«Molto. Vorrei che raggiungesse il suo scopo.»

È una via spinosa, ma forse ci arriverà.»

La regina sospirò.

«Ah, potersi contentare di dar ali all' immaginazione! La pratica della vita è più pesante.»

«Maestà….» cominciava Maria.

Wanda la interruppe, con un piccolo brivido di sussulto.

«Eccoci!… “Maestà”!… Era stata così brava finora ad evitare questa designazione con cui mi si mette sotto vetro!… Mi faccia il favore: quando siamo sole, ne usi meno che può. Respirerò meglio e con più confidenza…. Maria, Maria! Vuole ascoltarmi col cuore d'una sorella?»

La principessa fu riassalita da una trepidazione piena di tenerezza.

«Perchè me lo domanda? Non lo sa?… Stia quieta. Che ha?»

Ella aveva la sua voce dei minuti d'effusione: irresistibile come una carezza.

Wanda guardò verso la porta. Mentre Maria, pronta, stava per chiudere, s' incontrò col domestico che recava un biglietto.

«Vostra Maestà mi permette?»

La regina le fe' un cenno d'assenso.

«Chi l' ha portato?» s' informò la principessa, prendendo la busta di sul piatto d'argento.

«Ha domandato di scriverlo la signorina ch'era qui.»

«Ah!… È andata via?»

«Subito. Non c'è risposta.»

«Va bene. Non disturbate per nessuna ragione. Chiamerò.»

Il servitore scomparve, e Maria chiuse l'uscio.

«Legga pure.» disse Wanda.

«Mi scusa, non è vero?… Daltronde non capisco che cosa Paola abbia avuto bisogno di scrivere, se….»

Aveva spiegato il biglietto, e le bastò un'occhiata per afferrarne il brevissimo contenuto.

«Oh, questa poi!» esclamò, ridendo e porgendo il foglio alla sovrana «Il giuochetto è ben riuscito, noh?»

Wanda lesse ad alta voce:

«“Ringrazi per me la regina dell'alto onore e della gran cortesia. S' intende che rispetterò l' incognito. Paola.”»

Restituì la lettera, sorridendo anche lei.

«È intelligente la sua amica!»

«Come non prevedere che l'avrebbe riconosciuta?»

«Non è questo. Si è comportata con una delicatezza infinita.»

«Se l' immagina un'altra?» fece Maria gaiamente «Si sarebbe creduta in dovere di confondersi, di sgranar gli occhi e di doventare poi indiscreta fino all'esagerazione!… Basta.» quindi concluse, cambiando tono «Avevamo da dirci qualche altra cosa, se non erro?… Io son qua, più che sorella.»

Si era seduta vicina a Wanda, s'era portata una mano di lei alle labbra con gesto affettuoso.

«Senta, Maria.» disse la regina con un povero sorriso «Parlando a lei di questo argomento perdo tutto il coraggio, se non sono sicura che lei non scatterà, non negherà, non si opporrà.»

La principessa volse in blandissimo scherzo l'agitazione della sovrana. Capì ch'era finita: che una grande pazzìa o una grande sciocchezza stava per compiersi e che i suoi ragionamenti non avrebbero nulla potuto.

«Tre comandamenti proibitivi. Sta benissimo. Non scatterò, non negherò, non mi opporrò. Discorriamo come nelle novelle, vede?»

In realtà aveva una pena d' immensa inquietudine, e avrebbe dato chi sa che per guarire Wanda dal delirio che visibilmente la torturava.

«Che manine fredde!» aggiunse, poichè l'altra non parlava «È tanto difficile a dirsi?»

«Se mio fratello Stefanolo andasse in guerra, vorrebbe suo marito assumersi l' incarico d'esserne il compagno?»

Maria arrossì. Non s'aspettava questo. Prima che all' impossibilità della cosa, pensò ai pericoli che avrebbe corsi Ruggero.

«Di certo.» rispose, dopo un istante «È il nostro dovere, e non ci sottrarremmo, sebbene sia doloroso per me. Ma non comprendo….»

Wanda la interruppe, ficcandole in volto due occhi acuti come lame.

«E se fossi io?»

Ora le interrogazioni e le esclamazioni brevi e serrate si susseguirono con la rapidità d'una tempesta. Illimpidire dinanzi a mente umana il proposito temerario non era facil cosa, e infatti la principessa credeva ogni momento d' aver capito male e che le parole della regina racchiudessero un diverso significato. Ma quando fu certa, proprio certa che non c'era sbaglio possibile, che Costanzo era al corrente e che s'era quasi arreso alla persuasione dell' idea, accettando gli espedienti opposti da Wanda alle sue osservazioni d'ordine materiale, quando dunque l'audacia di quella volontà le apparve non come un eccesso di fantasìa ma come una macchinazione precisa che già aveva cominciato ad operare, allora lì per lì non seppe più che dire. Le sembrò per un minuto che perfino il suo cervello avesse smarrita la facoltà di ricordare e di commentare: senza intendere il discorso concitato della compagna, vedeva soltanto le due spiumature tremule e brillanti degli aspri che guarnivano il cappello della sovrana e, poichè la parola “guerra” le ricorreva insistentemente nella memoria, la contaminazione di questo concetto virile e furibondo con quell'ornamento di fragile fatuità donnesca le dava un senso di comico stupore ch'ella non riusciva a scuotere da sè per impadronirsi di nuovo dell' immediata necessità di ragionare. Da ultimo, quando potè riaversi dalla sopraffazione della meraviglia, con un atto del viso e delle mani mostrò alla regina che la sua loquela la stordiva invece di illuminarla, e che tacesse per non prolungare una sofferenza inutile di confusione.

«Ma sì!» esclamò impazientemente «Ho capito ciò che lei vuole. Capisco meno l'arrendevolezza di Costanzo. Bisogna aver perduta la testa per accettare un'idea simile.»

Wanda, giunta ormai a manifestare la sua aspra decisione, era più tranquilla. Riferire un peccato grosso al confessore è più inagevole che esporne in appresso le attenuanti e discuterne le riparazioni. Ella ritrovò la sua calma, tanto da poter riprendere con un' inflessione di supplica scherzosa le frasi di poco prima.

«Non negherò, non mi opporrò, non scatterò!»

«Eh, sì che mi pare ci sia della gente che piglia la vita come una novella!» proruppe Maria «è assurdo ed è immorale.»

«Anche immorale poi!… Perchè?» e Wanda guardava la principessa con l'aria d'una bambina che, còlta in fallo, tenta un bronci lusinghevole.

«Immorale, sicuro! Se Dio ci ha fatto donne, ci sarà il suo perchè. Come si può sconvolgere l'ordine di natura?»

La regina citò due o tre nomi di celeberrime donne guerriere.

«Dio non le aiutò a compier miracoli?» concluse.

Maria non si lasciò commuovere dall'esemplificazione.

«Prima ci sarebbe da sceverare quello che è storia da quel che è leggenda…. Eppoi non è la medesima cosa! Esse furono ciò che furono, francamente: chiamandosi Giovanna al femminile, o Camilla, o Caterina. Fecero di gran bravure, salvarono la patria, conquistarono la gloria…. Ammetto tutto!… Ebbene, con questi precedenti perchè Vostra Maestà allora non ha il coraggio di rimanere Wanda senza ricorrere alla mascherata ed all' inganno?… Le mie espressioni sono rudi, ma una sorella non adopra mezzi termini, e Vostra Maestà mi ha fatto l'onore d' invocare da me una confidenza fraterna. Mi perdoni, dunque, e mi risponda perchè, se la storia la conforta ad osare, ella non s'attiene all' imitazione più semplice di quelle gesta?»

«Lei sa che non è possibile, Maria!» disse Wanda con mitezza estrema «I tempi sono diversi. Concepisce lei, ai giorni nostri, una donna conduttrice d'eserciti?»

«Questo volevo farle riconoscere!… E se una stramberìa meno complicata non è concepibile, in che maniera è concepibile una stramberìa involuta di finzioni?»

«No, Maria, rifletta. Dalla mia iniziativa può nascere un bene: è lecito perciò rivestirla d'un carattere che non urti contro la prevenzione, contro il ridicolo…. e contro l' insormontabilità di fatto, sopratutto. Se mettessi fuori la mia proposta di doventare generalessa, credo che mi rinchiuderebbero in un manicomio. Ci sono delle simulazioni innocenti e necessarie, e se la porta è serrata — tanto peggio! — si salta dalla finestra! Ah, Maria!… Se sa pesse attraverso quali prove d'umiliazione è passata la mia “stramberìa”!… Guardi: pensi per un istante che suo marito rifiutasse testardamente di salvare un malato che senza quell'aiuto soccomberà…. Che non farebbe lei, perchè domani non lo tacciassero d'assassinio?… Ma no, ma no: il paragone non regge…. Non è la vita d'un uomo: è l'onore della patria! Non è il buon nome d'un individuo: è la fama, è la gloria, è la virtù della dinastia!… A lei posso, a lei debbo tutto confidare…. Albano è cieco, è risoluto a non uscire dalle sue tenebre. Io sono debole innanzi a lui. Eppoi nulla varrebbe a persuaderlo! Se lei fosse stata presente al nostro colloquio dell'altra sera — no, lei no, perchè lei è addentro nel quadro della nostra povera vita di corte —, ma se un qualsiasi suddito di coloro che sono abbagliati dalla nostra cornice dorata avesse potuto ascoltare ciò che abbiamo detto, Albano ed io…. oh, quante illusioni cadute; oh, quanta meschinità!… Due monarchi?… Ma no, no: due creature miserabili impigliate in un dibattito che avrebbe dovuto aver le ali e che starnazzava nella volgarità. E in sèguito a che cosa, Dio mio, in seguito a che atti!… Non mi escludo, sa?… Io peggiore di lui. Perch'egli aveva la sua franchezza brutale, senza secondi fini, senza infingimenti; ed io invece, dopo aver provata la sincerità d'un brivido che ha percorso il mio sangue, ne soffocavo il ricordo come quello d'una vergogna e provocavo in Albano l'esasperazione villana dei rinfacci e delle accuse. è brutto tutto questo, lo so; ma lei vede che il mio non è un miraggio balenato all'infuori dalla realtà, bensì è una decisione aguzzata da un contrasto vivo e penoso; non è un'utopia di spirito campato sulle nuvole, è una necessità nata dall'esperienza del male più che del bene. Maria, lei è intelligente e non può esser sorda a quello che le dico!»

La principessa questa volta non aveva interrotto mai l' amarezza ardente di Wanda; e non perchè ne accettasse la logica degli argomenti addotti: v'era altro di fatalmente immedicabile, in quegli occhi pieni di fanatismo, in quella piega dolorosa ed ostinata della bocca. Maria fu convinta che nessuna dimostrazione sarebbe stata capace di farla recedere, e, pur intendendo la vanità dei proprii sforzi, sentì ch'era per lei un obbligo di coscienza mettere ancora in guardia la regina contro gli effetti della sua caparbia esaltazione.

«Maestà….»

Wanda la corresse violentemente.

«Non mi chiami così. In questo momento no, la prego!»

«Wanda!» ubbidì Maria con voce grave, dolcissima «Io non voglio rendere più arduo il suo compito, se dovrà avverarsi…. Le parlo senza incredulità, senza irritazione…. Non c' è in me altro che una profonda tristezza. Suppongo con lei che dal suo atto scaturiscano vantaggi immensi per la nazione. Ma lei?… Ha pensato che ci sono dei rimorsi d'umanità che nessuna vittoria riportata e nessun idealismo possono cancellare?… Ha pensato che, per avanzare nel suo cammino, dovrà calpestare molti cuori, e proprio quelli che per legami di sangue e di dovere Dio le ha dati più strettamente in custodia?… Suo marito? Suo fratello?… No, no, mi lasci dire: saranno le ultime parole discordi che udrà da me. Eppoi le giuro che la aiuteremo, Ruggero ed io, quanto ci sarà possibile…. Suo marito: lei gli prepara un tradimento, uno schiaffo che un uomo difficilmente perdona ad una donna; e lei usurpa la personalità e la coscienza di suo fratello, profittando di una debolezza indifesa, speculando sopra una sventura che non ha rimedio…. Che potrà mai nascere da un sovvertimento di questo genere? Forse un risultato di benessere per il paese, ma certo una grande rovina morale che coinvolgerà degli inconsapevoli i quali non le avranno domandato d'accompagnarla su per il calvario che lei si sarà scelto…. E badi: non suo fratello soltanto, non suo marito, ma chi sa mai quanti altri! Perchè l' inganno porta con sè un'esca a cui mordono specialmente coloro che non sono avvertiti. Wanda, per tutto il bene che le voglio, non dimentichi le mie parole. Io non la sconsiglio più, ma le affermo che le maggiori difficoltà non saranno quelle che lei si aspetta. Il fuoco? Il sangue? La morte?… No, si può finire con l' inebbriarsi anche di questi, e non sono ostacoli che spezzano l'anima. L'anima è in un dominio diverso ed è più in alto delle tempeste; ma poi basta un soffio, un alito venuto non si sa di dove, un nulla imprecisabile insomma a contorcerla e ad ucciderla. Si ricordi delle mie parole, Wanda!»

La regina rabbrividì: il tono di Maria non suonava con impeto profetico, e appunto la semplicità quasi dimessa di quell'accento malinconico e persuasivo toglieva al discorso ogni fronda di declamazione e lo faceva diritto e penetrante.

«Se ci fosse opposizione umana che valesse a farmi desistere dall' impresa» ella disse dopo un istante «non potrebbe essere che questa…. è orribile!» esclamò, con improvviso accasciamento «Maria, ho bisogno di conforti, non di terrori…. Maria, non lo comanda il Vangelo? “Lascerai tuo padre e tua madre….” Io non chiedo nulla per me: perchè gli altri dovrebbero essere sacrificati?»

La principessa ebbe una stretta al cuore per lo sgomento di Wanda: postasi ormai sulla via dell'acquiescenza, non volle più vedere che la nobiltà di quel proposito.

«Una guerriera che si spaurisce!… Su, su, mio piccolo duca!… Lei sa ch' io sono pratica fino all'eccesso, epperò mi pare che contro il buon senso non si vada. Daltronde il suo spirito dev'essere corazzato, e non è mai tardi per cominciare l'allenamento!»

La regina sorrise.

«Dunque non mi abbandona?»

Maria scherzò, per rinfrancare del tutto Wanda. Eppoi in un cantuccio della sua mente s'annidava la speranza che quella potesse essere una costruzione fondata sulla sabbia, e che Costanzo non avrebbe mai osato di tradurre in realtà una fantasia così strampalata.

«Abbandonarla?… Ah, che brutta parola, Maestà!… Sono pronta a tutto…. fuori che a mettermi anch' io i calzoni, la prevengo!»

L'altra si illuminò.

«Mi basta. Io parto domani per Planacomba. Bisogna che lei mi accompagni.»

«Va bene.»

«E suo marito? Che penserà?»

«Lui?… Nulla. Obbedirà, e sarà felice come un ragazzo. Non conosce Ruggero?… Se vedesse gli uomini camminare a capo all' ingiù, non si meraviglierebbe, non direbbe nulla, ma si divertirebbe un mondo e dopo un'ora imparerebbe anche lui a camminare in quella maniera.»

«Clielo dirà lei, a suo marito. Dovrà starmi sempre vicino, dovrà correre molti rischi, dovrà essere il suggello che custodisce e difende il mio segreto.»

Wanda, senza accorgersene, aveva ripreso il tono inconsapevolmente imperativo ed egoista di chi è abituato a trovare intorno a sè la rapida condiscendenza dell'ossequio. Ma la principessa questa volta non se n'adontò: in fondo alla facilè ironìa e all'ombrosa suscettibilità la sua anima possedeva una commossa capacità di simpatia per ogni accenno generoso contenuto in un' idea; epperò non seppe ribellarsi, pur nel suo intimo, nemmeno al secondo dei doveri che la sovrana enumerava investendone il còmpito di Ruggero.

Ora parlavano tranquille: tanto che Maria, senza che il mutamento del discorso apparisse stonato, potè domandare alla sovrana la provenienza di quel fermaglio ch'ella aveva notato sùbito come una cosa nuova.

«Ah!» fece Wanda «Guardi che bellezza!»

Se lo tolse, lo diede alla principessa perchè lo osservasse. I rubini, congegnati in una spirale di elegantissimo disegno e combinati secondo la più chiara e più scura intensità della loro luce, sembravano una fiammella instabile e palpitante. Era un lavoro mirabilmente ricco e paziente d'oreficeria antica.

«Stupendo!» convenne Maria, soppesando il gioiello e agitando nel movimento della mano l'acqua purissima delle gemme che s' incupivano e riscintillavano con un tremolìo vivido e ardente.

«Indovini chi me l' ha dato e perchè?»

La principessa pensò un momento.

«Non c'è che la contessa di Marbello che possegga questo genere di….»

«Brava!» la interruppe Wanda «Di colpo!… Sì, me l' ha dato lei. Lo portò l'altra mattina miss Smedley, prima della partenza per la villa, e c'era un biglietto così carino che, in mancanza della contessa, abbracciai la povera Smedley che si congestionò per la confusione. Diceva presso a poco: “Mentre io mi occupavo dei decrepiti idoletti d'avorio, voi pensavate alla giovane vita del nostro paese. Miss Smedley ch'era presente, e che, avendo gli orecchi buoni, non poteva fare a meno di udire, mi ha riferito. Porterete questo gioiello al teatro Nazionale la sera in cui parlerà Marino d'Anghelos, e lo porterete poi sempre quando crederete che il mio vecchio cuore possa un po' confortare ed animare il vostro pieno di speranza e di forza”. Che gliene pare?»

«Mi pare che gli ottant'anni della contessa di Marbello valgano più di molte ventine anemiche e nevrasteniche…. Lasci fare a me.» disse, riappuntando con le sue mani il fermaglio «Qui…. Così!… Una fiammata che le fiorisce sul petto…. Guardi ora?» e le indicò uno specchio «Non sta meglio di prima?»

Wanda abbracciò Maria con espansione d' insolita giocondità, le scoccò due baci sonori sulle gote.

«Benissimo!» esclamò, accompagnando con le palme aperte il rilievo un po' scarno del proprio busto «Sulla fiamma non c' è nulla da ridire! è…. è la pira ch' è un tantino bassa!»

La principessa celiò.

«Ringraziare Iddio, piccolo duca!»

Poi tornò seria d' improvviso.

«Vede?» e raccolse il biglietto di Paola ch'era rimasto in disordine fuor della busta tra i cuscini d'una poltrona «La signorina Rinaldi, se ci fosse, osserverebbe che la prima parte del nostro dialogo è romanzo autentico; ma quest'ultima?… Quest'ultima è vita, e uno scrittore la rifiuterebbe, perchè non è ammissibile, in un romanzo, che dei personaggi investiti di tanto inaudita missione riprendano dopo un minuto a chiacchierare e a ridere, almeno apparentemente, come se nulla fosse.»

«La vita, Maria, è più intelligente del romanzo!» commentò Wanda «O sbaglio?… O è il contrario che dovevo dire?»

«Ecco Ruggero!» fece la principessa, prestando l'orecchio alla tromba d'un'automobile che risuonava giù nel giardino.

«Lo chiami.» avvertì la regina, accennando alla finestra «Altrimenti troverà clausura!»

Maria si affacciò, invitò il marito a salire.

«Ora non gli dica nulla, sa?… Soltanto che lei viene con me a Planacomba. Dopo, stasera, lo informerà.»

Quando il principe di Cerito si presentò sulla soglia, le due signore parlottavano piano, accordandosi in fretta tra loro. Ruggero s' inchinò profondamente.

«Disturbo?»

«No, no, venga, Discorrevamo di romanzi, si figuri!»

«Giusto tu, uomo saggio!» lo interpellò Maria, guardandolo con la speciale tenerezza che l'assalto dei dubbii e delle ansie per quel che forse si preparava le immise d'un tratto nel cuore «È più intelligente la vita o il romanzo?»

«Secondo chi la vive, e secondo chi lo scrive, noh?…» e il principe, sorridendo della sua candida risposta, si curvò a baciare la mano offertagli dalla regina.

«Uff, come sono impazienti stasera!» e l'attrice, tendendo l'orecchio a un croscio d'applausi che giungeva fin dietro le quinte, strappò bruscamente il pettine dalle mani della cameriera e lo affondò con poco cauto riguardo nel groviglio dei capelli che attendevano la piega di una nuova acconciatura «Nemmeno due minuti di respiro….» e giù un colpo che spianò docilmente una ciocca «Come se si fosse macchine caricate, come se….»

«Signorina, piano!» raccomandò la cameriera «Se fa così, se li strappa a manciate!»

«Là…. là…. e là!» esclamò la signorina per tutta risposta, accompagnando nervosamente con questo ritmo le strappate del pettine «Tieni, tartaruga. Son distrigati, e ce li ho sempre sulla testa.»

La cameriera cominciò sveltamente la sua opera di ricostruzione, mentre l'attrice, mormorando, dava un'occhiata alla parte spiegata sul tavolino in mezzo alle forcine e alle boccette.

«Ma che è?… Seguitano?» e interruppe la sua ripassatina precipitosa, non comprendendo la causa di quell' insistente fragore di battimani.

Uno scalpiccìo di corse sulle tavole del palcoscenico diede a credere che qualcosa d' insolito accadesse. Infatti poco dopo il direttore picchiava alla porta del camerino, senza dar tregua.

«Che c' è?… Che c' è?… Non si può!»

Ma il chiavistello fu tolto, e il direttore, passando il capo traverso all'uscio socchiuso, gettò la sua informazione.

«C' è la regina…. È venuta la regina!… Presto, fate presto. D'Anghelos l'avete veduto?»

«Dove? Nel palco grande?» domandò l'attrice a sua volta.

«No. Palchetto di proscenio. Avete veduto d'Anghelos?»

«E chi ne sa niente di d'Anghelos?… Che ne volete fare?»

«Il teatro è pregno d'elettricità, stasera. Chiamano d'Anghelos con insistenza…. Corrono tante voci…. Non capisco. Stasera succede qualche guaio…. C'è pieno di agenti in borghese, e intanto la regina è arrivata all' improvviso…. Proprio stasera!… Presto, fate presto!» e scappò, in preda a una convulsione di ordini e di raccomandazioni da distribuire per tutto il palcoscenico.

La cameriera era in estasi: quando un papavero di quei grossi assisteva alla recita della signorina le sembrava d'esser più alta due palmi; e allora, ammutolendo come per incanto, raddoppiava le sue attenzioni intorno all'abbigliamento dell'attrice, salvo poi a rifarsi di quel silenzio con i fornitori e con le amiche, crogiolandosi nel solito plurale dell' “abbiamo avuto” e dell' “è venuto ad applaudirci il Tal dei Tali” con un “T” maiuscolo fino all' inverosimile.

Nella signorina, troppo superba per manifestare la lusinga che accarezzava il suo intimo orgoglio, la presenza di un gran personaggio determinava, come unico sfogo esteriore, l' incontentabilità dei servizii che le prodigava la sua fedele.

«Questa forcina non regge. Capisci o non capisci che me li devi inchiodare, i capelli?… Ahi!… Garbo, garbo! Quando imparerai un po' di garbo?… Lascia, lascia: tanto fai peggio!… Tieni, sbrigati!»

La sua personcina esile, più di adolescente che di donna, sgusciò fuor dell'accappatoio, attillata in un costumino succinto di seta bianca.

Un altro colpo all'uscio.

«No, no, nessuno. Non ricevo nessuno!»

La figuretta sparì sotto l'abito del secondo atto.

«Pronti di scena?» gridò la voce del direttore.

«Andate!… Vengo.» rispose l'attrice.

Un ultimo sguardo allo specchio, e via di corsa. Dietro una quinta s' imbattè in Marino d'Anghelos.

«Il direttore?… L'avete visto?… Un teatro magnifico. Cinque chiamate…. C' è la regina, sapete?»

D'Anghelos sorrise, calmo e tranquillo; la seguì con gli occhi, mentre ella scivolava fuori alla luce della ribalta. La vide, di scorcio, guardare in alto verso destra ed inchinarsi. La sala tremò, quasi non potesse contenere l' impeto d'un applauso interminabile. L'attrice, immobile, aspettava.

«D'Anghelos!… D'Anghelos!…»

Il guizzo dell'appello serpeggiò sulla folla.

Il direttore giunse alle spalle del poeta.

«Siete qui?… È un secolo che vi cerco…. Badate che c' è la regina.»

Non sapeva egli stesso perchè gli dava quell'avvertimento, perchè non lo consigliava senz'altro a mostrarsi.

«D'Anghelos!… D'Anghelos!…»

L'attrice, indietreggiando un po', si volse verso le quinte. Fu il segno della tempesta.

«Che si fa?… Andate?»

Pareva che Marino volesse vedere qualcuno, prima di decidersi; scambiò infatti un cenno con un giovine che gli veniva incontro.

«Dunque?»

«Va bene.» rispose quegli laconicamente.

D'Anghelos s'accomodò la caramella all'occhio, si avanzò sul proscenio.

Un urlo, un delirio per tutto il teatro.

Il direttore, inquieto senza comprenderne la ragione, interpellò il giovinotto:

«Beh, delegato!… Che succede?»

L'altro si strinse nelle spalle, attento a quel che udiva.

Marino aveva fatto un gesto, e il silenzio s'era ristabilito d'un tratto. Dopo un istante la voce di lui risuonò, chiara e ferma.

«E ora?» domandò il direttore.

«Ora?» fece il delegato, un po' pallido «Ora mi perdo il posto, ma non importa.» e, frullando il bastoncino, se n'andò, rapido, per vigilare, per sorvegliare, per esser dapertutto.

Proprio nel momento in cui Marino d'Anghelos s'era mostrato al pubblico, entravano nel palco reale i Pietracamela: i saluti furono scambiati tacitamente. Alle prime parole del poeta le lampade elettriche brillarono di nuovo per la vastità gremita della sala. La regina, ch'era un po' indietro sul divanetto prospettante il palcoscenico, venne risoluta a prender posto più innanzi: tutto il teatro poteva scorgerne il profilo sotto l'ala del cappello nero e il braccio posato sul parapetto di velluto rosso. La marchesa le sedè accanto; Maria era di fronte e i due uomini in piedi, alle spalle.

«Il duca di Varo? L' hanno visto?» bisbigliò Wanda all'orecchio di Franca.

«Lo abbiamo incontrato giù, nel corridoio di prima fila. Dev'esser nel suo palco.»

Sulla scena, che aveva perduto il suo risalto di veemenza per la luce moltiplicata e diffusa, d'Anghelos pareva più vicino, più commisto alla folla: epperò la sua voce si spogliava da ogni velo di finzione e di lontananza e s'accordava col ritmo dei mille cuori palpitanti nell'attesa di quello ch'egli avrebbe osato d'esprimere in presenza della regina di Venustria. E d'Anghelos osava le più determinate accuse contro l'Altamagna, senza l'amarezza degli impotenti a punire, ma con la salda severità di un giudice che si riassuma prima di pronunziare la condanna. Ben più: egli non applicava un articolo coercitivo contro un misfatto, ma, levandosi dal particolare verso un afflato potente di complessa umanità, creava una legge che non colpiva con l'arida secchezza delle cose inesorabilmente stabilite, ma si andava generando viva e commossa dalla necessità degli avvenimenti, dal sussulto delle anime, dalla coscienza d'ognuno. E il nome della patria splendeva come segno di ricompensa per coloro che si sarebbero votati all'opra di giustizia e di grandezza; e la morte, il divino prezzo della vittoria, appariva come la trasfigurazione accettabile e desiderabile che avrebbe reso più fulgido e trionfante il significato della vita.

D'Anghelos parlava in mezzo ad un silenzio così religiosamente attento oh'era meglio confortante dei plausi clamorosi: anzi, quando un'approvazione si partì di fondo alla platea con un “bene!” fervido di consenso, due o tre zittii ammonirono di tacere senza che si potesse interpretarli come una protesta. Perchè ciascuno sentiva sorgere dalla propria intimità la persuasione dell'oratore, ciascuno voleva giungere senza dispersioni e senza distrazioni alla conclusione ultima delirante e terribile.

Dopo…. dopo fu una frenesìa indescrivibile: d'Anghelos riceveva contro il petto tutto quel tumulto, come se davvero il romore delle grida e dei battimani acquistasse la solidità dell'urto. Voleva sottrarsi, ma cento braccia, protese tra le quinte, lo risospingevano nè gli davano modo di passare. Molti s'erano levati in piedi, e, quando la regina e le due signore che l'accompagnavano imitarono l'esempio senza cessar d'applaudire, allora la folla scattò, e un' invocazione immane, un urlo di gratitudine e di fede inneggiò al nome di Wanda.

«Guerra!… Guerra!… Viva la regina!… Viva il re!»

Marino d'Anghelos potè finalmente rientrare, tanto più che Valentino, avvertito in fretta dal principe di Cerito che la sovrana desiderava salutare il poeta, era giunto sul palcoscenico. Mentre il duca lo conduceva con sè, un altro miracolo si operava. L'attrice aveva scovato un violino: ed ora, in piedi dietro una quinta, invisibile al pubblico, aveva attaccato le note dell' inno reale e nazionale di Venustria. Bastò che qualcuno afferrasse, in mezzo al fragore, il motivo di quella musica….

«Ascoltate!… Silenzio!… Ascoltate!…»

L'armonia lenta e solenne, esile dapprima sulla flebilità dell'unico strumento, incerta e tenue per l'ampiezza della sala, affiorò come un'eco lontana sopra l'ondata impetuosa di quelle anime.

«Silenzio…. Silenzio….»

Ecco: anche laggiù, negli angoli più remoti, si versò la vibrazione acuta del violino. Un luccichìo di pianto balenò tra mille pàlpebre. La tacita immobilità ancora s' impadronì di tutto il teatro. E la foga piena e tenuta degli ultimi accordi si spense proprio nel momento in cui Marino d'Anghelos apparve nel palco reale: era la promessa della regina al suo popolo.

Intanto il telefono sgranava rapido e nervoso il suo scoppiettìo risonante. Si scampanellava senza tregua dall'Ambasciata d'Altamagna. Straczy era all'apparecchio, svegliando tutti i numeri privati e pubblici del questore e del prefetto. Il barone di Loën sudava e sbuffava.

«Morti?… Tutti morti?… Canaglie!… Che cosa fanno in questo maledetto paese i funzionarii?… Dormono?… Sono marmotte?… Non stanno mai all'ufficio?… Mai in casa?… Scioperati, viziosi!… Chi sa in che bordelli si sono ficcati!… Gente che se ne infischia, anche se il mondo crolla…. Suoni, Straczy, suoni fino a spaccare il cervello di quelle dispettosissime impiegate!… Servizio impossibile, non c'è organizzazione, con c' è….»

S'interruppe per afferrare il ricevitore di un altro apparecchio che chiamava.

«Zitto!… Un momento!…»

Il visconte desistè dai suoi replicati appelli.

«Pronto?….» e l'ambasciatore si rabbuiava «Ancora?…. Non la finiscono?… Come?!» un sussulto ed un pugno che fecero traballare gli oggetti sul tavolino «Nel palco reale?!… Guerra?!… Imbecilli!… Ma agenti non ce ne sono?…»

L'informatore ripetè per la terza volta — era la terza telefonata della sera — che anzi il teatro Nazionale era guardato da un' intiera squadra di poliziotti in borghese.

«Pronto!…. Pronto!.. E voi altri? Fiato ne avete?… Non si può?… è pericoloso!… Ma sùbito bisognava cominciare, per Dio degli Dei!… Non far prendere la mano, non…. Pronto!… Pronto?… Al diavolo!…» ricollocò con violenza il ricevitore, imprecando «Gaglioffi!… Anche l' inno sul violino!… Mandolinisti, buffoni!… Con quel loro poetastro che fa l'eroe!…»

«Tentiamo un'altra volta col palazzo reale?» suggerì Straczy.

«Inutile!… Triverna, quella marmotta di Triverna, non c' è, e il re non può esser tornato…. Eppoi è tardi ormai!… Maledetto paese, maledetto paese!… Il re?… Bene, che creperà con una tabe dorsale Sua Maestà il Bellidiota!…. D'accordo anche lui, ci scommetterei!… Gatte morte che tutto a un tratto tirano fuori le unghie… La vedremo, la vedremo!…»

Per il momento, l'uno e l'altro non avevan che da vedere scambievolmente le loro facce: il barone paonazzo e il segretario verde.

Straczy trasalì, perchè una lunga chiamata dal telefono ch'egli non aveva abbandonato gli schiantava nell'orecchio.

«Pronti!…»

Ascoltò un minuto, poi avvertì il barone:

«È il vice-questore. Domanda che cosa si desidera e dice che si può parlare a lui.»

«Dia qua!…» e l'ambasciatore in persona s' impadronì della comunicazione «Pronti?… Sì, sì, dall'ambasciata d'Altamagna…. Eh?… Come?… Ah, ha riconosciuto il numero?…. Mi rallegro della sua perspicacia…. Non mi rallegro del servizio…. Chi sono?… Sono il barone di Loën…. Sissignore…. Al teatro Nazionale nascono dei subbugli e lei, certo, non ne sa niente…. Eh?… Come?… Ma sì, ma sì: dei sub-bu-gli!… Si attenta impunemente alla sicurezza dello Stato…. Si offende una nazione alleata…. Impossibile?… C' è un funzionario di fiducia?… Quello glielo raccomando per mandarlo a fare un altro mestiere!… S' informi, s' informi e mi saprà dire!… Pronto?… Pronto!… Va lei in persona?… Bravo, in tempo per vedere i begli effetti!… No, no, senta…. Pronti!… Mi ascolta?… Mi capisce?… Ecco, guardi: a tutto c' è rimedio forse!… La stampa, domani, deve tacere…. Ecco!… Censura!… Non un accenno, niente…. Parli col prefetto, sùbito…. è una volontà che vien dall'alto, ed è un consiglio mio…. Terremo conto della sua premura!… Sì, sì, va bene…. Buonasera!… Ah, senta!… Pronti? Un momento!… è ancora lì?… Volevo ricordarle il…. funzionario di fiducia: si regoli perchè il capro espiatorio non sia cercato più in su!… Precisamente, ci siamo intesi!… Buonasera, buonasera!»

Si asciugò il sudore, si diede una fregatina alle mani.

«Auff!» sospirò, respirò, soffiò «Ed ora a lei, Straczy. Prenda un'automobile e mi porti Triverna: le do un'ora di tempo.»

Marino d'Anghelos era stato trattenuto una diecina di minuti nel palco reale. Wanda gli aveva detto “grazie”, stringendogli forte la mano, con un pallore d' intensa commozione.

«Qualunque cosa accada» lo pregò «non desista dall' infiammare gli animi. I monarchi «ella aggiunse, per scusare e prevenire la resistenza cocciuta di Albano «debbono seguire il popolo, quando sono in giuoco migliaia di vite e sacrifici d'ogni sorta…. Bisogna che abbiano l'aria di lasciarsi prendere la mano, di cedere sotto la spinta della volontà universale. Ella dia fede alla mia parola: non si stanchi, non si scoraggi. Domani, allorchè si troverà ancora in mezzo alla folla, faccia capire anche questo: che la famiglia reale non si sottrae. Dica che c' è un principe, vissuto in solitudine, il quale non domanda che di consacrarsi al paese da tanti secoli amico della sua casa, al paese di cui sua sorella è la regina.»

Cinque esclamazioni ripeterono lo stesso nome.

«Il piccolo duca?!»

Maria soltanto tacque, e parve occupata a guardare col binocolo da un'altra parte.

«Il piccolo duca, sì. Non mi domandino di più. Il generale Costanzo e il granduca di Planacomba sono arra sufficiente a persuadere che non mancano nè atti nè voti per guadagnar la vittoria. Da domani — non prima — desidero che la certezza d'esser sostenuto e guidato si faccia strada nel popolo. Ditelo. Lo dica lei, d'Anghelos. Una voce corre come una fiamma, e la sua voce è fiamma benedetta.»

Si volse a Valentino di Varo per rompere con altra idea ed altri discorsi la specie d' incantamento che aveva preso i suoi interlocutori innanzi al miraggio inaspettato.

«Voglia essere cortese, duca, di presentare all'attrice i sensi della mia gratitudine per la prontezza con cui ha saputo secondare la manifetazione patriottica di stasera.»

La principessa di Cerito non staccava gli occhi dal binocolo: forse la sua ostinatezza nell'estraniarsi così dai compagni derivava dall' impaccio di mostrare una qualsiasi espressione su un argomento ch'ella conosceva ben più addentro degli altri, forse le valeva a sfuggire ogni appiglio di confidenza con d'Anghelos. Non avrebbe saputo dire ella medesima se Marino la guardava o no: certo si sentiva addosso un che di malessere e di stizza. Tesagli appena la mano durante l'avvenuta presentazione, non aveva parlato mai, lei di solito così simpaticamente loquace. Ed ora da un pezzo fissava un palco accentrato nell'àmbito del binocolo, senza rendersi pur conto di ciò che vedeva: finalmente riconobbe suo cugino Pietro Bouturline, la cui fisonomia, alterata dalle lenti non bene regolate per la proporzione della distanza, le parve strana, nebbiosa, spettrale. Guardò meglio, acconciando convenientemente il binocolo. Pietro si trovava insieme con le Fontanarosa, ed era in piedi dietro a Mimì, la fidanzata: lei tutta rosea — un fiore —, intenerente di grazia e di felicità; lui magro diritto serio, come se l'ombra che gli teneva mezza la persona lo avesse toccato anche moralmente…. Un attimo, un guizzo d' impressione bizzarra per la quale Maria si domandò dove illogicamente galoppasse il suo cervello.

D'Anghelos se n'andava, accompagnato da Valentino. La principessa lo salutò distratta in apparenza, ma le sembrò che gli occhi del poeta si posassero su lei con una dolcezza affettuosa e triste. Allora sorrise al duca di Varo, e fece, indirizzando la sua interrogazione per metà a Valentino stesso e per metà al beneplacito della regina:

«Torna il duca?»

«Sicuro!» esclamò Wanda «Non è vero che mi renderà conto dell' imbasciata alla signorina?»

Marino non vide, ma il duca sì, vide passare nello sguardo di Franca un palpito d'ansia, un baleno d' inquietudine e come una velocissima implorazione dubitosa. Gli occhi di lui, grati, le dissero: “Che m' importa delle altre? Son tuo.” La marchesa non lo guardò più, e si volse piena d'affabilità a d'Anghelos che scambiava con la regina le ultime affermazioni di speranza e di fiducia.

Quando furon nel corridoio, Marino prese il braccio del duca.

«Vi ringrazio. Avete procurato alla nostra causa la rivelazione di un aiuto prezioso. Ormai non temo più.»

«Dio lo voglia!» rispose Valentino «Ma la via è aspra. Vedrà. C' è da aspettarsi di tutto.»

«Aspetteremo, lotteremo e vinceremo.»

«Gli amici della regina a corte — amici, intendo, nella volontà ch'ella ha dimostrata così bravamente stasera — son pochi. Forse noi soli ch'eravamo presenti, e il generale Costanzo.»

«Basterà.» disse d'Anghelos serenamente.

Dopo un momento, egli domandò:

«Come si chiama la principessa di Cerito?»

Valentino, tranquillissimo, diede l' informazione richesta:

«La principessa? Maria. Maria Gloria di Cerito.»

Il poeta lo guardò.

«Bel nome di grazia.»

«Sì, ed è molto buona. Non la bontà corrente, slavata o antipatica. Poche anime son come la sua luminose in pieno sole, sane e pure.»

L'elogio era grande: pure d'Anghelos rimase interdetto. Avrebbe giurato, per un' intuizione subitanea eppoi per la ritenutezza usatagli dalla principessa e per il sorriso rivolto al duca, che quella fosse la donna ch'era nel cuore di Valentino. Anzi da tale certezza gli era venuta negli occhi, guardandola, una luce d'amicizia e…. chi sa?… di rimpianto. Ora non volle insistere a provocare le confidenze del giovine; ma pensò sorridendo che gli spiriti innamorati — anche i più abitualmente impetuosi e candidi — acquistano qualche volta un'arte perfetta di simulazione.

Per primo Ruggero, che aveva con la regina maggior dimestichezza, formulò in una domanda la curiosità e lo stupore che all'annunzio imprevisto avevan còlto di perplessità lui e i marchesi di Pietracamela.

«Vostra Maestà mi permette di chiedere qualche più precisa notizia di Sua Altezza il granduca Stefanolo?»

La regina, con un sorriso un po' esitante, guardò Maria che questa volta le corrispose un'occhiata tra supplichevole e dubitosa. Poi disse:

«Si contentino d'aver la sicurezza che Stefanolo presterà il suo aiuto fino all'ultima goccia del suo sangue. Di più non posso aggiungere, per ora. Conosco la devozione di tutti loro, e vedranno che ne approfitterò. Marchese, il mio mantello, se non le spiace?»

Leonardo fu pronto ad obbedire.

«Ce ne andiamo?» interrogò Maria.

«Appena ritorna il duca. Ma andiamo via io e lei. Il principe mi consente questo rapimento?»

«Le vedovanze temporanee, quando sono per ordine di Vostra Maestà, attutiscono la loro amarezza.»

«Ruggero fa i madrigali…. coniugali!» scherzò la principessa di Cerito.

La folla, osservando il movimento che si produceva nel palco reale, ricominciò ad acclamar la sovrana. Valentino giunse in quel punto, riferendo che l'attrice era profondamente commossa dell'attenzione usatale.

«Viva la regina!… Viva la regina!…»

Il grido si propagò, obbligò Wanda a trattenersi ancora un minuto per mostrarsi e ricambiare i saluti intensi del popolo grato e festante. Infine uscirono ella e Maria, accompagnate dal marchese di Pietracamela e dal principe di Cerito che le scortavano fino alla vettura.

«E così?» domandò Franca a Valentino «è contento della sua serata?»

«Contento, sì. Ma….»

«Ma?»

«Ma non tranquillo. La regina si è esposta, un po' per mia colpa, ad un rischio gravissimo.»

«Non importa. è una donna coraggiosa, e il coraggio opera grandi cose.»

«Le dovremo molto, lo so. Ciò non toglie che la' vita, per lei, debba esser dura.»

«Oh, Dio!» fece la marchesa «La vita non è tenera per nessuno. Miracolo quando, anche a costo di sacrificio, si può riuscire a rendersi utili!… Miracolo da segnarsi col carbon bianco.»

Il duca tentò di condurla verso una più confidente intimità di discorsi.

«Proprio…. desenchantée, stasera?»

Franca gli rispose con un risetto aspro.

«Peggio. Désabusée, se ci tiene alla precisione dei termini esotici.»

«Badi!» esclamò Valentino, serbando un tono leggero traverso a cui pur appariva un'ansia segreta «Désenchantée si può arrivare ad esserlo per un processo puramente ideale di teorie astratte: è una delusione, se posso esprimermi così, contemplativa. Invece, quello che lei ha chiamato désabusement minaccia d'essere un corollario…. di filosofia sperimentale.»

«Ecco!» approvò la marchesa, senza addolcir l'amarezza «Vede com' è bravo?»

Egli tacque, triste, guardandola.

Franca crollò il capo, ironica.

«Sognatore!» disse «Siamo miserande creature impastate con una manciatina di fango.»

«Perchè vuol essere proprio così cattiva?» esclamò Valentino.

La marchesa non rispose.

«Lo so: deve parerle una menomazione di me stesso ch' io osi stasera, dopo le grandi speranze che sono sbocciate, soffermarmi sull' individualità dei miei sentimenti. Parlo in genere, e quindi lei può lasciarmi parlare. Che cos' è l'amore di fronte alla patria? Nulla, se è il consueto amore: allora gli tocca tacere e scomparire. Ma se è una luce, tutto una luce? Rientra nell'ordine delle aspirazioni eterne e inafferrabili, aggiunge fervore e splendore, è degno d'accompagnare un'anima nella vita ed oltre la vita, perchè non ha in sè nè polvere nè ombra.»

«Un amore così non esiste.» affermò la marchesa tranquillamente.

Si rifaceva l'oscurità nel teatro: dopo un momento, il sipario si levò.

«Un amore così esiste.» susurrò il duca nel gran silenzio, chinandosi lievemente verso Franca.

Ella lo guardò negli occhi, e replicò, senza sarcasmo e senza tristezza:

«No. Per la semplice ragione che non sarebbe amore.»

Valentino si ritrasse, e la marchesa venne più avanti nel luogo occupato prima dalla sovrana. Egli si alzò: era quasi in fondo al palco, e vedeva il volto di Franca illuminato dal riflesso della ribalta vicina, volto quieto e indifferente che gli immise nel sangue una vampa d' irritazione e di passione la quale si consumò sull' istante per la sua stessa violenza. Arrossì d'averla mirata come una preda. Nè polvere nè ombra. Si placò: desiderarla, sì — possibile spengere questo brivido di tormento e di felicità?—; ma non a guisa d'un discerpatore rabido e prepotente. Si raumiliò ed esaltò nel suo sogno inappagato ed infinito, e gli tornò nelle vene, moltiplicato dalla purezza di quell'amore, il palpito della grande impresa. Venne di nuovo vicino alla marchesa, s' impadronì d'una delle sue mani ch'ella gli abbandonò senza muoversi: quando si piegò per accostarvi le labbra, Franca si disciolse mitemente.

«Ragazzo!» esclamò, donandogli un lungo sguardo; poi, sorridendo: «Si fida ancora di me?»

«Sempre!»

«Ai bambini capricciosi si fa paura, sa?»

«Capriccioso!… Io?…»

«Anche la tenerezza eccessiva è un capriccio…. No, zitto: faccia conto che non abbia detto a lei. Eppoi si discorre per perdere il tempo, noh?… Guardi, vada lì….» e gli accennò il divanetto di fronte «Altrimenti le impedisco la vista col mio cappello.»

Valentino obbedì e sùbito si spostò, secondando con naturalezza l' invito di lei.

«Ritroverà Maria a casa.» aveva detto la regina al principe di Cerito, sul punto di accomiatarsi da lui e da Leonardo «E lei si armerà di pazienza e di buona volontà per ascoltare un mio desiderio che le sarà riferito.»

«Obbediremo.» rispose Ruggero.

Non poterono scambiare altre parole, perchè un gruppo numeroso, assiepato all' intorno, asserragliava plaudendo la vettura che s'era avanzata.

Il valletto, a un cenno del principe, chiuse lo sportello.

«Alla reggia.» gli fu comandato.

La carrozza s'allontanò rapidamente.

«Maria!» esclamò Wanda, soffocando un tumulto di cose con la bocca premuta contro la spalla di lei.

La principessa sentì che piangeva.

«Ebbene?» domandò «Perchè?»

Ormai le pareva d'esser gravata anch'ella da una specie di fatale necessità, come da una cappa di piombo, e non tentò nemmeno di cogliere quell' istante di smarrimento per convincere la regina della sua follìa. Tacque. Aspettò che la folata si smorzasse.

Wanda si asciugò gli occhi.

«È finita.» disse, risollevandosi «è stata l'ultima debolezza…. Lagrime non di pentimento, sa?… Lagrime di…. di congedo. S' è chiuso un periodo della mia vita. Dio m' è testimone che non è stato il più felice; ma tutto quello che passa dà tristezza. Ora è finita.»

Cambiò tono, risolutamente.

«Sa che domani dobbiamo filar via col primo treno?… Voglio evitare in ogni modo d' impigliarmi in altre rimostranze e in altre discussioni. Alle sei e mezzo può esser pronta lei?»

Maria ebbe un' impressione di vertigine: non c'era scampo, dunque; era proprio vero che si correva così verso l'epilogo più assurdo. Era stanca di nervi, o aveva una gran pietà di Wanda. Non si oppose.

«Va bene. Alla stazione?»

«Alla stazione. Il treno parte dopo le sette: il tempo per far agganciare una vettura riservata.»

La principessa diceva di sì a tutto; e Wanda, passato il breve sfogo dell'agitazione, prevedeva e provvedeva mille espedienti con una calma straordinaria e una mirabile padronanza di sè.

«Ecco.» pensava Maria «Siamo sempre commedianti nella vita: c' è chi se n'accorge e chi no. In questo momento la regina crede di non recitare, e prepara lo scenario. Altro che commedia, altro che tragedia!… è operetta di quella buona. Io…. io sono la spettatrice che s' interna e ogni tanto mi lascio andare a ripetere in coro i couplets. Musica rubacchiata di qua e di là: il sublime si spicciola in un saporino di parodia, e l'eroico doventa ironico. Per cadere nel volgare e nel grottesco c' è un passo solo. Chi ci salverà da questo passo?… Fidiamo nel direttore d'orchestra…. Costanzo? Almeno ordinasse di calare il sipario prima d' incominciare!… Ah, la smania di fare, di fare, di fare!…»

Come Maria rispondeva soltanto a monosillabi, la regina le strinse un braccio e la sollecitò scherzevolmente.

«Maria, Maria!… Su!… Dorme?»

La principessa sorrise, sforzandosi di non mostrare la svogliatezza che le occupava l'anima e le dava per tutte le fibre lo spasimo d'uno sbadiglio represso.

«Una volta» raccontò «c'erano dei ragazzi che giuocavano: facevano ai sogni e si sbizzarrivano in rappresentazioni di scene illogiche e inverosimili. Il più piccino frignava perchè lo lasciavano sempre in un cantuccio, e ad ogni ripresa del giuoco si ostinava a ficcarsi in mezzo agli altri e a domandare: “E io? E io che parte faccio?” Uno dei ragazzi, per levarselo di torno e per contentarlo, lo sdraiò per terra e gli disse: “Tu fai la parte di quello che dorme. Chiudi gli occhi, e stai buono qui.”; e lo persuase facendogli osservare che, se non c'è chi dorme, non è possibile nemmeno che ci siano i sogni.»; e mentalmente Maria aggiunse: «Prega Dio che sia molta la gente che dorme, altrimenti….»

Triverna, condotto dal visconte Straczy, era giunto circa la mezzanotte e mezzo al palazzo d'Altamagna. L'ambasciatore lo ricevè con un sussiego agrodolce. Triverna non sapeva niente di quello che era accaduto e non rinveniva dallo stupore. Poche ore prima anzi, confidatagli dal re, aveva pescata fresca fresca una nuova ch'egli si sarebbe affrettato di portare il giorno dopo al barone di Loën come una primizia prelibata: la partenza della regina per Planacomba, perchè infatti Sua Maestà al femminile era più che un bruscolo in ambedue gli occhi vigilanti di Sua Eccellenza al maschile. Sicchè il resoconto rabbiosamente spiattellatogli delle “enormità” commesse al teatro Nazionale lo fece strabiliare addirittura.

«Ma come?… Ma come?… è incredibile!… A me non constava per nulla che si preparasse una montatura simile!… Se sono stati impartiti ordini severissimi, se….»

«Mio caro Triverna» lo interruppe il barone, con un “caro” pieno di molteplici significati «dove non c' è disciplina, c' è da aspettarsi di tutto. Non basta avere un codice: bisogna applicarlo, e senza debolezze. Minare la sicurezza dello Stato è o non è un delitto nel vostro paese?»

Triverna lo guardava costernato, approvando: la voce dell'ambasciatore gli pareva un preambolo di minaccia, e lo spettro d'un castigo colossale che piombasse sulla nazione spinto dal vento d'Altamagna lo riempiva in buona fede di paura.

«È giusto, è giusto: si provvederà. Ma non dobbiamo dare eccessiva importanza alle cose che ne hanno una molto relativa. La regina….» a questo nome lo sguardo del barone di Loën fece sì ch'egli s' imbrogliasse nella definizione «la regina è la regina, d'accordo…. Ma chi è una regina?… Una regina è sempre una donna, ossia un miscuglio di colpi di testa alimentati di leggerezza, senza convinzioni. E d'Anghelos?» ora proseguì più spedito «D'Anghelos è un poeta, ossia un uomo che costruisce le belle frasi…. Ma dal dire al fare!… Non esageriamo per carità, non esageriamo!… è un episodio staccato, e forse — anzi, certamente — nemmeno premeditato. Si mette la cosa in tacere: coloro stessi che stasera han fatto baccano, domani se ne dimenticano e non ci pensano più. La regina….» stette un momento esitante, poi abbassò la voce e si gonfiò, pettoruto come un piccione che fa la ruota «la regina la spediamo a Planacomba. In quanto a d'Anghelos, non diamogli corda, mostriamo di non occuparcene: quella è gente che, se non c' è l'eco della grancassa, non ha più scopo di gridare e si cheta sùbito. Garantisco, garantisco….»

Di tutto il discorso, l'ambasciatore non aveva ritenuto che una frase singolarmente apprezzabile: “La regina la spediamo a Planacomba.” Era lei, infatti, la più pericolosa. Ma gli sembrava una promessa presuntuosa ed azzardata: quella donnina magra e silenziosa aveva due occhi pieni di mistero e di fiamme, e doveva essere cocciuta come una puledra indomita. Certo, sarebbe stato l' ideale: cacciarla con una frustata a sbizzarrirsi nelle lande selvagge di Planacomba, e riportare questa bella vittoria al proprio governo contro l' imprudeńte coronata che dimostrava di tener tanto poco conto della volontà del re di Venustria e della terribilità punitiva dell'Altamagna.

Il barone si gettò indietro sulla spalliera della poltrona e socchiuse le pàlpebre. Voleva farla cascare dall'alto, e parlava storcendo la bocca a guisa d'uno che si induca a discutere per grande degnazione.

«Non sono io, mio caro, quello che considera i fatti avvenuti come una levata di scudi che possa impensierire sul serio…. Un'ubriacatura momentanea: la soddisfazione di gridare viva e di gridare abbasso, il gusto di sfrenarsi un po', di applaudire due periodi ben torniti…. A chi lo dice? Lo so, lo so: conosco il vostro popolo. Can che abbaia non morde. Buontemponi, beati loro, che hanno nel sangue il sole di Venustria: cielo ardente, ma sempre sereno. Tutte amenissime verità delle quali lei non ha bisogno di persuadere me. Ma provi un po' a farle intendere a chi ha altro per il capo che divertirsi, a chi non si pasce di chiacchiere, a chi lavora con ubbidienza, a chi non comprende le biricchinerìe d'una gente eternamente allegra e spensierata…. Sì, avrei un bel da fare a convincere i miei connazionali! Mi risponderebbero che il troppo affetto mi accieca e che, a forza di stare in questo paese, son doventato anch' io di pasta frolla e non so più salvaguardare gli interessi e la dignità del mio governo…. E avrebbero ragione! Anche ora — vede? — che cosa faccio, invece di prendere la via più semplice? Perchè ho chiamato lei? Perchè ho consigliato di mettere un po' di censura nei giornali? Perchè mi do la pena d'aiutarvi a smussare augoli e a stendere veli?… Il mio dovere preciso» si raddrizzò, ingrossò la voce e battè le mani l'una contro l'altra «era quello di riferire senza larvature accomodanti e…. e aspettare disposizioni in conseguenza.»

Tacque un minuto per rimirare l'effetto, e ne fu sicuramente lusingato, perchè addolcì con un risolino di scherzo la sua smargiassata tonante:

«Non basta essere un popolo musicale per far l'orecchio alla musica dei cannoni!»

Ghignettò un pochetto sulla propria intelligentissima freddura, e riprese il discorso con accento risoluto.

«Riepiloghiamo. Guardi: il mio spirito è conciliantissimo. Io considero la sua premura, caro Triverna, come una ufficiosa deplorazione del governo del re di Venustria e attendo che domani ella medesima venga a riconfermarmela. Per parte mia non farò scalpore nell'accettarla e le cose rimarranno tra noi. E uno. Secondo: Sua Maestà la regina Wanda sarà bene che si allontani al più presto per evitare il rinnovarsi degli incidenti spiacevoli e dei malintesi. Terzo: si provvederà con polso più fermo e con più vigili sguardi affinchè non siano compromesse, nemmeno apparentemente, le relazioni d'amicizia tra il vostro paese e l'Altamagna…. Mio caro Triverna, è tardi. Lei ha appena il tempo di appoggiare con la sua personale sollecitudine le disposizioni che ho consigliate al vicequestore. Domani poi, a mente calma, non dubito ch'ella verrà ad assicurarmi che i nostri desiderii sono comuni.»

Quando Triverna fu sulla porta, l'ambasciatore lo richiamò.

«A proposito!…» disse con noncuranza: certi “a proposito” buttati là in piedi in piedi nel momento del congedo somigliano quei doposcritti per i quali appunto una lettera è fatta «S' intende che non è desiderabile ci siano nè strepiti nè coltelli alla gola. Lei tasti il terreno…. Son cose che tanto meglio riescono, quanto più hanno l'aria di venir su da sè. Capisce, non è vero?… Perchè tutto passi liscio, io, pur tenendo gli occhi aperti, debbo sembrare, all'occorrenza, d'averne almeno uno un po' socchiuso. Lei mi tenga informato, senza precipitare nulla…. Io voglio sinceramente bene al vostro popolo….» sospirò, alzò braccia e sguardi al cielo «è una malattia che un diplomatico non dovrebbe avere, ma…. Epperò voglio sempre riserbarmi una via di scampo, finchè il mio governo non mi metterà con le spalle al muro.»

Triverna se n'andò, commosso da tanta magnanimità; e il barone, quando Straczy tornò dopo averlo accompagnato, si volse a lui interrogativamente.

«Che ne dice?… Lo avrò spaventato troppo?»

«No, no, Eccellenza!» rispose Straczy, convinto «Triverna è cotto a puntino: scivolerà morbidamente come un olio.»

«Bah!» esclamò Sua Eccellenza «Stasera abbiamo lavorato bene!»; poi si rannuvolò, strinse i pugni con rancore «Maledetto paese!… Se potessimo picchiarci sopra invece d'esser costretti ad accarezzarlo, in bricioli…. in bricioli vorrei che fosse ridotto! E bastone e capestro per questi insolenti che ci dànno tanto da fare!…»

Pare impossibile, ma per l'appunto quella notte il barone sognò che la regina di Venustria si liberava dalla forca drizzata per farle scontare i suoi peccati d' indipendenza, e che gli imperiali aguzzini legavano lui, proprio lui, e si preparavano a caricarlo con un sacco di legnate. Diè di volta nel letto, si destò, trasse un gran respiro nel ritrovarsi incolume e per il momento venerato ambasciatore d'Altamagna.

Anche Straczy sognò: che la principessa Della Falce piangeva inconsolabilmente; ma lui no, non ebbe refrigerio dal risveglio, e, quando furono dissipate ben bene le nebbie del sonno, affondò il viso contro il guanciale e pianse davvero, pianse come un ragazzo. Il giorno avanti, rendendosi al desiderio e alle suppliche di lei, le aveva restituito due lettere, un guanto e un taccuino di ballo.

Inutile dire che quella notte Triverna non toccò nemmeno le lenzuola e che turbinò senza posa da un ufficio di redazione all'altro dei giornali di cui poteva fidarsi, passando il resto del tempo in compagnia del questore e del prefetto. I giornali ritardarono la loro uscita di più che un'ora: alcuni avevano battuto in ritirata alla buona, sostituendo spontaneamente con qualche rimpinzatura letteraria gli articoli del famoso resoconto; altri, più ostinati o tali che non s'era osato affrontarli dirottamente, s'eran visti tarpare la lunga cronaca sui fatti del Nazionale e il relativo entusiastico osanna. Chi aveva assistito alla rappresentazione potè credere, spiegando con ansia il foglio quotidiano, d'aver sognato a occhi aperti; e la gran massa degli assenti non immaginò nemmeno quel che era accaduto.

Alle dieci e mezzo Triverna — che da tre quarti d'ora montava la sentinella nell'anticamera del re — fu ammesso finalmente in presenza di Albano che s' indugiava, liscio fresco e allegro come una rosa, dinanzi all'abbondante portata della prima colazione.

«Triverna mattiniero!» gli gridò il re «Facciamo penitenza insieme, compagno di molti dei nostri peccati?…»

Ma Triverna gli sgranava certi occhi da prèfica, quasi ad avvertirlo che c'era ben altro e che non era il momento di scherzare. Il re fe' un attuccio di fastidio: ostinato nel suo buonumore, non si affrettava a sbrigare i domestici per rimanere solo col latore delle notizie, e divorava di buon appetito, elogiando le uova freschissime, il prosciutto magnifico, i crostini eccellenti, il burro superlativo, il thè delizioso.

«Ah, Triverna!… Una fettina di questo prosciutto, eppoi morir!… E subito dopo una sorsata di questo thè per risuscitare!… Dicono che mangiare con coscienza sia una volgarità. Non è vero: i fasti della ghiottoneria sono regali quanto una collezione d'ori e di gemme.»

Il re era proprio allegro. Una fortezza stava per capitolare, e la fortezza si chiamava Orabile Jese.

«Sa?… Ho abolito il salmone, da qualche giorno. Un 'idea!…» e rideva, rideva «Mi parrebbe, se lo mangiassi, di masticare uno dei miei migliori amici conservato in scatola. Non lei, Triverna, non lei. Uno dei miei amici pesci: adoro i pesci. E benedico l'anima di mio zio che fu un ittiologo appassionato. Io mi domando come ho potuto vivere finora senza interessarmi all' Aquarium ch'egli mise insieme e dotò così principescamente…. Triverna, se morirò domani» a buon conto, dicendo questo, posò le punte dell' indice e del mignolo sul metallo della forchetta «desidero che sulla mia tomba sia effigiato un pesce. Non mi guardi con sospetto, Triverna, perchè sono in possesso di tutte le mie facoltà…. e che facoltà!»

Gettò, ridendo, il tovagliuolo: accennò ai domestici che portassero via, e scelse una sigaretta.

Quel giorno medesimo, alle due, Orabile Jese, prodigiosamente incuriosita dalla modestissima pesca cui aveva assistito col re e con i compagni alle capannucce del Viserno, sarebbe venuta, sola, per farsi guidare da lui nella visita all' Aquarium, la meravigliosa raccolta che il principe Eugenio Romagnano Paleologo aveva ordinata in uno dei padiglioni reali, profondendovi una spesa di qualche milione.

«Ed ora eccomi a lei.» disse Albano a Triverna, quando i domestici furono usciti «Cerchi di non darmi dei grattacapi, perchè oggi non mi voglio guastare il sangue.»

Ma Triverna, nonostante la raccomandazione, andò per le spicce e in tre minuti informò crudamente il re dell' avventura capitata al Nazionale la sera innanzi. Albano lo ascoltò senza interromperlo, addensando d'attimo in attimo un cipiglio tempestoso. Prima che l'altro cominciasse la narrazione del colloquio con l'ambasciatore d'Altamagna, egli, pallido e furente, scampanellò senza desistere finchè non ebbe messo a soqquadro tutta l'anticamera. Ordinò che chiamassero la regina, sùbito. Ordine fuor dell'usuale e poco riguardoso, ma dato in maniera che non c'era nè da esitare nè da replicare.

«Ah, perdio!» e Albano, in una terribile passeggiata traverso alla stanza, strapazzava ed urtava tutti gli oggetti che gli venivano sotto mano «Doventare un bamboccio alle cui spalle ci si permette di sfogare e sbizzarrire fantasie e capricci, questo no, mai!… Se lo deve levare dalla testa, se lo deve levare!… Triverna, no, stia zitto, non mi dica altro!… Non ho più la padronanza dei mei nervi…. Quando si abusa, quando mi si spinge fuor di misura, guai!… Si pentirà, questa volta…. Oh, se si pentirà!…»

Si fermò ed ammutì d'un tratto, credendo d'aver dinanzi la regina. Era invece la risposta al suo ordine.

«Sua Maestà la regina è partita stamane alle sette. Ha lasciato questa lettera.»

Albano non disse nulla: l' ira lo soffocava. Prese la busta, e congedò i messaggeri con un gesto che trinciò l'aria come una sferzata.

I sigilli saltarono:

«Parto per Planacomba. Ricorda la tua promessa. Wanda.”

Triverna non diede tempo alla collera del re di esplodere più formidabile una seconda volta. Le parole “è partita” gli avevano spalancato dinanzi un oceano di luce: ne domandò ad Albano con tale un lampo di speranza nella faccia subitamente rischiarata, che questi gli mostrò senz'altro il foglio firmato dalla regina.

«Partita?!… Per Planacomba?!… Vittoria!… Vostra Maestà non si dia pensiero. Tutto è accomodato.»

Il re fu messo al corrente dell' intervista con l'ambasciatore, dei rimedii escogitati e delle pretese di lui. Le cose andavano proprio per il verso voluto, e non c'era che da modificarne un punto ad uso e consumo del barone di Loën: Wanda cioè non era partita di sua spontanea volontà, ma l'ordine espresso in proposito dal re aveva avuto immediata esecuzione. Così avvenne che Albano si calmò, tanto più volentieri quanto meno era disposto quel giorno a turbare la sua serenità; e che Triverna, beato e orgoglioso come il deus ex machina che scioglie un nodo difficile e intricato, volò a riversare nel seno dell' ambasciatore d'Altamagna il gaudio del rapidissimo trionfo.

Alle due il re, dimentico ormai della burrasca, aspettava nel giardino l'arrivo dell'automobile della principessa Jese. Le andò incontro, a capo scoperto, giovine bello e gaio: Orabile, vedendolo avanzare di mezzo ai viali di verzura in fiore, ne fu abbagliata come dall'apparizione d'un semidìo.

Era strano quel loro idillio…. ossia, no, era una delle strofette dell'eterna canzone. Si erano sempre conosciuti, fin da quando Orabile s'era sposata al principe Ferdinando; ma allora Albano era tutto preso dalle grazie esotiche d'una vedova che non si sapeva bene se fosse una gran dama o una zingara, e, perduta l'occasione dell'abbacinamento a prima vista, non si era più curato della nuova venuta. Orabile, uscita di convento per passare a nozze col cugino ricchissimo e deforme, aveva fatto il suo ingresso nella vita senza riceverne sul momento nè gioia nè digusto: l'anima sua era come un bocciuolo cresciuto in un riparato cantuccio d'ombra, che perciò non conosce nè l'ardore del sole nè il rigore degli inverni: non accarezzava sogni e non pativa delusioni. Ma la corte di Venustria non era il convento, e a poco a poco il bocciuolo imparò a distinguere il gelo ed il raggio: il gelo fu il marito, certamente; il raggio sarebbe stato, forse, il re. E Orabile, spiando l'oriente nei minuti più tristi del suo inverno coniugale, finì davvero con l'aver negli occhi e nel cuore Albano e non altri che Albano. Più per imprudenza d' ingenuità che per cosciente civetteria, glielo fece capire; e, siccome era bella fragile e sottile, il re, naturalmente, si meravigliò di non essersene innamorato più presto. La rivincita di questa distrazione fu appunto l'assedio del quale Albano si riprometteva ora di cogliere il desiderato epilogo.

Orabile si appoggiò al braccio del re senza dir nulla: era spaurita della sua stessa audacia, e tutto nel suo viso e nella sua persona tradiva l'ansia della coscienza e l'abbandono della volontà. Egli se la sentiva vicina e palpitante come un uccellino cui la nota mano apportatrice del briciolo di pane o della fogliolina di lattuga stringa in una carezza troppo forte. Allora, poichè non sempre il suo capriccio si contentava dell'assalto violento, egli si indugiò a calmarla con una filza di discorsetti spensierati e spolverati con un po' di tenerezza.

«Si lasci guidare, cara. Non le ho preparato nessun trabocchetto. I pesci sono le creature più candide di questo mondo, ed io non le farò magìe nè di oceanine nè di tritoni. Odio la mitologia, perchè non m' è riuscito mai di capirci nulla. Saremo due bravi scolaretti che eseguiscono saviamente una giterella di istruzione.»

Passavano in mezzo alle rose, e Albano gliene offerse una vivida e superba.

«Che cosa vorrebbe di più?» esclamò, scherzando «Io la conduco al mare traverso alle vie terrestri, e colgo rose sul suo cammino…. Ma non mi sono nemmeno ferito ad una qualsiasi spinuccia, per concedermi il lusso di lasciarmi medicare dalle sue manine. Vede come sono prudente e poco romantico?»

La principessa incominciò a ridere senza perplessità: aveva ventidue anni, si divertiva, e il suo bel compagno la riprendeva garbatamente sull'orlo del precipizio dove lei due minuti prima si sarebbe gettata ad occhi chiusi, per farcela poi scivolare a grado a grado con una lucida ebbrietà di consenso.

In un angolo del giardino, nascosto tra il verde, era l' Aquarium: una costruzione bassa e tozza, con una tettoia tondeggiante e una porta larga che non avevano grande eleganza di linee e che, per la suggestione del luogo, ricordavano vagamente la sagoma d'una enorme balena arenata.

Gli ordini erano già stati precedentemente impartiti, epperò non si vedeva nessuno dei guardiani nè degli impiegati.

Solitudine silenziosa.

Entrarono, e Orabile scòrse subito nella saletta d' ingresso la ricchezza d'una imbandigione: il tavolino carico di fiori, d'argenteria e di dolciumi, e intorno due poltroncine e un divanetto.

«L'anticamera degli abissi marini» spiegò lui con un sorriso «si permette di ricordarci che siamo bipedi umani e che non ci nutriamo nè d'alghe nè d'acqua salata…. Ho dimenticato soltanto di comandare il servizio, ma suppliremo noi stessi. Le dispiace?»

«Vostra Maestà ha pensato a tutto!» e Orabile arrossì, perchè comprese che le sue parole potevano significare più di quello che volevano dire.

Ma Albano non mostrò di darvi peso, e la principessa, per nascondere la sua confusione, s'avvicinò alla tavola e piluccò un cioccolatino da un vassoio di squisitezze.

«Comincio sùbito…. e senza il permesso di Vostra Maestà. È grave!»

Il re la secondò allegramente.

«Tanto più grave, perchè lei mi chiama Vostra Maestà…. Ho dunque un nome così brutto?»

«Albano!…» arrossì un'altra volta, celò il viso nell' opulenza della rosa «Non oserò mai….»

«Eh, via!» la interruppe il re «Pensi che dall'osare all usare non c' è che una differenza di vocali. Si abituerà…. Le scelgo io un pasticcino?»

«Basta. Dopo.»

«Si dice “basta, Albano”.» ed egli imitò la voce di lei con un'acutezza d' intonazione così biricchina, che Orabile scoppiò a ridere e ripetè il comandamento.

«Ed ora» disse il re con comico sussiego «si dà principio allo spettacolo.»

La precedè, si appoggiò gravemente al basso pilastro che separava i rulli di due cancelletti girevoli: — infatti la domenica l' Aquarium era visibile al pubblico. —

«Il biglietto, signora?» e le afferrò una mano al passaggio.

Ella rimase presa tra le due ringhierette d'acciaio che s'univano ad angolo, perchè il re aveva messo in opra il meccanismo ma non aveva lasciato scattare tutto il movimento.

«Prigioniera!» esclamò Orabile con una mossettina eccitante di terrore.

«Quanto vuol pagarla, la sua libertà?»

«Questa rosa?» e la avvicinò alle labbra prima di porgergliela.

Albano rifiutò.

«Non si rende mai al prossimo nostro ciò che esso ci ha dato…. Specialmente quando ci si mette dentro un filtro di dolce veleno.»

«E allora?»

Orabile lo guardava con gli occhi brillanti e timorosi.

«E allora un bacio, si sa: l'unico prezzo che valga la pena.»

La principessa riversò indietro il capo ed il busto.

«Che pena?»

«La pena di darla in pasto ai pesci invece che al povero Albano.» rispose il re, compunto.

Ella si piegò verso di lui, offrendogli la fronte.

«Qui.»

Ma il bacio unì le loro bocche.

«Avanti!» disse Albano, quando il volto di Orabile gli sfuggì: manovrò il congegno, e in un momento fu di nuovo presso a lei ch'era entrata.

Orabile s'allontanò sùbito dal re il quale voleva prenderle il braccio.

«No, no…. Il “povero Albano” è troppo pericoloso. Esige la premeditazione, e questo è un abuso di autorità.»

«Sa?» egli fece, ridendo «C' è della gente che si sente molto soddisfatta nel rimirare i suoi legittimi sovrani. Per esempio…. me. Ecco la scena. Io sono in automobile, e l'automobile scivola via a discreta velocità. Un passante mi adocchia, ma è un lampo: s'è accorto ch'ero io, quando non c'è più rimedio nè d'attenzione nè di curiosità. E il passante si rammarica: “Ah, se l'avessi saputo…. Avrei potuto vederlo proprio bene!” Non le pare che l'esempio calzi?»

«Vanitoso!» esclamò Orabile, teneramente minacciandolo.

Albano, rapido, la baciò d' improvviso sul collo.

La principessa si liberò con un piccolo grido.

«Vede?» commentò il re «Esempio pratico!… No, no, no; non si arrabbi: non ricomincerò più, se lei stessa non me lo ordinerà.»

«Io?!»

«La filosofia insegna che non bisogna mai stupirsi di nulla…. Daltronde, se lei è così sicura, sarà anche tranquilla per la condizione che le ho posta, noh?»

Orabile sospirò.

«Non è possibile tenerle il broncio!… Ma, a proposito, e i pesci?…»

Guardò intorno. Doveva esserci una radicale diversità tra le espansioni del principe gobbo e quelle del bellissimo re, perchè ella vide soltanto ora la caratteristica del luogo dove si trovava. Un androne ampio e lungo che piegava ad arco e, svolgendosi in un disegno ovale, si ricongiungeva, seguendo l'altro braccio simmetrico, col punto di partenza. Le pareti, da una certa altezza in su, eran di cristallo e formavano delle grandi vasche rettangolari e distinte nelle quali i pesci guizzavano. Non c'era altra luce che quella filtrata dall'alto traverso alle masse dell' acqua: una penombra mutevole vitrea e verdognola che ricordava il fondo increspato della sabbia sotto la mobilità delle onde.

«Oh, com'è buffo!…» esclamò la principessa in estasi, battendo le mani.

«Ma davvero non c'era mai stata?»

«Dice un proverbio che non si portano nottole ad Atene, e invece c' è da scommettere che gli ateniesi non abbiano mai vista una nottola. Così io: avrei potuto venirci chi sa quante volte, ed è la prima che ci metto piede…. Oh, carini carini carini! Che cosa sono questi?… Sembrano d'argento!»

«Che cosa sono?… NOn lo so. Del resto c'è scritto sotto. Io faccio sempre dei corsi pratici, perchè odio le teorie. Sono pesci, e lei si diverte a guardarli: questo è l' importante. Che poi si chiamino bolopotocantrix polipinnicordata, oppure….»

«Ma no!» lo interruppe Orabile, leggendo il cartello «Non c' è scritto mica come dice lei!… Ah, ma non mi canzoni! Se l' è inventato lei questo nome terribile.»

«E gliene inventerò anche degli altri, se si ostinerà a volersi istruire in tutte le regole…. Lasci andare: non è il nome che conta. I nomi non significano nulla, o significano tutto il contrario. Io mi chiamerò Albano anche quando sarò vecchio e sarò per conseguenza più vicino al tramonto che all'alba. E lei si chiamerà Orabile anche quando….» non terminò la frase, e guardò la principessa con un risetto malizioso «No, non voglio che mi sgridi!»

«Anche quando?… Tanto si tratterà d'una impertinenza, ed io ormai sono rassegnata.»

«Anche quando non si farà più pregare!»

«Ah, se non fosse Sua Maestà Albano II etcetera etcetera!…»

«Che cosa mi direbbe?»

«Mostro!» e gli gettò questa parola sul viso come se fosse un bacio.

«Accettato. La telegrafia è un mezzo un po' incomodo per le cose che hanno un valore tangibile, ma bisogna contentarsi…. Eppoi l'amore è il rovescio della civiltà e del progresso.»

«Ossia?»

«Si comincia con le raffinatezze, e si finisce….»

«Zitto! Non scandalizzi i pesci!»

«I pesci…. mangiano la foglia.» disse lui, accennandole una bocca tonda che si apriva e si richiudeva come un sacco intorno a un detrito erboso navigante a mezz'acqua.

Orabile, ridendo, passò spontaneamente il suo braccio sotto quello di lui.

«Guardi bellino!… Ci son gli scogli e le pianticine.»

«Credo che anche le piante siano animali, sa?»

«Ma no, quelle no. Il corallo è un animale, e….»

«E io sono una bestia. Non si fidi delle mie informazioni, perchè correrebbe il rischio di pescare dei granchi.»

«Dio, com'è in carattere oggi!»

«Color locale. Mi intono. A somiglianza di quella specie di ignoti molluschi — li vede? — che fanno gli ipocriti su quel mucchietto di sassolini.»

«Dove?… Oh, curiosi! Davvero: non si distinguono nemmeno. Come si chiamano?»

«E dàlli!… Sono camaleonti marini.»

«Uh, i gàmberi!… Via, via, lesti, lesti!»

«Camminano all' indietro.»

«Bravo! Questo lo sapevo anch' io.»

«Cercherò d' insegnarle qualche cosa che non sa.»

Orabile gli strinse il braccio, e si scambiarono uno sguardo che li trapassò di languore.

«È acqua dolce?» domandò lei, remissiva, col volto un po' piegato, e con gli occhi che lo cercavano di tra le ciglia socchiuse.

«Dolce?!… Non sono mica trote! è acqua marina.»

«Di quella vera?» insistè Orabile col medesimo giuoco.

«No, finta.» la canzonò Albano lietamente «Epperò il sale è tanto rincarato!… Ma le par possibile, piccola ignorantissima creatura? è acqua marina autentica e corrente. Un condotto lungo ventisei chilometri che la porta dal mare, e un tubo di scarico. Sembra che sia una cosa semplice, ma dev'essere certo complicatissima. A mio zio ci vollero non so quanti anni di lavoro e non so quanti milioni…. Poteva contentarsi di erigere l' Aquarium su una spiaggia, e invece gli piacque d'avere i pesci vivi a domicilio. Pover uomo! Morì quindici giorni dopo l' inaugurazione…. E c'è acqua di tutte le temperature: caloriferi e frigoriferi che funzionano con una precisione da albergo o da sala anatomica di primissimo ordine.»

Proseguirono nella visita: ora vedevano dei pesci grossissimi, argentei, che si traevano verso di loro e rimanevano ostinatamente ad ammusare il cristallo, agitando appena le pinne.

«Che faccia stupida!» disse Orabile, stendendosi a picchiar le nocche contro il vetro, senza ottenere che quelli si spostassero.

«Perciò sono animali a sangue freddo!»

Uno infine s' innalzò, preceduto da una colonna lucidissima di bomboline d'aria. Giunto quasi alla superficie oscillò obliquamente con la testa sul pelo dell'acqua, poi venne giù velocissimo e s'acquattò dietro uno scoglio.

«Vuol vedere le tartarughe?» invitò Albano «Eccole lì, e, naturalmente, non si muovono.»

Erano tre, enormi: parevano di sasso.

«Gliel' ho detto?… Raramente si ha la fortuna di coglierle in moto. Se non facessero la cura iodurata, soffrirebbero di podagra.»

«Zitto, zitto!» avvertì Orabile «Ce n'è una che si sveglia.»

L'animale aveva allungato il collo scuro e serpentino e i suoi minuscoli occhietti brillavano come capocchie di spilli. Un momento dopo lo scudo si sollevò, remeggiato dalle quattro zampe annaspanti.

«Ih!» rabbrividì la principessa, arricciando il nasino «Di sotto sembra già morta.»

Infatti l'incrostatura pallida del guscio inferiore aveva una tinta livida e giallognola che distolse Orabile con un' impressione di nausea.

«Le murene.» informò il re, accompagnandola «Se la memoria non mi tradisce, i patrizi latini facevano svenare i loro schiavi per darne il sangue caldo caldo a queste ghiottissime signore qui.»

«Brutte!» esclamò Orabile, avvincendosi più tenacemente contro la spalla di Albano.

«No, perchè?… Guardi come sono eleganti. Sembrano spirali arabescate…. Hanno del rettile, della pantera e del levriero.»

«Eppoi?»

«Non le pare abbastanza?… Brutte no, no lo dica: sono armoniche; e si annodano e si snodano con un accordo così preciso che si giurerebbe abbiano preso lezione di ballo.»

La principessa si raggricciò tutta, immaginando il contatto scivoloso e gelido di quegli anelli avvolgenti.

«Che terrore un bagno là dentro!»

«Se si sgomenta per tanto poco» la ammonì burlescamente il re «sarò costretto a non mostrarle lo spettacolo più interessante della raccolta.»

«Che cosa?»

«I polipi.» disse Albano «Quelli fanno un certo senso anche a me.»

Orabile si volse, incuriosita.

«Dove sono?»

Egli rise.

«Non ha paura, dunque?»

La risposta fu un lungo sguardo, ed un susurro:

«Sono con lei!…»

Il re la condusse dinanzi ad una vasca tutta biondiccia e terrea di sabbia: pietrami porosi qua e là, più grandi e più piccoli. Non un movimento, a prima vista: l'acqua era come stagna. Ma, di tanto in tanto, un tremolìo morbido…. un che di misteriosa e viva mostruosità. Quelle che sembravano pietre, le più piccole, si gonfiavano eppoi cedevano con un ritmo impercettibile: ammucchiamenti di rena, forse, un po' fangosi?…

«Ah!» gridò Orabile, istintivamente riparandosi dietro al suo compagno.

Due occhi tondi, neri, sorgenti da quella melma, si dondolavano lenti ed obliqui: trovata la lor mira, vi conversero immobili e inquietanti.

«Guarda me!…» articolò la principessa, ossessionata dall' illusione.

Albano le circondò con un braccio la vita, se la trasse un'altra volta al fianco.

«Guarda me, guarda me….» ripeteva Orabile, ghiaccia di ribrezzo.

Pure i due occhi torbidi, che si velavano talvolta d'una bianchiccia e molle membrana, la affascinavano stranamente.

«Che orrore!… Che orrore!… Che bestiaccia!…»

Un dei tentacoli si svincolò da quel sacco di fango, s'agitò come una frusta, esibendo l' immonda voracità delle ventose rosee ed aperte; poi un altro, e un altro ancora: ridda spaventevole intorno alla quiete mostruosa del corpo ributtante.

Il re stringeva sempre più contro di sè il fremito della personcina aderente che non gli resisteva.

«Esser presi da quelle spire…. Pensi!… Allacciati così…. forte…. forte…. sentirsi portar via la vita….»

Orabile gli piegò il capo sulla spalla, chiuse gli occhi e gli porse le labbra.

Dopo, più che condurla, Albano la portava quasi: con tanto abbandono ella gli s'era attaccata.

«È stanca?….» le domandò il re «Non vuol vedere più nulla?… Nemmeno le meduse?…»

Orabile faceva di sì con la testa, senza parlare.

«Quelle sì?… Le meduse sì?…»

Si fermarono davanti all'ultima vasca.

«Le piacciono?»

«Sì” diceva sempre lei col cenno ripetuto; ma le trasparenze azzurrine e iridate che stavano, pendule nell' acqua, come lampadarii di cristallo le si confusero alla vista quasi in un sogno….

Il barone di Loën, il re, Triverna e gli altri interessati avevan potuto credere per un momento che la “chiassata” del teatro Nazionale si risolvesse senza lasciare tracce, come una bolla di sapone. Breve illusione. Il testo del discorso di d'Anghelos correva da una mano all'altra poligrafato in mille copie; le dimostrazioni pubbliche urgevano in tutte le riunioni e in tutte le piazze, e, propagandosi dalla capitale fin nelle estreme terre di Venustria, non valevano a soffocarle nè sorveglianza nè repressioni: daltronde, qua e là anche i funzionari cedevano e lasciavano scender l'acqua per la sua china. Il nome di Stefanolo di Planacomba era sulla bocca e nel cuore di tutti; ed i giornali, non potendo apertamente dar eco alla voce popolare che già lo diceva pronto ad assumere il comando degli eserciti, dedicavano al piccolo duca lunghi articoli di aneddoti la maggior parte inventati che pur riuscivano ad imporne sempre più la figura un po' velata di mistero e di romanticherìa.

L'ambasciatore d'Altamagna viveva in continuo affanno: stava ingoiando più bile in quei giorni che non in tutto il tempo della sua onerosa carriera. Triverna era ormai il depositario quotidiano dei suoi anatèmi folgoranti, e si faceva in quattro per obbedire alle imposizioni del barone il quale, nonostante il perpetuo aumento della propria terribilità minatoria, s'acconciava poi ad una quantità di ripieghi e di transazioni che riempivano l'anima di Triverna d'una trepida e commossa riconoscenza per tanta generosità conciliante. Egli era doventato il galoppino dell'ambasciata, portandone fuori lampi e fulmini e riportandovi dentro promesse ognor più incerte ed elastiche. E il barone di Loën seguitava a friggere, scottandosi senza require tra la padella e la brace. Il palazzo era guardato notte e giorno da squadre di agenti ch'erano costretti spessissimo ad arginare gli sbocchi delle vie adiacenti per impedire le ostilità della folla. L'automobile dell'ambasciatore, ben nota ai cittadini, era stata sostituita con quella privatissima di Straczy: il personale diplomatico dell'Altamagna si nascondeva al pubblico più che gli era possibile.

A questo parossismo s'era giunti, naturalmente, per gradi; così che la boria del barone di Loën aveva anche potuto sostenere qualche aspra schermaglia riuscendone vittoriosa, se non altro, nell'apparenza. Una di queste era stata provocata dal duca di Varo.

Infatti, quando Valentino, due giorni dopo la serata del Nazionale, ebbe modo di sapere da che pulpito e con che prediche era stato imposto il silenzio ai giornali, sentì salirsi agli occhi una vampa di sangue: ira e vergogna. Egli attraversava un di que' periodi di tristezza in cui l'anima patisce ogni impressione dolorosa con un senso quasi cosmico, confondendo e riassumendo nelle proprie riflessioni tutto ciò che vi ha d'amaro nella vita degli uomini, così le piccole come le grandi miserie materiali e morali. Concezione che crea gli apostoli, se i nervi son saldi, e traduce i sogni in realtà; ma gli apostoli son rari…. e allora questa, avendo l'aria del contrario, è forse la meno umile e più egoistica forma d' intendere la sofferenza, perchè presuppone una smisurata coscienza dell' io assurto a comparatore e, in certo modo, a giudice degli atti umani. Il duca era appunto in uno di tali momenti, quando le notizie gli furono comunicate dal delegato in grazia del cui patriottismo d'Anghelos aveva potuto solennemente asserire la dignità della nazione. Egli si sentì come investito del diritto di rivendicare il decoro del popolo con tanto grossolana ingerenza calpestato dal barone di Loën, nè seppe discernere i limiti del còmpito sociale che s'attribuiva da quelli dell' irrequietudine spirituale che reclamava da lui uno sfogo di gesti concreti.

Si presentò al palazzo d'Altamagna e fece passare al barone il suo biglietto. L'ambasciatore e Straczy si guardarono: il duca di Varo da tempo ormai aveva interrotto le relazioni ch'erano state sempre molto superficiali, e daltronde essi non ignoravano le sue simpatie e le sue antipatie politiche. Il primo impulso fu quello di non riceverlo, ma pensarono ch'era meglio non esasperarlo per non esporsi alla probabilità di farsi dire in pubblico ciò ch'egli veniva ora a dire in privato. Valentino fu dunque introdotto nello studio dell'ambasciatore, il quale, accennando un mezzo inchino amichevole tra il seggiolone su cui era seduto e la tavola dinanzi a cui si trovava, lo accolse con un sorriso gentilissimo. Vedendo che il duca teneva tutt'e due le mani chiuse sul cappello, stimò più opportuno di mostrar le proprie occupatissime tra le carte e i dispacci per evitare che gli fosse rifiutato il consueto saluto che si scambia tra persone le quali s'incontrano con l'apparenza almeno della cordialità. Straczy, in piedi dietro la poltrona del barone, fe' appena un cenno con la testa.

«Benvenuto, signor duca…. Favorisca, la prego.» Valentino s'avanzò, tacendo «S'accomodi…. s'accomodi….» Valentino, sempre zitto, declinò l'invito con un gesto «Un momentino solo…. Le chiedo un solo momentino, e sono a sua disposizione.»

Silenzio.

L'ambasciatore firmava alcuni scritti e li consegnava a Straczy che li deponeva, via via, sopra un mobile vicino: avrebbe voluto, nel frattempo, indovinare quello che il duca di Varo gli preparava, ma non gli riusciva di capire esattamente da che lato sarebbe partito il colpo. Si decise a posar la penna, e rivolse di nuovo un sorrisetto a Valentino.

«A che dunque posso ascrivere la fortuna?…» e aspettò, dissimulando la perplessità che lo invadeva.

Valentino non rispose subito: la sua faccia pallida e seria non prometteva nulla di buono, e già l'ambasciatore si domandava se dovesse difendersi da parole o da violenze, quando la voce calmissima e sufficientemente cortese del visitatore venne, per il momento, a rassicurarlo.

«Son qui per esporre con lealtà uno stato di cose che sarà bene per Vostra Eccellenza di non ignorare. Sarebbe tedioso che gli incidenti si ripetessero, elevando a sistema un provvedimento dettato — amo crederlo — da una distratta o, per lo meno, eccezionale valutazione.»

«Permetta, permetta!» disse prontamente il barone, che, pur non avendo bene inteso dove la botta volesse andare a parare, stimò meglio tracciare una linea di confini decisi «Se ella, col suo discorso, allude ad affari privati, io sono dispostissimo a favorirla per quanto sta in me. Ma se, per ipotesi, si dovesse entrare nel campo delle mie pubbliche attribuzioni, debbo prima domandarle con quale veste ella si presenta…. Forse un incarico di Sua Maestà il re?»; non gli diede il tempo di replicare, e con maligna ingenuità si affrettò a soggiungere: «Ella è uno degli intimi di casa reale, ed è uno dei sudditi più fidi e devoti. Nulla di più naturale che Sua Maestà la abbia scelta come intermediario: tanto lei che io ne conosciamo le idee…. Mi basterà quindi la sua parola, senza che ella mi mostri nè scritti nè credenziali.»

Evidentemente Valentino fu sbalestrato da questo preambolo, perchè indugiò a rispondere. Allora l'ambasciatore appoggiò beatamente il capo sulla spalliera del seggiolone, e guardò il suo interlocutore di sotto in su con un altro sorriso che non avresti saputo se perfido o incoraggiante.

«Dunque, signor duca, la ascolto.»

«Non vengo per parte del re.»

«Ah!…»

Ma il giovine non lasciò che l'esclamazione assumesse una più esplicita forma oppositiva.

«Vengo per parte del popolo, e….»

«Deputato di quale collegio?» fece il barone con un' ironia di falsa bonarietà.

«E» proseguì Valentino senza rilevare l' interruzione «non entro che per metà nelle attribuzioni pubbliche di Vostra Eccellenza, perchè quello che mi occupa non è il prodotto di una funzione pertinente alla carica di ambasciatore, ma è il risultato di una iniziativa personale che perciò cade sotto il controllo di chi ha occhi e coscienza e non soltanto di chi ha un certo impiego o un certo ufficio.»

«Non capisco.» disse l'ambasciatore, con un lieve atto, impaziente «Ma la esorto a riflettere se non sia il caso di rimandare il nostro colloquio al giorno in cui ella avrà potuto stabilire con maggiore chiarezza il carattere pubblico o privato, o per metà pubblico e per metà privato di ciò che la occupa…. Le faccio osservare, mio giovine signore ed amico» e ritrovò un tono di faceta e conciliante protezione «che io sono occupato per davvero, e molto, e non in filosofiche speculazioni intorno alle responsabilità pubbliche e private.»

Un vivo rossore imporporò le tempie del duca, che represse a stento un movimento di collera: tanto più che il barone aveva accompagnato le ultime parole con un'occhiatina di già trionfante intesa verso Straczy.

«Vostra Eccellenza ha torto di volere scherzare. E, se mi si costringe a chiamar le cose col loro nome, dirò che la sua ingerenza nelle faccende interne d'uno Stato dov'ella è rappresentante d'una nazione straniera è una scorrettezza che non siamo disposti a tollerare.»

L'ambasciatore alzò il pugno per calarlo giù sulla tavola, ma trattenne la mano a mezz'aria e riprese sùbito la padronanza di sè.

«Lasci!» intimò contemporaneamente a Straczy che stava forse per ribattere con asprezza; poi, indirizzandosi a Valentino: «Cioè?… Ma badi: la consiglio di evitare le frasi grosse, perchè ho la coscienza di non aver fatto nulla in disaccordo dal suo sovrano, epperò le sue stoccate andrebbero più oltre e più in alto della mia persona.»

Valentino si morse le labbra.

«Sarebbe strano» continuò il barone «che dovessi io salvaguardare contro lei la dignità del suo monarca… Ed ora si spieghi. Ho appena cinque minuti da dedicarle.»

Il duca perdeva terreno: lo scudo satanico dietro cui si difendeva l'ambasciatore era tale da spuntar molte lance anche meglio temprate. Che dire?… Rinfacciare i particolari della famosa telefonatura col vice-questore sarebbe stato un invischiarsi nel pettegolezzo e nella piccinerìa. Egli lo capì; e, avendo smarrita tutta la sua calma, trasmodò violentemente.

«Non giuochiamo d'astuzia, la prego. Giù la maschera! Non le basta che il popolo sia in tumulto? Si contenta di star sulla corda, raccomandandosi a Tizio e a Sempronio?… Ma dunque avete proprio paura in Altamagna, se chiudete gli occhi e vi tappate gli orecchi per non vedere e per non udire quello che accade nel nostro paese!…»

Straczy, con un balzo, aveva girato intorno al tavolino ed era venuto in faccia al duca.

«Lei mi renderà conto….»

Valentino alzò la voce, pronto a prevenire ogni gesto.

«Io le renderò conto di tutto ciò che lei vuole, ora e sempre, e….»

Il barone di Loën s'era interposto tra i due giovani.

«Non le permetto» gridò vibratamente a Straczy «di rilevare parole che non sono indirizzate a lei. Il signor duca di Varo ha chiesto di me, ed io solo — nessun altri — debbo rispondergli.»

Straczy, pallidissimo, non fiatò.

«In quanto a lei» proseguì l'ambasciatore rivolto a Valentino «son sicuro che vorrà scusare l' intromissione.»

Il duca guardò Straczy, e, come lo vide doventato verde da pallido che era, ma silenzioso e obbediente, tacque anch'egli, con un segno che poteva parere un assenso.

«La prego.» disse il barone, porgendo al suo segretario un fascio di carte «Faccia passar sùbito queste negli uffici di protocollo.»

Il visconte s' inchinò. Uscì immediatamente senza far parola.

L'ambasciatore allora si avvicinò a Valentino.

«Benedetta gioventù!» esclamò, sospirando «Bella età!… Bella età!… Si prende fuoco come zolfanelli!»

Poi, a forza, infilò la destra nel braccio del duca, avviandolo insensibilmente verso la porta.

«Cortesìa per cortesìa!… Non insista. Lei ha detto delle cose» e rise rumorosamente per attenuare la portata del suo discorso «delle quali un decimo sarebbe bastato a farmi provvedere contro qualsiasi altro come contro un ingiuriatore non della mia persona, ma della mia stessa carica…. No, no, no. Non si giustifichi!…»

Valentino, col sussulto che avea provocato l'ammonimento del barone aveva ben altra voglia che di giustificarsi; ma quegli era volpe fina ed ebbe buon giuoco dello stordimento e dell' inesperienza di lui.

«Non si giustifichi» ripetè «perchè io sono indulgentissimo verso le intemperanze dei giovani…. Avete la testa calda, e credete che un po' di febbre valga a risolvere le questioni più ardue…. Un tantino di pazienza da parte di chi ha i capelli grigi, e non c'è nulla di guasto!… Facciamo così….» e aperse l'uscio, toccando, al passaggio, il bottone d'un campanello «Io farò conto d'aver ricevuta una lettera che le ho restituita senza leggerla….» e sospinse Valentino sulla soglia «Anzi, essendomi accorto che l' indirizzo non era per me, lascio a lei la cura di portarla a chi di dovere….» e un'altra spintina che mise Valentino al di là della soglia «Se poi, rettificando il recapito, ella avesse occasione di vedere Sua Maestà il re, mi farà cosa gratissima umiliandogli i miei più devoti omaggi….» e si ritrasse, con un sorriso mellifluo, chiudendo la porta tra sè e il duca che due domestici scortarono fino all'uscita.

Valentino si ritrovò in istrada senza saper nemmeno in che modo. Ma sùbito un furore concente e disperato prese il luogo dello stupore che da dieci minuti lo faceva muovere e camminare a guisa d'un automa.

«Ah, imbecille, imbecille che sono!…» e cominciò un sermone pieno d'amarezza contro sè stesso «Mi sono fatto trattare come un bambino e come un idiota!… Sono andato, credendo di incutere paura, e li ho mossi al riso…. Tutti e due!… M' han dato a bere la storiella delle scuse, e io ci son cascato dentro da vero imbecille!… Non me la perdonerò mai, mai, mai!… Un duello?… Straczy è furbo e il barone più di lui…. Un duello in quelle condizioni e per quei motivi sarebbe stata la rovina certa della politica accomodante dell'Altamagna. Commedia, commedia!… Irritazione falsa, ritrattazione più falsa ancora. Ed io ci son cascato!… Imbecille, imbecille!… E, come se fosse ancora poco, mi son fatto mettere alla porta, mi sono lasciato schernire e vilipendere…. Dunque è destino che, dove pongo le mani, tutto debba crollare?!…»

Egli doventava ingiusto, e sprofondava in un collerico abbattimento che non gli dava pace. Si sarebbe schiaffeggiato, e si giudicava con un sarcasmo atroce e senza attenuanti.

«Non è bastato neppure l' insulto…. Non mi hanno preso sul serio. E mi sta bene, perchè sono un imbecille…. Quel barone del malaugurio ha ragione da vendere, se agisce così: ha sempre intorno gente che lo accarezza, e chi — come oggi io — lo vuol mordere, va invece a recitar la parte del grossolano e del vigliacco…. Ma, a corto di diplomazia, dovevo mettermi a fare il matto, piuttosto, obbligarli a consegnarmi in mano delle guardie, provocare uno scandalo, un processo…. Ad ogni costo, insomma, andare in fondo…. E nossignori, no!… Ho perduto la parola, ho presa una ignobile commedia per moneta contante di sincerità,… e n'è seguìto quello che n' è seguìto…. Imbecille, imbecille, imbecille!…»

Un amico che lo incontrò lo fermò per domandargli:

«Che hai?»

«Nulla.» rispose Valentino, seccamente.

In realtà era stravolto.

L'altro non insistè, e lo lasciò andare, guardandogli dietro.

Pure quelle poche parole scambiate ricoudussero il duca in terra dall' inferno in cui s'era cacciato. Si ricordò ch'era invitato a colazione dai Pietracamela. Fu tentato di scrivere un biglietto per disimpegnarsi, ma l' immagine di Franca lo attrasse con tanto maggior potere quanto più gli pareva di sentirsene indegno per la goffa inettitudine di cui aveva fatto prova allora allora. Guardò l'orologio: le dodici: il tempo necessario per essere puntuale.

Arrivò in casa del cugino di malumore, pentendosi appena entrato d'averci messo il piede. Trovò Franca seduta sul bracciuolo della poltrona dov'era il marito ed appoggiata alla spalla di lui: leggevano insieme una lettera, ridevano, e le loro teste si sfioravano. La marchesa si levò subito, con una vampata di rossore sul volto; gli mosse incontro e lo salutò cordialmente.

«Duca di Varo, ossequii moltissimi!» esclamò Leonardo con scherzevole voce cavernosa, tendendo la mano al giovine.

Poi gli domandò:

«Lo sai che si parla di mobilitazione immediata?»

Valentino trasalì.

«Notizia sicura?»

«Sicura per quanto può esserlo una notizia in questi tempi. Ma la fonte è…. è ineccepibile.»

Il marchese di Pietracamela si compiaceva spesso d'un tono comicamente enfatico, anche nelle cose più serie.

«Chi?»

«Costanzo.» disse Leonardo, godendosi l'effetto.

«Il generale?!»

«Il generale Costanzo in persona: carne, ossa ed anima. S' intende che non me l' ha spiattellato chiaro e tondo, ma….»

«Pare che si faccia sul serio questa volta.» interloquì Franca.

«Sai che rientro nei ranghi?» fece Leonardo alzandosi e ponendosi sugli attenti «Rettifica anche tu la posizione!… Maggiore di cavalleria: un'anzianità fenomenale.»

La signora rise.

«Lasciando l'esercito, era appena tenente…. è lei, Valentino, che grado?»

«Caporale…. e ringraziare Iddio!» rispose il duca «Quando fu il mio turno, mi piacque fare il soldato semplice e comune come i miei contadini.»

«Il tuo spirito democratico ti onora…. Tanto più che ti mette in ordine e in sottordine ai miei magnanimi comandi!…»

Un domestico annunziava il principe di Cerito.

«Eccolo un maggiore autentico!» disse Franca, mentre Ruggero entrava.

«Chi lo poneva in dubbio?» interrogò il principe ridendo.

«Zitto tu, scienziato. Non fai parte della massa combattente.»

«Altrochè!» rimbeccò Ruggero con grandissima aria «Sarò medico ed ultra-combattente. Come la lancia d'Achille: ferirò e guarirò. Mi faranno generalissimo sul campo, vedrai!»

«Per il momento ci dia notizie di Maria. Sono arrivate?»

«Un po' di pazienza, marchesa!… Arriveranno stasera. Non sa che Planacomba è quel che si dice lontanuccia?»

«Planacomba?» s' informò Valentino «Chi c' è andato?»

Ruggero e Leonardo gli rovesciarono addosso un coro d'amichevoli burlette.

«Costui non sa mai nulla!»

«L'abitante della luna!»

«Scusate, signore, sapreste dirmi dove ho la testa?»

«Poeta!»

«Uomo che casca dalle nuvole!»

Il duca li ascoltava con un sorriso un po' forzato: non era in vena d'allegrìa, e sentiva, arrabbiandosi sempre più contro sè stesso, d'essere impigliato in una rete di contrarietà personali che gli stringevano il respiro in un cerchio di egoistica malavoglia. Franca gli venne in soccorso.

«Ma lasciatelo stare!… Non dia retta, Valentino. Si tratta della regina e della principessa di Cerito che son partite l'altra mattina per Planacomba. Lei non poteva saperlo, perchè la partenza è stata improvvisa e perchè noi stessi ne abbiamo avuto notizia da una lettera impostata alla prima stazione di passaggio, e conferma da una telefonatura di questo signor medico ultra-combattente.»

«Fortunato!» gli disse Ruggero «Le belle signore ti difendono!…»; poi, a Leonardo: «Hai dieci minuti di tempo? Dopo colazione io debbo scappare sùbito, e, se la marchesa e l'amico permettono….»

«Un conciliabolo?… Andate pure.» assentì Franca, dando un'occhiata all'orlogio che portava al polso «Quando ci avvertiranno che le vivande fumano sul desco, avremo la temperanza e la virtù di aspettarvi.»

Il marchese di Pietracamela condusse il principe nel suo studio. La comunicazione era questa: che Ruggero aveva ricevuto da sua moglie un dispaccio così concepito: “La mia compagna ti prega di mettere al corrente di tutto il marchese Leonardo di Pietracamela il quale dovrebbe assumere con te la stessa carica che sai e che eventualmente ti verrebbe affidata. Il marchese potrà informarne Franca. Discrezione. E Dio ci aiuti. Maria.”

Ruggero di Cerito — sua moglie aveva detto giusto — non si meravigliava mai di nulla, pur interessandosi di tutto; era un po' come un bambino che le avventure straordinarie divertivano anzi singolarmente, e per lui non esistevano nè difficoltà nè cattivi pronostici. Ottimista, volenteroso e semplificatore all'estremo: questi i punti salienti del suo carattere. Ragione per cui egli non si trovò affatto imbrogliato a sbrigarsi della sua commissione, e la espose come se si trattasse d'una cosa molto ovvia e naturale. Leonardo, ascoltandolo, era combattuto tra l'attonimento e la commozione.

«E Costanzo lo sa, proprio, è d'accordo?»

«Lo sa di certo, e, almeno in linea generale, non s' è opposto. Daltronde lascia dire che il granduca Stefanolo sarà il capo dell'esercito e prepara la mobilitazione. Conoscendo i fatti quanto li conosciamo noi, questo mi pare significativo, noh?»

«è incredibile!»

Il principe si strinse nelle spalle.

«Anche Maria è…. strabiliata. lo poi non ci vedo tanto nero. Questione di temperamento, dice Maria. Sarà. Ma l'esperienza insegna che l'impossibilità è sempre relativa. Tutti abbiamo una vena di pazzìa. Forse è quella che ci rovina, ma forse è anche quella che ci sostiene. Imponiamo a una donna di fare ciò che la regina si elegge di spontanea iniziativa, e questa donna sentirà il peso psicologico e fisiologico della sua femminilità e sarà materialmente e moralmente incapace d'eseguire il còmpito affidatole. Prendiamo, come riprova, un uomo minato ed anche consunto da una malattia epperò matematicamente inferiore di forze ad una donna sana, diamogli un ideale che lo convinca e lo affascini, e quest'uomo troverà in sè, per tentare di raggiungerlo, una vigorìa ed una resistenza inesauribili. Siamo fatti di muscoli e di nervi: ma i nervi sono i nostri padroni. Ti sembra una teorìa azzardata per un medico?… Bah! Medico, son troppe ancora le cose che non so. Misero mortale, ne ho viste di quelle che m' hanno arricchito d'un certo tesoro d'empirismo. E, quando voglio parlare sul serio, parlo più da misero mortale che da medico. È probabile che così io non convinca gli altri, perchè nelle relazioni sociali si va sempre in cerca d'un pizzico di ciarlatanerìa; ma convinco me stesso, e questo, per quel che riguarda me, è l' importante.»

Leonardo di Pietracamela si lisciava i baffi, con una fissità stupìta negli occhi.

«Ebbene?» lo interpellò Ruggero «Sei impietrito?»

«Ma proprio!» disse il marchese, scuotendosi «Son doventato una statua di sale.»

«Non avrai mica intenzione di rifiutare?»

L'altro protestò vivacemente.

«No, no, diamine!… Resta il fatto della stranezza, della stravaganza, della stra….»

Il principe interruppe la filastrocca delle radicali in “extra”.

«Non esageriamo!» esclamò «Obbedire una donna invece che un uomo: la differenza sta tutta qui.»

«Sarebbe più normale, convienine, doventare gli aiutanti di campo del vero granduca.» ribattè il marchese di Pietracamela che non si arrendeva.

Ruggero storse la bocca.

«Secondo! Io, per esempio, preferisco aver che fare con una donna che ha la testa a segno, o che, te lo accordo, è un po'…. montata, piuttosto che con un ragazzo il quale, invece d'avere un venerdì di più, ne ha uno e anche due di meno. Tra una leggera sfumatura di follìa e una diagnosi decisa di ebetudine non so esitare.»

«E va bene!… Ma — premesso ch' io son devoto alla regina e che son pronto a difenderla con la mia vita — lasciami, in confidenza, terminare la…. la parte del diavolo contro il tuo angelico ottimismo. Non ti sembra per lo meno comico che due persone come noi si mettano a fare gli scudieri guerreschi d'una donna camuffata da uomo?… Ce n' è quanto basta per dare lo spunto ad una canzonetta allegra. Bada: non parlo di equivoci lubrìci…. Questo è fuor di dubbio. Parlo — come t' ho a dire? — di serietà…. di decoro mascolino, insomma.»

Il principe scrollava il capo.

«Siamo o non siamo gentiluomini della regina?»

«Siamo.» affermò Leonardo.

«Qual'era il nostro ufficio finora?… Accompagnarla ai balli, ai pranzi, alle inaugurazioni, alle feste di beneficenza. Per essere uomini, appunto, mi pare che il nostro decoro mascolino non fosse precisamente al suo posto. Ora, se andiamo in guerra, rientriamo meglio nelle nostre attribuzioni. Se c' è qualcuno, in questa storia, che esce dal suo còmpito, non siamo noi; è, se mai, la regina. Cosa che riguarda soltanto lei e la sua coscienza. Daltronde la regina non si sottrae, ma si sobbarca: piccolo chiaroscuro che non nuoce al quadro…. Chiacchiere! Tu non ti rifiuti ed io nemmeno: ecco l'essenziale. Dopo di che, mi permetto di rammentarti che la marchesa e la colazione aspettano: dovere di cortesia e diritto d'appetito. Si va?»

I due nomini si scambiarono una vigorosa stretta di mano.

«Tutto per la regina!» esclamò il marchese: ma, al di là dell'enfasi voluta con cui la formula cavalleresca fu pronunziata, traspariva una sincera e fervida eommozione.

La marchesa, rimasta sola con Valentino, aveva dapprima dovuto parlar lei, e di argomenti varii e staccati, perchè nessun di essi suscitava l'attenzione loquace del giovine. Egli era assorto, triste, ed anche impacciato: comprendeva che l'umor nero in certi momenti è una cosa fuor di posto, ed è, per gli altri, molto seccante ed un tantino ridicola: ma il sentimento che fosse necessario interrompere l'ostinato e sciocco mutismo produceva — come sempre segue — uno sforzo evidente nelle sue risposte tarde e svogliate.

«Non sta bene?» gli domandò Franca infine.

«No, benissimo.»; e aggiunse, modificando la secchezza del tono: «Non mi badi. Molte cose ho che non mi fanno essere allegro: ma son tutte dovute alla mia stupidità e….» la guardò fissa in viso, dicendo così, e fermò insistentemente gli occhi sulle labbra di lei «…. e sono irragionevoli.»

Aveva terminato la frase con un piccolo tremito nella voce, e la signora di Pietracamela arrossì, voltandosi da un'altra parte.

«Non ho il diritto di saperle» ella disse «epperò non gliele domando nemmeno.»

«Già!» fece Valentino con amarezza.

La guardava ancora, caparbiamente e dolorosamente; tanto che Franca dovè comprendere la ragione speciale di quello sguardo: infatti sulla bocca ella aveva una sottile e lieve striatura di sangue. Capì dunque, ed u sorriso fuggevole la illuminò ambiguamente, mentre l'onda del rossore la assaliva con più furia. Si levò, andò al pianoforte, scoprì la tastiera e sgranò un capriccio di note vertiginose.

Il duca, senza chiederne il permesso, accese una sigaretta.

La vedeva alle spalle: alta ed esile come la tentazione d'uno stelo fiorito e profumato. Una desolazione acre lo oppresse: la amava così esclusivamente, che la traccia o forse solo il sospetto della carezza dell'altro lo offendeva nei sensi, nel cuore e nell'anima. Avrebbe voluto portarsela via, per sempre, e dimenticare e non saper più ch'ella aveva avuto un passato d'amore. Passato chiuso: Valentino non ne conosceva nessun particolare, e, pur ad immaginarlo, lo prendeva un fastidio impaziente. Ma quel giorno egli era avviato ormai per un sentiero aspro di tormenti, e la fantasia non gli risparmiò le visioni più angosciose.

Franca suonava: una musica monodica e primitiva, riecheggiante e sonora come un ingenuo ritmo barbaro.

«Le piace?» e la marchesa, interrogandolo, gli si mostrò un momento di profilo.

«Che cos' è?»

«Le piace?» insistè lei, con un sorriso e uno sguardo.

«Mi piace.»

«È una zingaresca.»

Ella tornò ad attendere tutta alla sua musica, e il duca di Varo ripiombò nell'ardente meditazione. “Bella!… Franca!…” Due parole che gli martellavano nel petto, due parole nelle quali egli sentiva palpitare la propria vita. Ecco: avvicinarsi, pian piano, e dirgliele: “Bella!.. Franca!…”; e chinarsi lì, tra l'orecchio e i capelli, e susurrargliele in un bacio, e sentirsela a poco a poco abbandonare sul cuore, e chiuderle gli occhi, i dolci occhi teneri e appassionati, chiuderglieli con altri baci, e portar la bocca giù dalle ciglia alla bocca di lei, e smarrirsi in un fremito d' infinita soavità, eppoi inginocchiarsi, e ripetere il suo nome in un'adorazione trepida, riconoscente e sovrumana….

Valentino gettò la sigaretta, le si accostò, preso dall'allucinazione del suo sogno. Ella forse dovette vedere l'ombra di lui riflessa nella polita lucidezza del pianoforte, perchè disse sùbito ad alta voce, senza pur voltarsi nè interrompere le sue note:

«No, non venga…. Se ho qualcuno vicino mi dà noia, e non suono più.»

Il duca si fermò: l'accento di spigliata indifferenza che Franca usava con naturalezza nei minuti in cui non era possibile ch'ella non sentisse il profondo turbamento che lo agitava, lo percoteva d'una delusione ghiaccia e tristissima. Ma questa volta, pur riprendendo all' istante il dominio di sè, non la obbedì. Girò attorno al pianoforte, v'appoggiò i gomiti, e rimase di fronte a lei. Franca tolse via le mani dalla tastiera, e lo apostrofò un po' per ischerzo e un po' sul serio:

«Dispettoso il signor duca!»

Valentino fece di no, crollando il capo; poi le disse, lentamente:

«Franca!… Sa che le voglio bene?»

La marchesa si alzò, andò ad un mobile ch'era presso la porta aperta, s'occupò a raddrizzare un ramo di roselline selvatiche che ornava quell'angolo del salotto.

«Lo so.» rispose intanto, con un sorriso tranquillo «Perchè non dovrebbe volermelo? Siamo cugini ed amici, ed io non ho fatto nulla per demeritare dalle sue grazie.»

«Suoni pure!» disse Valentino con altro tono, allontanandosi «Non la disturbo più.»

Tanto il domestico che annunziava la tavola servita, quanto leonardo e Ruggero che tornarono poco dopo li videro così: lei al pianoforte, e lui che ascoltava assorto in un cantuccio d'ombra.

Il duca di Varo partì quel pomeriggio medesimo per la sua città nativa piena di sereno e di rumore come un'eterna baraonda solare. Sentiva la guerra vicina, nonostante le sue rudi e recenti delusioni, e, prima di mescolarsi alla milizia cruenta, voleva salutare il suo paese e la sua case. E fuggiva anche da Franca, che ora, forse inconsapevolmente, gli martoriava l'anima in modo che gli pareva, a momenti, di no poterne più sopportare il tormento.

Giunse di sera: ma c'era ancor tanta luce effusa per l'aria che Valentino, venutosene sùbito sulla marina, vide la prima stella brillare nel cielo come uno strano miracolo diurno. Vegetazione molle, dolce, intensa, là sulla costa che girava ampiamente l' insenatura del golfo; e case e ville giù dalle altura digradanti, in un formicolìo di vita fitta e gaudiosa; e il mare, l' infinito mare biancheggiante, nel vespro, innanzi d' incenerirsi sotto il soffio dell'ombra.

Tutta quella cara e nota bellezza gli faceva male, invece di ristorarlo, gli metteva in cuore uno struggimento inquieto perchè tanta era, tanta, che un uomo non poteva contenerla. Ecco lo spasimo d'un possesso irraggiungibile: non nuovo per lui che i segni dell' inafferrabile eternità aveva concretati nell' immagine d'una creatura ch'egli sentiva sua, ma che sua non era.

Si spinse ad una terrazza sotto cui batteva il risucchio dell' onda. I suoi occhi smarriti in quello sconfinamento di veduta sublime ed immensa cercarono un limite più prossimo e percettibile nei particolari. A sinistra un castello ferrigno che pareva sorgere dall'acqua, e così severo e chiuso come un volto con le pàlpebre abbassate: le finestre poche ed anguste, feritoie — meglio che finestre — lunghe e strette le quali segnavano rughe più cupe sull'oscura vetustà del fabbricato. A destra un altro castello, più lontano e più bigio, desolato e piagato dalla rovina, pauroso per chi sapeva che dentro non v'eran più partizioni nè di muri nè di pavimenti. E di faccia le isole violacee che raggiungevano con la morbidezza delle loro alte curve un vapor roseo soave e diffuso, sparso all'orizzonte e sospeso tra cielo e mare. Ed altre stelle, or ch'egli levò il capo, rivelantisi ad una ad una nella fioritura divina dei campi eterei, e per i poggi a specchio dell'acqua lumi timidamente riflessi, e la vastità del golfo che tremolando s'agghiacciava in un lucore argenteo, e l'aria fresca e odorosa che portava folate di romori e di canti.

Valentino stava per avviarsi verso la sua casa — dove una carrozza guidata da un cocchiere che lo conosceva gli aveva già dalla stazione trasportato i pochi bagagli —, quando incontrò un amico. Era un giovanotto nobile e indebitato che fino ad allora non aveva scoperto in sè altra aspirazione che quella di divertirsi. Il duca aveva per lui una certa simpatia, perchè da ragazzi erano stati molto insieme: ora poi lo rivide volentieri, per rompere la solitudine che dinanzi a quella immensità lo attanagliava in un fascino doloroso. Codesto ragazzaccio spensierato se ne veniva giù lento lento per il Lungomare, col cappello di traverso ed un soprabito chiaro che ricopriva il vestito nero da sera: fischiettava una canzoncina, e perdeva evidentemente il tempo per far l'ora d'una delle sue solite cene da beato crapulone. Egli festeggiò Valentino con fragorosa espansione, giurando che non l'avrebbe lasciato d'un passo, e protestando che non ammetteva scuse, perchè il viaggio breve non comportava la necessità del riposo e perchè dove adava lui un amico poteva presentarsi senza cerimonie e senza bisogno di speciali abbigliamenti.

Così il duca di Varo fu rimorchiato in un Caffè-concerto dove si mangiava allegramente, mentre le ballerine sul palcoscenico sgambettevano e le dive intonavano il ritornello canagliesco e i numeri dei fratelli lottatori e delle sorelle acrobate si svolgevano tra gli “hòp” e le maglie carnicine. La tavola alla quale approdò il giovanotto era già gremita di fannulloni titolati e di elegantissime amanti: cena offerta dal vincitore d'una corsa, un figlio di papà che Valentino conosceva da molti anni. Poichè i convitati spuntavano come i funghi, in più del còmputo previsto, lo spazio non bastava. L'anfitrione e i suoi accòliti parlamentarono. C'era una tavola, vicina alla loro, occupata da una sola persona, una mondana bellissima ch'era, notoriamente, proprietà d'un banchiere il quale la teneva là, in quel dolce clima, chi diceva per salute e chi per non averla nel paese stesso dove fiorivano la moglie e la prosperità e la rinomanza de' suoi affari. Ella era sempre sola, e a nessuno di quegli scavezzacolli era riuscito d'avvicinarla più che per un tentativo di conversazione sùbito troncata, sebbene la incontrassero spessissimo ed in luoghi ed in occasioni che avrebbero dovuto prestarsi facilmente agli approcci ed all' intimità. Parlamentarono, dunque, perchè s'accorsero che la mondana guardava con insistenza il duca di Varo, prodigandogli un'attenzione che non le avevan mai conosciuta per alcuno. Valentino, preso in mezzo al tumulto di tutta quella giovinezza scapigliata, s'acconciò senza protestare alla parte che gli imposero. Non che si sentisse perfettamente a suo agio nel rituffarsi tra i gorghi della vita galante: ma aveva voglia di scuotersi, di non pensar più, di cancellare i suoi tormenti. Si avanzò quindi verso la donna solitaria, e con un bell' in chino le disse:

«I compagni di mensa sono un po' come i compagni di viaggio. Ci si avvicina gli uni agli altri senza la trafila delle solite convenienze, e ci si rendono scambievolmente i piccoli favori che possono sorgere all'orizzonte. Noi la preghiamo di accordarcene uno: permettere a tre di noi di prender posto alla sua tavola.»

La donna lo guardò con un'espressione che gli fece battere il cuore: un lampo, un lampo solo, ma quell'espressione gli richiamò fulmineamente il viso di Franca. Si somigliavano? No. Questa aveva i capelli nerissimi, e Franca era bionda: sarebbe bastato per farne due tipi opposti, anche se non ci fosse stata tra loro la diversità evidentissima degli occhi, del profilo, di tutta la persona. Valentino la scrutò con maggiore attenzione: il lampo s'era spento; ma, sulla fine del discorsetto ch'ella rispose, gli sembrò che la sfumatura della somiglianza ricomparisse di nuovo. La donna aveva una voce inaspettata, limpida e grave: una voce intelligente, e piena, in quel momento, d'una grazia beffarda come una carezza insolente.

«Non accordo mai favori alla gente che non mi interessa. Questo per i suoi amici. Per lei, se vuole, c'è un invito. S'accomodi.» e gli mostrò, col cenno, l'angolo che le era a sinistra.

Il duca rimase perplesso dinanzi alla profferta. Quanto più l'avventura lo tentava, tanto più gli pareva che un rimorso di contaminazione lo stringesse. L'esitazione di lui provocò, più acuto, il contrasto fra il timbro e il tono di quella voce femminea.

«Non posso soffrire nè il casto Giuseppe nè don Giovanni. Si regoli, per decidere se può accettare oppur no l' invito che le faccio.»

Valentino s' inchinò. Troppo frequente guizzava sul volto della donna il miraggio della lusinghevole visione, perch'egli avesse la forza di sottrarsi; anzi l'ambiguità del sentimento che provava lo fece più pronto a consentire di quello che la sua coscienza gli dettasse. S'allontanò un minuto per consigliare alla gaia brigata, ed in modo che non ammetteva replica, che li lasciassero in pace; poi ordinò a un cameriere che procurasse dei fiori, e tornò verso la compagna inattesa. Quando volle incominciare a caso un discorso per non sembrarle goffo o impacciato, ella fece un gesto di diniego.

«No, lasci stare. Per cominciare un'amiciazia, anche breve, bisogna saper tacere. Non ci conosciamo, e ci diremmo delle sciocchezze o delle vanità che ci disgusterebbero l'uno dell'altro. Tra poco non ci conosceremo ancora, ma avremo l' illusione di conoscerci e potremo parlare.»

Il preambolo era strano, e veniva da tale la cui condizione non gli avrebbe fatto supporre una finezza d' intelletto ch'era veramente o pareva molto sottile. E Valentino tacque. Ella, rivolta verso il palcoscenico, seguiva distrattamente le evoluzioni d'un ciclista che moltiplicava con attivissima agilità i pochi metri quadrati dello spazio concessogli; ma il duca s'accorse d'essere osservato di tanto in tanto, alla sfuggita, e allora gli occhi di lei avevano un corruscamento di riso che le scherzava balenando intorno ai muscoli della bocca. La guardò. Era bella e giovine, e l'artificio che sottolineava le sue ciglia e avvivava le sue labbra le aggiungeva una speciale seduzione perchè non era immodesto come una truccatura ma lieve e sapiente come se fosse quello il segno visibile del profumo ch'ella effondeva dalla sua persona. Valentino cercò di rammentare il nome che le avevan dato gli amici quando s'era parlato di lei: Armanda: gli parve una stonatura, perch'era un nome troppo volgare di battaglia.

«Lei non è di qui?» gli domandò a un tratto la donna, mentre le sue mani bianche e le dita brillanti giuocherellavano con un coltello.

«Sono.» rispose il duca «Ma non ci sto quasi mai.»

«Perchè? è un paese bello questo.»

Egli fece un gesto evasivo, stringendosi leggermente nelle spalle.

«Perchè?… Così!… La vita non ha mai un perchè.»

Armanda rise, e Valentino capì d'aver detta una cosa futile e comune, con l'aria invece e forse con la coscienza di dire una cosa profonda.

Il cameriere portava in quell' istante un fascio di mazzolini di violette; si chinò all'orecchio del duca, e glicli porse.

«Non ho trovato altro.» avverti.

Valentino sussultò, vedendo le violette. Violette…. Perchè violette?… Si pentì dell' idea cavalleresca che aveva avuta.

«Metti là!» disse, nervoso, senza toccare i fiori.

I mazzolini si sparsero nell'angolo accennato della tavola, e la lor mollezza dolce ed oscura sul candore della tovaglia fu come un'amara provocazione a' suoi sensi e come una frustata dolorosa alla sua anima. Violette…. Perchè violette?… Gli pareva che di mezzo a quelle corolle gli occhi di Franca lo guardassero col medesimo sguardo triste implorante e dubitoso che già ella aveva avuto per lui la sera in cui la regina lo aveva incaricato del ringraziamento all'attrice. Ed egli allora scrutò fissamente la donna che gli era vicina per coglierle sul viso il lampo della somiglianza, per dire a sè stesso che voleva, sì, con premeditazione voleva amare violentemente in lei l'ombra di Franca, e baciarla, stringerla, soffocarla, farle sentire l' impeto del suo sangue, torcerla e scrollarla come una creatura umana, giù dall' intangibilità divina su cui il suo cuore l'aveva innalzata.

Armanda non aveva detto grazie e non aveva nemmeno steso le sue mani verso i fiori. Ora concordava col cameriere la scelta delle pietanze, e lo faceva con una cura lenta e minuziosa che il duca, per quel pochissimo che poteva pensare di lei, non le avrebbe supposto. Solo in ultimo ella lo interpellò:

«Va bene così?»

«Va benissimo.»

Furon serviti sùbito, e, nella breve attesa, scambiarono rarissime parole. Valentino era cupo: temeva d'essere villano o troppo dolce; diffidava di sè stesso e di quella illusione che lo affascinava e gli ripugnava al tempo medesimo.

Allorchè i cibi furono sulla tavola, egli notò che Armanda ne accostava appena qualche briciola alla bocca: i piatti le rimanevano quasi colmi dinanzi, ed ella più volentieri mordicchiava il pane, rompendolo con le sue dita affusolate che lucevano per i gioielli e per la politura eccessivamente curata delle unghie. Quelle mani — belle, ma troppo artefatte — gli suscitavano una sensazione strana, quasi fossero un'apparenza di perversità. Anzi, quando una d'esse gli si posò sul braccio, Valentino si scolorò, preso nel profondo da un'acerbità di furore violento ed angoscioso: sulla manica gli era rimasta un po' di cipria, ed egli la scosse da sè con un gesto impaziente.

«Si ricorda, quand'eravamo bambini, quante corse e quante biricchinate abbiamo fatte insieme?»

Armanda sorrideva implacabilmente dello stupore di lui, che non ricordava nulla e che pareva molto sorpreso dell' interrogazione.

«Ma sì!» ella insistè «Dov'eravamo?… Chi sa!… Forse vicini qui, dove c' è il sole; forse lontani, là, dove c' è la neve…. Ma le primavere fioriscono dapertutto, e lei era un bambinetto con un ciuffo chiaro di capelli sulla fronte, e portava i calzoncini corti e le gambe nude, con un ginocchio — il destro, mi pare — sempre sciupato da una scorticatura perenne…. Perchè lei era un frugolo, e cadeva spesso… Eppoi, eppoi…. mi aiutava a cogliere i frutticini selvatici, tondi e lisci come grani di collana; e mi diceva, qualche volta, — se ne ricorda? — che, doventati grandi, mi avrebbe sposata.»

Valentino capì che si trattava d'una fantasìa un po' malinconica e un po' canzonatrice.

«Credi ch' io scherzi?» disse Armanda bruscamente «È la verità…. Non so perchè!… Appena ti ho visto, m'è venuto in cuore questo pensiero: d'averti conosciuto dodici anni, quindici anni fa…. Capivamo, sì, perchè eravamo ragazzini intelligenti, ma non capivamo ancora tutto. Era meglio così?… Forse era peggio. Non importa. M'è venuto questo pensiero, ti dico, e tu ti chiami capriccio e giovinezza.»

«Non vuoi sapere il mio nome?» domandò lui, per trovare una frase qualsiasi.

«Il tuo nome?… Oh, ne hai tanti, e non ne hai nessuno. Il nome, per le donne come me, è un di più. Ti pare un' inferiorità, e non è….»

Bevve, a lunghi sorsi, un bicchier d'acqua, e s'avvivò d'un colore ardente, quasi fosse stata subitamente inebbriata dal gusto troppo acuto d'un liquore.

«Dio, come sei giovine!…» ripetè, guardandolo: ed ecco di nuovo ricomparirle in viso il saettamento veloce di quella tenerezza un po' ironica che dava al duca il brivido dell'allucinazione. «Sei silenzioso e triste: le donne, per te, debbono soffrire orribilmente.»

«Credi?» fece Valentino con amarezza, ostinandosi a fissare le violette.

«Del resto» riprese Armanda volubilmente «anche tu ricordi qualche cosa, essendo con me.»

«No, non è vero!» egli protestò con impeto.

«Va'la!… Tra i ricordi tuoi ed i miei c'è appena una differenza: che i miei sembrano spinosi, e forse, in fondo in fondo, hanno un profumo di fiori; i tuoi invece sembrano profumati…. — che so?… — magari di violette, e, in fondo, sono pungenti di spine.»

Valentino, male a suo agio per queste parole che potevano sembrare una penetrazione spirituale, le gettò un'occhiata tra irosa e vogliosa.

«Sei bella, ma bada che alle belle donne è proibito essere troppo intelligenti!»

«Già: voi non volete in noi ciò che non chiedete alle altre. L' intelligenza, a volte, è un bagaglio fastidioso. E chi ti dice, daltronde, che io sia intelligente?… Le persone davvero intelligenti non sono mai nè indiscrete nè indelicate. Dunque fai conto che t'abbia snocciolata una sciocchezza la quale ha avuto il torto di colpire nel segno. Pensi che io ti voglia addolorare per partito preso? Renderei un cattivo servizio anche a me stessa, perchè non t' ho chiamato per questo…. Eppoi — vedi? — ho sbagliato: per mostrarti la mia acutezza d' intelletto, dovevo dirti che le donne ti fanno soffrire, e, invece, t' ho detto il contrario: sei tu che mi metti sulla strada.»

Il duca le tese una mano.

«Leggi la mia ventura.»

Ella rifiutò.

«Non conosco questa scienza. Ma, se vuoi sapere ciò che s' indovina di te, è facile: hai l'anima torbida, o per un gran male che t'hanno fatto, o per un gran male che non hai tu il coraggio di fare…. Vedi quella là?» aggiunse poi, con altra voce, appuntando l' indice verso il palcoscenico.

Il gesto richiamò Valentino alla realtà delle cose circostanti: la risata fragorosa della folla sorgeva d'ogni parte, e colei che la suscitava, alta formosa e procace, ripeteva, con qualche variante sempre più scurrile, le strofette sguaiate della sua canzone.

«Il suo amante, il suo amante vero, sta per morire. è un ginnasta che, in una stupidissima prova, è caduto e s'è spezzato la spina dorsale: otto giorni fa. Sono molto poveri, e lei vuol tenerlo in una camera a pagamento; come se, pagando, non si morisse lo stesso!… Non importa, sono illusioni, e questa illusione — vedi? — le costa cara.»

«La conosci?» domandò il duca.

«No; ma conosco la sua storia. Non ti pare che quella donna sia migliore d'una delle tante pudiche sposine?»

Valentino non volle addentrarsi in un discorso di riflessioni: la tristezza rivelata della vita gli dava in quel momento un malessere d' insofferenza perchè lo riconduceva alla misura onesta delle cose e lo rimordeva quasi con un senso di vergogna contro sè medesimo.

«E tu?» la interrogò leggermente «Che cosa saresti capace di fare tu per il tuo amante?»

«Io?… Nulla, perchè non ho un amante che mi prema. Se lo avessi, farei come le altre, come tutte, come tutti…. L'amore non è un privilegio; è una legge, o un dono, o un tormento, o una necessità che eguaglia innanzi a sè l'universo mondo.»

«Tu credi di semplificare» disse il duca, curioso di tentare fin dove giungessero l'abilità delle parole e la qualità dell' intelligenza di lei «e invece hai già usato quattro termini di definizione che sono molto complicati.»

Armanda socchiuse le ciglia, gli gettò uno sguardo in cui s'era raccolta una piccola scintilla scherzosa.

«Mi vuoi far l'esame, bel giovinotto?… C' è una canzoncina che dice: “L'amore è un corno.” Questa definizione è semplice. Ti va?»

S'avvicinava il cameriere col vino spumante.

«Non bevi?» domandò Valentino, vedendo ch'ella poneva la sua palma aperta sopra l'orlo del bicchiere per impedire che il vino vi fosse versato.

«Non bevo.»

«Mai?»

«Qualche volta. Stasera non mi sento.»

Nel riporre il proprio bicchiere sulla tavola, il duca lo urtò contro una bottiglia.

«Attento alla sorte del re di Tule!» lo ammonì Armanda con un riso, sonoro.

Valentino s'accigliò.

«Mi pare che tu sia forte anche in poesia, noh?… Del resto, il bicchiere è intatto; e dunque per istasera non andrò ad affogarmi.»

«Chi sa!» ella esclamò, sempre ridendo «Non si vive di solo pane, e non ci si affoga soltanto nell'acqua.»

«Che t' importa?» fece il giovine, rude ed ostile.

«Ah, nulla!… Non sono io che devo contentarmi!»

Il duca le afferrò uno dei polsi, glielo strinse conviolenza, chinandosi verso di lei.

«Troppe sottigliezze!…» le susurrò, quasi toccandole il viso con la bocca; e aggiunse: «Voglio te. Non ti chiedo altro.»

Armanda arrossì un poco, nello sforzo di sostenere la morsa di quella mano senza lamentarsi; e gli si volse in modo ch'egli sentì la fragranza del suo respiro. Allora Valentino la lasciò e si ritrasse, turbato, perchè i sensi gli si infiammavano e per contrasto l'anima era attanagliata di tristezza.

«Ci tieni, a rimanere fino in fondo?»

«No.» rispose il duca.

«Ti conduco con me?»

«Dove vuoi.»

Posò un biglietto di banca sulla tavola, aiutò la donna che s'era drizzata in piedi a vestire il mantello.

«Riprendilo.» ella disse, accennando il denaro «Sono io che ti ho invitato, e qui mi conoscono.»

Il duca alzò le spalle con un moto d' insofferenza, senza rispondere e senza obbedire.

«Come sei poco gentile, per voler essere gentiluomo!» osservò Armanda blandamente; ma non insistè.

Valentino era seccato per tutti i colpi di tosse e per tutte le esclamazioni che si levavano al loro indirizzo dal gruppo degli amici, e aspettava con impazienza che la compagna finisse di mettere insieme l' ingombro dei suoi gingilli eleganti.

«E queste povere violette?» domandò la donna, guardandolo.

«Lasciale!» diss'egli vivacemente «Non val la pena!»

Ancora quel tremito di malinconia e di tenerezza sul volto di lei, e nel cuore di Valentino una percossa, eppoi un'ondata di ricordi di desiderii e di nostalgia.

«Perchè farle morire qui?»; e Armanda le prese, delicatamente, come fossero creature vive da non profanare, e il suo gesto parve quasi materno.

Uscirono, maliziosamente osservati al passaggio da quel pubblico ch'era là per divertirsi e aveva la testa ebbra di musichette facili e di accesa ilarità. Anche nei corridoi i custodi del teatro salutarono con sorrisi ambigui. Fuori un chiamatore di vetture che se ne stava addossato allo spigolo della porta la riconobbe immediatamente.

«L'automobile, signorina?»

Armanda fe' cenno di sì, e quello corse via per eseguire il suo còmpito.

Valentino voleva combattere in sè stesso la torbida furia che lo tempestava.

«Andiamo un po' sul mare prima?» le domandò.

«Prima?» ed ella lo tentò con un'occhiata beffarda «Sei dunque proprio sicuro del…. dopo?»

Il duca le si accostò vicino alla persona, camminandole presso mentr'ella si muoveva verso l'automobile che s'era avanzata: non dissero nulla, ma lo sfioramento dei loro corpi li fece impallidire ambedue.

«A casa!» ordinò Armanda, salendo.

Un momento dopo l'automobile scivolava tra i lumi e la folla.

«Ho un giardino che scende fino al mare.» ella spiegò «Così potrai esser soddisfatto.»

Il giovine sentiva il bisogno d'un'effusione dolce, perchè capiva che la semplice e rapida materialità dell'atto gli avrebbe lasciato un disgusto troppo arido e amaro. Daltronde quel vaneggiamento dello spirito che avrebbe voluto salirgli alle labbra per esprimersi in un fiotto di parole molli e carezzevoli gli appariva come una suggestione falsa umiliante ed inutile. Franca era lontana, e, forse, gli rimarrebbe estranea per sempre…. L'odore delle violette nello spazio breve e chiuso, non tardò a rivelarsi, ma il respiro che l'accoglieva vi trovava un gusto di fiori sciupati e moribondi. Quando sboccarono sul viale della marina, solitario ed oscuro, egli si chinò verso le violette che Armanda teneva tra il braccio piegato ed il seno, e v'affondò la faccia. Aveva voglia di piangere. Si ribellò. Le cinse le spalle, la obbligò a riversargli il capo sul petto, e la baciò sugli occhi e sulla bocca, a lungo, senza curarsi della difesa ch'ella gli opponeva, vincendola e fiaccandola con la sua forza.

«Sei prepotente!» gli disse Armanda quand'egli allentò la stretta; e si tolse il cappello che le si era abbattuto giù dietro la nuca «Spettinare una donna e guastarle l'acconciatura prima del momento opportuno è una cosa brutta e spiacevole. Se vuoi rimanere, devi stare tranquillo.»

Poi aggiunse, come se gli piacesse di irritarlo:

«Guarda…. Le violette sono cadute…. Volevo buttarle in mare; perchè se n'andessero pure e fresche…. Credevo che t'importasse di custodirle senza contaminazione, ma mi sono ingannata.»

Valentino abbassò il vetro dello sportello e accese una sigaretta.

«Non essere cattiva!» pregò, con voce stanca «Lascia che lo sia io soltanto, come poche volte sono stato nella vita.»

«Le vuoi molto bene, dunque?» domandò Armanda, piano, dopo un momento.

Egli trasalì, ma non rispose.

«è tua moglie?»

L'investigazione di lei gli dava il malumore.

«Che storie!» esclamò «Hai delle idee curiose.»

«Non ti avvelenare il sangue. Le donne son così, ed è nella loro natura: si lasciano prendere facilmente.»

Egli guardava il mare che scintillava, a tratti, tra gruppi e gruppi di verdura. Ora l'automobile andava velocissimamente.

«La prova» continuò Armanda, la quale doveva credere d'avere immaginato la verità «la prova più lampante dell'innocenza delle donne nelle loro colpe è proprio il caso tuo: sei bello, sei gentile, sci giovine, e l'altro non ti vale di certo. A quest'ora si sarà già pentita. Se non vuoi perdonare, dimentica e dimenticala: si vive troppo poco, perchè anche si debba nutrire un dolore che ci càpita addosso.»

Valentino rise, sebbene lo urtasse un po' la punta di volgarità che, rara, pur lacerava di tanto in tanto l' innegabile finezza dei discorsi di lei. Ch'ella fosse fuor di strada con quelle sballate intuizioni gli alleggeriva il dubbio d'avere allato un testimone consapevole della sua debolezza e della sua follìa.

«Ridi?…» fece Armanda, sorpresa «Oh, allora sei inguaribile!… Il riso è più pericoloso e più duro del pianto.»

«Ti diletti di filosofia, vedo.» disse il duca «Avresti dovuto vivere qualche secolo addietro.»

La donna capì subito l'allusione.

«Il secolo delle cortigiane dotte?… Oh, mio caro, finivano anche loro col velo giallo, e dunque non c'è una gran differenza.»

«Dove hai imparato tante cose?»

«Tra poco siamo arrivati.» avvertì Armanda, senza badare all' interrogazione.

«In casa tua?»

«In casa mia.»

«E puoi ricevermi così, liberamente?» domandò Valentino.

Ella rise, con un piccolo moto d'orgoglio.

«Posso.» affermò.

L'automobile rallentò, s'arrestò morbidamente dinanzi a un cancello che mostrava, più basso e più in fondo, il fabbricato d'una villa.

«Vuoi che faccia aspettare l'automobile?» susurrò Armanda all'orecchio del duca, con un' improvvisa timidità che sottolineava maggiormente l'audacia del proposito inespresso.

Valentino rifiutò.

«Buonanotte, Giacomo. Andate pure.» ella disse forte al meccanico, mentre il cancello s'apriva.

La ghiaia stridè sotto i loro passi; qualche fanale, sapientemente nascosto tra il folto degli alberi, illuminava i meandri dei vialetti che conducevano alla casa. Doveva essere una costruzione bizzarra, di quelle che la modernità edifica contro il buon gusto e contro il buon senso, sciupando molto spazio e soffocando il respiro, perchè si scendeva e si risaliva per un laberinto di scalinate che rivelavano, nell'ombra, la pesantezza massiccia delle balaustre troppo fastose di ferro e di pietra. Quando entrarono nell'atrio, eppoi infine in un salotto folgorato di luci, dopo l'ampiezza del buio, Valentino sentì un' impressione di disagio e di malessere. Il trovarsi ospite d'una intimità accordatagli proprio nel nido che l'altro s'era accomodato, gli dava noia. Si pentì di non aver condotta Armanda altrove, e stupì di non averci pensato in tempo.

«Prendi thè o caffè?» domandò la donna, dritta dinanzi ad uno specchio e con le braccia levate per ravviarsi i capelli.

«Non prendo nulla.» rispose il duca, nervoso; e fu tentato di invitarla a tornar fuori: ma gli parve una cosa ridicola, perchè ormai troppo tarda, e tacque.

«Fuma allora.» gli disse lei, indicandogli un tavolino fornito dell'occorrente.

Egli accese una delle proprie sigarette.

«Sono buone, sai?» fece Armanda, mostrando gli astucci che Valentino non aveva toccato.

«Lo credo; ma non cambio le mie solite.»

«Non siedi?»

Il giovine provava veramente un senso d'oppressione.

«Dovevamo andare in giardino: vuoi?»

Ella sorrise.

«Aspettami un momento.» avvertì; e scivolò via dal salotto dietro la morbidezza pieghevole d'una portiera.

Valentino comprese che quell'assenza preludeva all'apparizione di un nuovo abbigliamento curato in onor suo, ed ebbe coscienza della volgarità dell'avventura. Ah, com'era vuota, com'era falsa la vita in certe ore!… Si sforzava di non risuscitare l' immagine di Franca, per non mescolarla nell' intrigo basso e occasionale, e daltronde anche il pensiero di lei gli pesava come un ingombro vano in fondo all'anima. Che faceva Franca a quell'ora?… Speranze inutili, desiderii irraggiungibili, ricordi penosi: tutto un groviglio di dolore infecondo. Quanta grettezza nel cerchio egoistico d'una esistenza!… Gli passavan per la mente aspirazioni assurde di volontà, ma affascinanti appunto perchè sconfinavano dai sogni e dal rammarico dell' io, che in quel minuto gli pareva aridamente meschino. Erano intemperanze di violenza generate da uno stato di debolezza dello spirito, ed egli attraversava veramente un di quei momenti tempestosi in cui ci si lascia andare alla deriva, trascinati e sopraffatti, credendo invece di imprimere al destino un indirizzo cosciente: è una specie di torbido fatalismo che porta maschera d' inziativa e di risolutezza individuale. Perfino balenò al cervello del duca l'espediente dell'assassinio politico come principio di bene sociale e nazionale: ed egli meditò minuziosamente se gli sarebbe possibile e facile colpire il barone di Loën. Era già stato ricevuto una volta all'ambasciata, e forse una seconda l'adito gli verrebbe impedito dal sospetto ormai desto: daltronde l'uccisione tra quattro pareti, senza testimoni da persuadere e da infiammare con quell'atto, sarebbe stata un errore. E come incontrarlo, fuori, se il barone si stringeva in tante meticolose precauzioni?… Ci vorrebbe gran folla all'intorno, perchè il giustiziere potesse gridare, poi, e lanciare, mentre lo portassero via, la scintilla dell' incendio.

Sussultò. Armanda era rientrata, e gli s'accostava, lusinghevole, con passi molli e leggeri….

«Hai perduta la pazienza?»

Si fermò dinanzi a lui con lo scopo evidente di farsi ammirare: portava una vestaglia chiara ed ampia il cui tessuto, sebbene il taglio non fosse attillato, aderivale a tratti sulla persona, secondando le belle forme. Questo apparato grazioso, sì, ma volgarmente rituale distese i nervi di Valentino, restituendogli un po' di calma. La sua esaltazione cadde: per un attimo si ritrovò spensierato e giulivo come un giovinotto sano e libero che prepara a' proprii sensi vigorosi un'ora di facile soddisfazione. Tese le braccia alla donna, raccolse contro di sè il calor voluttuoso della ricca snellezza di quel corpo, e la baciò sulla gola ch'ella gli offriva piegando il capo all'indietro.

«Non vuoi venire in giardino?» gli susurrò Armanda, serrandosi a lui, ridente e tentatrice.

Il richiamo della notte aperta, tempestata di stelle sullo scintillìo dell' immenso mare, lo rannuvolò d' improvviso. Franca gli tornò nel cuore, divina e intangibile, e colei che gli stava avvinta sul petto gli sembrò un freddo balocco che non potrebbe contentarlo più.

Si sciolse bruscamente, le disse:

«Andiamo!»

La precedè, a caso, verso la porta per la quale erano entrati.

Armanda, un po' stupita, parve tuttavia non offendersi delle rudi maniere di Valentino.

«Per di qua.» lo avvertì, quando furono nel corridoio, e prese il braccio del giovine per guidarlo in giardino.

Notte di serenità, percorsa da vene di frescura: in alto il crivellamento folto e vivido degli astri, e, più giù, ampia e distesa, la marina cui si scendeva tra mezzo ai boschetti degli aranceti.

«Di giorno è più bello.» ella disse, accennando un gesto nell'ombnra. «Cioè…. no: è diverso.»

Valentino aveva la gola serrata: riconosceva la serenità dolce della sua terra e del suo cielo che gli ripersuadevan nell'anima i sogni puri e ardenti. Di Armanda intravedeva, in quell'oscurità splendida e cristallina, la forma femminea e il bianco del volto e delle mani; e poichè, strettagli vicina, ella taceva, l' illusione d'avere accanto l'unica amata si creava di nuovo nello spirito di lui con un'insistenza perdutamente soave. Il suo gesto, pieno di sgomento e di audacia, la cercava tutta e la avvinceva; e Armanda, senza resistergli, pareva anch'ella avere in sè una grazia trepida e commossa d' intima rispondenza: per poco tempo, chè, ad un tratto, si riprese nella sua ambiguità schernitrice.

«Siamo sciocchi, sai?» esclamò «Rammèntati, caro, che è la prima volta che ci incontriamo, e forse l'ultima. Bisogna che me ne rammenti anch'io.»

Si staccarono, e camminarono in silenzio, come se una tristezza nemica li opprimesse.

Dominavano il mare, ora, e l'arco luminoso della città poco lontana; e c'era un canto, sul mare, un canto di barcaiuolo ozioso che s' interrompeva, a momenti, e allora si udivano, distinti, il tonfo e lo sciacquio dei remi; poi il canto riprendeva, armonioso sonoro e appassionato nelle note basse, finchè, avvicinandosi ad un irraggiungibile acuto, taceva d' improvviso, e il barcaiuolo gridava,, uèh!” burlando egli stesso la propria inesperienza. Forse, più in là, anche un mandolino o una chitarra, ed altri canti: ma confusi nel rombo della vita notturna che turbinava.

«Senti?» fece Armanda, soffermandosi; poi, dopo un attimo, ridendo: «È così!… Amore, amore!… Tutti ci illudiamo che il nostro sia diverso da quello degli altri, e invece!…»

«Trovi?» domandò il duca, oppresso dalla serenità che dilagava sulla natura.

Ella lo incitò, scherzosa.

«Confèssati!… Non credi tu di amare in una maniera…. — come dirti? —, in una maniera eccezionale?»

Egli crollò le spalle, senza rispondere.

«Ma sì!» insistè Armanda «Non sbaglio. Ed è questo che procura l' infelicità. Se tu amassi semplicemente, normalmente, ti infischieresti di tutto e di tutti; prenderesti la tua donna, la godresti, godreste insieme…. eppoi, eppoi, si sa, la tua fiamma si spengerebbe, quieta quieta, come deve spengersi ogni brava fiamma che divampa e consuma…. Perchè, stai pur certo, l'ardo e non brucio è un motto che ha un senso nella poesia, ma non nella vita.»

Valentino fu urtato da queste parole che volevano medicare il suo tormento con un consiglio così brusco e così materiale: tanto più, quanto più s'accorgeva che v'era un fondo di pratica verità.

«Sai?» ella aggiunse, come se avesse letto nel pensiero del duca «Può essere ch' io abbia torto. Parlo, perchè voglio vincere anch' io una tentazione. La tentazione di trattarti da innamorata e non da amante, damante di un'ora. Chi sa poi per quale ragione sono assalita da questa fantasia?… T'ho veduto, la prima volta in vita mia, un momento fa. è stupido, ed è assurdo.»

Gli si strinse addosso, allacciandosi alla persona di lui, e lo baciò sapientemente, impudicamente….

E quand'egli — s'accennava l'alba — uscì, solo, dalla villa, le stelle lo guardarono impallidite e nel suo cuore imperò, più acuta, un' infinita tristezza.

Il vento aperto, spaziando dal disteso piano del mare, percoteva violentemente la terrazza del castello di Planacomba. Sorgeva questo dalle onde, di tra gli scogli, com'essi bruno e ferrigno, massiccio e pietroso a guisa d'un edifizio scavato nella salsa roccia. La tenda, dagli sporti spalancati, sbatteva forte: pareva l'ala d'una procellaria. E si respirava aria di tempesta vicina, infatti. Le nuvole, orlate di candido sole ai lembi e cupe nel grembo minaccioso, si rincorrevano coi mutamenti di un'agitazione irrequieta. Velarii di nebbia sulfurea tagliavan la vista, qua e là, dritti e raggianti tra gli squarci del sereno e il mare: le zone d'ombra ne apparivano più tetre, più chiuse. I segni della spuma si disseminavano e moltiplicavano — obliqui, cangianti: brividi nel manto della belva immensa —, ora fiorenti sullo splendore verdastro dell'acqua illuminata, ora biancicanti sul plumbeo baleno della massa oscura. Di tutto era signore il vento, ridendo o imperversando, e giungeva fino alla terrazza con sibili e con mùgghi, ospite senza pace, noto e inafferrabile, mescolando il suo gran fiato marino col sentore delle alghe che l'appressarsi del maltempo sveglia dal tristo macero nelle conche morte che stagnano ai ripari.

«Stefanolo!» chiamò una voce, nel vento; e Wanda affacciò la testa tra le tende, difendendosi da quell'assalto.

Il piccolo duca non si volse nemmeno; era appoggiato alla balaustra, immobile, e solranto i capelli lunghi biondi e ricciuti si sollevavano e agitavano con viva leggerezza intorno alla sua fronte.

«Stefanolo!»

Il giovine questa volta fe' un gesto con la mano, poi, risolutamente, si staccò dalla sua contemplazione, venne verso la sorella, pallido e serio, e le disse:

«Stefanolo non sono io.»

Rise subito, dopo la risposta, sì che questa potè sembrare uno scherzo.

«Vieni dentro; altrimenti non è possibile chiudere, e fa freddo.»

Egli fu docile all'obbedienza.

Nella sala — quadrata, ampia, e quasi nuda — la principessa di Cerito attendeva.

«Vostra Altezza è tornata a riva?» interrogò ella, sorridendo.

«Sei gelato.» osservò la regina, prendendogli una mano «Hai fatto male a rimaner fuori con questo tempaccio.»

Stefanolo si strinse nelle spalle, e si gettò a sedere.

I domestici intanto serravano le vetrate della terrazza, lottando con l'urlo delle raffiche; altri portarono i doppieri accesi. La luce mista delle candele e del giorno tempestoso diffuse un che di funebre nella vastità volutamente squallida della stanza. Maria di Cerito si raccolse nel cantuccio del grande seggiolone di legno con un fremito, non di terrore.

«Povera Maria!» le susurrò Wanda venendole accanto «è allegro il nostro castello, noh?»

«Non trovo che sia triste.» si limitò la principessa a rispondere.

Ella non voleva con altre parole romper l' incanto di quella vita tanto diversa dall'affaccendamento della corte di Venustria: c'era una calma, in lei, fatta di stanchezza e di serenità.

Il tuono brontolò, lontano.

«Eccoci!» disse la regina «Si avvicinerà?»

Maria, alla domanda puerile, sorrise: conosceva bene la poca resistenza nervosa che la sua compagna offriva al fragore d'una bufera.

«Temo di sì. Ma passa presto: è maggio.»

Lampeggiava, fitto fitto, senza scrosci ancora. L'ululo del vento si calmava, e il cielo s'era fatto intento in una pervadente oscurità. Anche il mare pareva che si racquetasse.

D'un tratto il tuono scoppiò, e si perse, rotolando la sua minaccia negli antri dell' infinito.

Stefanolo balzò in piedi, venne a mettere il viso contro i cristalli della vetrata.

«Stefanolo, no!…» cominciava a protestare la regina; ma la sua dama le presé il braccio, le accennò, crollando scherzosamente il capo, che lasciasse fare.

«Bisogna che Vostra Maestà si abitui, non le pare?» osservò ella.

Wanda alzò le spalle.

«Non temo gli uomini. Temo Dio: Lui sì, sempre.»

«Ha torto. Dio è misericordioso.»

«Anche con coloro che come me — almeno secondo lei, Maria — stanno per cadere in peccato di mistificazione?»

«Vostra Maestà dà troppa importanza alle mie parole…. pur senza tenerne conto.»

Un trasalimento, per un secondo fulmine che saettò vivido e schiantò vicinissimo.

«Stefanolo, ti prego!…» ripetè la regina, facendogli cenno che si discostasse dai vetri.

Il granduca si voltò un attimo a guardarla, ma non le diede ascolto, quasi che avesse udito e non compreso. Un lampo, in quella mossa, gli battè sul viso pallido senza accendergli negli occhi alcuna scintilla d'espressione.

«Ha veduto?» mormorò rabbrividendo Wanda all'orecchio di Maria «Mi fa paura. E ho paura. Mi par già di averlo ucciso, e che non sia lui, ma il suo spettro.»

Pareva intagliato nell'avorio, infatti, così fermo com'era e tutto bianco dalle ginocchia in su, dove gli stivaloni alti ed oscuri tagliavano netto il candore dei calzoncini di pelle nel costume caratteristico ch'egli soleva portare.

«Oh!…» protestò la principessa di Cerito, scrollando a forza da sè la suggestione di quei terrori «Quando Vostra Maestà ci si mette è più lugubre di me nelle previsioni. è il tempo che dà ai nervi!… Sente che acqua? Ora vien giù il cielo.»

La pioggia fragorosa si contorceva sotto le raffiche. I vetri della terrazza, in un momento, furono irrigati e acciecati da torrentelli incessanti.

«Meglio così.» aggiunse Maria, per quetare l'orgasmo della regina «Le nuvole si scaricano, e la burrasca passa….»

Una saetta, violentissima.

Wanda trasalì, e la principessa sorrise.

«Vede, Maestà, che avevo ragione…. quasi? è il finale.»

Si alzò, venne presso al granduca. La regina non osava muoversi dalla sua poltrona.

«Che ne dice Vostra Altezza? è invitante per una gita in barca, noh?»

«Se non fossi stanco!» rispose seriamente Stefanolo «Ho le braccia che non mi reggono più.»

«Perchè?» lo interrogò Maria con dolcezza, seguendolo — come spesso faceva — nel vaneggiamento misterioso e leggero delle fantasie.

Il giovine diè alla sfuggita un'occhiata verso la sorella.

«Per tutto quello che mi fanno fare….»; abbassò la voce: «Non lo sa, lei?… Wanda mi dice tante cose: par che mi metta un peso sulle spalle e che voglia aiutarmi. Non ho capito. è faticoso capire.»

«Molto!» sospirò la principessa, metà per ischerzo e metà sul serio «Il meglio è non capire, e lasciar fare lo stesso. Anch' io sono nelle condizioni di Vostra Altezza.»

«Lei?!» e il granduca sorrise, guardandola con un moto rapido di infantile ammirazione.

«Io. Le pare così strano?»

Stefanolo si cerchiò la fronte con la palma aperta delle mani, ed ebbe come un sussulto di rassegnata sofferenza.

«La corona stringe.» commentò egli sempre a bassa voce «Noi dei Planacomba non la abbiamo più materialmente, ma ce n' è rimasta la cicatrice indelebile: duole come una stigmata di fuoco.»

Maria di Cerito gli fissava gli occhi negli occhi, ascoltandolo: non pareva ch'egli facesse nessuno sforzo per seguire la propria idea, ma piuttosto le parole gli uscivan dalle labbra e si rincorrevano rapide quasi che l'una, pur commettendosi logicamente e forse profondamente all'altra, fosse cancellata dalle susseguenti e ciascuna a volta a volta rimanesse sola e isolata, come sospesa nel gorgo che si creava tra la stranezza di chi le pronunziava e lo stupore di chi le udiva. Questo pensava Maria, e la sciava, senza interrompere, che l'apparenza coerente e grave di quel discorso si spezzasse o fiaccasse da sè.

«Brucia sempre.» continuò il granduca, col medesimo gesto «E ci son dei giorni in cui s'accende di nuovo. Una fiamma alta, alta….» tolse le mani dalla fronte, le levò verso il cielo nubiloso che s'andava rischiarando in uno scroscio più limpido di pioggia «Alta, alta…. e sale, sale, fin là, fin lassù, oltre il grigio, fino alle stelle…. E allora tutti i pensieri sono come le stelle, il cervello è traforato, è crivellato di luci…. Vedrà stasera, principessa. Se è sereno, vedrà. Guarderà la via lattea: è vicina a noi, è nella zona della nostra aria combustibile. Prima non c'era, ma un giorno il sole si piegò, deviò, venne per un momento più basso e arse quella plaga di aria terrena che non potè sostenerne il calore. C' è rimasta una strisciatura di bruciaticcio, e al buio si vede ancora. Io sento anche l'odore.»; rise, poi tornò serio, quasi lugubre: «Odore bianco, labile: come la spuma del mare.»

Il tuono s'allontanava; un gran chiarore dalla cappa delle nuvole fatte candide e uguali riscintillava in qualche goccia più rara che si frangeva contro i vetri in mezzo a uno spolvero pervadente e fine fine d'acquerugiola lieve.

«Apriamo?» domandò Stefanolo, forte, volgendosi alla sorella.

«Apriamo.» rispose Wanda, staccandosi anch'ella dall'angolo soffocante in cui s'era rifugiata sotto il cerchio giallastro che le fiaccole dei candelabri diffondevano.

Vennero i servi, e la terrazza fu spalancata. Il frizzore dell'aria rinfrescata dalla burrasca ormai lontanante penetrò fino in fondo ai polmoni come un prodigioso ristoro. Tutti e tre sorrisero, respirando a lungo, accennandosi a vicenda il fresco e splendente miracolo del mare che tra le vaste ondate s' incurvava e propendeva limpido e molle, sparso di spume instabili e veloci. Il pavimento ruscellante della terrazza specchiava il cielo: uno squarcio d'azzurro vi fu manifesto agli occhi dei contemplanti prima che tra le nuvole alte. Una rondine volò, spiccandosi dai ripari del castello, e dietro a lei si gettarono le compagne, ebbre di canti e di giri, incontro al sereno che tornava.

«Ora sì!» esclamò il granduca, vòlto alla principessa «Vuole che facciamo una passeggiata sugli scogli?»

«Dopo la pioggia?… Son pericolosi: se sdrucciolo e vado giù, chi mi ripesca?»

Stefanolo la guardò, perplesso.

«Ha ragione.» disse poi, sospirando «Io no, perchè sono troppo stanco, gliel' ho detto. Se mi gettassi in mare, non avrei la forza di risalire.»

Wanda scrollò il capo, di nuovo intristita dalla incoerente gravità del fratello.

«Povera me!» fece la principessa «Dunque Vostra Altezza mi lascerebbe affogare allegramente?»

Il giovine ebbe negli occhi un altro vacillamento di incertezza.

«Affogare!» esclamò, con un piccolo attuccio di superiorità e di compatimento «Ma chi le ha detto che si affoga? E che cosa significa affogare? I pesci, vede, non affogano mai.»

«Mah!» ribattè la principessa di Cerito ridendo «Peccato che non siamo pesci allora!»

«Siamo umani.» disse il granduca «Ma si può trasumanare.»

La regina lo guardò, con un sùbito sorriso di riconoscenza.

«Questo sì, si può.»

«Ebbene!» fece Maria. «Ne riparleremo quando saremo lassù.» e appuntò un dito verso l'azzurro, con un sospiro di rassegnazione.

«Se si resta qui un pezzo» commentò poi dentro di sè «dovento matta anch' io.»

I servi annunziarono un visitatore, il tenente conte Pietro Bouturline che veniva in messaggio da Tàllusa.

Wanda sussultò, scambiando un'occhiata con la compagna.

«Dio mio!» pensò Maria «Inspira Tu chiunque l' ha mandato….»; e obbedì la regina che le faceva cenno di seguirla.

Pietro Bouturline, secondo l'òrdine dato dalla sovrana, entrò poco dopo nella sala. L'uniforme grigia, inzuppata di pioggia, appariva quasi nera: nei movimenti ch'egli faceva le pieghe delle maniche, spremute, l'oscuravano anche più; aveva gli stivaloni e gli sproni tutti infangati. S' inchinò fino a terra, rimanendo sulla soglia.

«Venga avanti, tenente.» e Wanda gli tese la mano ch'egli baciò con atto rapido e lieve.

«Come sei ridotto, povero Pietro!» gli disse Maria, ridendo.

E i due cugini si salutarono cordialmente.

«Domando scusa a Vostra Maestà: il rovescio m' ha preso a mezza strada dal paese vicino, e m' è parso ormai inutile voltar la briglia indietro. Daltronde» aggiunse «il messaggio che ho da consegnare è urgente.»

«Di chi?» interrogò la regina, ansiosa.

Pietro, senza rispondere, guardò, incerto, la principessa di Cerito.

«Può parlare.» lo rassicurò Wanda «La principessa non è mai indiscreta per me.»

«Del generale Costanzo.» rispose Bouturline.

La regina non fiatò.

«Vostra Maestà» disse Pietro, attribuendo ad altra cagione dalla vera il turbamento della sovrana «Vostra Maestà mi aveva ordinato di rispondere.»

Wanda si scrollò dalla sua immobilità.

«Mi dia.» comandò: ed era così presa dal fiotto de' suoi pensieri, che non si curò di raddolcire in nessun modo l' invito fatto al tenente.

Questi aprì la giacca, trasse da una tasca interna il piego suggellato e lo consegnò alla regina.

«L' ho avuto tre giorni fa, alle dieci di mattina.» disse «Ho viaggiato il più rapidamente che m' è stato possibile.»

Wanda lo ringraziò con un sorriso; poi rimase immobile, tenendo intatta tra le mani la busta chiusa a tergo da cinque enormi impronte di ceralacca bruna.

«Avresti bisogno di rasciugarti un pochino.» osservò a Pietro la principessa, a bassa voce, ma non tanto che la regina non udisse: e lo fece per interrompere quel silenzio che doventava troppo grave.

Infatti Wanda si scosse.

«Ci pensi lei, Maria.» pregò; e al tenente: «Mi scusi. In verità dovrei occuparmi del messaggero prima che del messaggio. La ringrazio della sua puntualità.»

«Sempre al comando di Vostra Maestà.» rispose Bouturline, inchinandosi un'altra volta.

«Stasera resterà con noi.» aggiunse la sovrana.

S'affacciò novamente verso la terrazza, e Pietro udì con un improvviso trasalimento di curiosità ch'ella chiamava il nome di Stefanolo: la risposta, se ci fu, non gli venne all'orecchio. Poi Wanda passò rapida tra lui e Maria, con un cenno di scusa e di breve saluto, ed uscì dalla sala.

«Il piccolo duca?…» interrogò subito Bouturline, con un gesto discreto.

La principessa confermò.

«Ah!»

Ma, più discreto che mai, Pietro non si mosse.

«Sei un anfibio, cugino!» rise Maria «Devi averne fino alle ossa. Vuoi che t'accendano un bel fuoco, a primavera?…»

Il tenente le rispose esimendosi.

«Ti pare? A quest'ora, quella che è presa è presa. Mi dispiace d'essere così impresentabile; per il resto non importa nulla. Quando faremo la guerra, ne vedremo ben altre!»

La principessa di Cerito sussultò.

«Ne parli con sicurezza. Noi, quaggiù, viviamo fuori del mondo.»

«Di positivo non so niente nemmeno io. Ma si capisce che la guerra è inevitabile e vicina: in Venustria si respira nell'aria. Dicono anzi….» esitò, tacque.

«Che dicono?»

Pietro distese il braccio verso la terrazza, senza parlare; e guardò Maria, come aspettando da lei la conferma di quel che si diceva in Venustria. Maria si strinse nelle spalle, sospirando.

«Vuoi una tazza di thè, almeno?»

«Volentieri.»

«Siediti. Fai un po' Nettuno nella conchiglia!» scherzò la principessa, preparandogli il thè. «è vero che i saluti sono sottintesi, ma non mi comunichi neppure quelli di tua madre? Come sta?»

«Non ho saluti. Nessuno sa che io sia venuto qui. Assenza di servizio, e basta. Mamma sta benissimo. è al mare con Lotariò, Costanzina e i bimbi.»

«E Gregorio?»

«Gregorio credo che si stia occupando della fondazione di una rivista drammatica.»

«Si slancia, il nostro Mecenate!… Latte?»

«Una goccia, grazie.»

«Eppoi?» fece Maria con un sorriso cordiale, mentre il giovine sorbiva il suo thè «Quali altre notizie?…» e insisteva nel sorriso, aguzzandolo di bonaria e maliziosa reticenza.

«Che notizie?» stupi Pietro, candidamente.

«Ma le più interessanti, perbacco!… Mimì Fontanarosa, la tua Mimì….»

Bouturline arrossì fin nel bianco degli occhi: ebbe come un vago stringimento al cuore, perchè da tre giorni — tutto assorto nel fervore della missione che doveva compiere presso la sovrana —, da tre giorni, insolitamente, non aveva più pensato a Mimì. Se ne addolorò con un brivido di oscura meraviglia.

«Sta bene, sta bene.» s'affrettò poi a rispondere, con una precipitazione che pareva l'esordio d'un lungo di scorso; invece s' interruppe, e doventò scarlatto.

Maria si accorse del disagio di lui, ma, sebbene lievemente incuriosita, non volle tormentarlo.

«E la marchesa di Pietracamela, l' hai vista più?»

«Sai che la conosco appena. M' è parso d'averla incontrata l'altro giorno con suo marito e col comandante Roscio.»

«Parlami un po' di Tàllusa: tu che vieni di là mi hai fatta salire al ricordo un'ondata di nostalgia.»

«Che devo dirti?»

Pietro infatti era per natura negato all'eloquenza, e lasciava spesso languire la conversazione.

«Uomo d'oro come il silenzio!… C' è caldo, almeno?»

«Freddo no certo, eh?»

«Ne vuoi ancora?»

«Che cosa?»

Maria notò che il cugino era distrattissimo.

«Thè. Un'altra tazza?»

«Basta. Non ne prendo più.»

Entrò Stefanolo, dalla terrazza. Bouturline scattò in piedi, si pose sugli attenti. Il giovinetto lo guardò senza dimostrare alcuna sorpresa, sebbene i visi nuovi fossero rarissimi al castello.

La principessa si alzò, accennando Pietro al granduca.

«Vostra Altezza permetta che presenti a Vostra Altezza il tenente conte Bouturline: è mio cugino.»

Stefanolo si buttò su una poltrona, come se la presentazione non fosse fatta a lui. Solo dopo una brevissima pausa, quando proprio Maria stava per aggiungere qualche cosa onde dissipare l' impaccio ch'ella e Pietro in modo diverso sentivano, solo allora esclamò rivolgendosi a Bouturline:

«Glielo dica anche lei, dunque, che i pesci….» non finì la frase, e sbadigliò; poi sorrise. «Non è mica sonno — sa? —, non è fame, non è noia…. Che sarà, Dio mio, che sarà?»

In luogo del sorriso gli si dipinse sulla faccia un puerile sgomento: ombra passeggiera, perchè subito prese il fazzoletto e si diede con tutta l'attenzione a lustrare il bordo alto dei suoi stivaloni.

Pietro Bouturline, quasi abbrutito di stupore, non gli staccava gli occhi di dosso.

«Vieni.» gli susurrò la principessa non appena il granduca apparve dimentico di loro; e lo sospinse lievemente fuori, sulla terrazza. «Ha una cattiva giornata oggi.»

Il giovine ruppe il suo mutismo.

«Ma fa per davvero, o prende in giro la gente?»

«Oh!» esclamò Maria con un tono che non voleva significare nulla.

Pietro pensò con una percossa di raccapriccio che quello era l'atteso, l' invocato, l'eletto del popolo di Venustria, e guardò smarritamente la cugina.

«Hai veduto come somiglia la sorella?» osservò la principessa, per dare un altro indirizzo al discorso.

«È terribile!» affermò Pietro, passandosi una mano sulla fronte. «La stessa voce, gli stessi occhi…. Eppure, no, no!» aggiunse poi, con una specie di ingiustificata cocciutaggine ribelle «lo non li scambierei l'uno per l'altra, no, no…. Questo è un demente!»

«Taci!» raccomandò Maria, afferrandogli un braccio; e, ricordandosi che occorreva esser prudenti per ciò che l'avvenire potevà riserbare di misterioso e di strano, gli disse: «Non bisogna giudicarlo vedendolo una volta sola. È un originale che sa…. che…. che al momento….» si imbrogliò anche lei, con le sue bugie, e illogicamente concluse: «Tu non devi confidare ad anima viva l' impressione che hai ricevuta; e tu stesso devi dimenticarla.»

«Ma….» cominciò Pietro, che in mente propria seguiva un altro filo di ragionamento.

«Ma niente.» interruppe la principessa, recisa; e con un sorriso lieve mormorò, senza quasi sapere perchè: «Servizio della regina.»

Pietro tacque subito, arrossendo, e si inchinò.

«Sta' un po' a vedere….» disse Maria tra sè, guardando il cugino: fu un lampo, un' intuizione fugace; ed ella scacciò e disperse il sospetto troppo fulmineo.

«Che mare! Che cielo!» esclamò ad alta voce, appoggiandosi al parapetto della terrazza «Se ci fosse il duca di Varo…. A proposito, che n' è del duca di Varo? E di d'Anghelos?»

Si pentì immediatamente della seconda domanda, irritandosi contro sè medesima. Certo l'uragano di pocanzi aveva lasciato lo scompiglio in tutte le anime, anche nella sua: pareva infatti che ventate violente e improvvisse di curiosità e di supposizioni si insinuassero nella nuvolaglia inquieta dei ricordi e dei pensieri. Le tornò nel cuore il suo Ruggero, col bel sorriso limpido e fanciullesco, con la calma imperturbabile del carattere, ed ascoltò senza volervi porre attenzione le risposte di Pietro.

«Il duca si incontra qualche volta negli assembramenti del popolo. Pare un cospiratore. D'Anghelos parla: nei teatri, sulle piazze, dai balconi…. Parla un po' troppo, forse.»

Maria, nonostante il suo desiderio di non dar peso alle parole con le quali il cugino l'avrebbe informata intorno a d'Anghelos, dovè vincere la tentazione di difendere il poeta contro il giudizio del giovine. Non disse nulla, dunque, ed anzi a poco a poco gli ebbe quasi un sentimento di gratitudine per la scettica severità dell'apprezzamento ch'egli aveva fatto.

Tacquero ambedue per alcuni istanti, e Maria finalmente si distolse da quel malumore che le gravava la volontà e il respiro, e avvertì Bouturline che al castello la sera si cenava presto e che quindi egli aveva appena il tempo di ritirarsi per dare “una mano di lucido” all' uniforme molto provata. Impartì ella medesima gli ordini necessarii, e le sembrò che lo spirito le si liberasse da un'ambascia quando Pietro uscì dalla sala, fuor della vista di Stefanolo che rideva e faceva disordinatamente il chiasso con Fufi, il soriano enorme e maestoso come una fiera.

«Fufi non si meraviglia mai, lui!… Lui i pesci se li mangia e non affoga…. Su, Fufi, su!… Fuoco, Fufi, fuoco!…»

Inginocchiato presso un mobile sotto cui il gatto cercava di sfuggire e nascondersi, il granduca ora s'ostinava a strusciare e ristrusciare a ritroso il pelame tigrato, e con l'altra mano si difendeva dagli assalti e dalle ribellioni del suo tormentato.

Alla principessa di Cerito, che guardava quel giuoco crudele con occhi pieni di stizza, parve proprio ridicolo prodigare per l'occasione un “Vostra Altezza” a quel ragazzo che s'accaniva contro la povera bestia con stupida manìa.

«Ma lo lasci stare!» scattò, senza complimenti e senza preamboli; gli s'attaccò alle braccia, contendendogli la preda: «Badi, veh!… Lo lasci, povero Fufi, lo lasci!…»

L'altro si ostinava.

«Fuoco! Fuoco!… Dove sono queste famose scintille?… Fuoco, Fufi, altrimenti te le accendo io con un fiammifero!…»

Il soriano, aiutato da Maria che impacciava i movimenti del tiranno, riuscì ad assestare una zampata solenne sulla mano di Stefanolo.

«Ahi!…» gridò il giovine, ed allentò la stretta.

Fufi, galoppando, con le orecchie giù e il pelo arruffato, scappò via rapidamente. Il granduca, fermo a guardarsi la mano su cui si imperlavano le gocce del sangue nelle tre strisciature degli unghielli, era terreo e tremava di rabbia. Quando la principessa gli si avvicinò sebbene a malincuore, per offrirsi a curargli le sottili ferite, egli balzò indietro, balbettando parole sconnesse; volse gli occhi intorno, afferrò una tazza dal tavolinetto del thè e fece per scagliarla…. Invece le dita gli si irrigidirono in un avvinghiamento tenace, e Maria fu appena in tempo a sorreggerlo perchè non piombasse di schianto lungo disteso a terra. La crisi, violentissima, rese necessario l' intervento dei servi. Lo trasportarono via nella sua camera, e la principessa rimase sola a masticare il suo tedio fatto di pietà e di impazienza.

Sebbene a Planacomba la regina non usasse mai di cambiare abito per mettersi a tavola, Maria — la quale era curantissima della propria persona e si compiaceva molto delle belle stoffe, delle trine, dei vestiti e delle acconciature eleganti — non aveva tralasciato nemmeno nell'assoluta intimità di quella solitudine la grazia molteplice e leggiadra degli svariati adornamenti. Pure quella sera ella salì con poca voglia nel suo appartamento, prendendosela con le maniglie degli usci che non aprivano a dovere in quel castellaccio decrepito. Sbatacchiò tutti gli oggetti che le capitarono sotto mano: e, poichè con il malgarbo che l'assillava strappò un merletto di gran pregio e dovè lì per lì rimediare al guasto con una frettolosa accomodatura, quando di nuovo scese giù nelle sale il suo cattivo umore era al colmo.

Un servo, fermandosi e curvandosi al passaggio di lei, la avvertì che la cena era servita: — a Planacomba era abolita la chiamata generale e rumorosa, e i pochi commensali si ritrovavano ai pasti convenendovi borghesemente alla stessa ora —. Giunse ella infatti quando la regina e il tenente Bouturline stavano per prender posto alla tavola. La seggiola del granduca era vuota. Wanda disse semplicemente:

«Stefanolo non sta troppo bene. Ho giustificata digià la sua assenza al conte Bouturline.»

Maria diede in un'esclamazione vaga, e osservò la regina con inquietudine e con curiosità. La sovrana aveva cambiato d'abito non solo, ma ne vestiva uno che non aveva mai indossato per l' innanzi e che rompeva, con una nota di audace eleganza, l'abituale severità degli abbigliamenti ch'ella era usa portare. Dalla cintura le fioriva un gruppetto di ciocche campestri molli e profumate come grappoli di frutta. Era colorita, pettinata con cura, e una mezzaluna di brillanti le riscintillava tra i capelli dov'era appuntata e seminascosta con discrezione. Maria non l'aveva veduta così se non in rarissime occasioni, epperò ne rimase profondamente stupita.

«E ora?!» pensò.

Wanda parlava, parlava molto, di tutto, mutando e spezzando di frequente gli argomenti della conversazione. Anche Pietro a poco a poco s'animava, doventava loquace. La principessa di Cerito rimaneva estranea a quel brio che non le suonava sincero, e rifletteva intanto che la sua regina era la donna delle sorprese.

«E il re? È molto tempo che lei non vede il re?»

Poichè Bouturline rispose alla domanda con mezze frasi, la sovrana insistè. Allora il giovine dovè precisare ch'egli non aveva l'onore di frequentare abitualmente la corte. Ed ecco Wanda, senza darsi per vinta, assillarlo di interrogazioni, un po' nervose, un po' ridenti.

«Va bene!… Ma tutti i sudditi sanno che cosa fa il loro re. Non i segreti di stato, d'accordo; ma…. gli altri segreti. Dica dunque che cosa fa Albano II di Venustria!»

Maria si irritava, senza ben comprendere ancora.

«Vostra Maestà vuol cavar sangue da una rapa!» disse, e attenuò con un sorriso il complimento verso il cugino «Bisognerebbe che fosse Roscio o Triverna per saperlo!»

«Oppure anche il principe Ferdinando Jese.» aggiunse la regina, acuendo, con quel nome messo là di proposito, l'equivoca ostinatezza della sua intenzione.

Pietro arrossì anche questa volta più di quanto era necessario ed opportuno, e non rispose nulla. La principessa di Cerito sviò il discorso. Ma, per tutta la sera, non fu capace di dare alla conversazione quel tono giusto e ragionevole ch'ella avrebbe desiderato. Wanda le sfuggiva: aveva atteggiamenti nuovi non di civetteria, bensi quasi di languore o di ardore, e di tanto in tanto — proprio mentre Maria si domandava se per aventura non fosse sorta nell'animo della sovrana un' improvvisa fulminante simpatia per Pietro Bouturline — certe distrazioni ed astrazioni così assolute che non era più possibile fermarsi neanche per un momento nel dubbio suscitato dalle precedenti maniere di lei.

«Che pensa? Che ha»? ripeteva tra sè la principessa, e non trovava il bandolo di quella matassa che mostrava di volersi arruffare inestricabilmente.

Dopo cena passarono nella sala detta del pianoforte, per quanto l'oggetto meno notevole vi fosse appunto tale strumento che era, sì, di buona marca, ma vecchio e trascurato. Wanda, che non suonava quasi mai e che perciò aveva scordato tutte le tecniche apprese nel tempo dello studio, svegliò sui tasti qualche motivo orecchiabile: e rideva, rideva sempre più con un riso che turbava Maria come fosse il preludio, se non proprio di una catastrofe, certo di qualche avvenimento molto tedioso ed affannante. La principessa rammentò che Pietro aveva fama di pianista e cercò di occupare con la musica i suoi due inquietanti compagni, perchè anche il giovine appariva manifestamente trasognato e preso in un gorgo nuovo di seduzione. La regina accolse con compiacenza la proposta di Maria, nè Bouturline si fece troppo pregare. Era un conoscitore appassionato di musica classica, ed un esecutore quasi impeccabile ma freddo: molti ammiravano questo suo modo, qualcuno lo detestava. Sua cugina ne andava in verità poco fanatica e di solito non lo ascoltava con entusiasmo: pure si rassegnò ad urtare il proprio gusto, per non soffocare nell'aria falsa e carica di chiuse gravezze ch'ella sentiva nel respiro. Il pianoforte si destò al tocco del giovine, e sembrò acquistare una maggior perfezione meccanica: anima no: un po' di pianto, talvolta, ma suo ed estraneo alla musica, allorchè una nota necessaria coincideva con qualche corda poco tesa che rompeva la nitida armonia con un prolungato singhiozzo.

Così la principessa potè ottenere il silenzio di Wanda, e potè anche, di sfuggita, domandarle che avesse. N'ebbe in risposta un brivido — più che un sussulto — ed uno sguardo smarrito in cui tuttavia s'accese rapida una vampa. Poi la regina s'allontanò volutamente dall'amica, poichè forse il coraggio non l'assisteva a confidare la tempesta del cuore; e si pose di fronte a Bouturline, in piedi, appoggiando e chinando lievemente la persona su un alto leggìo di legno intagliato nel bruno e nell'oro. Parve alla principessa di Cerito che poco dopo la sicurezza tecnica del suonatore vacillasse alquanto. Wanda lo guardava con insistenza, gli gettava nell'anima — sapendolo o no? — abbagliamenti sconosciuti, angosce misteriose, pazze speranze ed illusioni: Mimì Fontanarosa, la mite e dolce fanciulla della promessa, doveva essergli in quei momenti non più un pensiero ma un rimorso.

Tutto accadeva fuor delle regole dell'etichetta quella sera: infatti, il giovine, a metà d'un allegro, cozzò contro un ostacolo d'agilità che pur era avvezzo a sorpassare vittoriosamente, e allora smise di suonare e serrò d'un colpo il coperchio del pianoforte. Poi balbettò due frasette di scusa, imbrogliandosi nelle parole come si era imbrogliato nelle note. Wanda non s'accigliò per quel gesto troppo brusco e deciso, e, per togliere d' impaccio Bouturline, prese subito a domandargli quali fossero i suoi autori preferiti. S' ingolfarono così ambedue in un colloquio vivace, mentre Maria batteva dentro di sè una bufera di scontentezza e di insofferenza: o una malaugurata suggestione le faceva veder tutto nero, o incombeva veramente qualche stravagante avventura nella quale, in maniera diversa, i primi ad esser trascinati cominciavano ad esser quei due. Non ne sentiva indulgenza: la regina la infastidiva, perchè la teneva responsabile di voler sovvertire la norma delle cose e prevedeva che vi sarebbe riuscita; Pietro le dava un impeto di rabbia, perchè molte volte era questa l' impressione che produceva in lei la debolezza del sentimento. D'Anghelos, senza una ragione, le tornò nel pensiero. Si ribellò. Che relazione, che somiglianza poteva esservi infatti tra Pietro Bouturline che dimenticava Mimì per la sovrana e lei, Maria, che rappacificava nell' immagine del suo Ruggero l' irritazione suscitatale dall' involontario ricordo di Marino d'Anghelos?… Pietro e Wanda le davano noia, proprio, una noia insostenibile; tanto più che il cuore della regina non la sgomentava: ella capiva ben chiaro che il fascino spiegato quella sera da Wanda ai danni del giovine non aveva radice in nessuna passione che nascesse in lei. La conosceva troppo per non accorgersi ed esser sicura almeno di questo. Non doveva essere neanche una bizzarria: piuttosto una febbre, che allucinava gli altri, e che della coscienza di Wanda offuscava tutti i sentimenti e tutte le volontà, tranne una, quell'una misteriosa e terribile che da tre ore, certo, le si era infissa nell'anima e a cui il messaggio di Costanzo, certo, non poteva essere estraneo. E, come sfondo tragico, la guerra. Maria rabbrividì: non seppe più nemmeno smussare l'asprezza di quel malessere con la consueta e placante morbidezza del suo arguto buon senso nè con la indifferenza superba che le donava su molte cose la superiorità del suo spirito. Non mai come in quel momento ella aveva sentito il peso della catena che la obbligava al suo servizio d'onore, e capi che, trattenendosi, avrebbe afforzata in sè, inconciliabilmente, la rivolta di tutto il proprio essere contro la sovrana alla quale invece aveva promesso aiuto e fedeltà. Disse che non stava bene e chiese il permesso di ritirarsi, accennando anche alla necessità di riposo che Bouturline doveva avere. Il giovine protestò con insolita vivacità, e la regina tacque. Così Maria, uscendo dalla sala, li lasciò ambedue ancora insieme, domandando a sè medesima con mordente ansietà che fatali rivoluzioni il destino preparasse.

In camera sua ella spalancò le finestre, e — senza ottenerne ristoro — respirò la grande aria marina e guardò le stelle lucidissime nella notte lavata ed illune. Poi, non sapendo come altro sfogare il malcontento che la tempestava, si pose a scrivere: una lettera per la marchesa di Pietracamela, e l'avrebbe data l' indomani a Bouturline perchè la consegnasse al suo ritorno in Tàllusa.

«Franca, quando ci rivedremo mi troverai certo enormemente mutata. Stasera non ho nemmeno il coraggio di mettermi davanti allo specchio, perchè son sicura che strabilierei. Se mi sentissi lo spirito più rassegnato e pietoso verso gli errori degli altri, la diversità operatasi in me la constaterei certo nei capelli doventati bianchi; ma no, chè mi sento invece troppo rabbiosa per aver potuto acquistare sia pur la ingannevole apparenza della saggia vecchiezza. E allora? E allora, mia cara, non c'è dubbio: i miei capelli debbono essersi fatti verdi, e tu mi rimirerai in questa strana lagrimevole condizione. E non sarò nè Dafne, nè alcun'altra delle simpaticissime antenate elleniche trasformate in piante. No: sarò sempre io, la principessa Maria Gloria di Cerito, e farò ridere la gente per la mia mostruosa metamorfosi. Fuor di scherzo, Franca, credimi: parlo seriamente. Se a ciascun l' interno affanno…. con quel che segue, il mio prossimo rimarrebbe inorridito. Davvero. I capelli no, è una burletta stizzosa. Ma l'anima?… Ah, che punto di smeraldo, amica mia! Bisognerebbe rovesciarmi come un guanto, per vedere in che stato sono. Verde di bile, di vergogna, di umiliazione, di impotenza e di tutti quegli altri sentimenti che, se avessero un colore, sarebbero verdi. Nelle commedie i personaggi più rivoltanti, anzi ributtanti, sono sempre stati per me i cosiddetti confidenti: ossia gli imbecilli che sanno tutto e non fanno niente. Ebbene: è toccata proprio a me questa amabilissima parte! E non mi consolo nemmeno pensando che anche tu avrai nella scena delle battute uguali alle mie. Non mi consolo con nessuna idea. I re, e specialmente le regine, dovrebbero andare tutti sulla forca. Ah!… Eccola, una piccola consolazione: poter scrivere e rileggere, proprio in caratteri miei ben nitidi sul foglio bianco, scrivere e rileggere questa frase che contiene una sapienza infinita. Non ho più tenerezze, non ho più indulgenze. Sono stufa. Le regine specialmente, sì. Ed una seconda piccola consolazione mi è procurata dal pensiero che questa ripetizione contro le teste coronate femminili ti sarà con bella gentilezza portata da mio cugino Pietro Bouturline. Mi domanderai perchè. Così: affari miei. Fa' conto che sia perchè il latore è certo il più sfegatato realista che oggi respiri sulla faccia della terra. Se poi il conte Bouturline morrà nella via del ritorno come un paladino errante e gli troveranno indosso questa lettera, si affretteranno ad abbuiare lo scandalo e…. mi destituiranno. Bella cosa! Andrei in terra d'esilio, in un paesetto sperduto chi sa dove, vicino a una chiesetta con un minuscolo campanilino, dimenticherei il mondo e — naturalmente — anche le sue pompe, e coltiverei un orticello sul cui verde sfondo, in mezzo al sole, a stagione opportuna dovrebbe cantare la fanfara rossa dei pomodori. Mi par d'esserci. Chi si ricorderebbe più di voi, povera gente, alle prese con la pazzìa vostra e con quella degli altri? Perdonami se ti ho messa nel fascio comune, ma tu pure sei una molto mediocre amatrice della campagna, e questo è già un indizio abbastanza grave: la mia chiesina a te non interesserebbe affatto, e per me invece sarebbe tutto; i miei pomodori forse ti farebbero comodo soltanto per le salse, ed io li adorererei anche per questo ma non soltanto per questo. Daltronde, se vorrai venirmi a trovare, mia cara perla bianca e bionda, ti accoglierò volentieri per qualche giorno, e ti preparerò un bel lettone alto e duro come un vecchio cofano da corredo nuziale, e la tela salda delle lenzuola sarà odorosa di spigo, e tu ti seccherai molto presto, e tornerai nel manicomio dei viventi.

“I miei nervi si vanno distendendo, e credo che la mia chioma stia per riacquistare il suo color naturale. Che commedia, Franca!… Quasi divertente, se vi si assiste a mente calma. Ed io ho accettato? E tu hai accettato? E i nostri riveritissimi coniugi hanno accettato?… è buffo tutto ciò — direbbe la frase di un dramma mal tradotto —. E c' è chi prende sul serio la vita!… Per questo le stelle — le vedo di qui, se mi volto alle finestre spalancate — fanno cli-cli con gli occhi e ammiccano continuamente al mondo umano ch'esse contemplano di lassù….”

Si interruppe. Bussarono alla sua porta. La servente che le teneva luogo di cameriera particolare, e che si chiamava Wanda come molte delle contadinotte della regione di Planacomba, la avvertì che Sua Maestà era lì e desiderava vederla. Maria coprì appena con la cartasuga il foglio della sua lettera, senza curarsi di troppo dissimularla, e incontrò sulla soglia la regina.

«Scriveva?» domandò questa, allorchè furono sole.

«Scrivevo alla marchesa di Pietracamela.» rispose la principessa francamente, e fu quasi sul punto di offrirle in lettura ciò che le era scivolato dalla penna.

«Credo che la vedrà presto.» disse Wanda, appoggiandosi al davanzale di una delle finestre.

«Ah!»

«Le scomoderebbe partire domani?»

Ecco l'ordine: e Maria, come il cavallo quand'ombra, morse il freno.

«Per dove?»

«Per Tàllusa. Deve averne ormai fin sopra i capelli della mia Planacomba, noh?»

«Secondo, Maestà. Stasera, per esempio, le confesso di sì….»

La regina sorrise; poi esclamò, dopo un momento:

«Lei è la più indisciplinata tra quante dame popolano le reggie del mondo!…. Per questo la preferisco a tutte. E lei sa come sia necessario che mi voglia bene.»

Silenzio. La principessa di Cerito non disarmava in apparenza, sebbene l'anima già le si flettesse al compatimento.

«Come s' è placato il cielo!» disse Wanda, rompendo la pausa che s'era fatta tra loro e levando il viso verso l'alto «In poche ore. Per le nostre tempeste di povere creature umane occorre molto, molto di più!»

Maria non rispose a tono, ma la sua voce ebbe ormai quella piega di tenerezza un tantino canzonatoria che le era abituale nei minuti di bontà; e cominciò così, intenzionalmente, ad alleggerire il troppo grave peso dei propositi della sua interlocutrice.

«E la sua stella? Non ha una stella Vostra Maestà? Sfolgora stasera?»

«Non ne ho nessuna. O forse tutte. Non so.»

«Discorso uso Stefanolo.» pensò la principessa.

«Anch'io sto placando la mia tempesta.» soggiunse Wanda «Ma chi sa quante altre, più terribili, mi aspettano!»

Maria storse la bocca.

«Tempesta?… Allora Vostra Maestà abbia la compiacenza di rammentarmi il nome di quella, tra le svariate amanti terrene, a cui Giove si mostrò in mezzo ai lampi e ai fulmini del suo splendore divino.»

«Non capisco.»

«Mi rammenti il nome!» insistè la principessa.

«Semele. Ma non capisco.»

«Semele. Sarà certo lei. I nomi mitologici non sono il mio forte. Ma ricordo che questa meschinetta, vedendo Giove armato delle sue folgori maestose, ne rimase abbruciata, e con essa il palazzo. Vero?»

«Rinunzio a sciogliere i suoi enigmi.»

«Vostra Maestà mi perdoni. È difficile a dirsi. Volevo intendere che anche le regine moderne, qualche volta, sanno mostrarsi in fulgida regalità e incenerire i poveri mortali.»

Altro silenzio, dovuto questa volta a Wanda che non fiatò e si imporporò di rossore.

Maria le guardò la cintura.

«I suoi fiori?» domandò con tristezza, senza severità, accorgendosi che il grappoletto agreste non c'era più; e seguiva, con questa domanda, il filo di un pensiero divinatorio.

«Non bisogna farmene carico!» proruppe la sovrana, trovando finalmente il varco per ove sfogare la piena dei sentimenti «è un addio che ho dato alla mia vita. Non mai come stasera sono stata assaltata dalla coscienza della mia femminilità, quella femminilità di cui non ho saputo valermi, ch'era e doveva essere il mezzo e lo scopo della mia esistenza, e che invece ho sciupato, ho disconosciuto, ho disperso…. No, no, Maria, non mi rimproveri!… Era angoscia, era rancore, per non aver saputo essere quella che normalmente dovevo essere: una donna, una donna come Orabile Jese, come….» non potè proseguire, e s'accasciò sul davanzale, singhiozzando.

Il mistero si apriva alla percezione della principessa di Cerito. Ahimè! Anche questa non era che una piccola miseria umana; lo stravagante e il grottesco esulavano, e restava l'affanno, l'eterno affanno geloso di un cuore innamorato. Sempre la stessa radice, se pur le manifestazioni siano diverse. Ecco una donna che, trovando nel marito la realizzazione del proprio sogno sentimentale, non si sarebbe curata nè di politica nè di follie guerresche; delusa, si precipitava invece nell'abisso dell'avventura tonante e sanguinosa, come un'altra si sarebbe uccisa, o avrebbe applicato la legge del taglione, o si sarebbe rassegnata. Maria, padroneggiando cosi e misurando alla stregua dell'usuale la stranezza apparente delle decisioni di Wanda, riacquistava l'equilibrio della sua calma e si sentiva più disposta a proteggere la sua regina. Le accarezzò i capelli, le parlò, riuscì a quietarla.

«I fiori li ho dati a Bouturline.» confessò la sovrana. «Ma egli mi è indifferente, glielo giuro. Anche lui, domani, non ci penserà più. Parte stanotte.»

La principessa, dubitando in cuor suo dell'affermazione che si riferiva all'oblìo di suo cugino, non disse niente. Aspettava ora che la regina formulasse in parole la notizia della assurda risoluzione che il messaggio di Costanzo doveva avere stabilmente concretato: ella ne era sicura, come se già avesse letto il contenuto di quella busta sigillata che l'accesa fedeltà di Pietro Bouturline aveva celermente portato da Tàllusa a Planacomba. Non furono necessarie molte esplicazioni. Bastò che Wanda, rilevando alta la fronte, ripetesse con accento fermo:

«Domani lei mi userà la cortesia di tornare a Tàllusa. Farò sapere presto a suo marito dove dovrà venire a raggiungermi.»

«Va bene.» fece Maria, con un piccolo sospiro; e pensò a Ruggero, tutta presa per lui di trepida tenerezza.

«La comunicazione» aggiunse la regina «sarà ufficiale, e al principe Gloria di Cerito sarà indicato il luogo dell'incontro con Sua Altezza il granduca Stefanolo.»

Ella pronunziò queste parole a voce alta e squillante, senza tremare.

«Va bene.» disse ancora Maria.

Inutile contrastare, inutile anche cedere allo spiritello interno che, in altre condizioni, avrebbe sottolineato il ridicolo nascosto in quella frase solenne.

Tacquero a lungo.

«La rivedrò, Maria, cara, sorella.» mormorò infine Wanda con un po' d'affanno «Non domani: mi farebbe male. La rivedrò in altre circostanze, dopo altri avvenimenti. E lei, Maria, mi riconoscerà.»

Insistè su quel “mi riconoscerà”, le pose le mani sulle spalle, le si accostò a viso a viso.

«Vuol darmi un bacio?»

Si baciarono: freddamente, perchè ambedue pensarono alla stranezza d'un tal saluto che avrebbe avuto bisogno di commosso fervore; e questa premeditazione agghiacciò in loro l' impulso dell'animo.

«Buona sera.» disse la regina «Mi ricordi alla marchesa di Pietracamela. E…. preghi per me.»

Uscì, senza che la principessa muovesse parola nè gesto per trattenerla. E Maria strappò la lettera incominciata: poi s' inginocchiò, e parlò con Dio.

Ella partì l' indomani nella mattinata; e da Wanda — la rozza servente che l'accompagnava fino al paese dov'era una stazione ferroviaria — apprese che il conte Bouturline era rimontato a cavallo con i primi chiarori dell'alba, e che la regina aveva passato la notte su una poltrona, presso il letto del fratello che, dopo l'accesso della sera innanzi, era abbattuto e sofferente.

Paola Rinaldi entrò nel vecchio ed ampio palazzo dov'era la sede di tutti gli uffici preposti nel regno di Venustria alla farraginosa macchina delle scuole statali. Strada amara, per lei, quella da percorrere sotto gli occhi dei portieri e degli uscieri che sono i testimoni indifferenti e spesso insolenti del petulante o pietoso andirivieni di tanti laureati in caccia d'un posto o d'un miglioramento di condizioni. Ella vi s'era inoltrata rarissime volte, e sempre con un senso d'umiliazione profonda. Anzi, incontrando per gli atrii e sulle scale i vispi colleghi che vi s'affrettavano come investiti di tronfia importanza o i novellini che sgusciavano attenti ed ossequiosi, si domandava in cuore perchè quella gente non provasse la sua medesima impressione o perchè ne provasse di così diverse dalla sua. Era timidezza in lei? Era forse orgoglio. Aveva coscienza di sè, e le ripugnava mendicare la sistemazione scolastica dinanzi a personaggi per i quali la prima voce in capitolo era quella, molto fioca in verità, delle carte e dei moduli scritti: essi le facevano l'effetto di sensali tra il governo e gli insegnanti, ma sensali ben lontani dall'avere il fiuto sopraffino di coloro che trafficano la materia.

Avanzava rapidamente, e si soffermò soltanto nel cortile ch' era l' unica cosa non impregnata dell' odore e del colore della burocrazia e rammentava ancora il vecchio convento cui il fabbricato era servito d'asilo prima d'esser sepolto sotto l'antipatico ingombro degli uffici. Respirò. La fontanella chioccolava nel mezzo saltellando tra il muschio, e le arcate del portico si volgevano con grazia ingenua seguendo le tinte persistentemente vivaci dei rabeschi a fresco che ripetevano sigle e simboli sacri. Abbandonò a malincuore il luogo quieto, e si diresse su per lo scalone consunto spoglio e semibuio. L'anticamera la fece fremere: era zeppa di gente, e ripugnava vedere e sapere ch'eran tutti sollecitatori. Paola diede un'occhiatà all'intorno, per iscoprire l'usciere: questi — grasso, sudato, senza berretto — venne poco dopo, annunziando a gran voce ad un signore baffuto e barbuto che il commendator tale non poteva ricevere, essendo occupato in una commissione. Il signore barbuto se n'andò di mala voglia, osservato al passaggio con sguardi compassionevoli dalla folla in attesa. Quando Paola ebbe detto pian piano il nome del funzionario ch'era venuta a cercare, l'usciere alzò le spalle.

«Se avrà tempo!… Alle cinque non riceve più, e ci son tutti questi altri prima di lei.»

«Aspetterò…. Tenterò….» fece Paola, mormorando.

«Come si chiama?»

«Rianaldi.»

L'uomo si accinse a scrivere sopra un foglio già listato da croci a matita.

«Tibaldi?» domandò, distratto.

Ella ripetè, sillabando più nettamente, ma sempre con tono piano. E l'altro, notandolo sul foglio, strepitò il nome ai quattro venti. Quelli ch'eran più vicini la squadrarono, e due o tre combriccole parlottarono tra loro, sbirciandola. Paola dentro al cuore si sentì e si fece piccina piccina; ma serbò in apparenza una gran calma indifferente e andò verso una finestra. S'accotse che un giovine la guardava: aveva certo udito anch'egli il nome di lei, e questo pareva averlo interessato in modo speciale. Li per lì Paola non gli badò, nè volle mostrare di darsi per intesa dell'attenzione destata, attenzione che non aveva daltronde nessuna insolenza imbarazzante. La finestra dava sul cortile, ma dall'alto, e le persiane socchiuse a difesa del sole impedivano d'affacciarsi liberamente: s'udiva solo, tendendo l'orecchio, lo sciacquìo lene della fontanella. Tra le voci e i discorsi dei compagni d'attesa Paola Rinaldi cominciò a distinguere le singole conversazioni di coloro che le erano più prossimi: solita storia di completamenti d'orario, di personale di ruolo e fuori ruolo, di sedi primarie, di stipendii, di sessennii, di categorie…. insomma tutto il frasario barbaro della carriera. Paola ascoltava, soffocata da un malessere vincente. Li guardò. Specialmente il coro femminile era degno d'osservazione, perchè le donne professioniste — massime le insegnanti delle scuole medie — non hanno ancora trovato un aspetto esteriore che rientri nella normalità: si sono invece alcune fissate nel tipo della trascuratezza occhialuta e mascolinizzante, ed altre in una sorta ambigua di eleganza chiassosa e di cattivo gusto. Di queste ultime ve n'era una molto bellina, scollata, trasparente, che rideva spesso con una nota acuta e un po' volgare; e i colleghi uomini la ascoltavano volentieri, ridevano anch'essi, la incitavano, compiangendo quel suo malaccorto direttore che non voleva riconoscerne i diritti alle classi aggiunte.

«Povera figliuola!» pensò Paola «è giovine, è sana, e s' è ridotta a godere d'un trionfo pseudo-galante in mezzo a questi altri disgraziati. Vorrei sapere che cosa insegna, che cosa sa….»

Quasi ad appagare la sua curiosità, la graziosa donnina salutò con molta effusione una nuova venuta, e, nello scambio delle notizie, diede l' informazione del proprio ufficio: insegnante di Storia e Geografia in una scuola tecnica. L'altra, la sopraggiunta, era insegnante di Disegno. Seguì qualche presentazione, e così Paola Rinaldi seppe che quell'obeso giallo e disfatto era direttore d'una scuola complementare; che quel giovinetto pallido e quasi imberbe impartiva la scienza matematica in un istituto commerciale; e che quel capelluto tirato a pulimento, con le scarpe gialle, le calze viola e la cravatta azzurra, era professore di ginnasio. Ora ce l'avevano con i supplenti, contro il pericolo di vederli ammessi nei ruoli senza concorso: si udivano molti paroloni di “dignità” e di “decoro”, ma il sentimento era d'astio, nel ricordo delle patite preparazioni, dell'esame sostenuto, dèl batticuore, del computo delle punteggiature. La Rinaldi si riduceva pertanto ad altri pensieri:

«Nessuno, tra costoro, si rammenta degli scolari. Date loro per guida un asino, o un disadatto…. Che importa? Basta che anche lui sia passato per la trafila burocratica; che morda anche lui quel pane amaro; che s' intossichi prima di vivere. Maggiore serietà nei concorsi? Non ne vogliono, ne hanno paura anche questi che sono ormai sistemati: la schiera dei pochi liberi, giovani, impetuosi, coscienti li fa tremare. Esaminateci, invece: ma sul serio! Il còmpito scritto, va bene, per intendere se uno è capace, di sorpresa, a trattare un argomento di studio, e con che idee personali, e con che forma. Le interrogazioni orali, benissimo, per indagare l'agilità della mente, la prontezza della parola, la coerenza e l'ordine dei discorsi. L'esperimento della lezione, sia pure, per misurare l'equilibrio, l'armonia, la persuasione dei ragionamenti. Ma non basta, non basta!… Questo può essere l'abito di gala di gente che, tornata a casa, si mette in maniche di camicia e si sbracula le fibbie dei calzoni. Non basta!… Ispezionate la scuola dove l'eletto è stato nominato, e non dopo tre anni, per decidere s'egli debba esser chiamato ordinario o straordinario; ma subito, assiduamente, per sapere se è degno di rimaner nella scuola o se deve andarsene per sempre. Che volete, per cacciarnelo? Che manchi all'onore o alle leggi della morale?… Meno, molto meno, cari signori, se veramente vi stanno a cuore le sorti della scuola. Altrimenti, nonostante tutti i vostri concorsi e le vostre riforme, avrete in eterno un'accozzaglia di gente mediocre, annoiata, svogliata, inasprita che perpetuerà il disordine, l'uggia, la confusione, e starà sempre — tra gli alunni e la vita — come un' inferriata e come un' ostinatissima persiana che impedità l'aria, il sole, la luce…»

La graziosa “geografa” s'era stancata di prendersela con i supplenti, e cominciava a sbadigliare. Paola le fu riconoscente, per lei stessa, di quel segno di tedio: non poteva un musino così incipriato far combaciare il proprio ideale con l'aridità degli unici problemi scolastici che pur era in grado di concepire. E la Rinaldi questa volta pensò:

«Bella figliuola, perchè non vai a studiar la geografia nelle peregrinazioni di una compagnia d'operette? Daresti più gioia a te e agli altri, e i tuoi colleghi ti parrebbero molto ridicoli e goffi, come quel panciuto putrefatto che t' ha già dimenticata per la santità de' suoi concorsi; o come quella specie di commesso viaggiatore con le calze viola e la cravatta azzurra che s' è cacciato perdutamente nei titoli e nei ruoli; o come quell'altro là cui indirizzi ora i tuoi begli occhi verdi…. No, quello no, non dev'essere della nostra razza: è troppo solo, elegante, sbadato…. Chi è?… Ti piace? Non sbadigli più? Hai capito anche tu ch' è d'uno stampo diverso?… Ah, perbacco, ma chi è?»

Si trattava del giovinotto che, udendo il nome di Paola, aveva mostrato d'interessarsi a lei. In quel momento egli era occupato a decifrare i varii cartelli stampati o scritti a mano che pendevano dalle pareti; sicchè la Rinaldi potè senza indiscrezione osservarlo a suo agio. Le pareva di conoscerlo, o d'averlo visto altre volte, e non raccapezzava quando nè come. Era giovine — forse non arrivava alla trentina —, ben fatto della persona, correttissimo nel modo di tenersi e di vestire, inappuntabilmente calzato e inguantato ma senza il lustro e la rigidità delle robe troppo nuove o inconsuete, biondo, gli occhi chiari, il volto lievemente abbronzato senza ruvidezza, i baffi piccoli e leggeri sulla bocca nobile e sana. Chi era?… Un professore? Paola lo escludeva quasi con certezza. Uno scrittore? Nemmeno, perchè, in tal caso, le sembrava impossibile di non saper riconoscerlo sicuramente. La donnina scollata e incipriata iniziò una manovretta d'approccio, accostandosi anch'ella all'avviso murale che l'incognito stava leggendo; tentò anche un'esclamazione ed un'occhiata languida, ma il giovine la guardò appena e non si curò di lei.

«Le quattro e mezzo!» disse forte l'usciere, gettando la sua voce nel ronzìo echeggiante d'un orologio che avea battuto l'ora; e parve un avvertimento funebre a tutti quei miseri che aspettavano pazientemente e che temevano di non poter esser più ricevuti.

«Ma io debbo ripartire stasera!» azzardò uno d'essi con aria di grande sconforto, balzando su dall'angolo d'una panca.

L'usciere, stringendosi olimpicamente nelle spalle, additò a costui un cartello attaccato alla parete che Paola aveva dietro a sè. Questi continuò a borbottare:

«Eh, bel rimedio! So anch' io!… Ma per questo era inutile che mi scomodassi a viaggiare, noh?…»

Poi si ributtò rassegnatamente a sedere, si prese la testa tra le mani, e rimase immobile.

La Rinaldi lesse la malgradita panacea indicata al ribelle d'un minuto, e apprese che “il signor Direttore Generale, ricevendo soltanto fino alle cinque, pregava quelli dei suoi visitatori che nel tempo limitato non avessero potuto conferire con lui di lasciargli per iscritto i motivi e le ragioni della visita, notando ben chiaro il proprio indirizzo”.

«Sì davvero!» commentò Paola «Mette un bel conto venire fin qua col cervello pieno di buone speranze!… Se non mi pigli, scrivimi, e ti risponderò a primavera!»

L'usciere, tornando fuori dal sancta-sanctorum, chiamò questa volta un nome grottesco e coincidente nel suono con una parola di significato alquanto prosaico e volgare. Vi rispose la bella dell'anticamera, e si lanciò con trionfante premura dietro all'annunziatore. Gli occhi di Paola si incrociarono in quel punto, senza farlo intenzionalmente, con gli occhi del giovine sconosciuto: balenò nel loro sguardo un sorriso rapido e involontario, poi la Rinaldi subito si distolse.

L'ultimo individuo ch'era uscito dalle stanze del Direttore Generale informava un gruppetto sull'avvenuto colloquio. A sentirlo — eppur aveva un aspeto pietosamente miserando — il Direttore Generale s'era profuso in iscuse e in proteste di altissima considerazione, e lui invece aveva fatto il disdegnoso a proposito d'una certa sede di scuola che poco prima egli stesso aveva blaterato come il maggior desiderio da esprimere e rivendicare. Ci credevano gli ascoltatori? Non ci credevano? Paola constatava l' insincerità, forse non tutta premeditata, di quei riferimenti. Ma non se n'occupò più a lungo, perchè fu distratta dall' ingresso di un ragguardevole personaggio, ossequiato dall'usciere il quale gli indirizzò un sonoro “onorevole!” che destò l'attenzione universale. L'onorevole venne premurosamente al giovine incognito, gli strinse la mano, e la Rinaldi udì qualcuna delle frasi ch'essi si scambiarono.

«L'ho fatto aspettare, signor duca?»

Questa designazione fu per Paola un lampo rivelatore. Ma sì! Il duca di Varo. Ricordava ora perfettamente ch'egli le era stato indicato dalla principessa di Cerito il giorno della rappresentazione classica a Vezio, e ricordava anche d'averlo in sèguito qualche volta riveduto. Se non era stata pronta a ravvisarlo, si era perchè non avrebbe mai supposto di incontrarlo in quel luogo che doveva essere così lontanto ed alieno dalla casta e dalle abitudini di lui. Il duca di Varo, sicuro. Ed egli, mentre l'usciere s'era avvicinato al deputato e gli parlava, fermò ancora il proprio sguardo su Paola.

«Adesso entrerà subito, onorevole.» diceva l'usciere.

«Chi c' è?» e il deputato accennava col gesto verso le stanze del Direttore Generale.

«Solita gente.» rispose l'altro con un'occhiata circolare che non aveva nulla nè di incoraggiante nè di lusinghiero per i presenti; e si permise anche un'osservazione scettica sulla ingenuità dei visitatori: «Credono, venendo qui a parlare, d'ottenere chi sa che; e perdono e fanno perdere un monte di tempo. Se si contentassero di scrivere, invece….»

Non terminò la frase, perchè il trillo del campanello lo chiamava; e allora domandò, guardando il compagno del deputato:

«Il signore entra con lei, onorevole?»

«Con me, si. Gli dirai….»

Altro gesto verso i sospirati recessi, e stava per aggiungere il nome del duca, ma questi lo interruppe:

«Non importa, onorevole. Vengo con lei.»

L'usciere disparve, e Paola pensò che forse il duca di Varo, con la sua discrezione, aveva voluto evitare che il suo nome e il suo titolo fossero gettati a sbalordire la schiera borghese degli aspettanti. Poco dopo, insieme col deputato, egli entrò dal Direttore Generale. Ne uscì invece la bella maestrina, colorita, garrula, trionfante. Alcuni le chiesero notizie, altri invece borbottarono perchè l'ultimo venuto aveva avuta la precedenza nel passaggio.

«Deputati e senatori sono ricevuti subito, ad ogni ora.” si degnò di spiegare il corpulento usciere; poi tamburellò sul suo banco con le dita aperte, e disse: «Dieci minuti alle cinque!»

Paola, a quel reiterato avvertimento che fece trasalire e sbuffare una diecina di persone, ebbe la tentazione di rispondere: “Ricordatevi, fratelli, che dobbiamo morire!”; e spense la propria impazienza in un' ironica considerazione sulla baldanza degli uscieri e sulla tirannia delle anticamere ministeriali. Che fare? Era tardi davvero. La domanda ch'ella rivolgeva a sè stessa doveva in quel momento esser comune anche agli altri. Facilmente si intendeva che il Direttore Generale avrebbe ormai chiuso per quel giorno la sua porta, e tutti nonostante ciò rimanevano, con la certezza d'esser rimandati, ma con l'ostinazione di chi non vuole darsi per vinto. Anche Paola restò, forse più per una vaga curiosità sul duca di Varo, che non per la speranza di poter essere ancora ricevuta. Si volse intanto a guardare la leggiadra rappresentante della Storia e Geografia nelle scuole tecniche del regno di Venustria, e udì che molto ingenuamente — eppur tenendosene come d'una vittoria — ella riferiva il suo recente colloquio.

«E di buona pasta.» pensò Paola «Ed è forse una persona felice, perchè vede tutto color di rosa innanzi a sè, anche se gli affidamenti datile si limitano — come pare — ad una problematica promessa di prender visione della cosa. Ella ha fiducia nella propria bellezza come un altro ha fede nel proprio ingegno; ed attraversa ancora il periodo delle beate illusioni.»

Questo raccostamento delle sorti della bellezza con quelle dell' ingegno avviò la Rinaldi lungo una serie di riflessioni amare e poco piacevoli. Era bella quella ragazza? Sì, ma…. Lei, Paola, aveva ingegno? Sì, ma…. E forse a causa del ma sarebbero rimaste, e l'una e l'altra, a mezza strada. Invece, tanto la bellezza quanto l' ingegno debbono essere assoluti per trionfare; o se no debbono darsi pace in un effimero successo dinanzi a un pubblico volgare, e, per conquistarlo, derogare anche da molti principii, acconciarsi a molte umiliazioni, torcersi, macchiarsi, corrompersi. Paola si sorprese in flagrante colpa di disperazione. Questo le accadeva ora assai di frequente, e le pareva un cattivo segno. Dove erano andati i bei tempi in cui sempre, senza parentesi di dubbio, ella guardava il mondo e l'avvenire con occhi di sicura conquistatrice? La nuova debolezza del suo spirito la sgomentava. Si scosse. Sorrise di sè medesima. Era quello il luogo favorevole ai pensieri d'una valida e manifesta affermazione dell' ingegno? Sotto la doccia fredda dell'umiliante aspettativa, nell'anticamera popolata di genti che — sapendolo o no, rassegnandosi o no — pur erano vittime della vita in un tran-tran grigio meschino e tedioso, nessuna speranza poteva resistere, nessun sogno roseo delinearsi e sorridere.

«Sono sciocca.» disse ancora Paola tra sè «Scelgo bene lo sfondo e lo scenario per edificare i miei castelli in aria! Qui dentro non posso che essere e non posso che sentirmi un' impiegatuccia governativa che si dibatte nel cerchio angusto delle condizioni materiali. Qui…. qui sono simile a questi altri e…. e basta.»

Paola era anche una persona di buon senso, epperò non spinse più oltre nè accentuò il paragone tra sè ed i suoi colleghi. Capì che, continuando, sarebbe caduta in una presunzione ridicola; e corresse, anzi, l' impeto orgoglioso che quasi le aveva fatto rasentare il sarcasmo.

«Eccomi come sono. Credo di valere più degli altri, e invece, se costoro potessero farlo, e si prendessero la pena di esaminare il mio io, avrebbero ragione di canzonarmi. Dove sono i…. frutti del mio felice ingegno?» — la punta della citazione letteraria strappò argutamente l'amarezza delle riflessioni — «Che ho fatto io, che farò, io che mi stimo di poter guardare gli altri da un livello più alto? Son qui com'essi a mendicare una cattedra, e sono peggiore di loro perchè sento la poca nobiltà di quest'atto, eppure non desisto. Per loro il colloquio con i funzionarii che decidono delle nostre sorti è una vicenda normale, è un tentativo non biasimevole: vengono: alcuni forti del proprio diritto, seguendo la via che si sono eletta, tendendo ad uno scopo ch'essi considerano il più serio e il più desiderabile della loro vita; altri commossi, ansiosi, timidi, umili, forse sfortunati, che ricorderanno questa visita come un importante avvenimento professionale; altri sfacciati e trafficanti, muniti di commendatizie, giuocando di furberia, contando sul favore e non sulla giustizia, ma insomma anch'essi sinceri e intieri nello stimare unica e definitiva l'aspirazione verso i gradi più cospicui della carriera. Ed io? Mi adopro per ottenere le stesse cose: ma, invece d'una pacata coscienza, porto con me un infiammato orgoglio; invece d'esser trepidante e rassegnata, sono disdegnosa e ribelle; e non considero quello che potrò ottenere come il conseguimento d'un mio saldo e soddisfacente ideale, sibbene come la piccola realizzazione d'un quasi trascurabile diritto. Mi fa onore questo?… E in che modo si conciliano il disprezzo e l' indifferenza con l'amore vero e grande che nutro per i miei scolari? Il diavolo mi vorrebbe far sofisticare che la conciliazione è possibilissima, ma non lo ascolto. Basta con l'eterno dar ragione a me stessa!… Sono una creatura scontenta, e gli scontenti sono sempre disadatti deboli e vani, e non sono, no, i cosiddetti spiriti superiori….»

Si scosse al richiamo dello squillo elettrico, e poco dopo vide, frettolosi, passare il deputato e il duca di Varo che questa volta tirò dritto senza mostrare d'occuparsi di lei. Poi, inaspettatamente, l'usciere, ricomparendo nel luogo dei sospiri e della pazienza, chiamò ad alta voce:

«Signorina Rinaldi.»

Paola trasalì stupefatta, e seguì il cerbero ch'era doventato sufficientemente mansueto. E il Direttore Generale, prima di imprendere la conversazione d'ufficio, le spiegò dende le fosse derivata la inattesa precedenza. Le disse infatti:

«É il duca di Varo che, or ora, ha fermato la mia attenzione sul suo nome. Lo conosce, non è vero?»

Nel rivolgerle quest'ultima domanda, il commendatore la guardava con le palpebre socchiuse, traverso agli occhiali, con un po' di stupore premuroso, forse, ma senza malizia. Per fortuna Paola non arrossiva mai, e quindi potè subito dissimulare la propria meraviglia, ch'era, del resto, molto candida.

«Che sa di me il duca di Varo?» pensò.

E subito rispose, vagamente:

«Cioè…. sì…. Abbiamo amicizie comuni….»; e la mente le corse alla principessa di Cerito.

L'altro le fece capire che il duca aveva mostrato una certa sollecitudine perchè ella fosse ricevuta in quello stesso giorno, e Paola da tale notizia rimase in verità più seccata che lusingata. Lì per lì, presa dall' interesse di ciò che aveva a dire, non ebbe tempo d' indugiarsi a pensarvi; ma dopo — quando uscì dal Ministero recando seco le promesse assai gentili del commendatore — si sentì uggiosamente maldisposta contro l' intervento del giovine.

Poco tempo trascorse, e l'occasione volle che il duca di Varo le fosse presentato. Fu in una saletta da thè, un rifugio quieto semplice e non privo d'una certa signorilità, che s'apriva in una piccola casa dimessa, arrampicata sul dorso d'una collina a spiare la grande vallata sottostante: vi capitavano radi consumatori, per lo più stranieri che salivano fin lassù per godere la bellezza della veduta. Paola vi andava qualche volta, sola, e non secondo il favore della stagione, ma secondo il desiderio del suo spirito. Quel giorno appunto ella era amara, senza un perchè: ma, come in lei l'amarezza indefinita s'esprimeva spesso quasi in una stanchezza plumbea che le occupava le membra e l'anima, allora cercava volentieri quel luogo, per annegare la propria inerzia in uno svogliato riposo. Anche il cielo era grigio, ma senza pioggia; e grigia anche la valle, e grigio, ma senza pioggia; e grigia anche la valle, e grigio l'orlo montuoso di quella vastissima conca. Paola, seduta presso il davanzale della finestra aperta, pensava, proprio, al duca di Varo: le seccava ch'egli si fosse valso del nome sonoro per facilitare il varco alla borghesisisma modestia di lei, sollecitante nei Ministeri; le pareva un' indelicatezza che aveva accentuato, invece di attenuarla, la distanza che separava le loro caste. Si domandò: “Mi piace?” Evitò la fatica di rispondersi con decisa precisione. Bel giovine ed elegante, doveva essere anche intelligente. “Perchè intelligente? Che ne so io?” Ah, gliel'aveva detto la principessa di Cerito, ma….

Udì alcune voci suonare vivacemente giù nella viottola. Non s'affacciò per vedere chi venisse; ma una delle voci la colpì, eppoi un getto di riso limpido e canoro: la principessa di Cerito, non v'era dubbio. Immediatamente Paola cambiò di posto, in modo da voltar le spalle all'usciolino d' ingresso: la compagnia con cui era la sua amica le metteva addosso una timida e ostinata ritrosìa. Indovinò anche che il duca di Varo doveva far parte della comitiva, ne fu anzi certa senza un perchè, e le parve singolare d'averlo vicino nel momento stesso in cui lo ricordava.

«Finalmente!… Un chilometro di strada, una salita impossibile, eppoi volevate darmi ad intendere che ci s'arrivava in dieci minuti!»

Era la marchesa Ribaudo che per prima gustava la dolcezza d'una seggiola, dopo un insolito cammino che era riuscito grave alle sue scarpette leggere.

«La marchesa di Pietracamela non si lamenta.» disse Ugo Roscio «Eppure è nuova anche lei di questo ameno recesso!»

Franca si sporse da una finestra a guardar fuori.

«Dovrei lamentarmi» esclamò «della soperchieria che mi avete usata. È tutta qui la gran veduta?»

Un coro di proteste ridenti la subissò. Erano una schiera gioconda e molto rumorosa. Anche Valentino — che ne faceva parte — era allegrissimo, almeno in apparenza. Si accomodarono intorno ai tavolini, ravvicinandoli per esser tutti nella medesima brigata. Fu ordinato il thè. Chiacchieravano, ridevano, ed anzi il marchese Ribaudo reclamò un istante di silenzio per ammonire burlescamente a bassa voce che non era quello il modo di turbare il raccoglimento d'un'anima assorta in solitaria contemplazione: ammiccò, così dicendo, verso Paola che non s' era nè voltata nè mossa. Allora gli altri la osservarono; e la Rinaldi, in quell' improvvisa quiete e per quel bisbigliare sommesso, comprese senza sforzo che i lieti viandanti si occupavano di lei. Era una cosa molesta, ed ella si sarebbe volentieri alzata per andarsene: ma la trattenne il pensiero di dover passare direttamente sotto i loro occhi curiosi. Maria di Cerito — che la vedeva alle spalle — stentò un momento a riconoscerla: quando fu sicura che si trattava di Paola, ne avvertì in fretta i compagni, eppoi ristabilì la varia sonorità della conversazione per dissipare l' indiscreto esame che s'appuntava sull'amica. Quindi si staccò dal suo crocchio, e venne in faccia alla Rinaldi, salutandola cordialmente: non le fu possibile persuaderla ad “imbrancarsi”, come disse, e non insistè; ma una spinta quasi irriflessiva della fantasia indusse Maria, che rammentò l'episodio del Ministero riferitole dal duca di Varo, a chiamare Valentino.

«Se questi due si conoscessero, eppoi si volessero bene?…»

Un lampo che, subito dopo lo scatto improvviso, la lasciò perplessa.

«Mah!» rispose a sè medesima «Tutto può accadere!»

Aveva molta simpatia per Paola e per Valentino, li stimava ambedue, nè la lontananza dei due nomi le sembrò insuperabile.

«Valentino di Varo. Paola Rinaldi.»

La presentazione urtò immediatamente contro una specie di non piacevole e non docile rispondenza nell'una e nell'altro. In lei una piccola ansia diffidente; in lui una punta di curiosità subito smussata, perchè Ugo Roscio aveva preso accanto alla marchesa di Pietracamela il posto ch'egli aveva lasciato per obbedire all' invito di Maria. Il duca non diede segno di ricordarsi d'aver mai veduta Paola, ma ella con franchezza lo trasse nell'argomento.

«Forse le parrà» gli disse «ch' io dovrei ringraziarla d'avermi evitato una troppo lunga ed inutile anticamera, quando….»

Valentino la interruppe sùbito, scusandosi:

«Perdonarmi, signorina, non ringraziarmi; perdonarmi d'avere abusato del caso fortuito per cui seppi ch'era suo quel nome ch' io conoscevo di fama e che è caro alla principessa di Cerito.»

La principessa osservò, ridendo:

«Incerti della sua notorietà, Paola, e della mia amicizia.»

«Mi appiglio alla seconda di queste cause e ringrazio lei, principessa.»

«Povero Valentino! Non lo mortifichi…. Lo lascio anzi qui in sua compagnia, perchè egli sappia meritarsi di far la pace con lei, senza ombre.»

E Maria tornò nel suo gruppetto, mentre la Rinaldi e il duca di Varo rimanevano l'uno di fronte all'altra, masticando ciascuno per proprio conto un piccolo sapore di fastidio.

«Lei scrive, signorina.» disse Valentino con un tono tra l' interrogativo e l'affermativo, non trovando, per rompere l' impaccio, una frase meno comune di questa che Paola si sentiva ripetere spesso all' inizio d'un legame di conoscenza, e ch'era il gancio che tutti credevano gentile di offrire al suo amor proprio per quel troppo vago sentore di letteratura che circondava il nome di lei.

«Oh, Dio!» ella rispose con impazienza, non spingendo tuttavia il riserbo annoiato dell'esclamazione fino al «no» deciso con cui molte volte troncava l'argomento e che ora, di fronte a quell' interlocutore, le sarebbe parso veramente insulso.

Valentino aveva rassegnatamente aspettato un volo autobiografico, e invece l' espressione, più che le parole della Rinaldi, gli faceva capire ch'ella era diversa dal numero delle solite mezze-scrittrici.

«Ha fatto un gesto» notò, sorridendo «come se volesse scacciare una mosca importuna.»

Allora parlarono più confidentemente, più gaiamente, raccostati d' improvviso da una simpatia cordiale. Ella volle tentare subito, con un briciolo di scherzo senza malizia, il compiacimento del duca a rimanerle vicino.

«Perchè parlare delle mie scritture che sono…. indecifrabili come quelle etrusche? Torni piuttosto con i suoi amici; tanto le assicuro fin d'ora che la pace senza ombre auspicata dalla principessa di Cerito è già concessa.»

«Vuole scacciarmi? Digià?» esclamò Valentino, lietamente protestando.

Paola rispose con un tacito sorriso, e il giovine restò.

«Davvero.» egli disse «Non spenga la mia curiosità con una frase che non significa nulla. So anch' io che è sciocco rivolgere di punto in bianco una interrogazione com' è stata la mia. “Lei scrive?” Ora gliela ripeto con maggiore coscienza, perchè m 'interessa di sapere.»

Paola taceva.

«Davvero.» insistè il giovine.

«Guardi.» ella disse, e questa volta senza impazienza «Proprio ieri, o ier l'altro, mi pare, era riportata su un giornale cittadino l' intervista d'un redattore con la ***» e nominò una scrittrice di grido «è molto più interessante di ciò che in materia potrei offrirle io.»

«Questo lasci giudicare a me. La *** è una donna troppo celebre per dire — eppoi in un' intervista — delle cose genuine.»

«È una frase per adescarmi.»

«Adescarla alla rovescia, signorina: perchè poco galantemente ho negato a lei, per ora, la troppa celebrità. Daltronde — e così le darò prova del mio spirito novissimo d'osservazione — nelle interviste c'è tutto quel che si vuole, fuorchè il pensiero dell' intervistato.»

Paola non s'abbandonava ancora alla confidenza, ma si divertiva a studiare il duca: egli diceva delle cose comuni, diluendo a sua volta in una diffusa parlantina semiseria la punta di simpatica curiosità che la Rinaldi suscitava in lui.

«La ragione di questa…. “eterogeneità” nelle interviste?»

«L'eccessiva stupidità o l'eccessiva intelligenza dell' intervistatore.» rispose Valentino.

«Adagio con gli eccessi d' intelligenza!»

Egli scherzò:

«Non è mica una merce tanto rara, sa?»; e finì: «Eppoi la posa spirituale dell' intervistato dinanzi all'obbiettivo della pubblicità.»

«Non ammette che una persona troppo celebre, come lei dice, serbi la propria semplicità?»

«Impossibile. Per essere assolutamente semplici, bisogna essere soli. Invece una persona che abbia un grande ingegno — e lasciamo pure la celebrità — con è mai sola: ha sempre uno spettatore, anzi il più difficile, il più acuto, il più sottile degli spettatori: sè stessa. Ed è un guaio!”

Paola rise.

«L'ha detto con una convinzione piena di sospiro. Par che lei abbia l'esperienza dolorosa di questo incomodo e assiduo spettatore.»

Rise francamente anche il duca.

«Allora mi correggo. Via la persona di grande ingegno, e, al suo posto, mettiamo quella tal persona d'una notevole se non eccessiva intelligenza.»

Giunse uno scoppio di rumorosa allegria dall'altro gruppo. Paola si volse un momento, perchè il suo interlocutore s'era interrotto e guardava i compagni: delle signore una ella ne scòrse più nettamente: era biondissima e bella, e, china con ridente animazione verso il suo vicino, pareva con lui dividere in buona grazia il peso giocondo della festevole ilarità di tutti gli altri: forse un pasticcino che ambedue tenevano o contendevano sulla punta delle forchette era l'oggetto dei lieti commenti.

Il duca, con una mossa brusca, voltò decisamente le spalle alla comitiva.

«Già!» egli disse, vincendo subito un corrugamento di malumore «Gli spettatori di sè stessi sciupano così ogni freschezza d' impressione, o arzigogolano con troppa ingenuità sulle più lievi e inconsistenti sfumature.»

Paola, tentata dall' improvvisa serietà del giovine, non volle lasciar cadere il discorso.

«Non le pare una contraddizione?» interrogò.

«No. È, piuttosto, uno stato d'ambiguità. Si falsa tormentosamente la nostra sincerità, e ci si dibatte invano contro le apparenze d'un artificio antipatico. La passione doventa romanticheria, la forza spasimo ridicolo.»

La Rinaldi lo guardò, pensosa.

«è un fenomeno che si dà anche in letteratura: quando l'aspirazione è impetuosa e c'è l' impotenza dei mezzi, il sentimento — ha ragione lei — assume le forme del sentimentalismo. Di solito il primo impulso è un impulso politico, ma s'allarga presto negli altri campi: e l'amore smorto e tenebroso singhiozza alla luna, la contemplazione della natura si fa sdolcinata e snervante, il valore si vagheggia come un torneo cavalleresco….»

Il duca, ascoltando, s'era incupito. Paola se n'avvide, e cambiò tono.

«Ma il fenomeno passa, noh?… Si parla di tempi ormai lontani. Oggi abbiamo l' impeto dell'aspirazione politica e abbiamo — non è vero? — la potenza dei mezzi: tutto dunque dev' esser cantato in gloria ed in vigore. Le pare?»

Valentino masticò una smorfia dolorosa; poi sorrise, con un po' d'amaro.

«Ah, signorina!» esclamò «La storia letteraria e la psicologia si toccano. Disperdiamo in fumo la nostra profondità. Vuole?»

Offerse, aperta, la scatola d'argento, e accese le due sigarette: il cerino, nell'aria ferma, stentava a consumarsi.

«Non c' è un alito di vento.» disse il duca, guardando la fiammella.

«Già!»

La capocchia si staccò dal fragile sostegno ardente e cadde sul piano lucido del tavolino, disegnandovi un circoletto nebbioso e biancicante: gli occhi di Paola e quelli di Valentino vi s'affissarono. Egli gettò il cerino spento.

«Lei insegna?» domandò con cortesia distratta e col medesimo tono con cui le aveva rivolto la prima interrogazione.

«Che noioso!» pensò Paola.

L' incanto della simpatia comunicativa era ormai rotto.

«Insegno.» rispose, rassegnatamente.

«Sicuro.» egli disse «Avrei dovuto immaginarlo quando la vidi al Ministero.»

«Che penetrazione!» pensò Paola, ancora.

La loro conversazione languiva, ed essi udivano distintamente, a stralci, il chiacchierìo dell'altro gruppo.

«No, Roscio, no! Oggi è insopportabile, sa?»: era una voce di protesta tentatrice, e Paola indovinò ch'essa apparteneva alla signora biondissima.

«Io ero là» continuò il duca, svogliato «per un certo istituto del mio paese di cui — bontà loro — mi elessero consigliere onorario.»

Il riso della principessa di Cerito zampillava sonoramente, limpido e sereno.

«E dove insegna?»

«Al liceo.»

«Ah!… Maschile?»

«Classi miste e classi maschili.»

«Difficile tener la disciplina?»

«Macchè! Basta far capire fin dalla prima ora che debbono star tranquilli. In mezzo ai ragazzi si vive benissimo.»

«Ragazzi?… Saranno ormai dei giovanotti, noh?»

«Non importa: sono sempre ragazzi, e i ragazzi sono una delle più belle istituzioni del mondo. I miei ragazzi hanno appunto un'età interessante: oltrepassati gli anni ingrati in cui non sono nè carne nè pesce, la loro anima sboccia con meraviglia dinanzi all'arte, alla bellezza, alla vita.»

Il duca sorrise un po' incredulo. Nè la Rinaldi si curò di spiegare questa dichiarazione che, buttata là nuda e cruda, pareva un volo scialbo di rettorica e che invece rispondeva a una delle sue più intime e vere persuasioni.

La principessa di Cerito si accostò a loro. Paola, subito, prevenne il gesto di Valentino che s'era alzato, e gli tese la mano in atto di congedo.

«Arrivederla.»

Il duca s' inchinò profondamente, mormorando un «Fortunatissimo….» che si perdè nella banalità più gelida e insignificante. Poi s'allontanò e raggiunse il suo gruppo. Maria comprese che i due non avevano fatto lega, e le dispiacque, tanto più che dapprima le era parso di vederli avviati in una conversazione cordiale. Nonostante ciò volle conoscere il pensiero dell'amica sul giovine, e glielo domandò indirettamente.

«Ho abusato troppo nel turbare la sua solitudine, Paola?»

«No.» fu la risposta, senza convinzione.

«Dietro quel no c'è un ma. Specifichi.» invitò Maria sorridendo.

«Un ma?… No, niente. Niente di straordinario per lo meno. Quel signore là è certo simpaticissimo, ma è — come dire? — un po' peso.»

«Non le piace?» fece la principessa, con una smorfietta di disappunto.

Paola rise.

«Non è mica indispensabile!» esclamò «Dal momento che, molto probabilmente, nella vita non c' incontreremo mai più.»

Chiamavano la principessa, e ben presto la Rinaldi restò novamente sola nella saletta deserta.

Si mossero giù per la viottola, brigata chiassosa e compatta, chè la discesa ancor lieve non esigeva nella compagnia i frazionamenti necessarii in una strada difficile.

Ugo Roscio, levando d' improvviso la voce quando furono in piena vista della città che s'accoglieva in fondo — tetra sotto il piombo del cielo nuvoloso —, declamò con accento pietosamente burlesco:

«Tàllusa!… Oh, Tàllusa!»

Gli altri tacquero, e Leonardo di Pietracamela domandò:

«Roscio, è una pazzia improvvisa?»

Il comandante continuò nel suo scherzo lamentevole.

«è, o può essere un addio, marchese!… Non bisogna mai perdere l'occasione di far tremare il dolce cuore delle belle dame sulla nostra sorte.»

«Sarebbe a dire?»

«Roscio che fa la sibilla!»

«Ahi, povero cuore così dolce!»

«Così sciroppato!…»

Roscio, fermo, con le braccia levate, ripeteva la sua enfatica elegia.

«Ahimè, ahimè!… Tàllusa, ahimè!…»

«Si spieghi!» gli disse Franca.

Ugo li guardò tutti, ad uno ad uno, con aria grave di mistero. Poi fece, sillabando:

«Domani parto…. Comando d'un sottomarino in apparecchio di guerra.»

Rise, scoprendo i denti forti e bianchissimi sotto i baffi bruni.

«Chi sa se tornerò più?»

Fu assalito di domande. Franca, Maria e Leonardo si scambiarono uno sguardo d'intesa; gli altri, che non sapevano nulla di positivo, percossero invano la loro curiosità contro la discrezione di Roscio. Il marchese Ribaudo era vagamente spaventato.

«Ma come?… Ma come?… Si fa davvero?»

«Nespole, toh!» susurrò Leonardo alla principessa di Cerito, ammiccando verso il turbamento di Ribaudo.

«Ti faremo condottiero della legione volontaria!» gli disse Ugo Roscio, battendogli sulle spalle un gran colpo che lo fece trasalire.

La marchesa Ribaudo non venne in soccorso del marito; lo canzonò anzi con agro compiacimento:

«Lui?!… Lo faremo direttore del corpo di ballo.»

«Chi disprezza vuol comprare!» si contentò di ribattere il gentilomino elegante e ripicchiato.

Roscio s' incamminò di nuovo.

«Ma basta, basta!» esclamò «Con tutte queste osservazioni m' impedite di dire ciò che era lo scopo precipuo del mio discorso iniziale.»

«Cioè?»

«Cioè, marchesa» e Ugo si rivolse a Franca «se accadrà che io finisca nello stomaco dei pesci, preghiera a queste gentilissime signore di non pascersi più di carni spinose, sotto pena di trovarvi dentro il mio cuore!»

«Nelle spine?» domandò Maria.

«Non v' ha rosa senza spine.» disse la Pietracamela.

«Cuor di rosa!» motteggiò Leonardo all' indirizzo di Roscio con una vocina melliflua.

La marchesa Ribaudo non volle risparmiare una malignità, e la confidò per l'appunto a Valentino che le si trovava dappresso.

«Le rose sì; ma le camelie no, che non hanno le spine.»

Il duca sulle prime non capì l'allusione che giuocava sul casato di Franca; ma lo sguardo della Ribaudo abbracciò con troppa velenosetta eloquenza il comandante e la marchesa perchè egli tardasse a comprendere. Non rispose; si rivolse, invece, a Roscio:

«E il re?»

Silenzio di tomba; non altro che un risetto insulso e una scrollatina di spalle della marchesa Ribaudo.

«Sono esonerato dal mio ufficio di aiutante di campo.» rispose Roscio poi, serio a sua volta; e, per prevenire i commenti, riaffermò la propria devozione: «Il re mi è sacro; mi è sacra anche la patria e il mio mestiere di soldato. Botte da orbi ai nemici del mio paese, e pazienza se ci rimetterò la pelle.»

Lo interrogarono fitto fitto, ma non ne cavarono niente: quando ora si trattava del suo servizio vero, il loquace Roscio doventava impenetrabile.

Del resto la coppia Ribaudo, ch'era la più curiosa, non contava. C'erano, per compenso, gli altri: tre uomini che si votavano fermamente alla patria, e due donne che sapevano e accettavano il sacrificio.

Passò una nube d'ansietà e di meditazione sul gruppo ch'era avvivato da tanta allegria. Per poco. E fu il primo Roscio a dissiparla.

«Appuntamento per dopo la pace vittoriosa in quel medesimo cantuccio di paradiso che la marchesa di Pietracamela e la marchesa Ribaudo non hanno apprezzato al suo giusto valore.»

«Ci verremo col sole.» disse Maria.

«Oggi ne torniamo con l'acqua.» osservò Ribaudo, alzando un'occhiata al cielo cupo.

«Ma no, profeta!» gli diede sulla voce Franca «Piove laggiù, ma noi ce la caviamo.»

Guardarono il cocuzzolo d'una montagna, cui Franca accennava, ch'era affogato sotto le nubi in uno spolvero d' inchiostro.

«S'avvicina.» disse la marchesa Ribaudo.

«S'allontana.» ripicchiò Leonardo.

«Sta fermo.» concluse la principessa di Cerito «Ma dovremmo noi muoverci un po' più sveltamente.»

Affrettarono il passo.

«Bel giudizio, a venire in questo paradiso — caaaro! — con un tempo simile!» recriminò la marchesa Ribaudo.

«Il paradiso bisogna sempre conquistarselo!»

«Il paradiso è dei violenti.»

«Non fate citazioni a sproposito.»

La Ribaudo spiava sospettosamente il cielo.

«Ora piove.»

«E dàlli! Se mai, lasceremo piovere.»

«Odor di tempesta.»

«Che naso fine! Io non sento nulla.»

Fiutarono l'aria, burlescamente.

«C' è odore, sì, ma di rose.»

«Dove?»

La principessa di Cerito, che aveva per prima avvertita la diffusione dolce del profumo, si contentò per tutta risposta di respirare con delizia, socchiudendo le palpebre. La strada voltava bruscamente, e, dopo la svolta, videro infatti buttarsi giù da un muretto, come una cascatella polverosa nella luce livida, grovigli di rose rosse. Maria fu delusa: mancando lo splendore del sereno, i colori del verde e del purpureo smorivano senza vivacità.

«Agonizzano.» disse.

Il marchese Ribaudo levò le braccia per coglier quella mèsse. Roscio glielo impedì.

«No, fermo!»

«Perchè?»

La moglie lo assalì di nuovo con una puntura canzonatoria:

«Perchè non ci arrivi. Sei troppo piccolo, poverino!»

Roscio guardò il marchese dall'altezza della sua statura poderosa, e convenne ridendo:

«Anche!… Ma non era questo. Vogliamo un talismano, e i talismani debbon venirci da mani femminili. Un portafortuna per i combattenti.»

«Franca!» disse la principessa di Cerito «Tocca a te.»

«Perchè proprio a me?»

«Sei la più alta.»

«Forse non ci arrivo nemmeno io.»

«Ma sì!» la incoraggiò Roscio «Con un po' di buona volontà.»

Leonardo prese la borsetta di sua moglie per lasciarle i movimenti liberi.

«Dove pretendeva di arrivare Ribaudo può arrivare la marchesa di Pietracamela.»

«Pardon, marquis!» disse Franca a Ribaudo «Si tratta d'un paragone di misura metrica, non altro.»

Si drizzò in tutta la snellezza sottile della persona e raggiunse una rama fiorita.

«Ahi!…»

«S' è fatta male?» domandò vivamente Valentino.

Ella sorrise, senza lasciare la preda.

«Un male atroce!»

Gravò giù con il suo peso, strappando i tralci e le foglie.

«Ma Franca!» protestò Leonardo «Sei una rovina!»

«Piano, piano…. Ferma!» e Maria le venne in soccorso.

La rama fu staccata. Franca ne spiccò una rosa, la diede prima a suo marito che le baciò galantemente la mano.

«Roscio!»

Egli s' inchinò, trasse il portafoglio, e, riponendovi il fiore, si volse a Leonardo:

«Permetti?… è un talismano!»

«Ma sì. Autorizzazione maritale.»

«Cugino!»

Il duca di Varo, costretto dal richiamo, si fece avanti di malavoglia.

«Cugino, cugino!» gli ripetè Franca guardandolo, mentre sceglieva per lui un bocciuolo intatto e vermiglio nel più frondoso riparo della rama.

Il giovine evitò lo sguardo.

«La ringrazio.»

Infilò sbadatamente il fiore all'occhiello; poi si mosse innanzi agli altri, precedendo il gruppo di qualche passo.

Ribaudo, ormai rassegnato alla parte ineroica che gli riconoscevano, disse disinvoltamente:

«Marchesa, se si trattasse d'un cotillon, reclamerei anch' io il suo dono. Vuol essere così generosa?» e tese la mano.

Ebbe il fiore, lo accomodò sapientemente sulla risvolta della giacca. Risero, vedendolo così occupato nel ritoccare la linea della sua impeccabilità elegante, e di nuovo s' incrociarono i più vivaci frizzi.

Un uomo del popolo, che, passando, colse la futilità lieta e spensierata dei loro commenti, si torse con occhio ostile a guatarli.

«Porci signori!» borbottò, stringendo il pugno «Loro se ne infischiano della guerra, perchè tanto, si sa, pancia, pelle e tasca l' han sempre salva!»

Quando fu a una prudente distanza, lanciò alle spalle della brigata un versaccio osceno. Roscio si voltò, ma la marchesa Ribaudo gli s'appese al braccio, esagerando il proprio impaccio nel muovere i piedini sopra i sassi della strada che scoscendeva ripida e malagevole.

«Un po' d'aiuto, comandante!»

Maria burlettò gaiamente:

«Vedi?… Se Roscio avesse il sottomarino, saresti sicura anche contro la pioggia temuta.»

Poichè, così parlando, avanzò un passo falso e minacciò di cadere, Leonardo le venne accosto.

«Lei non bada ai massi che attraversano il suo cammino, per guardare le pietruzze che attraversano il cammino degli altri.»

La principessa rise, compunta, e accettò l'appoggio offertole dal marchese di Pietracamela.

Franca deluse la sollecitudine di Ribaudo che le si avvicinava premuroso; s'arrestò un momento e chiamò:

«Valentino!»

Rimasero indietro da tutti gli altri. Valentino, con un brivido di dolcezza e di tormento, sentì il contatto della persona di lei ora percuotergli contro il fianco ed ora premergli sulla spalla e sul braccio nella difficile ineguaglianza del sentiero. Rivolse il viso, vicinissimo al viso di Franca che non lo sfuggì: gli occhi di Valentino, ardenti e dolorosi, frugarono la tenera e triste ironia che rivelava e velava gli occhi dell'amata.

«Franca!» egli disse; e il suo cuore diceva: “Tadoro, ti cerco, ti voglio”.

Non osò.

«Com' è bello così!» osservò la marchesa quietamente, accennando il paesaggio.

Valentino guardava lei.

«I monti sembrano vicini vicini, ed è tutto grigio. Il sole stanca, invece; e allivella, e allontana.»

Ella parlava lenta, con soavità; ma il giovine sentiva o temeva sotto quella docile morbidezza lo scoglio della più fredda indifferenza.

Valentino aveva perduto l' impeto dell' espressione audace ed avvolgente: il suo lungo amore gli s'era affondato nel cuore con radici tenaci, ma non ardiva più di manifestarsi nel fresco fiore delle parole appassionate e carezzevoli. Si pentiva di non aver saputo o voluto incatenare a sè la donna desiderata quando anche in lei il primo sboccio di quella dedizione fervorosa doveva aver prodotto una specie di trepida e nuova meraviglia. Incatenarla?… Forse no, forse non vi sarebbe neppure allora riuscito; ma meglio, mille volte meglio, la certezza del no piuttosto che l' irrequietudine malata dell'affanno che lo mordeva, che sperava e disperava senza un perchè, e gli chiudeva l'anima in una stretta angustia di desolazioni meschine e di sterili sogni.

Le aveva detto un giorno che c'erano due Franche: la sua, e quella che gli altri vedevano, e conoscevano, ed anche amavano; ma allora la sua Franca si impersonava nella Franca vera con la quale egli si intratteneva, alla quale lasciava comprendere l' immensa adorazione; ed ora invece le due Franche erano separate anche per lui: una vivendogli dolce e cara, come un fantasma, nel cuore; l'altra — lei, la Franca di carne e d'ossa — uguale per lui come per gli altri, epperò fattaglisi straniera e quasi avversaria. Ed egli non osava più, non osava: Franca lo intimidiva enormemente. Ricordava di averle detto: “Lei capisce tutto.”; e davvero in quel tempo egli aveva l' illusione che, oltre le frasi leggere, oltre la mondanità affollata delle conversazioni, oltre i silenzii e gli sguardi e i sorrisi, ella sapesse trapassare e penetrare il significato profondo e sempre presente del sentimento d'amore, come se una misteriosa e dolcissima intesa fosse tra l' una anima e l'altra e le avvincesse e legasse in una sovrumana comunione. Ora non più: non il cuore di Valentino s'era mutato, ma lei, o forse neppur lei, ma il lungo tempo trascorso in mezzo alle esitazioni e alle dubbiezze gliel'aveva allontanata. Il tempo è un amico, si dice; non sempre è vero; a volte è un nemico implacabile. Si dice che guarisce i mali, cancella, travolge, distrugge: rapinoso e veloce come un fiume — il fiume dell'oblio —. Non sempre: a volte cresce, ma con un che di immobile e di feroce, a guisa d'una barriera di cristallo, limpida, trasparente, allucinante, dura e schernitrice. Per Valentino era stato così. La sua Franca, quando voleva realmente accostarsi a lei, era dietro la barriera di cristallo; e il cristallo rassomiglia al ghiaccio, ma non si liquefà.

Eran pure i medesimi gli occhi di Franca, e lo scintillìo dorato si nascondeva nelle fresche pallide pupille: anche ora, mentre scendevano per la strada bigia sotto il cielo bigio, anche ora gli occhi di Franca lo guardavano con una volontà manifesta di tenerezza; ma egli non sapeva vedervi più l'anima dolce triste e sommessa che pareva donarglisi, e vi trovava soltanto l' intenzione un po' fatua, un po' distratta, e un po' inconsapevolmente o consapevolmente malvagia di riprendergli il cuore, per un giuoco che forse la divertiva o, forse, le era caro senza passione, così, per fare, perchè Valentino era e aveva fama d'essere un bel giovine intelligente e simpatico.

Tutte queste riflessioni che gli ronzavano nel cervello come uno sciame fastidioso e instabile, lo urtavano: eran piene di “ma”, di “se”, di termini attenuativi e contradditorii, attanagliavano la sua maschia forza in un rimpicciolimento di inutili constatazioni e di vane sottigliezze.

«Roscio dunque va alla guerra!» disse d'un tratto la marchesa di Pietracamela «Fegato ne ha, non c' è da dubitarne; ma temevo che il re lo avesse legato mani e piedi.»

Valentino non lesinò il leale riconoscimento di ciò ch'era dovuto al comandante. Del resto egli non era geloso di lui. Aveva troppa fede nella dirittura morale di Franca o forse semplicemente nel suo superbo disdegno, per sospettarne un intrigo basso e volgare. Roscio era un allegro compagnone, piantato robustamente come un barbaro, occhi neri e baffi neri, denti bianchi e saldi; era forte e aveva fegato, sì, secondo l'espressione della marchesa; ma poi non era un'aquila, nè poteva suscitare un interessamento che non fosse tutto materiale. Supporre che Franca si lasciasse tentare da questo genere di interessamento?… Troppo tempo era passato dal sognante abbandono dello spirito nei primi incontri, perchè Valentino non avesse fatto tutte le supposizioni: non avvilenti per lei, chè sempre la risollevava alta ed unica nell'adorazione; ma torturanti per lui. Anche questa: che Franca, sotto l'apparenza ghiaccia e quieta della sua bellezza bianca bionda e sottile, avesse gli impeti desiosi d'un corpo giovine e sano. Già egli aveva domandato a d'Anghelos — ma la domanda l'aveva rivolta a sè stesso — che ne facessero le angiolelle medievali de' lor candidi poeti, e se non ridessero come d'un freddo trastullo ambizioso di quella virginea nuvola fiorita onde le rivestivano gli amatori nei canti leggiadretti. Stile di gemmante rugiada: ma pensavano le madonne vagheggiate che sotto il frigido e puro velo dei ritmi e delle rime vivesse e dolorasse un fondo tormento d'amore? E non avrebbero dato tutto un canzoniere per un verso: “Solo una notte, e mai non fosse l'alba!…”? Leggevano, capivano o non capivano, se ne compiacevano o scherzavano, sorridevano o deridevano; e intanto aprivano le braccia, si lasciavano chiudere da altre braccia, e, se anche si concedevano al poeta fuor della letteratura, lo trovavan forse più noioso dei rudi e spensierati amanti, troppo filosofo, troppo pedante, troppo innamorato delle anime. Ed eran figurate gentili e oneste, bianche come perle, aureolate di biondo, splendide negli occhi come l'apparita della lucente stella Diana, altere ed austere, segni divini di miracolo tra terra e cielo. Così. E invece amavano l'amore senza sospiri. Così.

Anche Franca?… Roscio valeva bene un muscoloso capitano di ventura del Medioevo. Anche Franca?…

La risposta non era facile, e, se scivolava verso l'affermazione, gli tornava a volte odiosa, e a volte lo percuoteva come una rapida torbida lusinga. Roscio no, in ogni modo; perchè la vita che si conduceva dalla gente di corte a Tàllusa porgeva sì molte occasioni, ma bisognava abbassarsi a carpirle, e un'ora di godimento materiale sarebbe costata troppo cara di astuzie e di cautelosi maneggi. Di questo Valentino non credeva capace Franca, nè la credeva adatta a questo. Una valutazione, dunque, di temperamento. Anche Franca?…

Ed ecco il malessere prodotto da un' immagine di lussuria, imbestiamento degradante che contamina e abbrutisce. Ed ecco la torbida lusinga: prenderla voracemente, abbatterla sottomessa e ridente, eppoi ancora sentirla bramosa e insaziabile, ancora riversarla cupida e bella. Ma il fiotto della vampata passava. Non così. E pensava al marito, a Leonardo: del marito sì, egli era geloso. Non lo odiava per questo; allora, invece, avventava contro sè medesimo il suo rancore, e ne teneva responsabile Franca. Gli dava una pena insostenibile immaginarli nell' intimità. Leonardo era il padrone. Quanto cara, quanto dolce e tentatrice doveva ella essere o sapersi mostrare!… Visioni che lo sconvolgevano. Da Leonardo non aveva ricevuto mai nè tanto meno sollecitato nessuna confidenza. Cugini, vissuti quasi sempre lontani, Valentino e Leonardo sentivano tra loro più il legame della parentela che un vero affetto d'amicizia. Ora s' incontravano spesso, e il marchese di Pietracamela vedeva il giovine son simpatia cordiale. Ma nulla di più. Daltronde Leonardo era troppo signore per permettersi di pubblicare, sia pure in una stretta conversazione a due, ciò che molto da vicino si riferiva a sua moglie. Si amavano? Certo è che Leonardo guardava spesso Franca con sguardi di compiacimento: — per una rispondenza profonda tra occhi e cuore, o per una esteriorità un po' vanitosa di sapersi il legittimo proprietario d'una donna bella? —; spesso anche la chiamava con qualche appellativo di vezzeggiamento: — tenerezza sincera o artificio un po' leziosetto? —. In ogni modo Leonardo era il padrone; in ogni modo Franca possedeva una grazia femminea tutta nobile e dolce che nè il suo raccoglimento quieto e distratto, nè — talvolta — l'audace schermaglia della civetteria valevano a sopraffare: e di questa grazia, di questa dolcezza — di proposito o no — ella doveva essere incomparabile prodigatrice a colui che, avendole dato il nome e la casa di sposa, le viveva accanto in tutte le ore e con tutti i diritti. E di questo Valentino era perdutamente geloso. Non prima; ma ora sì. Il tempo porta con sè la riflessione, e la riflessione, è vero, dà la sorte delle medicine: talvolta guarisce, tal'altra avvelena.

Oh, ancora Valentino la rivedeva come una sera l'aveva veduta nel vialetto d'una villa: la luna era piena, senza violenza, e il cielo azzurrino, punteggiato di poche stelle, senza profondità: frescura notturna appena mossa; fruscìo sommesso tra i grandi alberi, in alto; e, accosto, le linea oscura delle siepi tagliate a parapetto. Franca era vestita di nero: un'ombra nelle ombre; aveva il viso bianco e bianche le braccia nude nello scialbo chiarore; mordeva una foglia aromatica, strappata da una pianta di limone, sì che, avvicinandosi a lei, si respirava una fragranza acuta ed amara. Ella aveva alzato le braccia, due o tre volte, agitandole verso la pallida serenità con nella persona un sussulto breve di avida irrequietudine. C'era altra gente; ma due o tre volte, anche, ella era venuta accanto al duca. Un momento Valentino le aveva sfiorato le spalle, raccogliendole attorno il velo scivolato giù; e Franca, un momento, s'era buttata un po' indietro quasi contro il petto di lui che aveva tremato di struggente desiderio ed era stato sul punto di serrarsela forte sul cuore per rovesciarle il capo biondo, e baciarla, cercando la lenta infinita dolcezza della sua bocca oltre la fragranza acuta ed amara che odorava, allora, così dappresso. C'era altra gente, e ridevano…. A lui il nome di Franca stava aggroppato nella gola come un singhiozzo: ed ella, a due passi, bella alta e sottile, non rideva, non parlava più. A chi pensava? A che pensava?… Ancora la rivedeva così, ancora gli correva nel sangue il tumulto di quel desiderio.

«Valentino, e lei?»

Si trattava della guerra: la continuazione del discorso di pocanzi.

«Io?… Non so.»

Egli era certo che il giorno dopo sarebbe partito, per iscriversi tra le file dei volontarii, poichè la sua classe non era tra le altre richiamate alle armi; aveva anzi già preso tutti gli accordi necessarii con un autorevole ufficiale ch'era stato amico di suo padre. Ma non lo disse; e, allo sguardo di Franca che lo interrogava incredula, ripetè:

«Davvero. Non lo so.»

Non le piaceva doverle dire addio — forse per sempre? —: questo sì, sarebbe stato un sentimentalismo leggermente ridicolo di cui non sentiva affatto il bisogno. La morte è come l'amore: o si fa sul serio, e con la sicurezza assoluta di fare irrevocabilmente sul serio, o si sdrucciola nel grottesco. E Valentino che temeva di non aver salvato dal grottesco l'amore agli occhi di lei, voleva che almeno gli fosse salva la morte — se fosse venuta —.

La marchesa sorrise, scrollando la testa, e gli fece eco:

«Non lo sa? Davvero?»

«Non lo so.»: terza conferma laconica.

«Uomo indeciso!»

Il duca trasalì: era un'allusione, un rimprovero?

«E se mi decidessi?»

Le strinse il braccio forte; ed ella si sciolse sùbito da lui, con un vivo rossore.

«Ho una pelle stupidissima.» disse, un tantino risentita «E detesto i segni delle lividure.»

Valentino si diede dell'asino: capì daltronde che in lei la frase non era stata sincera, ma semplicemente e volutamente scortese, come se — per troncar netto ogni spiegazione — le avesse fatto comodo di supporgli un' intenzione volgare; e gli dispiacque che la marchesa non avesse trovato altro mezzo, per farlo tacere, che quello di rimetterlo a posto così ruvidamente.

La nuvoletta non durò a lungo: l'accento di Franca tornò a suonare amichevolmente. Di tanto in tanto, quando la strada si buttava giù troppo ripida, ella s'appoggiava a lui, ponendogli una mano sulla spalla.

«Un'altra volta» disse scherzando «bisognerà portare un bastone da montagna e mettersi le scarpe ferrate.»

Guardò anche lei il cielo con dubitosa interrogazione.

«Canzonavamo la marchesa Ribaudo, ma se piovesse sarebbe proprio un disastro.»

Valentino si riconciliava.

«Cielo triste.» osservò; poi aggiunse: «Cielo da congedo.»

«Perchè?»

Oh, dolci dolci violette!… Veramente le palpebre ombrate di Franca parvero due fiori che si dibattessero, trepidi e intensi, sotto il soffio che precede la tempesta.

«Le dispiacerebbe, Franca?»

«Non faccia domande inutili. Lo sa.»

«Non lo so.»

«Ragazzo!… I ragazzi fanno un giuoco. Vediamo se le riesce. Io guardo un punto, laggiù, e lei indovina dove guardo.»

Il duca sorrise.

«Che sovrana capacità di deviare i discorsi!»

Ma Franca non gli diede retta.

«Dove guardo?»

«Bisognerebbe esser fermi.»

«No, sarebbe troppo facile. Indovini così.»

«Permetta, allora.» disse Valentino; e, poichè camminava alla sinistra di lei, passò dall'altra parte onde poterla vedere in viso mentr'ella fissava qualche cosa nello spazio, là in fondo, sul dorsale di un monte.

Avendola così in faccia e tutta rivolta sotto la poca luce che filtrava dalla fioca nuvolaglia, egli pensò: “E se non la vedessi più?” Ma l' idea del distacco eterno non gli diede sgomento. Poi ancora pensò, fulmineamente: “E se morisse lei?” Non ebbe esitazioni: “Impossibile”.

«Dunque?».

Richiamato al lieve giuoco della realtà, Valentino cercò di identificare il luogo su cui si posavano le pupille di Franca.

«Su quella montagna.» e additò con l' indice teso.

«Bravo!… So anch' io!… Su quella montagna: è quanto dire nell'universo. Più preciso!»

Il duca riprese il suo studio. C'era una croce, sulla sommità tondeggiante, ma appena appena visibile contro il chiuso orizzonte cinereo: un segno sottile e dolorante, arido come uno sterpo. Gliela indicò.

«Una croce?… No, non la distinguo nemmeno. Com' è sempre tragico lei!….»

«Non c' è minuto in cui mi voglia prendere sul serio.»

«Non si distragga. Trova o no?»

«Una casina piccola piccola con un cipressetto accanto che fa la guardia.»

«Ora sì. Ma è vero che è difficile?»

«Difficile.»

«Chi sa come ci vivon bene quei felici mortali!»

«Ci starebbe lei?»

«Ahimè!… “Una capanna e il tuo cuore!” Credo di no.»

«Gentile!»

«Non dicevo a lei. I presenti sono sempre esclusi.»

«Beati gli assenti.»

«Oh, beatissimi!»

Rise; quindi sbadigliò.

«Si diverte?»

«Un divertimento folle. Non mi badi se sbadiglio: è nervoso.»

«E anche di questo nervoso che ha addosso si devono beatificare gli assenti?»

«Ah, Valentino, quante sciocchezze si dicono per perdere il tempo!»

«Chi le dice: lei o io?»

«Mi pare che le diciamo tutti e due. Rientriamo nelle file?»

«Come vuole.» rispose il duca, secco.

Franca diede voce agli altri che precedevano. Ormai erano vicini alla città, e ai primi goccioloni della pioggia che cominciava a cadere ebbero pronto riparo nelle carrozze che stazionavano a una barriera. La marchesa Ribaudo reclamò per quella sera la compagnia di Roscio alla sua tavola, e il comandante accettò gaiamente di plonger nello champagne della casa amica, prima — egli disse — di fare, non si sa mai, il tuffo da cui non più si risale alla superficie. Le esclamazioni di svenevole protesta della marchesa Ribaudo non trovarono eco negli altri: i quali si salutarono semplicemente, con una forte stretta di mano, e Roscio — sereno e a fronte alta — dimenticò perfino la barzelletta galante alle due signore da cui si congedava.

«Perbacco, quell'uomo mi piace!» esclamò Leonardo non appena Roscio si fu allontanato.

«Andrà avanti, e andremo avanti.» disse Valentino.

La principessa di Cerito s'accompagnava con i Pietracamela.

«Vieni anche tu?» domandò il marchese al giovine.

«No, ti ringrazio.»

«Ciao, allora.»

Gli poggiò una manosulla spalla, guardandolo con affetto.

«Ci vedremo chi sa quando.»

Valentino capì che anche Leonardo partiva.

«Vai?»

«Domani. Era inutile ammutinare gli “oh” e gli “ah” dei Ribaudo. Ma a te lo dico.»

«Buona fortuna. Troverai presto anche me.»

«Non ne dubito.»

Leonardo salì nella carrozza. Il duca, fermo, a capo scoperto, fece un largo gesto di addio. Franca sporse la mano, ed egli la sfiorò mentre la carrozza si allontanava. Poi alzò la fronte sotto la sferza dell'acqua che si rovesciava violenta, e respirò forte. Nell'odore tepido e greve della polvere smossa si mescolava pure un presentimento di aperto refrigerio: gli parve che un peso gli cadesse dall'anima, e che ogni pensiero materiale piombasse giù come un ingombro inerte. Franca, la sua divina Franca, l'amata che per tanto tempo non avrebbe più riveduta, tornò a splendergli nel cuore limpidamente; e la patria, la bella e dolce terra gloriosa e canora, gli apparì come un segno di luce e di miracolo per raggiungere il quale fosse privilegio di grazia e di forza patire il martirio.

Dopo cena, i marchesi di Pietracamela riaccompagnarono a casa Maria. Scoccavano le dieci e mezzo, e Ruggero non era ancora tornato.

«Che seccatura!» esclamò la principessa «Mio, marito, d'abitudine, si vede poco; ma in questi ultimi tre giorni, poi, è doventato addirittura invisibile.»

Franca fece coro.

«Dillo a me! Leonardo è un miracolo che sia venuto oggi con noi.»

«Così sentirete meno la nostra mancanza.» disse il marchese sorridendo.

«Si potesse almeno sapere a che ora partite!»

«Ruggero sarà la staffetta delle recentissime.»

I servi portarono thè, caffè e liquori. Maria li spicciò sùbito, e furon chiuse le porte della sala.

«Franca, tu?»

«Non prendo niente, lo sai.»

La principessa versò il caffè e il cognac al marchese di Pietracamela; poi si preparò il thè.

«Mutismo!» osservò Leonardo, prendendo una rivista illustrata e apprestandosi a gustare con tutte le comodità l'ultimo spicchio delle sue serate cittadine.

«Sfido io!… Ti pare che sia un'ora divertente? Non dico per te, ma per noi.»

«Signora moglie, lei parla come un'onesta coniuge e come un libro stampato; e io mi congratulo con lei per le sue belle doti di cuore e d' intelligenza.»

«Sciocco. Di' piuttosto che la tua soddisfazione è al colmo.»

«Perchè non dovrei dirlo? Sono felice come un bambino di quindici anni.»

«Che serietà di guerrieri!»

«Cantare nei supplizi: ecco il segreto.»

Maria scattò.

«Auff!… Parliamone di questi canti e di questi supplizii!…»

Leonardo accese una sigaretta, divertendosi un mondo.

«Volevo ben dire!… Il silenzio della principessa aspettava di esplodere in bollore. Come l'acqua del thè!»

«Ma andate là!… Ma vi pare una cosa seria?»

Il marchese non perdeva la sua calma scherzevole.

«Tutto è serio e tutto è buffo.»

«Io sono stufa prima d' incominciare.»

«Meglio così, perchè il diavolo non è mai tanto brutto quanto si dipinge.»

«Frasi!»

«Verranno i fatti.»

Franca taceva, e Maria si rivolse a lei.

«Anche tu sei in estasi, noh?… Guarda: la vita coreografica che abbiamo condotta noi — balli, ricevimenti, premiazioni, inaugurazioni — ci ha guastato fin l'anima. Che dev'essere doventata come una lampada elettrica.»

«Un progresso, principessa: a tutto danno delle anime che son rimaste nella similitudine della casta fiammella scoppiettante sull'olio.»

«Preferisco. Lei ride; Franca, senza parere, si diletta; io sono idrofoba. Credete a me: manca il palcoscenico, ma non manca niente altro per la rappresentazione.»

«Principessa, lei è ingiusta.»

«Marchese, lei…. lei è una lampada elettrica.»

«Ahimè!….» esclamò Leonardo, passandosi una mano sulla testa che aveva molto calva.

«Non s'offenda. Mio marito è più lampada elettrica di lei.»

«Non m'offendo. Piuttosto, veda, non capisco esattamente il paragone.»

«Poco importa. Non glielo so spiegare nemmeno io a fil di logica. Siamo comparse: tutti, tutti noi, dal primo all'ultimo; tutti noi che abbiamo accettato l' assurdità di una imposizione.»

«È un' imposizione che a me, per esempio, piace.»

«S'accomodi. Ma crede di far bene?»

«Ne sono sicuro.»

«Pazzie!… Altro che “prode Anselmo”!… È una film cinematografica.»

«Franca, difendimi dagli assalti della tua amica.»

Maria rise, aggressiva e nervosa.

«Scudi femminili!…. Lance femminili!…. Ma questo è un matriarcato! Ma questo è il regno delle Amazzoni!»

«Maria, non esagerare: meglio il regno delle Amazzoni che il regno degli imbecilli.»

«Imbecilli?… D'accordo. E diamolo, il titolo d' imbecille, a chi se lo merita: Albano. Albano Il di Venustria, imbecille, anzi imbecillissimo.»

«Principessa!» raccomandò Leonardo sorridendo «Certi tasti si toccano, almeno, con la sordina.»

«Ma no che non sente nessuno. è un coraggio molto spicciolo il mio, perchè le porte sono ben chiuse….»

«…. e i balconi aperti.» finì la marchesa.

«Sai quale sarebbe il vero coraggio, Franca? E la vera carità di patria? Affacciarsi a quei balconi, radunare il popolo, e bandire a gran voce la sopercheria buffonesca che si sta tramando da quattro o cinque persone su milioni, per milioni, e contro milioni di gente. E, perchè a ciascuno sia dispensato ciò che gli è dovuto, dovremmo anche proclamare che il re è un imbecille, d'accordo; ma sa di esserlo, accetta di esserlo, e non fa un passo per smuoversi da questa statica imbecillità perfetta. è coerente a sè stesso, e rimane sè stesso. Noi invece siamo i complici d'un camuffamento; peggio: d'una mascherata.»

Franca disapprovava.

«Ma no. è un'avventura straordinaria che può doventare un'avventura eroica.»

Maria alzò le spalle.

«Non è lecito vivere fuori della vita fino a questo punto. Il re sta nella vita come ci sta, ma è più ragionevole e più onesto di noi.»

Leonardo accese beatamente la sua seconda sigaretta.

«Principessa, non ho voluto interromperla, perchè quando lei attacca con la sua deliziosa aria stizzosetta, bisogna lasciarla andare fino in fondo: altrimenti si distruggerebbe un capolavoro d'estetica.»

«Bravo! Crede di mettermi al guinzaglio con un complimento?»

«Belvetta indomita!… No: constato. E, se mi permette, passo alla difesa.»

«Non parlo più.»

Franca rise; scelse un pasticcino, e lo spinse tra le labbra dell'amica.

«Ti fornisco i mezzi per mantener la parola.»

Anche Maria si rasserenò, osservando:

«Siamo una razza impossibile. Spengiamo tutto nello scherzo.»

«Filosofia di gioconda imperturbabilità: la migliore.» disse la marchesa «Te la vuoi prendere tu?»

«Io?…. Prendo…. thè.»

Leonardo se la godeva.

«Il termometro si abbassa. Allora posso parlare?»

«Ma se non fiatiamo!»

«Ecco. Se noi facessimo dai balconi quella tale pubblicazione che lei auspicava, il popolo non la penserebbe come lei, principessa; la penserebbe come noi. No…. mi lasci dire. Non mi obblighi, proprio stasera, a rendere laboriosa la mia — se Dio vuole, finalmente! — ultima siesta borghese. Non mi costringa alla fatica delle dimostrazioni. Mi conceda di affermare, senza provare. Metto da parte i paroloni difficili, perchè non è il caso di farne. Sotto questo che lei chiama soperchieria, buffonata, etcetera, etcetera, c' è una cosa, una cosa grande, una cosa profonda che muove tutto, che vince tutto, che giustifica tutto: l'amor di patria. Se n' è dimenticata, principessa?… No, mi lasci ancora dire. Noi andiamo ridendo verso la guerra, ossia, con ogni probabilità, verso la morte; ma riso non è sinonimo di incoscienza. è una colpa? Non credo. Non lo crede nemmeno lei. Daltronde, chi ricevè le prime confidenze di Wanda?»

Maria taceva.

«Chi ricevè le prime confidenze di Wanda?» insistè Leonardo.

«Costanzo ed io.»

«Lei. A questo volevo arrivare. E mi basta.»

«Bella ragione! Le teste di granito, specialmente le coronate, non sono malleabili.»

«è una testa di granito che presuppone un cuore d'oro.»

«Non l' ho mai contestato. Ma non è detto che i cuori d'oro facciano sempre bene quello che fanno.»

«Via, via, principessa!… Vede che anche lei a poco a poco si arrende?»

«Mi conosce male, se lo crede. Eppoi è una battaglia di parole che non risolve nulla. L'avete presa e la prendete tutti alla leggera. Costanzo è perseguitato da un fantasma di donna guerriera; mio marito ci sta, perchè non si meraviglia mai di nulla; lei — mi perdoni — gongola, perchè anzi è cascato in piena meraviglia; Franca, benchè stasera col suo mutismo sembri che si diverta meno del solito, in fondo è beata della stranezza del fatto. Io…. ma già io — lo pensavo anche un'altra volta — sono afflitta dalle parti che più mi riescono antipatiche. Se dovessimo metter su noi altri una rappresentazione di quella famosa benedettissima Ifigenia che, secondo me, fu il primo bacillo di questo contagio pazzesco, sapete che personaggio mi appioppereste?.. No, no, non vi sforzate il cervello a indovinare; ve lo dico io. Mi toccherebbe certo di vestire i panni del vecchio schiavo che ragionava tanto bene — così noioso!… — e che nessuno ascoltava. Parola d'onore, devo essere insopportabile!….»

Bussavano all'uscio. Maria trasalì, illuminandosi tutta.

«Ruggero?…»; poi invitò, forte: «Avanti!»

Un servo annunziò:

«La signora contessa Bouturline. La signora contessa e la contessina Fontanarosa.»

«Al diavolo!» borbottò Maria, contrariata.

«Le undici e un quarto.» commentò il marchese di Pietracamela, guardando l'orologio.

Non era serata di ricevimento in casa Gloria di Cerito, epperò quella visita ad ora così tarda era quasi inesplicabile. Vero è che la contessa Bouturline aveva a volte delle alzate d' ingegno alle quali i parenti — e specie Maria col suo carattere — non si divertivano troppo; ma appunto questo acuiva il malumore della principessa.

«Sta bene.» disse al servo «Ora vado.»

L'uomo disparve, e Maria si volse agli amici.

«Che si sogna ora questa vecchia seccante?»

«Rispettare le zie!» fece Leonardo.

«Eh, sì!… Con gli impiastri non ho pazienza io!»

«Va' là, povera donna! Senti che vuole, eppoi sbrigala sùbito.»

«Vieni anche tu, Franca?»

«Sarebbe una complicazione inutile di saluti, con relativo prolungamento della visita.»

«Per questo non l' ho fatta entrare qui. Permettete?»

Cinque minuti dopo ella era nel salotto dove la attendevano le tre signore.

«Perdonatemi. Ho un'emicrania terribile, e stavo per andare a letto.» mentì Maria per semplificare, mentre si arrendeva, con la faccia inverosimilmente rivolta prima a destra eppoi a sinistra, ai due baci rituali della zia.

La contessa Fontanarosa, nella sua pinguedine, soffiava come un mantice. Mimì era evidentemente agitatissima.

«Ci scusi…. ci scusi….» ansava la Fontanarosa madre

«È un' imprudenza a quest'ora….»

Maria non badò che alla giovinetta.

«Mimì?… Piangi?…»

Mimì scoppiò davvero in singhiozzi.

«Beh, che c' è?»

La madre le si mise attorno, per placarla.

«Figlia bella, figlia d'oro, non fare così!… La salute, ti rovinerai la salute!»

La contessa Bouturline trasse da parte Maria.

«Sai le ragazze come sono!… Anch' io, col mio cuore di madre» le tremò il mento angoloso «anch' io sto in pena. Ma non ti avrei disturbata se non fosse stato per Mimì. Io sono rassegnata a tutti i sacrifici, se la patria lo vuole; eppoi Dio ci aiuterà. Ma è duro….» le tremò anche la voce «Mimì invece non si dà pace: pareva che le venissero le convulsioni; e anche sua madre mi fa compassione. Le madri delle figlie femmine si possono compatire; le madri dei figli maschi no: sono di tanti altri prima che delle madri, i figli maschi!… E quando….»

Maria s' impazientì.

«Ma insomma, zia, se vuoi che io capisca qualche cosa….»

La contessa si decise.

«Pietro…. Pietro è partito. Senza dire dove. C'era da aspettarselo, io non mi facevo illusioni. Ma Mimì s' è incaponita nella sua disperazione. Abbiamo pensato che tu, per la tua posizione, sei in grado di sapere molte cose. Non è vero, Mimì?» e alzò la voce «Non è vero, Maria, che c' è tempo, che non lo manderanno mica subito a combattere?»

Mimi raddoppiò i singhiozzi raddoppiando in conseguenza l'orgasmo della madre, e la contessa Bouturline rimase dritta e zitta, con una smorfia che le scopriva i lunghi denti gialli e che non si capiva se fosse un sorriso o un pianto.

La principessa pensò che anche lei aveva i guai proprii, e che la partenza di Pietro Bouturline non era una ragione per venirle a fare in casa quella scena e a quell'ora. Sospirò tra sè: “Benedette le ragazze innamorate!”; e ad alta voce:

«È partito?… Quanta gente parte in questi giorni!… Non è mica il caso di metter su una tragedia!… Che volete che sappia io?»

Ma le balenò fulminea la figura di Pietro, strana e deformata come l'aveva vista una sera a teatro nel campo non aggiustato del binocolo, e le tornarono a mente la regina e il messaggio a Planacomba. Quella bimba piangente, inconscia eppur divinatrice per istinto, la intenerì.

«Mio Dio, perchè farsi sùbito delle brutte idee?…» aggiunse, mutando tono «Pietro è soldato, nulla di più naturale che in questi momenti i soldati siano in giro. C' è bisogno di correre al pensiero della catastrofe?»

Mimì rialzò il capo, mordendo il fazzoletto. La contessa Fontanarosa riprese fiato per dare novamente la stura ai suoi conforti miellosi.

«Vedi, figlia bella, vedi?… Che ti diceva mamma tua?… La principessa ha ragione, la principessa è troppo buona, la principessa dice bene…. Vuoi un bicchier d'acqua, figlia bella, vuoi qualche cosa?»

Mimì rifiutò energicamente, con grande soddisfazione di Maria che non se la sentiva di suonare, comandare, prolungare all' infinito quel dramma. Eppure Mimì, era proprio vero, la inteneriva. Ora gli immensi occhi azzurri della giovinetta le eran fissi sul volto, come per berne una insperata certezza; ma non parlava.

«Mimì» le disse la principessa «tu sei ragionevole, sei una brava figliuola. Pietro tornerà. Che direbbe se ti vedesse in questo stato? Occorre essere forti, coraggiosi, fiduciosi. è un momento grave per noi donne; ma è un momento grave anche per i nostri uomini. Se non li aiutiamo dimostrando calma e serenità, peggioreremo le nostre e le loro condizioni.»

«È vero, è vero.»

Maria si voltò: aveva dimenticato l'altra pena arida e ossuta della madre, che era rimasta immobile, come crocifissa sul suo stesso scheletro. La chiamò, raddolcita:

«Zia, vieni qua. Dimmi tu. Quando è partito Pietro?»

«Oggi, a mezzogiorno.»

«Che vi ha detto?»

Interloquì la contessa Fontanarosa:

«A noi nulla. Un biglietto. Non è venuto nemmeno a salutarci.»

Il pianto di Mimì ricominciava, silenzioso e desolato.

«Ah!» non potè fare a meno di esclamare Maria.

«Non ha avuto tempo.» spiegò la contessa Bouturline, ma senza convinzione. «Io ero in città, per caso. Doveva accompagnarmi Lotario, ma è rimasto ai bagni perchè Costanzina, in questi giorni, spasima per il mal di denti. Pietro me l' ha detto ieri mattina, e l'ordine gli era giunto allora allora. Ha preparato le sue cose. Io ho telegrafato a Gregorio e a Lotario, ma Lotario — già — non si può muovere per i denti di Costanzina, e Gregorio chi sa dov' è dietro a qualche tournée artistica e chi sa quando saprà la notizia. Pietro ha lasciato un biglietto per Mimì, ed io gliel' ho mandato in villa oggi per mezzo di un corriere.»

Ecco, finalmente, la voce rotta di Mimì:

«Doveva sùbito…. sùbito….»

«Figlia mia, figlia bella, non ti agitare…. T' ho contentata, ti ho ricondotta in città, ti abbiamo accompagnata dalla principessa….»

«Pietro non ha voluto. È stato per disposizione sua.» aggiunse la contessa Bouturline.

Maria troncò l'argomento increscioso.

«Ma certo, ma certo: Pietro si è comportato benissimo. Ha evitato il distacco personale, ha creduto di far meglio. Due paroline dolci su un biglietto, e, quando vi rivedrete, vi salterete al collo col permesso di mammà.»

«Fosse domani fosse stasera!» sospirò la contessa Fontanarosa sbuffando.

«No, no, no….» si ostinava Mimì.

«Che cosa no?»

«Due righe secche, là, come si scriverebbero a un'estranea!»

Maria rivide Pietro in estasi dinanzi alla regina. Pensò: “Ahimè, povera figliuola!…” Se la prese quasi tra le braccia, mentre la contessa Bouturline borbottava:

«Sarà un'esagerazione questa!»

«Madonna santa!» si lamentò la contessa Fontanarosa madre con gli occhi al cielo «I figli hanno la guerra, le figlie hanno l'amore. I dispiaceri, poi, ce li abbiamo noi mamme in tutti i modi.»

«Sii buona, Mimì. Mi informerò, ti farò sapere sùbito. Va bene così?»

La giovinetta rialzò il capo, s' illuminò tutta.

«Va bene così?… Ma bisogna promettermi di stare tranquilla. Tu torni in villa, e io dal canto mio ti prometto di scriverti.»

I ringraziamenti della contessa Fontanarosa salirono alle stelle. La principessa se li sorbì rassegnatamente, ostentando col gesto ripetuto delle mani intorno alla fronte un'emicrania da non tener gli occhi aperti.

«Mammà, non abusiamo….» disse Mimì, che, pur nella sincerità delle sue ansie, era l'unica delle tre visitatrici che avesse il senso della discrezione.

Maria le fu talmente grata, che le bisbigliò all'orecchio due paroline tenere e confortanti, approfittandone nello stesso tempo per dislocare il gruppo verso la porta.

«Scriverai anche a me, noh?» domandò la contessa Bouturline.

«Ma certo, zia!» e Maria premè il bottone del campanello «Saluta Costanzina, dille che non mangi troppi pasticcini perchè fanno male ai denti, e bacia i bimbi.»

La Fontanarosa madre non si staccava più.

«Principessa, lei è una creatura eletta. Lei è bella, buona, brava….»

«I tre bi!… Si fermi, mi faccia grazia. Buonanotte, buonanotte.»

Di là trovò Ruggero ch'era già tornato e parlava coi Pietracamela.

«Oh, maritino, finalmente!… Che notizie?»

Leonardo gongolava.

«Si parte, principessa, si parte per davvero!… Le confesso che ancora non ci credevo mica proprio sul serio, sa?»

«Domani mattina alle undici, Maria.»

Maria impallidì. Ormai dunque non c'era rimedio. Ma non disse nulla.

«Raggiungiamo il granduca Stefanolo.» spiegò Ruggero tranquillamente, pronunziando quel nome con la massima naturalezza, quasichè non vi fosse affatto sottintesa e nascosta la più stravagante delle avventure «La dichiarazione di guerra è già scoccata. Nel termine di quarantotto ore cominceranno le ostilità.»

Bevve un bicchierino di cognac, ed elogiò:

«Buono!…» poi aggiunse: «Primizia riservatissima. I giornali ne avranno comunicazione soltanto domani e pubblicheranno nell'edizione di mezzogiorno. Alle tre di stanotte anche il barone di Loën farà fagotto.»

Il marchese di Pietracamela rise, fregandosi le mani.

«E dire che le mummie del mio Museo non si scuoteranno!»

Passò un braccio intorno alle spalle di sua moglie, la trasse replicatamente a sè con moto d' impeto scherzoso.

«Franca!… Questa sì ch' è vita!… Vita, vita, vita piena!»

«Avevi la zia Bouturline? Che voleva?» interrogò il principe di Cerito.

«Ma sì!» rispose Maria, distratta «Perchè è partito Pietro. Lagrime di Mimì. Dovevo io, secondo loro, sapere dov' è andato.»

Sapeva Ruggero, invece. Pietro Bouturline era stato chiamato al Quartier Generale da Costanzo che faceva di lui il proprio ufficiale d'ordinanza. Maria pensò alle frequenti occasioni di un' intimità pericolosa che da quell' incarico sarebbero derivate tra il giovine e la regina.

«Perchè ha scelto per l'appunto lui?» domandò.

«E perchè non avrebbe dovuto sceglierlo?» replicò Ruggero «Pietro ha già dato prova di sè con l'assolvere egregiamente un primo còmpito di fiducia. è discretissimo, e si può contare su lui e sulla sua precisa obbedienza senza restrizioni. Daltronde egli crede, se mai, di aver che fare col granduca Stefanolo, e non penetrerà il segreto.»

«Ah ah!», esclamò la principessa.

«Non sembri persuasa?» fece Ruggero.

Maria si strinse nelle spalle, poco convinta; ma oppose soltanto un'osservazione generica.

«Non so! Ho l' impressione che Costanzo abbia avuto la mano poco felice. Si poteva pensare ad un altro.»

«Perchè non a Valentino?» disse la marchesa di Pietracamela «Che farà Valentino?»

Si volsero a lei: ella, semisdraiata su una poltrona lunga e bassa, aveva il viso interamente nascosto da un giornale che teneva tutto spiegato dinanzi. Maria approvò.

«Ma sicuro! Col duca di Varo si poteva anche procedere senza tanti misteri. è amico della regina, ed a lui — con quel cervello nelle nuvole che si rimpasta — sarebbe parso di toccare il cielo col dito.»

«Impossibile, cara.» spiegò Ruggero «Valentino, nei ruoli, ha il grado di caporale. Ora come ora, se non vengono disposizioni nuove, non si può improvvisarlo ufficiale. Eppoi la sua classe non è richiamata.»

Leonardo interloquì:

«Peccato. Sarebbe stato un ottimo elemento.»

«E che farà?» ripetè Franca, senza muoversi.

«Facile capirlo.» disse il marchese «Andrà volontario.»

Silenzio.

«Hai parlato col re?» domandò Maria al marito.

«Non m' è riuscito di trovarlo. Non so se era la verità, o se si obbediva ad ordini ricevuti. Ho avuto, insomma, la stessa sorte di Leonardo.»

Franca si levò dalla sua poltrona.

«Credete proprio che voglia evitarvi? Che scopo avrebbe?»

«Non lo so.» rispose Ruggero «Con lui non si indovina mai il perchè e il per come delle cose. In ogni modo mi son permesso di lasciare un biglietto che ho raccomandato molto e con molta urgenza. L' ho informato della nostra paretenza in qualità di aiutanti di campo di Sua Altezza — Costanzo di questo gli aveva già fatta pervenire comunicazione —, aggiungendo l'ora della partenza, e che io, da mezzanotte in là fino a quell'ora, avrei aspettato ordini a casa mia.»

Un servo, venendo sollecito, annunziò:

«Telefona il portiere che Sua Maestà il re sta salendo. è col signor conte Triverna.»

I due uomini e le due signore si guardarono. Poi, sùbito, Ruggero buttò via la sigaretta accesa allora allora, e si mosse per incontrare il sovrano.

Lo incrociò nell'anticamera, s' inchinò profondamente. Albano era di pessimo umore.

«Ah, principe!… Disturbo?» fece, secco, senza tendere la mano.

«Vostra Maestà sa bene di no.»

Triverna, immobile dietro al re, si guardava la punta delle scarpe.

«È solo?» domandò ancora Albano.

«Ero di là con mia moglie e coi marchesi di Pietracamela.»

«Naturalmente!» commentò Albano con la stessa burbanza.

Ruggero non si scompose.

«Vostra Maestà desidera veder me, o….?»

Il re non lo lasciò finire.

«No, no.» disse, gettando il suo soprabito e il suo cappello a uno dei servi che stavano impalati presso la portiera «Raggiungiamo pure gli altri. Non voglio disturbare la vostra partita, che diamine!» e sogghignò.

Ruggero, sebbene delle parole del re non avesse compreso che l' intenzione ostile e non la coerenza del significato materiale, non si permise nessuna osservazione. Fe' cenno al servo che precedesse, e s' inchinò di nuovo, aspettando che il sovrano varcasse la soglia.

«Agli ordini di Vostra Maestà.»

Albano s' inoltrò, rigido, con uno sguardo e un mezzo sorriso poco benevoli.

«Conte!» disse Ruggero a Triverna, cedendogli il passo.

Triverna, che aveva anch'egli lasciato le sue robe secondo l'esempio dato dal re, si rese all' invito, sguisciando via con una smorfia tra melliflua e compunta. Ruggero li seguì. All' ingresso del salotto dov'eran diretti, il servo reiterò l'annunzio sonante. Albano entrò per il primo.

«Buonasera!», come lo scatto d'un grilletto alzato e pronto a percotere la botta.

Riverenze profondissime. Da Albano, dopo l'arido saluto, non altro che un cenno cerimonioso della persona verso le due dame. Triverna si piegò due volte, ossequiando, e abbozzò con la mano un gesto indirizzato a Leonardo.

Sebbene il re fosse bellissimo nel suo inappuntabile abito da sera, con l'ampio sparato bianco su cui riscintillavano due minuscoli bottoncini di diamante, e con una superba cardenia splendente sulla risvolta di seta opaca del frak, sebbene, così inguantato pettinato e profumato, così agile giovine ed elegante, avesse un'aria di magnifico ragazzo, i suoi ospiti ed i loro amici capirono che era una serata da dover serbare le regole della strettissima etichetta. Nessuno parlò, aspettando che il sovrano desse lui il tono alla conversazione; e Ruggero, in silenzio, mostrò al servo che si ritirasse e chiudesse la porta.

«Buonasera.» ripetè Albano «Si disturba?»

Riguardose proteste. Maria lo invitò a prender posto: egli sedè presso il tavolino dov'erano i liquori.

«Se Vostra Maestà vuol gradire….» cominciava la principessa.

Ma Albano rifiutò l'offerta. Ruggero allontanò i liquori.

«Loro mi hanno cercato, e lei, principe, mi ha scritto.» disse il re.

«Mi son permesso queto per l'estrema esiguità del tempo disponibile.»

«Già!» esclamò Albano, tamburellando nervosamente con le dita sul piano del tavolino.

Franca interpellò discretamente il re.

«Mi perdoni Vostra Maestà. Vostra Maestà, forse, vuol parlare con gli uomini, e noi….»

Albano la interruppe, rude.

«Chè!… Non ho complotti, io, da tramare.»

I Gloria di Cerito e i Pietracamela non batterono ciglio, per quanto ciascuno fosse roso nel cuore dall'ansia del segreto contro cui pareva che il re indirizzasse i suoi colpi. Questi sembrò infine accorgersi che gli altri eran rimasti tutti in piedi, e borbottò, accigliato:

«Senza complimenti, signori….»

«Villano!» pensò Maria, che fu l'unica a non obbedire all' imbronciato e distratto invito del re. Suo marito, vedendole guizzare negli occhi e per la fronte un lampo di corruccio, la guardò supplichevole. Ma lei, pur richiamata alla prudenza, affrontò senza paure e dirittamente la tempesta sovrana.

«Vostra Maestà ha notizie di Sua Maestà la regina?»

Albano trasalì, è si volse alla principessa con un certo sdegnoso dispetto.

«Dovrei domandarne a lei che ha accompagnato la regina a Planacomba, e anche di Sua Altezza Reale e Imperiale il granduca Stefanolo, generalissimo dell'esercito di Venustria.»

Un po' di gelo, per le vene dei quattro complici. Triverna, con gli occhi al soffitto e il fare smelenso, sembrò loro uno spione pericoloso. La principessa, tuttavia, non smarrì l'apparenza di un'assoluta tranquillità.

«Credevo che Vostra Maestà ne avesse di personali, o, quanto meno, di più recenti.» rispose con un candore un tantino insolente.

Il re rimbeccò, aspro:

«Era forse utile, in ogni modo, avermi riferito al suo ritorno quelle che lei aveva.»

Maria non disarmò il candore dalla punta dell' insolenza.

«Sua Maestà la regina non mi aveva dato ordini in proposito. Io…. obbedisco la mia regina, Maestà!»

Ella saggiò così, arditamente, la profondità e l' importanza delle cognizioni del re: se il re sapeva, avrebbe interpretato le parole di lei come una provocazione, e si sarebbe tradito. Ma no: Albano non sapeva nulla, e, appunto per soddisfare la propria curiosità, era venuto — secondo i consigli di Marco Triverna — “a far cantare” la principessa di Cerito ch'era stata a Planacomba e aveva visto certo il piccolo duca, saltato su per davvero come un fantoccio a sorpresa, a capitanar le battaglie contro l'Altamagna. Se aveva parlato amaro, lo aveva fatto perchè gli ribolliva quella guerra impostagli, sì, dall'opinione e dalla foga popolare, ma di cui in origine egli teneva unicamente responsabile la cricca della regina.

Si morse le labbra, e disse, ironico:

«E se la pregassi» calcò enormemente sul verbo «di favorirmi» altra sottolineatura eccessiva «queste notizie?»

La principessa guidava bravamente la sua barca tra scogli e marosi. Si sentì sicura che il re era all'oscuro di tutto, e non ebbe ormai più timori. Finse di non aver notato il tono di Albano, e, sorridendo, esclamò:

«Oh, Maestà, volentieri!… Quando Vostra Maestà “prega”, mi sento di nuovo a casa mia dov' è sempre usata la gentilezza.»

«Toccato!» pensò Leonardo, ch'era in ammirazione dinanzi alla coraggiosa e sapiente disinvoltura di Maria.

Scambiò un rapido sguardo d' intesa con sua moglie: vero è ch'essi erano da troppo poco tempo frequentatori della reggia e che sùbito avevano simpatizzato con Wanda, alienandosi in tal modo la confidenza del re, epperò non potevano prendere gran parte attiva a quella conversazione; ma, anche se lo avessero potuto, si sarebbero trovati molto imbrogliati a sostenere un dialogo che appariva loro insidioso e pieno d'agguati. Ruggero, dal canto suo, capiva che Maria ci s'era messa d' impegno e si fidava interamente.

Alla stoccata della principessa, Albano rimase interdetto.

«E tanto più volentieri, Maestà» ella incalzò «perchè non ho ricevuto nemmeno nessun ordine…. pardon!… preghiera» e calcò anche lei sulla parola «di far mistero del mio soggiorno a Planacomba.»

Si accomodò sua una poltrona, sempre sorridendo, e aggiunse:

«Ah, Planacomba!… Mi viene in mente che là Sua Altezza il granduca Stefanolo con galanteria mi offriva delle deliziose sigarette che, se non erro, sono della medesima marca di quelle che fuma Vostra Maestà.»

Il re, prima ancora d'essersi reso conto della malizia annidata nella frase di Maria, pose istintivamente la mano nella tasca dove aveva le sigarette. Ormai era troppo tardi per correggere o troncare il gesto, ed egli fu costretto ad alzarsi e ad offrire alla principessa la scatola aperta. Ella non mostrò di accorgersi della conseguita vittoria, e si servì garbatamente.

«Ringrazio molto Vostra Maestà.»

Albano dovè anche avvicinarsi a Franca e ripetere a lei l'offerta: ma Franca rifiutò; e allora Albano ripose il portasigarette, senza provvedersi per fumare, e restò in piedi, masticando la lezione aggiustatagli tanto a puntino dalla sua ospite. La quale non resistè alla tentazione di mettere a guinzaglio pur l'altro compare, Triverna, cui la piega presa dalle vicende della serata favoriva un pallore itterico della più bell'acqua.

«Triverna!» ella chiamò, adagiandosi sulla sua poltrona, e poggiando sul bracciuolo il gomito nudo, mentre, alla giuntura del polso, la mano che teneva la sigaretta si fletteva e si porgeva morbidamente «Fuoco!»

Il conte venne avanti con due o tre inchini: accese, avvicinò la fiammella alla sigaretta: il primo sbuffo azzurrognolo del fumo spense il cerino. La piccola operazione richiese un lungo minuto che, nel silenzio, parve eterno a tutti fuor che alla schernitrice.

«Grazie, Triverna. Dicevamo dunque…. Ah, sicuro! è interessantissimo. Giunsi a Planacomba con una grande curiosità. Avevo sentito affiorare a galla di molti discorsi il nome di Sua Altezza come quello del probabile comandante delle nostre armate. Per la verità confesso ch'ero un tantino scettica. Sua Altezza, per quanto potevo saperne, mi pareva — Vostra Maestà mi perdoni — la persona meno adatta per simile ufficio. Non avevo osato, durante il viaggio, domandarne a Sua Maestà la regina che mi sembrava di cattivo umore e poco disposta ad ascoltare le mie chiacchiere indiscrete.»

Una pausa, per trarre una boccata di fumo, e per studiare, forse, il seguito del discorso, o, forse, la fisonomia del re. Albano, attentissimo, a quella pausa fu per sollecitarla; ma se ne trattenne, e accese, invece, la famosa sigaretta che pochi momenti innanzi aveva sacrificata al proprio impaccio rabbioso.

«Al castello» continuò la principessa «per i primi due giorni Sua Altezza è stato invisibile, almeno per me. So che Sua Maestà aveva con lui dei lunghi colloqui; e lo so perchè, senza comunicarmene l'argomento, Sua Maestà medesima ebbe occasione di accennarmelo. Io — confesso anche questa volta la verità — mi sentivo un po' sper duta, quasi un tantino angosciata in quegli stanzoni lugubri, e fuori andavo poco volentieri in mezzo a quei boschi troppo boschi dove il vento si lamenta sempre e, se fa sul serio, ulula come un inferno di dannati. Il mare?… Sì. Ma troppo selvaggio, e rive impervie e paurose. Non ho mai capito, come lo capisco a Planacomba, perchè taluni poeti diano al mare l'epiteto di nero: il nero mare. Brrr!… A Planacomba è così.»

Ella, con l'espressione della più sincera ingenuità, non faceva in tali mentiti apprezzamenti che ribadire l'opinione del re sulle bellezze naturali e sull'eccessiva semplicità dell'arredo del castello di Planacomba. Una minuscola maglia, anche questa, per tessere la grande rete, caso mai al re fosse saltata fantasia di andare personalmente laggiù.

«Sua Maestà, al contrario, non si annoiava. In due giorni tornò di buonumore, e al terzo giorno Sua Altezza venne alla nostra tavola.»

,,Che fertilità!” encomiò tra sè Ruggero, che vedeva sua moglie correre l'orlo pericoloso delle invenzioni.

Ma nè lui ne i marchesi di Pietracamela diedero segno esteriore di ciò che passava nell'animo loro: più del re, essi temevano gli occhi sfuggenti eppur vigili di Marco Triverna.

«Non parlò. Era molto serio, quasi cupo. A fin di tavola mi offrì, appunto, una sigaretta. E cominciò a parlare…. Posso permettermi di insistere per offrire io a Vostra Maestà una goccia di liquore?»

Il re trasalì, interrotto nella sua viva attenzione. Non ebbe modo, lì per lì, di ostinarsi nel rifiuto.

«Cognac, se non le dispiace.»

Maria e Franca lo servirono, lasciandogli la bottiglia dappresso. Egli sedè.

Breve pausa…. necessaria. Ahimè! Questo era il punto difficile: far parlare il piccolo duca, investito ormai di tanto ufficio. La principessa, prendendo con naturalezza le sue misure e il suo tempo, non si smarriva: anzi ci si metteva di gusto, doventando così — per il piacere di sfiorare il pericolo e di raggirare col giuoco delle parole — la più pratica e valida aiutatrice dell' impresa ch' ella in teoria avversava con tutto il suo essere. Contraddizione? No: l'eterno dualismo della volontà assoluta e della volontà condizionata, l'una che riman salda nel petto come un assioma inconfutabile e idealmente inconciliabile, l'altra che conferisce il proprio aiuto talvolta passivo e talvolta attivo nelle pieghe e nei meandri delle circostanti realtà. Daltronde Maria, nell'animo e nella coscienza semplice e pura come una linea retta, aveva poi per le vicende umane una stima così mediocre e una così sciolta indifferenza che, unite alla prontezza arguta dello spirito, le permettevano una rapida e ironica adattabilità che poteva sembrare, e non era, incostanza volubile. Quella sera, inoltre, ella aveva bisogno di distendere i suoi nervi, perchè l'ansia in lei si condensava il più delle volte in un focolaio inquieto di rabbia. Ora la partenza imminente di Ruggero la impensieriva e l'addolorava: sapendola inevitabile, Maria se ne vendicava mettendo nel sacco Sua Maestà Albano Il Romagnano Paleologo, re di Venustria, nel cui nome — e contro il cui volere — già si proclamava la dichiarazione di guerra all'Altamagna. Avanti!… Farlo ballare come un burattino sul filo delle fandonie, eppoi con una riverenza rovesciarlo giù, e ricacciarlo, inoffensivo e soddisfatto, nella tana della sua vigliaccheria. Guai a prenderli di fronte codesti testardi, guai a volerli convincere e persuadere!… Anche la regina, benedetta ingenua, se avesse saputo fare e non fosse stata — lei pure — una di quelle che, va bene tenerselo nel cuore e agire definitivamente in conseguenza, ma il motto adamantino “mi spezzo, non mi piego” hanno bisogno di sventolarlo ad ogni piè sospinto sulla faccia di chi ve lo chiede e di chi non ve lo chiede…., anche la regina avrebbe potuto ottenere molto e molto, senza esser costretta a ricorrere — dopo gli aut aut della franchezza puntata come una rivoltella contro la rude ostinazione del re — alla gigantesca macchina dell' inganno enorme, dell' inganno che sopravanzava tutti gli inganni.

Albano, intanto, cominciava ad abboccare. Non aveva sperato da parte della principessa di Cerito una così sollecita arrendevolezza, nè — perciò ch'egli sapeva e credeva — aveva fondati motivi di dubitare della veridicità delle informazioni che la signora gli dava.

Dal giorno in cui Costanzo gli aveva concretamente esposto il disegno della guerra guerreggiata sotto le insegne del re di Venustria, ma sotto il comando — almeno nominale — di Stefanolo di Planacomba, da quel giorno lo stupore e una certa curiosità di vedere il cognato alla prova erano stati i migliori alleati di Wanda e di Costanzo, perchè avevano contribuito a paralizzare l'efficacia dell'azione personale di Albano per impedire o ritardare o smussare l' irrimediabilità delle decisioni estreme. E Albano continuava ancora a non raccapezzarsi interamente su quel che pareva dovesse per davvero accadere, e l'argomento del suo più vivo interesse era appunto il piccolo duca. Ascoltava dunque avidamente ciò che in proposito riferiva Maria, ed ormai gli si leggeva sì chiaro sul volto questo desiderio, che i tre amici della principessa di Cerito confidavano, se la mirabile interlocutrice era capace di cavarsela fino in fondo, in una riuscita della conversazione assai diversa da quella che sul principio avevano temuta.

«E Sua Altezza cominciò a parlare.» proseguiva Maria «Del più e del meno, a salti: più e meno, s' intende, di pensieri suoi, pensieri che gli attraversano il cervello e di cui è difficile cogliere a segno il nesso della logica. Ogni tanto si interrompeva, e, allora, guardava la sorella con dei grandi occhi devoti e spalancati, estatici e ammirativi, quasi ingorgati in un fluido di suggestione. Di guerra neppure un accenno, lontano.»

«Ma…. di salute come sta?» non potè tenersi dal domandare il re.

«Direi che sta meglio. Certo è meno patito, meno languido.»

«Ebbene?»

«Il giorno dopo uscì a cavallo con Sua Maestà la regina. Tornarono tardi. Sua Altezza era acceso, era allegro, e mangiò con grandissimo appetito. Le cavalcate si son susseguite regolarmente; a qualcuna ho preso parte anch' io. Sua Altezza, di quando in quando, spiccava un galoppo ineguale, balzante, divertendosi a mordere col freno e con gli sproni l'animale indocile che montava; via per la costa schiaffeggiata dalle onde a rischio di sfracellarsi lui e la sua bestia. Poi si rimetteva a passo, con noi, madido di sudore e d'acqua marina, e rideva, rideva di tutto, rideva di nulla; e allora Sua Maestà la regina lo fissava con una trepidazione dolce, quasi materna, e s' intristiva lei. In fondo questo ragazzo — Vostra Maestà mi consenta di chiamarlo così — viene lanciato in un vortice del quale non si rende conto e che non sospetta.»

«Ah!» esclamò il re, cui le scettiche limitazioni che Maria poneva al còmpito del piccolo duca procuravano una soddisfazione intensa «Lei crede che Stefanolo non capisca ciò che si richiede da lui?»

«Non avrei osato affermarlo con queste parole crude e precise; ma ho anche la convinzione che, dopo tutto, si richieda a Sua Altezza una cosa molto più semplice di quella che appare a prima vista.»

«Ah!?» altra esclamazione, semi-interrogativa, di Albano.

«Certamente.» replicò la principessa ch'era sicura ormai d'aver toccato il tasto che ci voleva «Il popolo, i soldati, gli ufficiali, i nemici, gli alleati, tutti insomma, credano pure alla parte attiva e responsabile della cooperazione del granduca: sta bene, e sta anche bene che sia così. Che poi la faccenda vada proprio a questo modo….. è un altro affare. Sua Altezza, in realtà, è un simbolo, un emblema, un miraggio. I simboli possono anche rispondere a una vera consistenza; ma non sempre è necessario: l'abilità è tutta di chi sa farne apparire la saldezza reale o no. Invece di spronare le sue cavalcate lungo il mare di Planacomba, Sua Altezza si lancerà al galoppo lungo le file dell'esercito. Combattere?… No, una visione fugace e scintillante concessa a chi combatterà davvero. Guidare la manovra?… Nemmeno: porre un bel nome sonoro caro e romanzesco sotto gli ordini misurati e preparati da un uomo che sa il fatto suo, — Costanzo —.»

«Lei crede?… Lei crede?…» sottolineava il re spesso spesso, rasserenandosi a vista.

«Ciò non toglie che la trepidazione di Sua Maestà la regina non sia pienamente giustificata. Nella vita del granduca si produrrà un dislivello enorme: per quanto rappresentativa la sua missione, per quanto strette e sorvegliate le sue ore da amici vigili e fidati — il generale Costanzo, il marchese di Pietracamela e Ruggero — io non garantirei gli avvenimenti. Una scossa di questo genere può giovargli, come sostiene mio marito, non contesto; ma può anche essergli irrimediabilmente fatale.»

Albano si oscurava di nuovo, e la principessa se n'avvide: un colpo sapiente alla barra del timone, e la nave sarebbe giunta in porto.

«Parlo schietta, Maestà. Capisco che tali previsioni addolorino il cuore di Vostra Maestà: Sua Altezza è una creatura che non ha cercato e che non può calcolare i rischi cui vien gettato incontro, ed è triste pensarlo in balìa d'un destino al quale egli non contribuisce nè volontariamente nè coscientemente!…»

Il re, molto ingenuo, spalancava gli occhi dinanzi a questo cuore che la principessa gli regalava così tenero delle sorti del cognato. Ma la principessa la sapeva lunga, e preparava la botta finale.

«Eh, sì, triste!… Pure, gli affetti di famiglia e le considerazioni personali debbono cedere il luogo. La guerra!… La patria!… Ben altri nomi, ben altri ideali, ben altre responsabilità!»

Nemmeno di questo il re appariva molto persuaso. S'accigliò sùbito, aggressivo, altero, pronto a scattare. Un passo falso di Maria?… No: un passo decisivo: un po' brusco, forse, ma — tant' è!… — Maria cominciava ad averne abbastanza della sua arringa, e concluse:

«Una disgrazia che capitasse al granduca non vorrebbe dire la catastrofe del paese. Resterebbe il nome, e il simbolo si rafforzerebbe. Eppoi…. eppoi…. Vostra Maestà ha pienamente ragione. Una guerra è una guerra: o si vince o si perde. Se la nostra si vincerà, Vostra Maestà avrà mostrato al popolo d'aver fatto tutto per il conseguimento di quella vittoria, e avrà coscienza di avere permesso perfino l'assurdo, d'aver sacrificato perfino la voce del sangue onde incoronare la nazione d'un serto glorioso. Se la guerra si perderà, Vostra Maestà avrà ugualmente coscienza d'aver fatto tutto per impedirla, e il popolo si renderà esatto conto che vale più la saggia prudenza di un Romagnano Paleologo che non l' inconsiderato spirito d'avventura di un Planacomba. Vostra Maestà rimarrà nella storia come una delle figure più significative, qualunque sia l'esito della nostra impresa; e lo riconosceranno sudditi e nemici.»

Più tardi, quando il re e Triverna se ne furono andati, Franca — interpretando le impressioni provate anche da Leonardo e da Ruggero — disse a Maria d'aver avuto, durante quel colloquio e specie sulla fine, delle vicende termiche da impensierire: vampate quasi apoplettiche e agghiacciamenti quasi preagonici.

«Andate là!» rispose la principessa con una beata scrollatina di spalle «Siete i primi a proclamare che Albano è un imbecille, eppoi lo vorreste trattare come se fosse un'aquila!… Le argomentazioni idiote non esistono forse appunto ad usum Delphini? E Albano, povero martire, è un delfino che più delfino di così non potrebbe essere. Franca, non ridere; Ruggero, non ridere; marchese, non rida. Albano è anche l'uomo che, in tutta questa faccenda, merita più compassione che scherno. Proprio a lui doveva toccare una moglie invasata e un pugno di cortigiani mezzo matti!… È meglio lui di noi, sapete? Ah, io sono convinta che è meglio, molto meglio lui!…»

Il gruppo dei cavalieri procedeva al trotto lungo la strada avvitata al monte in una spirale di lieve pendìo, aperta da un lato sulla valle, dall'altro chiusa a ridosso della roccia. Il monte si levava arido e rossiccio come un'adunata di scogli, la valle era dolce e lussureggiante, e largo ed azzurro il fiume che la percorreva: la mattina di novembre, cristallina dopo la pioggia recente, sorrideva con una mollezza primaverile.

Dalla colonna dei soldati bivaccanti per breve sosta sull'argine si levava un mormorìo: «Il piccolo duca! Il piccolo duca!” Se lo accennavano, accorrevano, e molti erano in tempo a salutare. Wanda passava: era lei: patreva un giovinetto biondo e gentile. I soldati guardavano incuriositi, percossi di stupore, con un sùbito tumulto di commozione. Qualcuno narrava d'essere stato spettatore dell' intrepidezza del piccolo duca, qualcuno rievocava un episodio di bontà. Verità e leggenda involgevano, al suo passaggio, la donna ch'era riuscita ad imporre il generoso inganno della sua fantastica audacia.

Nel gruppo cavalcavano primi, a paro, Ruggero Gloria di Cerito e Pietro Bouturline; poi la regina e Leonardo di Pietracamela; ultimo, a poca distanza, Azzarìa, il soldato addetto al servizio del piccolo duca. Il cavallo della regina, bianco e vivace, sosteneva con una grazia che ora pareva giuoco ed ora impazienza, l' inforcatura elegante della sua guida: tutta bianca anch'essa, nel costume caratteristico usato da Stefanolo. D' improvviso, con una stratta, Wanda puntò la bestia sulle quattro zampe. Fu sul punto di tradirsi: aveva visto, dritto sull'argine e confuso in un folto d'uniformi, Valentino di Varo. Si guardarono: Wanda distolse subito gli occhi, volle spronare un'altra volta, ma capì che, così facendo, il suo istantaneo movimento d'arresto sarebbe apparso inspiegabile. Anche gli altri cavalieri s'eran già fermati intorno a Wanda. Il marchese di Pietracamela e il principe di Cerito ormai, in cinque mesi di assidua vigilanza, avevano acquistato prudenza ed accortezza per parare le sorprese e dissolvere gli impacci creati dalla gesta della regina. Leonardo per il primo, riconoscendo il duca di Varo, comprese il motivo di quel brusco arresto. Per la presenza di Bouturline, non potevano apertamente parlare.

«Vedo là un mio cugino.» disse il marchese «Valentino di Varo. Vostra Altezza mi permette di salutarlo?»

Un cenno di Wanda, e Leonardo drizzò la briglia verso il duca. Si strinsero la mano.

«Tu qui?»

«Andiamo in riposo. Centoventidue. Un mese d' inferno.»

«Lo so. Vi siete portati bene.»

Valentino accettò l'elogio, guardando i suoi compagni: erano tutti, anche lui, laceri e sporchi.

«Oh sì!» disse «Sono bravissimi ragazzi.»

Un nome gli bruciava le labbra: Franca. Invece, domandò evasivamente:

«Notizie? Tutti bene?»

Leonardo sorrise: pensava ad altro.

«Tutti bene, va' là!… E andrà anche meglio, noh?… L'Altamagna le busca: più di noi. È un osso duro, ma cercheremo di non romperci i denti.»

Valentino ammiccò verso gli altri cavalieri.

«È la prima volta che vedo Stefanolo.»

Ora il viso di Wanda gli si nascondeva quasi tutto, perch'ella era rivolta a parlare con Ruggero: un minuto innanzi, avendola in faccia, il lineamento noto lo aveva fatto trasalire. Comunicò quell' impressione a Leonardo.

«Dio, come somiglia la regina!»

Il marchese fece una smorfia di perfettissimo candore.

«Trovi?… Certo, sì, molto. Ma c'è la sua differenza.»

«È un ragazzo!»

Questa volta la risposta fu avvivata da un impeto di sincero entusiasmo.

«Un ragazzo meraviglioso.»

Un attimo d'esitazione, e Leonardo si decise.

«Vuoi che ti presenti?»

Era sicuro, avvicinandole Valentino, di far cosa grata alla regina: daltronde sapeva per esperienza ch'ella era giunta a padroneggiare le proprie commozioni.

«Vostra Altezza mi conceda….»

Il giovine stava sugli attenti, immobile.

«Il duca di Varo.» continuò Leonardo «Un fedele di Sua Maestà la regina.»

Wanda si curvò sulla sella, tese la mano a Valentino senza dir niente: aveva un nodo alla gola: il passato la riassaliva con furia. Pensò a Maria di Cerito e a Franca di Pietracamela che avrebbe riveduto tra poche ore, dopo tanto tempo, e le parve che anche quell' incontro col duca volesse riaguzzarle in cuore rimorsi, rimpianti e nostalgie. Spronò il cavallo, distogliendo per la seconda volta gli occhi da quelli intenti del giovine, e Leonardo e Bouturline le si rimisero accanto.

«Arrivederci!» gli gridò Leonardo, salutando.

Ruggero rimase un momento con Valentino, lo informò.

«Andiamo ad Almo. Sua Altezza ha da conferire con Costanzo. Ne profittiamo Leonardo ed io per incontrare le nostre donne.»

Valentino sentì una trafittura per tutti i nervi.

«Ah!… Tua moglie sta bene? Che fa?»

«Benissimo. Ma non è negli ospedali. C' è la marchesa di Pietracamela, invece: ad Almo, da un mese. Pare che si faccia onore….»; ebbe un gesto tra scettico e rassegnato, e ridendo esclamò: «Del resto, le infermiere, sai!…»

Valentino, in quel momento, non sapeva nulla: se non che Franca era a pochi chilometri da lui. Tuttavia, quella riserva, espressa da Ruggero con quell'aria, gli fece male come un morso di gelosìa.

«Che cosa?» domandò.

Il principe scrollò le spalle.

«Niente. Un gusto come un altro.»; e cambiò discorso: «Maria sarà contenta che io t'abbia veduto. Come va, tenentino?»

«Meglio che si può. E tu?»

Ruggero rise.

«Sempre in corsa dietro al piccolo duca.» e puntò il frustino verso i tre che stavano per esser nascosti dalla svolta della via «Addio, Valentino, e buona fortuna.»

Si mosse sùbito, e, dietro a lui, Azzarìa, il gigante ispido e barbuto. Il trotto serrato dei loro cavalli suonò come un martellìo ferrato sulla strada senza polvere, e li riportò veloci nel gruppo lontanante.

Due ore dopo entravano ad Almo, un paesino bianco e minuscolo serrato intorno al suo campanile. Nella parrocchia aveva allora il suo quartiere il generale Costanzo: una casetta umile, pulita, con un orto a ponente e una terrazza a levante; e si vedevano altri orti, e crisantemi, crisantemi dapertutto, nei vasi e per le zolle. Ma c'era un gran sole chiaro e tiepido come in una primavera ritardata, e il rombo del cannone era al di là dei monti, e la natura tranquilla, pur in quella fioritura funeraria, si disinteressava della morte. Più in là, squadrate in un prato tra gialliccio e verzicante, le baracche d'un ospedale da campo: quello dove Franca di Pietracamela prestava servizio d' infermiera. Per uno speciale privilegio, anche Maria di Cerito era venuta lassù. La regina non s'era più incontrata con le sue dame dai primi del maggio: cinque mesì, cinque mesi di guerra.

Se Wanda pensava alla realtà, si sentiva impazzire. Il sangue ora le riempiva i polsi e le tempie d'un urto precipitoso. Aveva temuto che Maria e Franca le muoverebbero incontro dove occhi estranei sarebbero stati presenti, e questo la sgomentava. Non fu così. Sul sacrato c'era Costanzo: avvertì che le due signore erano al piano di sopra, e trattenne nelle stanze terrene la regina e Bouturline, mentre Leonardo e Ruggero ebbero licenza di salire da buoni mariti verso le spose vedovate per sì lungo tempo. Bouturline — l'aiutante di Costanzo che aveva chiamato e accompagnato il piccolo duca e i suoi due ufficiali fin là ad Almo — aveva dovuto cedere la propria camera: sicchè presto fu da Costanzo spedito al riposo in un'altra casa. E i cinque complici furono finalmente soli. Il sesto, Azzaria, si sdraiò sotto un ulivo, nell'orto. La parrocchia, guardata dalle sentinelle, era al sicuro.

Costanzo e Wanda si vedevano spessissimo, ma questa volta il generale capì che l'anima di lei attraversava una difficile crisi. Le baciò le mani, devotamente, accarezzandogliele a lungo.

«Ho coraggio, ho coraggio….» ella balbettò, tremando «Ma ora no, ora no…. Quando l'antica vita mi riafferra, ho il fantasma del mio povero Stefanolo davanti, e tutta la rovina di me stessa…. Per questo ho ritardato il mio incontro con Maria. Maria ha l'aspetto della mia coscienza…. Non penso mai a niente, per questo. Ed ora non ho più coraggio, per questo….»

Si coperse il viso con le palme distese, e singhiozzò.

Costanzo capì che la tempesta doveva sfogarsi. Le disse:

«Ormai è tardi, figliuola…. Un passo come il suo spinge fino in fondo senza pietà, e lei….»

Wanda sùbito lo interruppe.

«Lo so, lo so…. Non tema…. Mi passa, ora…. Mi lasci piangere, ora….»

Ma si riprese immediatamente, s'asciugò gli occhi, cercò il mantello: vi s'avvolse tutta, nascondendo il candore dell'abito maschile sotto il drappeggio ampio ed oscuro.

«Le chiami, generale. Soltanto loro due. Le aspetto qui.»

Fu obbedita.

Scendendo la scaletta, la principessa di Cerito, per vincere il turbamento ansioso ed accorato che la invadeva, burlò con Franca:

«Se ci vedono così furtive, e vedono giù i pantaloni alla scudiera del piccolo duca, Franca mia, la nostra fama di mogli intemerate se ne va in fumo…. E i nostri mariti ci fanno una bella figura, al pian di sopra!»

Quando entrarono, Wanda scattò in piedi. Abbracciò la marchesa che le si avvicinava per prima, poi buttò la fronte contro il petto di Maria: sentì che il cuore su cui s'abbandonava aveva anch'esso un battito forte forte, e s'ostinò con la fronte là, quasi volesse penetrare e celarsi nel grande affetto dell'amica. Maria, se avesse parlato ad alta voce, avrebbe tradito le lagrime. Accarezzò i poveri bei riccioli, biondi e corti, e susurrò con la bocca premutale sulla nuca:

«Wanda…. cara…. Wanda…. Wanda…. cara….»

Poi le passò le dita sotto il mento, la obbligò a sollevare il volto, la guardò negli occhi che il pianto bruciava, e, per dissipare quelle nebbie d'affanno, ruppe nel suo magnifico riso canoro che una nota di fonda tenerezza venava come d'un palpito caldo.

«Su, su, piccolo duca!… Ne sappiamo, ne sappiamo sul suo conto!… L'eroismo affascina. Tutte le donne di Venustria sono innamorate di Stefanolo, dell'angelo forte e gentiletto. Siamo nel numero, sa? Franca ed io, ai suoi piedi.»

Fece l'atto scherzevole d' inginocchiarsi, quindi proseguì volubilmente:

«Si lasci guardare!… Un amore!… Pensi che posso farle una dichiarazione senza arrossire…. Piccolo duca, piccolo piccolo e tanto grande!… Le vogliamo bene, sa?… E guardi Franca. Anche Franca, la guerra l' ha trasformata. Ha visto che infermiera di lusso?… Un visino fatto apposta per l'ombra delle sacre bende…. Non ci son che io sempre la stessa, la stessa buona a nulla di prima…. Faccio le calze, sa?… È quasi divertente: non credevo. Una maglia, e una benedizione. Ve lo meritate. Ma siamo in continuo rimescolìo, veh!… I giornali e i soldati raccontano cose che ci fanno rabbrividire. Che gusto esporsi così?… E perchè si ostina a vestirsi di bianco?… Ma non parlo più, non parlo più, ecco. Gli eroi mi mettono in soggezione…. Si degna ancora di me?»

Conversarono a lungo, in piena confidenza. Wanda aveva tante cose da raccontare. E tante avrebbe voluto domandarne: su Albano: non osava. Rievocò lontani particolari alle due amiche che bevevano le sue parole.

«La parte odiosa, tra tutte, fu preparare il carcere a Stefanolo. Allontanargli i servi, complottare con la famiglia della donna che ha dato latte a lui ed a me: Onoria. Lei e i figli: quattro. Una femmina e tre maschi. La femmina è Wanda. Lei, Maria, la conosce. Una ragazzotta che aiutava a sfaccendare nel castello di Planacomba. I maschi sono tre, tre colossi: uno è Azzarìa, il maggiore, e l' ho portato con me. Fedele come un cane, non parla con nessuno. Senza uno che, sapendo, mi avesse materialmente servita, la mia trasformazione non sarebbe stata possibile. Gli altri due sono al castello con la madre e la sorella: chiudono Stefanolo in una sorveglianza assidua. Nessuno lo può avvicinare. Gli ordini sono severissimi, e strettamente osservati. Là per quei paesi credono che ci sia io, a Planacomba, malata di nervi. Si spiega così la volontà della solitudine e la rigida consegna. Sono creature devote. Onoria ha intuito con una prontezza che ha del miracolo. È stata lei l'aiutatrice e l'autrice del mio travestimento. Mi tagliò i capelli. Non volli lo specchio. Sentii sul collo il freddo delle forbici. Forse i condannati, sotto la ghigliottina, provano quel fremito che provai io. Era il tramonto. Lampeggiava. Venne sùbito notte. Avevamo scelto la stanza più lontana dal quartiere di Stefanolo: la finestra guarda i fianchi della montagna, sulle forre. Abissi di oscurità in cielo tra le nuvole, e giù nel profondo delle valli. Quando fui vestita scesi, sola: avevo fatto sellare il cavallo, e Azzarìa doveva averlo portato sul margine del bosco. Per le scale, giunta sul pianerottolo più basso, per poco non diedi un urlo. C'era Stefanolo davanti a me, pallido, immoto, con gli occhi sbarrati, anche lui con la candela accesa alta nella mano. Pallido pallido, stravolto, da far paura…. Mi avvicinai, e s'avvicinava. In silenzio. Battevamo i denti. Quando fummo a faccia a faccia, quasi per toccarci, ero così atterrita che lasciai cader la candela. Cadde anche l'altra. E si spensero. Un sudore ghiaccio mi colava per la fronte. Un minuto interminabile. Poi capii. Non era Stefanolo. Ero io, riflessa nel grande specchio del pianerottolo. Ripresi animo, continuai la mia strada, e uscii a tastoni. Tirava vento. Si sentiva la raffica sul mare. Quando trovai Azzarìa col cavallo, già tre lampi avevano per tre volte strappato istantaneamente dalle tenebre la distesa dei boschi. Azzarìa voleva seguirmi. Credo, per arrivare a persuaderlo di lasciarmi sola, d'averlo minacciato col frustino. Il cavallo, ad ogni baleno, scartava come se un aspide lo mordesse. Per dominarlo, dovetti vincere la mia tremenda inquietudine: la bestia la sentiva, e, se duravo così, sarebbe impazzita di paura e m'avrebbe sbalzata di sella. Andavamo alla ventura, con l'urlo del vento. Avrei pagato una libbra di sangue, per vedere una stella. Il bosco si lamentava come un dannato, e il mare sghignazzava sugli scogli. Notte di tregenda. è stato il mio primo e il mio più vero allenamento. Dio deve avermi fatto vedere, in quelle ore, le anime di tutti coloro che sono morti dopo, in questa guerra che in Venustria porta il nome che usurpo. E Dio conceda pace a loro ed a me. Allora erano anime implacate. Si divincolavano con gli sterpi e le foglie che mulinavano sotto gli zoccoli del mio cavallo; correvano bianche e lunghe sul mare, quando il fulmine s'accendeva; stridevano e mugolavano su per l'alto del bosco contorto dalla bufera. Finii per trovarmi alle cappelle di Planacomba. Croci, cipressi, e trapassati: quelli del mio sangue: che piangevano su Stefanolo e su me. Se piangano ancora non so. Io avevo disimparato il pianto. C' è voluta la certezza della vostra presenza, perchè mi scoppiasse l'angoscia che serro nel cuore. Sangue, fumo, polvere…. Da cinque mesi non vedo altro. Schianti micidiali, dopo i quali mi ritrovo viva e fredda. Forse non soffro più: nemmeno per Stefanolo, nemmeno per la morte di tanti poveri soldatini…. Non sono io che mi risparmio, è il destino. Ho dentro di me un nembo di furore: ma è un nodo doloroso che non si discioglie. Forse lo comunico agli altri, quando pèrdono la testa, e gridano il nome della patria, e non sono più uomini, ma belve o màrtiri…. Non so. Io assisto: lucida e fredda, vi dico. è un orrore la guerra, vista come la vedo io. E questo è atroce, che ci si abitua a vederla, a subirla, ad imporla…. Non misuro più il sacrificio degli amici. Mi fa una gran pena quello dei mille che non conosco e che, tutti, conoscono e ripetono il nome del piccolo duca….»

Avrebbe continuato ancora. Ma, per quanto ella dicesse di sè, erano invece le sue ascoltatrici più lucide e fredde, e a poco a poco la ridussero dall'esaltazione che la investiva ad una misurata considerazione degli avvenimenti. Maria di Cerito era la più risoluta nel tarpare le ali a quel volo pericoloso.

«Vostra Maestà è ammalata di spasimo romanzesco: ma, siccome il romanticismo non usa più, inconsciamente vorrebbe rammodernarlo con i secchi sussulti d'una sensibilità…. — che dirò? — tutta cerebrale. Scusi il paragone irriverente, ma io, per esempio, non ho mai capito nè imparato come si possano sbucciare i fichi con le posatine d'argento. I fichi, nelle tavole dove non c' è raffinatezze, si prendono con le due mani, si spogliano in un attimo della loro camicia verde foderata di rigatino bianco, e giù in un boccone, intatti e dolci come una pillola di delizie. Va bene che la guerra non è altrettanto deliziosa, ma Vostra Maestà la complica con l'armamentario d'argento delle sue sottigliezze psicologiche. Crede che il ragazzo di buona famiglia che ora fa l'ufficiale sotto la mitraglia non abbia mai tremato, alla vigilia della guerra, attraversando un bosco durante il temporale?… Crede che il contadino, cambiata la zappa con la baionetta, non veda anche lui, e, ahimè?… non senta gli schianti micidiali etcetera etcetera?… Ma — mi oppone Vostra Maestà — non è la materialità del fatto, sono le condizioni diverse. D'accordo. Diversissime: quella, per citarne una sola, del padre che ha lasciato a casa, a lottare con la miseria, la moglie rifinita e cinque creature alte come le dita della mano…. Se Vostra Maestà prestasse un pizzico di romanticismo e un pizzico di cerebralismo a questo padre povero e disgraziato, sentirebbe delle variazioni al cui confronto impallidirebbero le sue. Prèdico bene perchè non faccio nulla? Ma già!… Prima di tutto è certo che il mondo ha cominciato ad andar male quando la gente è stata presa dalla smania di far troppo. Eppoi sono una donna io. Mi sono contentata di partorire con dolore due volte: Dio se li è voluti prendere appena nati, ma io l'obbligo mio l' ho fatto. Se ora prèdico…. ebbene, non ci sono certi giovanottoni robusti come querce che si serbano nelle redazioni dei giornali e nelle tipografie degli editori per sentenziare sulle sorti dell'universo? Sono più in carattere io…. Wanda, Wanda, bisogna rimanere coi piedi in terra, anche quando, anzi specialmente quando si vuol tragicamente giuocare con l'assurdo. Badi che il piccolo duca deve riportare a casa Wanda, la reginetta un po' triste e un po' sognatrice. Noi la aspettiamo, la vogliamo un'altra volta con noi. Il sipario cala, e gli attori scrollano, insieme col vestito e col belletto, le finzioni della passione. Vostra Maestà reciti bene, ma non troppo. Morir di tisi sul palcoscenico squallido e buio d'un teatro deserto, perchè nelle serate sfolgoranti di luce s' è sofferta con eccessiva verità la consunzione della Signora dalle camelie…. no, no, piccolo eroe del mio cuore, non ne val la pena, non ne val la pena. Lei mi perdona se le parlo con tanto volgare glacialità, vero?… Mi dica di sì, che ha ragione lei, ma che ho ragione anch' io. E, in mezzo a una mèsse così abbondante di ragioni, sia ragionevole lei sul serio. Non si butti contro la morte come fa. I principi d'Altamagna son tutti al sicuro, e i loro eserciti combattono lo stesso. Che gusto andare a finire nell'ospedale di Franca, e obbligare la nostra povera amica a misurarle la temperatura ogni mattina e ad assistere alle sue stoiche medicazioni?…»

Wanda la interruppe. S'era rischiarata, e sorrideva. Sapeva bene che Maria era convinta meno che per metà delle cose che diceva, ma comprendeva la dolce cullante intenzione di tutte quelle parole un po' commosse e un po' ironiche, e i nervi le si distendevano in un riposo sereno. Conversavano narrando episodii e annodandone il commento. Franca disse del suo ospedale: una vita movimentata, che a volte la stancava fisicamente, ma in cui il suo spirito non si abbatteva. La regina tessè l'elogio di Marino d'Anghelos, dovè precisare, esemplificare, dar tutti i particolari, perchè la principessa di Cerito acuiva contro di lui una critica aspra d' incredulità e di riserve.

«Ma perchè te la prendi tanto con d'Anghelos?» le domandò Franca.

Maria ribattè, di colpo:

«Perchè mi è antipatico.»

E cambiò discorso, informandosi dalla regina come Pietro Bouturline disimpegnasse il servizio di staffetta tra il generale Costanzo e il sedicente piccolo duca. Wanda ripensò certo alla serata del messaggio a Planacomba: sorrise infatti, e guardò Maria, ma senza turbamento.

«Benissimo.» rispose «È di una discrezione perfetta. Eseguisce gli ordini come una macchina. Non una parola di più, mai. Non ha evidentemente nessuna velleità di guadagnarsi la confidenza del fratello della regina.»

La pricipessa crollò lievemente il capo, e sospirò a mezza voce:

«Quanto veleno si può bere in un'ora!»: pensava anche lei alla sera di Planacomba.

«Che cosa?» interrogarono contemporaneamente Wanda e Franca che non avevano udito.

«Niente. Penso che l'altro mio cugino, Gregorio Bouturline, sta preparando un giro artistico al fronte. Penso che Lotario, il marito di Costanzina, ha perduto un braccio per un colpo di bombarda, mentre il capitano Revedina, l'amico di Costanzina, s' è imboscato in un ufficio. Penso alla mia povera noiosissima zia che s'affanna a nascondere le sue pene sotto il velo di una meticolosa sentenziosità. E penso a Mimì Fontanarosa, la fidanzata di Pietro, che….»

«Pensi a tutto il mondo, dunque.» sorrise Franca.

«No. Passo in rivista la parentela: una parentela triste come un gruppo di famiglia incorniciato e appeso a una parete.»

«A proposito!» esclamò Wanda «Ho incontrato suo cugino, marchesa: Valentino di Varo.»

«Me l' ha detto Leonardo.»

«Valentino di Varo?…» fece Maria «Il poeta della nostra compagnia. Vostra Maestà si ricorda?»

«Se ricordo!» proruppe Wanda con un gran sospiro «Tanto, che lì per lì sono stata per gridargli il suo nome e tendergli le mani. Ho provato una specie di rimorso: non avrei dovuto escluderlo dal mio segreto. Era fedele e buono e coraggioso.»

La principessa si volse a Franca, ridendo.

«Franca, non arrossisci? L'elogio di Valentino protende luce su tutta la famiglia. È una gloria domestica. Non arrossisci?»

«Arrossisco, infatti.» disse la marchesa di Pietracamela «Il mio stupidissimo sangue affiora in pelle in pelle non appena si sente chiamare. Smetti di guardarmi, altrimenti arrossisco fino alle lagrime.»

La regina seguiva la propria idea.

«Ora» aggiunse «egli è confuso nella folla dei combattenti. è in un reggimento che ha fatto miracoli. Mi ha fissato gli occhi in viso con una specie di stupore incantato. Non sono stata capace di dirgli neppure una parola. M' è parsò molto pallido, e s' è smagrito. Venivano in riposo verso Almo, non so dove. Forse lei, marchesa, che è qui, lo rivedrà.»

«Forse.»

Un istante di silenzio, e il cumulo delle memorie che involgeva il cuore di Wanda s'appesantì tutto in un nome ch'ella pronunziò, domandando improvvisamente:

«E Albano?»

Era l' interrogazione attesa e temuta.

La marchesa di Pietracamela s'affrettò a rispondere:

«Sono io pure una reclusa di guerra, Maestà. Oltre il mio ospedale non so più nulla.»

«C' è poco da sapere.» disse Maria «Anche nella capitale, con la guerra, si vegeta. La vita rumorosa non batte più. Chi ha voglia di divertirsi?»

La regina insistè:

«Lei lo ha veduto, gli ha parlato?»

«Pochissime volte. L'ultima fu un mese addietro. Voleva sapere notizie sue, da me. Gliele ho fornite secondo le istruzioni.»

«È persuaso?»

«Ma credo di sì, Maestà. Come vuol che sospetti? Le lettere, che portano i timbri del castello, gli giungono regolarmente ogni venti giorni. Andare a Planacomba non osa, incontrarsi col piccolo duca guerriero e vittorioso nemmeno. Crede. Il re, se Vostra Maestà mi permette di dirlo, è superstizioso. Forse sente intorno a sè una nube di mistero, e non s'attenta a scrutarlo. Ha paura che a Planacomba soffi un alito demoniaco, perchè ragionevolmente son troppe le cose che non sa nè può spiegare. Guarda, ed aspetta.»

«Ma che fa?»

«Mio Dio, nulla di speciale, mi figuro. Immagino che firmi, firmi molto, perchè le leggi e le leggine che vengon fuori ogni giorno son tante e tante che i sudditi non si raccapezzano più.»

Wanda, contro quell'ostinazione evasiva, capì che era inutile insistere. Ma non si diede per vinta.

«E la principessa Jese?»

«Non la vedo mai.»

«Ah!»

«È probabile che sia nella sua villa di Tarquinto col marito e con la cognata.»

«Mi hanno detto che è incinta, noh?»

«Chi glielo ha detto?»

«Non rammento. Qualcuno.»

«Può darsi. Del resto, Vostra Maestà si persuada che quelle dello stato più o meno interessante di Orabile Jese è una notizia trascurabile.»

La regina non fiatò. L'una attraverso l' implorante inquisizione e l'altra attraverso la menzogna, Wanda e Maria avevano detto tutto quanto avevano da dirsi in proposito.

“Povera anima tormentata, questo male no, questo male no, non devi confessarlo nemmeno davanti a noi che pur sappiamo tante cose. Non mostrarne le ferite. Serbalo in te, che non hai più nulla di tuo, che affidi agli altri i tuoi segreti, che vivi la vita e sfidi la morte nel quadro d'una tragica commedia!… Sei tutta in mezzo alle fanfare impennacchiate e tonanti della finzione in cui t' ha tratta il tuo destino; la tunica bianca che non usa più è il tuo emblema: un arnese di teatro. Ma questo male è l'oasi della tua sincerità, e t'agguaglia alle altre donne umili e grandi che non portano come te il peso di una maschera. è un male d'amore. Piangi, ma nascondi a tutti le tue lagrime. Orabile Jese usurpa la sorte che volevi per te: amante e madre. Orabile Jese vive nella realtà quei sogni che tu hai discacciati come uno sciame che t' ha vuotato il cuore d'ogni dolcezza. Che importa se l' intrigo è volgare? Che importa se i personaggi sono un bellimbusto nato per la materia e una bamboletta che s' è buttata nell'adulterio come in un giuoco?… L'avventura è miseranda, povera anima che ti prodighi tutta per le idealità più temerarie! Ma questo bruciore che ti rode, questa gelosia che t'affanna e che pare indegna del tuo volo, è il tesoro dei tuoi sentimenti, l'unico che non patisce truccature, il solo cantuccio vero e tuo che ti rimane della tua femminilità….”

Wanda, rassegnata di fronte alla voluta fredda indifferenza di Maria, girò intorno all'agguato di quel nome di donna ch'era il suo perpetuo tormento; e da Orabile saltò alla marchesa Ribaudo e alla principessa Della Falce, quasi che, anche prima, il suo non fosse stato se non il desiderio di informarsi sul conto delle signore famigliari alla corte di Venustria.

«La marchesa Ribaudo e suo marito fanno incetta di commestibili in scatola. è una fissazione. Si premuniscono, perchè si adorano troppo per poter solo lontanamente pensare che un giorno non avranno tutto il necessario ed anche tutto il superfluo. Lui non so che imperfezione s' è fatta venire per esser riformato. Quando ci vediamo, io dedico in onor loro certi sorrisi eloquentissimi, che voglion dire “parliamoci meno che si può“. La Della Falce invece mi fa pena. La sua storiella sentimentale con Straczy è doventata di pubblico dominio. Siccome ora si veste sempre di nero, dimessa e triste, la chiamano “la vedova diplomatica.” Si occupa d'un asilo per le ragazze smarrite: fa scuola d'austerità e di ravvedimento, ma si macera. Della Falce, il marito, dev'essere in prima linea.»

La regina confermò.

«Si porta benissimo. Ora è al campo d'aviazione di Runo.»

«Anche lui?!» fece la marchesa.

«Perchè?»

«Ho letto in un giornale, non so dove, che Straczy fa il suo servizio d'ufficiale bombardando dall'aereoplano le nostre città difese e indifese. Non so se è una frottola del giornalista, o se la notizia è sicura.»

Maria commentò:

«Per uno che adorava le bellezze del nostro paese — son parole sue e del suo principale —, non c' è male davvero!»

«Son fatti così.» disse Wanda, crollando il capo «E non capisco se sia per fanatismo di sacrificio, o se agiscano sempre come macchine caricate.»

«Il barone di Loën, il principale, è in ribasso, noh?» domandò la marchesa.

Maria rise.

«Vuol dire che anche in Altamagna alligna la mala pianta dell' ingratitudine. Non è certo per sua colpa che abbiamo dichiarata la guerra!»

Sfilarono, nel discorso delle tre amiche, i nomi noti alla loro antica comunanza di corte.

La contessa di Marbello spasimava d'abbracciare il piccolo duca. Maria, che la visitava spesso, si sentiva ogni volta invariabilmente domandare: “Voi lo conoscete, è vero? Raccontatemi un po'”. Poi rileggeva qualcuna delle rare lettere che Wanda le faceva prevenire da Planacomba, e, sebbene non sospettasse di niente nè le frasi della pretesa esiliata a Planacomba giustificassero il suo entusiasmo, ella commentava invariabilmente: “Grande carattere, grande anima!”, e miss Smedley approvava. Col re aveva pochi e cerimoniosi rapporti; lo chiamava con una smorfia: “Il cognato di Stefanolo”: ma questo Maria non lo comunicò alla regina, per non riaccendere un'altra volta il fuoco pericoloso del ricordo di Albano.

La Monterosso ingrassava, con un'acida desolazione che le faceva dir male di tutto e di tutti. Il conte di Fivignano giuocava come un disperato: ora che non c'eran feste e che i teatri erano quasi deserti, trascorreva le notti al tappeto verde, e alternava i colpi della fortuna con quelli della disdetta. Di Triverna non parlarono: lo sapevano servitore del re nel lecito e nel libito, ed evitarono di pronunziarne il nome. Roscio faceva la guerra sul mare: audace testardo espertissimo, dava del filo da torcere al naviglio nemico, e già aveva compiuto difficili imprese.

«E la sua scrittrice?» domandò d'un tratto la regina a Maria «La signorina Rinaldi?»

«Insegna in un liceo.»

«E il romanzo? Si ricorda?»

«Ora non scrive niente. C' è la guerra. Mi ha detto che non ha nè la voglia nè la faccia fresca di farlo, mentre tanti giovani, dotati d' ingegno e di speranze, combattono e muoiono.»

«Ha ragione. Non c' è nè tempo nè luogo per la letteratura.» disse Franca.

La regina storse la bocca.

«E pensare che ne fanno tanta, proprio ora, su per i giornali! Non è mica vero — sanno? — quello che raccontano i corrispondenti di guerra. Fantasie fiorite, viste in cornice. Quello che accade in guerra è molto peggio, e, se Dio vuole, è anche molto meglio. è più umano: è bestiale, perciò, ed insieme è divino. Letteratura, letteratura!… è mai possibile raccontare la guerra? A chi non c' è, no. Ed è difficilissimo anche a quelli che ci sono. Certe materie ripugnano alla carta. L' inchiostro non può imbevere di sangue una pagina: la colorisce, la macchia, la fregia…. ma non è sangue vivo che scorre alla morte. Se la sua amica Rinaldi scriverà un romanzo, Maria, le raccomandi che non sia un romanzo di guerra. O annoierà i lettori, o cadrà nell'assurdo. Non potrà riprodurre, non le riuscirà trasformare….»

S' interruppe; poi disse sorridendo a Maria:

«Mi era molto simpatica, del resto. Non gliela offendo, vero?»

Guardò l'ora. Pensò che le sue dame avevano il diritto, dopo tanto tempo, di stare insieme coi loro mariti. Enunciò questo pensiero a Franca e a Maria con una malizietta che non mostrava nessuna punta nè d'amaro nè di malinconia; non volle ascoltare le loro proteste scherzose, e, spalancata la finestra, chiamò Azzarìa.

Un minuto dopo, seguìta dal soldato, uscì, a piedi, dalla parrocchia. Le sentinelle trasalivano, vedendo l'uniforme bianca e leggendaria, eppoi fissavan gli occhi sul giovinetto biondo che riassumeva in sè tanto destino, e sul gigante barbuto che lo accompagnava. Presero la via dei campi, in solitudine. Al passaggio Wanda, col frustino, spengeva gli orli fioriti delle siepi. Questa distrazione di crudeltà non era abituale in lei. Che c'era, che c'era di violento in quel cielo sereno, in quel sole dorato e odorante, in quei frascami rossicci e gialli che non parlavano d'agonia ma sembravano in festa, in quella terra succosa come a primavera, in quel fiume azzurro che frusciava e balenava dietro le canne? Che c'era nel paesaggio chiaro ed irriguo, da immetter nelle vene un languore che si risolveva in tumulto dei nervi?… Costeggiarono un parco militare di bestiame: tra le stecconate aperte stavano lenti o sdraiati, disseminati sui pascoli come blocchi di pietra, i buoi; da un chiuso, donde sorgevano voci rissose di uomini, i muggiti si propagavano lunghi e cupi. Più in là, Wanda e il soldato sboccarono in riva al fiume, che in quel luogo s'arcuava dolce ed ampio, perdendo l' irruenza della rapidità. Traspariva il greto, in più punti, e l'acqua aveva il color gelido della sorgente. Un bosco di platani levava lì presso le colonne lisce e maculate de' suoi tronchi. Si udì un fischio, lontano; poi un cane abbaiò. E silenzio. Qualche piccolo tonfo misterioso nel fiume, di tanto in tanto. E silenzio.

Un quadro di riposo idillico, dopo il furore delle battaglie; l'ora della conciliazione con sè stessi, quando l'animo si raccoglie, si ritrova, si volge alla carità della famiglia, dell'umanità, dell'amore; il ritorno alla vita co' suoi quieti pensieri, e gli affetti, le speranze, l'arridente serenità. Ecco. I cari che si son lasciati lontani vengon piano piano d'attorno, le loro immagini sommessamente evocate fanno corona al cuore: i vecchi, la mamma, i bimbi, l'amata. E si scrive la lettera lunga, la lettera promessa; si scrive a casa, si scrive a “lei”.

Fior di mortella, sono in riposo dopo la trincera, e mando tanti baci alla mia bella….” “Fior d'albicocca, non sento più tonar l'artiglieria, sogno le labbra mie sulla tua bocca….”

Quante volte Wanda aveva udito il canto distendersi da un capo all'altro di una colonna in marcia, e trabalzare a onde ineguali sulla cadenza ancor tenuta del passo, eppoi avvolgere ciascun gruppo della sua armonìa, sicchè gli uomini parevano riacquistarne la libertà di muoversi, finalmente, muoversi a proprio agio! Venivan giù, i soldati, dalle bolge del fuoco, della roccia, del fango; venivano verso una pausa dalla morte, verso la vita; e anticipavano sulle ali del canto la lunga lettera promessa.

Chi non ha da scrivere a nessuno, è solo; ed è più stanco, più triste.

Wanda era oppressa di solitudine: stanca e triste da morire. Perdutamente, con un ritmo disperato d'ostinazione, ella in sè domandava a sè stessa:

«Chi come me?… Chi come me?… Chi come me?…»

Travolti e sconvolti i suoi legami famigliari, distorta la sua individualità, sentiva di sprofondare nel gorgo di una mostruosa allucinazione.

«Chi come me?…»

Dietro al folto dei platani qualcuno camminava. Azzarìa, sempre vigile, s'accostò vicinissimo a Wanda. Ella guardò distrattamente. Era un militare, e si fermò d' improvviso: ne vedevano l'uniforme, tra gli alberi. Poi lo riconobbero. Bouturline, che riprese sùbito il cammino, e venne avanti. Salutò rigidamente.

«Lei qui?»

«Una passeggiata, Altezza.»

Il frustino di Wanda accennò all' ingiro.

«Bel posto.»

«Bellissimo, Altezza.»

Il frustino si tuffò leggermente nell'onda bassa che giungeva alla riva.

«E com' è limpida quest'acqua!»

«Limpidissima, Altezza.»

Una pausa.

«Buona passeggiata, allora.»

«Grazie, Altezza.»

Un altro saluto rigido, eppoi l' immobilità della posizione d'attenti, finchè la bianca tunica non disparve dietro il boschetto.

Il duca di Varo era giunto a Ròscopa nell'ora del tramonto. Quando ebbe disbrigato l'opera non facile di mettere a posto i suoi soldati tra i mille e mille che si trovavano a riposo in quell'accantonamento, scendeva la notte: lentissima, perchè Ròscopa dilungava la sua vasta pianura verso ponente, schiacciata invece a levante sotto i costoni ripidi e alti della barriera montuosa. La città era lì presso, e i blocchi delle costruzioni naufragavano all'occhio in un vapor dolce di colori rosei e violetti. Le vette alpestri si stagliavano calde e dorate contro la parte orientale del cielo ormai illividita. Il luogo era formicolante di soldati. Baracche improvvisate dove si mescevano bibite e caffè eran prese d'assalto dagli uomini di truppa. Gli ufficiali s'affrettavano verso la città, alle cene e ai ritrovi. Un lunghissimo viale, costeggiato di villette che via via si facevano meno frequenti, portava alla sede del comando di un corpo d'armata: e qui non l'umile parrocchia di Almo sorridente tra i crisantemi, ma una sontuosa villa principesca circondata da un immenso parco famoso.

Per questo viale, che snodava nella pianura il suo liscio nastro di chilometri e chilometri, si mise Valentino, venuta la notte, insofferente di adagiarsi al riposo sebbene fosse stanchissimo. I suoi compagni, a quell'ora, dormivano, finalmente, rotti di fatica e di vigilie. Egli no. Camminava adagio, allontanandosi dai monti di Ròscopa: così, d' istinto, perchè aveva saputo che dietro un braccio di quei monti era Almo, e ad Almo, gliel'aveva detto Ruggero la mattina, ad Almo c'era Franca.

Franca. Ella tornava ad emergere viva e prepotente dalla specie di torpore in cui la sua svogliatezza sentimentale l'aveva affondata durante i cinque mesi della nuova esistenza di guerra. La aveva sempre sentita in agguato, pronta a riscoppiargli dal cuore: e s'era industriato di non pensarla più, non pensarla nemmeno, per non essere riafferrato dalle insostenibili angosce del suo tormento.

Franca. Ora ell'era là, vicina. Non certo intenta nel lavoro d' infermeria, quella notte…. Il marito si trovava ad Almo anche lui: una benevola concessione del granduca Stefanolo li aveva certo riuniti.

Franca. Urtavano nel suo petto la dolce immagine antica, l'ambiguità schernitrice del tempo dipoi, la creatura di carne che un altro, in quell'ora, aveva il diritto di prendersi tutta a sua voglia.

Il quieto aspetto, la forma serena, riapparendogli innanzi, gliela mostravano pur sempre divina, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tocca da miseria terrena. Ma sùbito l'umanità della sua sofferenza lo riaddentava con smaniosa irrequietudine. E, in questa vicenda, un fluttuar continuo di immaginazioni costruttive e di riflessioni distruggitrici, un sì e un no, un voglio e non voglio. Il suo amore non aveva storia, non progressione da un punto ad un altro; era un perenne vagare tra opposte impressioni, secondo lo stato dell'animo, in balìa del momento, senza una forte volontà, senza uno scopo ben chiaro. Sì che la sua vita era fatta di sogni, di estasi, di fantasie, di desiderii ch'egli aveva coscienza di non poter mai conseguire. Un falso dolce fuggitivo, un difetto d'equilibrio, un disaccordo interiore. Lo spirito, dovendosi e volendosi segregare dalla natura e dal senso, consumava sè stesso, preda e avvoltoio. E gliene venivano, a lui che pur era sano e impetuoso, un avvilimento e un'angustia che aduggiavano e intristivano anche gli altri suoi sentimenti. Donde un'ombra di malinconia su tutto: insanabile malinconia, perchè si generava dalla coscienza di tante interne dissonanze impossibili a conciliare. Ripreso dall'ossessione di Franca, egli si sentiva mancare il possesso e il godimento e la serietà e la forza della vita. La realtà, l'unica realtà che lo occupasse, era quella irraggiungibile del suo amore: il resto gli appariva vuoto, estraneo, tedioso….

Si voltò a guardare per la strada appena biancicante sotto il sereno senza luna. Gli ammassi delle tenebre, in terra, serravan l'occhio dappresso; nessun lume, all' ingiro, perchè si temevano le ali nemiche. Solo i fuochi delle stelle, morbidi e vivi nel cielo come un palpitar soave. Il rumore che lo aveva fatto rivolgere s'appressava e s'accelerava: un'automobile. Il giovine si trasse da parte, sul margine della via: il fanale disperdeva troppo brevemente il buio, e la corsa era rapidissima. Un luccicore nero, una folata di vento, e l'automobile lo sorpassò: di poco, chè si udirono stridere i freni, e la macchina rimase ferma, a un centinaio di metri. Un guasto, certamente. L'ombra del guidatore girava attorno alla vettura, e la sua voce, e un'altra voce femminile giungevano fino all'orecchio di Valentino. Quest'ultima gli fece un effetto curioso. Le poche mescitrici che aveva veduto affaccendarsi ed alternare lusinghe e parolacce dietro il banco delle baracche di vendita all'accantonamento non avevano richiamato la sua attenzione, pur dopo tanto tempo di lontananza dal mondo dei borghesi e delle donne. Ora invece il suono limpido e un po' grave di quella voce bastò perch'egli si sentisse d' improvviso come trasportato nel fulgore delle sale festanti, tra fuochi di gemme e di sguardi, e profumi lievi quasi primavere scosse dal vento, e grazie, e sorrisi, e leggiadre schermaglie. S'era dimenticato di quella vita, e dal ricordo ebbe uno stimolo di piacevole stupore. Già vicino ai viandanti sorpresi dall'arresto forzato, fu scorto, mentre una forma snella e leggera saltava giù dalla vettura.

«Se ha bisogno d'aiuto, c' è qualcuno.» disse la voce femminile indirizzandosi al compagno, con l' intenzione d'essere udita anche da colui che passava.

Valentino si fermò, senza dir nulla. Discretamente offriva così la possibilità dell'opera propria; ma pensava ad altro: pensava a una persona nota…. non sapeva chi. L'uomo intanto toglieva in mano il fanale per veder meglio nei congegni della macchina. Rispose:

«Non occorre. Un po' di pazienza, e si riparte.»

Nel voltarsi ch'egli fece, la luce colpì il viso della donna, lo tenne illuminato un momento. Il duca trasalì. Era certo di aver riconosciuto Armanda, la bella e strana dispensatrice d'amore. Armanda!… A quell'ora?… In quel luogo?… Le si accostò di qualche passo.

«Armanda?… Non m' inganno?…»

«Chi è?» domandò la voce, stupita.

Intanto l'uomo drizzava la luce su lui.

«Ooooh!…»: un'esclamazione lunga, lieta «Lei?… Proprio lei?…»

Si strinsero le mani.

La donna si volse sùbito all'altro.

«Per quanto tempo ne ha?»

«Una ventina di minuti, mezz'ora: forse meno.»

«Faccia.» disse Armanda «Mi raggiungerà. Io vado avanti, a piedi.»; e a Valentino: «Mi accompagna?»

«Volentieri, molto volentieri.»

Stavano per avviarsi, quando il guidatore dell'automobile interloquì: dai galloni che portava sulla manica il duca vide ch'era un caporale.

«Ma…. Mi perdoni, signora….»

«Che cosa?»

«Lei sa. Ho ordini severissimi. Rispondo della sua persona, e….»

Valentino capì a volo che genere di passeggiata fosse quella: la mèta doveva esserne certo la sede del comando. Ebbe il dubbio di cacciarsi in un intrigo che forse gli avrebbe procurato delle seccature, ma non volle offuscare la cordialità fiduciosa e spontanea mostratagli da Armanda. Le strinse il braccio per impedirle di ribattere vivacemente. Susurrò:

«Quel poveraccio ha ragione. Con la consegna…. straordinaria» e sorrise «non si scherza.»

S'avvicinò al caporale, gli disse il suo primo semplice cognome:

«Sono il tenente Marulli.» e compiacentemente stese sotto la luce del fanale la sua carta di riconoscimento.

Il caporale la prese, perplesso:

«Gli è che….»

Lesse:

«Tenente Valentino Marulli, duca di Varo e Basurto….» s' interruppe, fece: «Ah!… Il duca di Varo?!…», e restituì la carta, con un'aria che voleva dire e non dire.

«Io sono in regola.» proseguì Valentino «Mostratemi voi gli ordini scritti. Suppongo che non avrete mica un mandato di sequestro da esercitare in persona della signora?…»

Il caporale taceva.

«Accomodate pure la macchina. Ci raggiungerete più in là.»

Lo lasciarono in asso, ridendo tacitamente.

«Lei ha creduto di rassicurarlo?…» domandò la donna a Valentino con accento di malizia.

«No. L' ho messo nel caso di troncare la discussione…»

«È un antipatico. Un conte. Salmaedro, Samoiedo…. non so più. Un imboscato che si rassegna a fare lo chauffeur di Gheronti, pur di tenersi in salvo la pelle.»

Gheronti era il comandante del corpo d'armata; ed era, senza dubbio, colui che aspettava Armanda. A Valentino parve inverosimile ch'ella fosse andata a finire tra gli alti papaveri della milizia, e che corresse le strade a quel modo e di notte per rendersi al cenno di un amante malgrazioso. Non poteva infatti raffigurare altrimenti che così il generale Gheronti, sebbene non lo avesse mai conosciuto: rammentava d'averne visto il ritratto che lo effigiava con una grossa testa massiccia, gli occhi piccoli e adiposi, il collo tozzo senza eleganza. Il bel fiore d'Armanda docile a quelle mani?… Per quanto la curiosità lo pungesse, non la interrogò.

Ella scrutava intorno nelle tenebre per capire a che punto della via si trovassero.

«Dove siamo?» fece «Par la gola del lupo: con questo buio non mi raccapezzo.»

Il duca non potè aiutarla nella ricerca dell'orientamento. Quando le disse che veniva lì per la prima volta, la sua compagna gli domandò bruscamente:

«Come?… Passeggi alla ventura così solo e a quest'ora?»

«Eppure è stata la condizione perchè io ti incontrassi!»

«Sempre malinconico e bizzarro dunque?»

Valentino rise, e stupì che quelle parole non gli apparissero incaute. Riudendo la voce di Armanda e sentendone la persona accosto alla persona, pensò come mai una volta avesse potuto illuderlo la somiglianza con Franca. Quella notte non c'era nulla in lei di ambiguo e di allucinante che lo turbasse. Gli sembrava invece di parlare con un'amica volentieri riveduta, ma tanto tanto lontana dalla donna del suo cuore.

«Ti ricordi il golfo, gli aranceti, i canti sul mare?»

«Sono grato a te di ricordartene.» egli rispose leggermente.

Armanda gli serrò il polso, forte, facendogli sentire nella carne la morsa delle unghie.

«Grato?!… Non dire bugìe. Tu spendesti per me molto denaro, ma poca riconoscenza.»

«Non capisco.»

«Mi mandasti il giorno dopo un orribile gioiello costruito con dei meravigliosi brillanti. La materia di gran valore voleva dire “ti pago bene”, la legatura di perfido gusto voleva dire “ma non ti dedico nulla di veramente mio”.»

«Cielo, che spaventosa potenza di penetrazione!» esclamò Valentino, velando burlescamente la sorpresa d'essere stato con tanta trasparenza indovinato «Perchè non ti passò più semplicemente per il capo che la perfidia del gusto non fosse intenzionale ma congenita?»

Le unghie di Armanda puntarono più acute e più veementi sul polso del giovine.

«Nega, se puoi!»

«Non nego, prego…. Prego la mia graziosissima gattina di non straziarmi così.»

Ella si staccò da lui, con un broncio un po' scherzevole e un po' triste.

«Fui tentata di rivendere il gioiello e di mandarti il denaro con un biglietto: “Erogazione del duca di Varo per un asilo di cani rognosi….”»

Valentino trasalì, se la riaccostò dappresso.

«Armanda!»

«Non lo feci. Capii che sarei andata oltre la tua intenzione.»

«Oh, Armanda!…»

Lo punse il pensiero della miseria in cui l'anima di lei doveva dibattersi. Povera creatura!… Neanche lei sapeva essere più forte della sua fortuna!

«L'ho fatto rimontare invece. Così è bellissimo. E sempre con me; sotto l'abito; e la stanghetta dello spillone appoggia sulla carne nuda: una specie di cilizio di cui porto il segno profondo della lividura.»

Si fermò.

«Ma dove siamo?… Hanno paura degli aereoplani, e lasciano camminar la gente a tastoni. Paura!… Paura!… Il mondo sa soltanto aver paura. Dove siamo?… Villa Guidobaldi, là…. Vedi il fosco degli alberi?… La mèta è ancòra lontana. L'automobile ci raggiungerà a mezza strada.»

Riprese a muoversi lentamente, e guardò le stelle.

«Son le medesime della nostra serata sul golfo?… Ma sì, certo. Quelle erano per noi due; stanotte sono per me e per Gheronti Non ho mica la tentazione di tradirlo, sai?… Con te meno che con tutti. Con te credo che non sarebbe più possibile.»

Gli ruppe in bocca una protesta galante.

«Va' là, taci.!… Non sciupare la fraternità del nostro incontro. Narrami, piuttosto. Fai la guerra anche tu?»

«Ma sì. Ero caporale, e da due mesi mi hanno creato ufficiale, di punto in bianco. Non per meriti straordinarii. Perchè c'era bisogno d'ufficiali. Eccoti al corrente del mio stato di servizio.»

«Non scherzare. Dimmi davvero se ti diverte fare la guerra.»

«Sei tu che scherzi. Ti sembra ammissibile un divertimento di questo genere?»

«Hai veduto molti morti?»

«Per forza, Armanda! Credi che si tiri coi confetti?»

«Molti morti!… Che impressione dànno?»

«Difficile a definirsi. I più nessuna impressione; qualcuno fa orrore, e qualcuno fa pietà.»

«È vero che si vedono mutilazione e piaghe spaventose, strazii di membra e d'anime?»

Il duca ripensò le tragiche visioni che tante volte gli avevano contorto il cuore, ma gli parvero estranee a quel frasario romanzesco, quasichè ella parlasse d'un'altra cosa.

«Vuoi proprio immalinconirti?» esclamò, accendendo una sigaretta.

«Immalinconirmi?… Far la guerra mi interesserebbe enormemente, e ciò che interessa diverte.»

«Non avresti paura?»

«Paura?… o?… Non mi conosci. Dev'esser così bello sentire il fragore, di qua, di là, aver la morte ai fianchi, senza cercare di sfuggirla, senza tremare!… Non ho paura, io. E tu?»

Valentino sorrise.

«Ma cara!… Non è la stessa cosa.»

«Perchè sei un uomo?… E Samoledro, Samoiedo, che fa il valletto di carrozza, non è un uomo anche lui? E tanti altri?… Ma tu no, tu no: non puoi aver paura.»

«Vuoi che sia sincero?»

«Racconta.»

«Una volta sì, l' ho avuta. O, se non era paura, era una stanchezza, una sfiducia, un voler essere le mille miglia lontano, una disperazione insomma che deve avere molti contatti con la paura. Facevo ancòra il caporale. Una giornata arsa di caldo e d'attesa. Eppoi, come dicevi tu, il fragore di qua, di là, la morte ai fianchi, perchè ci pioveva addosso un bombardamento d' inferno. Ma era come la vigilia, come venti altre volte, e si reggeva, senza tremare. D'un tratto m'accorsi — fui io il primo — che non erano i nemici: ci bersagliavano, per sbaglio, le nostre stesse artiglierie. è il mio ricordo più atroce di guerra. Un compagno mi domandò: “Che hai?… Tremi. Sei ferito?” Io non risposi. A poco a poco altri s'accorsero, la voce passò…. Non so descriverti quello che accadde. Non più uomini: bestie impazzite allo scannatoio…. Forse» aggiunse con accento di blanda ironìa «non ti saresti divertita nemmeno tu.»

Siccome Armanda taceva, egli fu soddisfatto di sviare il discorso: parlare coi borghesi della guerra era una cosa che gli dava un senso d'oppressione.

«Sei da molto tempo a Ròscopa?» la interrogò.

«Venti giorni. Di' la verità. Ti par curioso di trovarmi qui, noh?»

«Oh Dio!… Un po', te lo confesso.»

«Non sai che, così, servo ancora il mio solito padrone?»

«Cioè?»

Armanda rise crudelmente.

«È più brutto di quello che tu immagini.» spiegò «Uno voleva una fornitura di guerra, e l'altro voleva me. Si sono accordati placidamente, ed io…. Ma forse è stato, in me, per la speranza di avvicinarmi alla guerra, a questa famosa guerra. Una delusione!… Si sentono i cannoni, sì, ma così di lontano!… E, dacchè sono arrivata, nemmeno una visita dall'alto. Eppure gli aereoplani nemici venivano spesso su Ròscopa!»

«Non te li augurare. Il bombardamento sopra le città è una cosa crudele. Va bene che si mira ad obbiettivi militari, ma non c' imbroccano quasi mai, e la strage è inutile.»

«Vengono con la luna, noh?»

«Non sempre. Nelle notti buie è più difficile. Tanto difficile, che dovrai rinunziarci anche stanotte.»

«Che aria serena però! Non fa freddo. Chi direbbe che siamo a novembre?»

Ella aperse un poco il mantello: aveva il seno e le spalle nude. Valentino sentì una vertigine negli occhi, si chinò a baciarla: un odor tiepido e penetrante lo inviluppò. Ma Armanda lo respinse, si chiuse tutta un'altra volta fino alla gola, e lo ammonì tristemente:

«Ma no, ma no!… Lasciami stare.»

Una pausa.

«Stasera mi par d'avere qualche cosa da custodire.» ella disse, piano «Oggi sono stata in chiesa, non so perchè. Ho ceduto al desiderio di inginocchiarmi ad un confessionale. E sono stata respinta come le altre volte. Non posso comunicarmi, vivo in peccato mortale. Ma il sacerdote d'oggi era dolce e mite, e mi ha parlato con molta bontà. Doveva essere vecchissimo. I giovani, con le donne come me, sono meno indulgenti.»

Ripose la mano sul braccio del giovine, gli domandò timidamente:

«Ti ho fatto pena?»

Valentino accarezzò quella mano che si fidava di lui.

«Oh, no!… Perdonami.»

Armanda rise, rasserenata.

«Samoladro, Samoiedo non riesce a cavarsela, pare. Che ore sono?»

Il quadrantino luminoso che il duca portava al polso li informò: mezzanotte e venti.

La donna si divertiva.

«Pensa che Gheronti è gelosissimo!… Ho paura che il contino chauffeur passerebbe un cattivo momento, se il generale venisse a sapere quello che è accaduto!… Lo avremo distanziato di molto?»

«Appena cinquecento metri, e anche meno. Abbiamo camminato come le tartarughe, sai?»

«Zitto!» esclamò Armanda, fermandosi e tendendo l'orecchio.

Si udiva confusamente il ronzìo lontano di un motore.

«Eccolo». ella sospirò, con una smorlietta «Ha fatto presto, troppo presto. Non senti?»

Valentino sentiva; ma non rispose, intento a percepire la qualità di quel rumore.

«Non dici nemmeno peccato?» si rammaricò Armanda con un impeto di civetteria.

Egli disse, invece:

«Non è l'automobile.»

«Hai ragione. è un'altra, e forse da un'altra parte.»

Scherzò, stringendosi al giovine:

«È Gheronti che mi cerca. Stai fresco!»

Valentino pareva non badare al gaio chiacchierìo della compagna. Ripetè, mutando appena la sua frase:

«Non è un'automobile, Armanda.»

«Ah!…»

Il ronzìo cresceva con un rombo ancòra remoto. E l'ululo d'una sirena lacerò l' immobile silenzio della notte.

«Valentino?»

Armanda trasalì, buttandosi quasi addosso a lui.

«Valentino?… Che è?»

A mala pena egli ebbe detto: “Ci siamo!”, e già una, eppoi tre, eppoi cinque detonazioni scoppiarono romoreggiando, lampeggiando sanguigne. E il rombo veniva veniva, veniva come un vento.

«Stai tranquilla, Armanda.» raccomandò il duca che sentiva la mano di lei contrarsi ed agghiacciarsi «Un po' di fracasso, e non sarà nulla.»

Gli sprazzi dei riflettori stendevano le loro vie luminose contro il cielo, frugando l'oscurità. Baleni, sibili, tuoni, quasi che d'un tratto si fosse scatenato il temporale.

Armanda tremava, dimentica delle sue millanterìe di pocanzi.

«Valentino, Valentino…. Vergine santa!… Quanti sono?»

«Uno solo. Non fare così, Armanda. Non è nulla.»

Ella balbettava, implorando:

«Ho paura…. ho paura….»

Valentino avrebbe voluto canzonarla, rammentandole la sfida ch'ella aveva gettata pochi minuti prima; ma la sentiva così sconvolta, che non ebbe cuore di tormentarla.

«Vieni con me.»

Armanda resisteva.

«Dove?»

La trascinò quasi di peso sotto il riparo di un grande albero.

«Perchè?… Perchè?… Siamo più sicuri qui?»

Egli tontava di calmarla.

«Non c' è pericolo, sii buona….»

Un fischio acuto, lì presso, eppoi il tonfo d'un bolide pesante che affondava nel terreno. Armanda si dibattè.

«Nulla, nulla. Un bossolo che è ricaduto. Sono le batterie antiaeree.»

«Vergine santa!… Vergine santa!… È sopra noi, è sopra la nostra testa…. Oh Dio, oh Dio!…»

La folata del rombo, in alto, persisteva forte e sonora, distinta in mezzo al tumulto.

«Ma perchè non va sulla città?… Ma perchè si ostina sopra noi?»

Il terrore la faceva delirare, traeva dal più intimo delle sue fibre l'urlo egoista della vita che non vuol cedere.

«Vergine santa…. Vergine santa…. E l'automobile che non viene!… Accompagnami all'automobile, Valentino…. Dio mio, Dio mio….!»

Lo graffiava, convulsa. Poi, d' improvviso, una più terribile certezza le saettò per le vene.

«Tira sul comando…. è qui sopra, allora, è qui sopra…. Siamo perduti…. Lasciami, lasciami…. L'automobile….»

Sgusciò come un'anguilla di tra le braccia che la reggevano. Si mise a correre, folle, ebbra, verso il luogo dove avevano lasciato la macchina. Il giovine le tenne dietro, nel buio, temendo ch'ella cadesse, cercando invano di raggiungerla.

«Armanda!… Armanda!…»

Uno striscio sibilante precipitava giù tagliando l'aria con la rapidità del fulmine. Valentino riconobbe il pericolo imminente. Gridò:

«A terra, Armanda!… Bùttati a terra!», e s'arrestò, dritto, senza pensare a sè.

Barcollò sotto l'urto dell'esplosione, abbagliato da una sfera raggiante di fuoco che sùbito si spense. La bomba era scoppiata a pochi passi.

Prima di chiamare, aspettò la voce di lei come l'avvento di un miracolo. Niente.

«Armanda!… Armanda!…»

Nessuna risposta. Egli non sentiva nulla, più nemmeno la raffica dei colpi che martellava lo spazio, tutto inteso a cogliere la voce ostinatamente muta. E gli sembrò che un silenzio di morte lo involgesse.

«Armanda!… Armanda!…»

Accese due, tre fiammiferi, cercando. Vide le traccie dell'esplosione: il cratere aperto nella via, i frammenti della bomba, il terriccio fumante.

«Armanda!… Armanda!…»

Il rombo dell'aereoplano era cessato, i colpi si facevano più radi.

Un che di bianco, sul margine del fossatello che orlava la strada, lo diresse da quella parte. Non volle accendere un altro fiammifero per paura di scoprire uno strazio. Si chinò, brancolando, sentì sotto le sue mani il contatto d'una veste e d'un corpo. Il corpo era tiepido, e non immobile, ma come percorso d'un palpito e d'un sussulto. Era caduta di traverso al ciglione erboso del fosso, e la testa doveva esser riversa sul rovescio del pendìo.

«Armanda!… Armanda!…»

Frugava per le membra tenere e intatte che quietavano il sussulto.

«Armanda!…»

Un gorgòglio ininterrotto, quasi un rantolo liquido e continuo rispondeva alla sua invocazione. Valentino, inginocchiato accanto a lei, palpava il corpo abbandonato seguendone su su a tastoni la linea del seno e delle spalle. Volle toccarle il viso e prenderle il capo per sollevarla, ma le mani gli pescarono in un molliccio caldo e ripugnante. Scattò dritto d'un balzo. La chiamò ancòra:

«Armanda!…»

Poi si fece animo, strusciò contro la tunica le mani invischiate, riuscì finalmente a far brillare la fiammella d'un cerino, e si curvò su Armanda. Al posto della testa, era un ammasso informe fiottante di sangue, qua e là macchiato di roseo e di bianco.

Il cerino cadde, e un breve crepitìo guizzò per l'erba secca. Valentino, macchinalmente, smorzò col piede il piccolo fuoco. Stava lì senza fiato, con gli occhi sbarrati, raggricciato d'orrore. Tendeva l'orecchio a quel gorgòglio liquido e continuo che si faceva sempre più fievole, e avrebbe dato chi sa che per non udirlo più: Armanda si vuotava di tutto il suo sangue.

Si accorse che veniva un'automobile, ma era come dimentico d'ogni cosa. Vide la macchina arrestarsi al di là della buca che attraversava la via. Non rispose alla prima chiamata.

«Dove sono?… Son là?… Che è stato?»

La chiamata si ripeteva.

«Signora?… Signor tenente?…»

Il caporale fu presso a lui, vide e non vide, intuì.

«È ferita?» domandò.

Valentino disse finalmente:

«È morta.», e quella parola gli legò un nodo di singhiozzi nella gola.

L'altro proruppe in esclamazioni.

«Ma non è possibile!… Come?…»

Si chinò: nell'oscurità non seppe discernere nulla.

«Bisogna aiutarla…. Forse si può ancòra aiutarla….»

Corse all'automobile, tornò col fanale. Quando la luce s'avvicinò, il duca si coperse gli occhi con le mani. Sentì il grido di raccapriccio di colui che vedeva. Un lungo silenzio.

Il caporale parlò per primo.

«E ora?…»

Non udendo risposta, disse:

«Povera signora!….»

Valentino liberò il viso, senza voltarsi a guardare Armanda. Il chiarore del fanale apriva nel buio un semicerchio, rompendosi nella tana oscura prodotta dallo schianto.

«Che si fa?» domandò l'altro «È terribile!… Come faccio io?»

Dinanzi al mutismo immoto del duca, insistè:

«Che si fa?… La più vicina è villa Guidobaldi; ma non c' è nessuno, perchè ci lavorano per adattarla ad uffici. Bisogna andare al Comando.»

Come Valentino non dava cenno di intenderlo, lo interpellò:

«Signor tenente?… Bisogna avvertire. Che si fa?»

Il duca si riscosse.

«Non so, non so…. Faccia quello che vuole. Non ho più la testa io!…»

S' interruppe con un fremito, sentendo riecheggiare in sè stesso quest'ultima frase che aveva tanto màcabra rispondenza con la mutilazione orrenda della donna che giaceva.

«L'automobile non può passare.» spiegò il caporale «Vado a piedi. Purtroppo bisogna avvertire al Comando…. Non so come me la caverò. è una brutta storia…. Lei aspetta qui almeno? Non se ne va?»

«Non me ne vado.»

«Le lascio il fanale.»

Valentino fu tentato di gridargli no, no; ma tacque.

Allora l'altro posò il fanale a terra, ai piedi del cadavere.

«Cercherò di far presto. Badi che l'automobile è là.»

Salutò, andò via di corsa.

Nessuna morte mai aveva sconvolto Valentino come quella. Pur avvezzo in guerra al repentino fiaccarsi della vita, il trapasso di Armanda dalla vita alla morte attraverso la furia dello spavento, dopo il riso, dopo l' instabile andare delle parole e dello spirito dall'amarezza e dalla malinconia allo scherzo e all'amabilità, gli pareva una cosa impossibile. Armanda così bella e così bianca!…. Il suo viso giovine e fresco cancellato, distrutto!… I suoi occhi intensi e lucenti, il suo profilo fine, la bocca odorosa, la voce limpida e grave…. più nulla, nulla, non esisteva più nulla. La luce del fanale, vòlto verso la strada, accendeva uno scintillìo velato sulle fibbie delle scarpette impolverate: i piedi erano uniti l'uno vicino all'altro, composti: si vedevano le calze lisce fino al ginocchio, eppoi il corpo entrava nell'ombra. Valentino, piano, raccolse la veste giù fin dove potè trarla: lo sguardo, nell'adoprarsi così, gli cadde sulle sue proprie mani: erano sporche di sangue. Rimase un lungo minuto senza muoversi. Poi, a poco a poco, si calmò. Tolse di tasca il fazzoletto con l' intenzione di nascondere la mostruosa deformazione, ma pensò, rabbrividendo, che non sarebbe bastato. Andò all'automobile, per cercare una coperta. La prese, tornò accanto alla morta, ma, prima di comporgliela addosso, volle vedere Armanda, vincendo il ribrezzo e la pietà. Girò il fanale. Il mantello le si era spalancato: il seno bianchissimo, nello spasimo dell' irrigidimento e per la posizione inclinata del corpo, emergeva tutto dalla breve e molle cintura. Più su, l'ammasso sanguinolento s'era come acciaccato e allargato. Valentino s' inginocchiò, riunì le braccia inerti, acconciò le mani gelide sul candore del petto. Così niveo, senza una stilla che lo bruttasse!… Pensò che pochi momenti innanzi quella stessa forma bianca e delicata egli l'aveva desiderata per un amplesso caldo e vivo, e scacciò il pensiero da sè come una profanazione. Armanda aveva detto: “Stasera mi pare d'avere in me qualcosa da custodire….” E che altro aveva detto Armanda?… “Gheronti è gelosissimo…. Il sacerdote d'oggi mi ha parlato con bontà…. Porto il segno profondo della lividura….” Guardò. La pelle era intatta, morbida, uguale; nè v'era traccia alcuna di gioielli. Povera Armanda!… Costruiva le sue fantasie come cose vere, viveva le sue finzioni come realtà.

Valentino distese, adagio, la coperta: il corpo di Armanda non si vide più.

Cielo e terra eran tornati nel silenzio. Le stelle, dalla profonda immensità, vegliavano la trista viandante caduta di notte lungo una strada. Qual'era il suo nome?… Non più Armanda: finito questo dolce richiamo, poichè eran finite la grazia e l'armonia che vi rispondevano per dispensare il piacere. Non più Armanda. Creatura senza nome, ora ch'era morta; come, viva, era stata senza custodia di sè stessa. Dopo la confessione, non aveva peccato più. Anima pallida e spaurita, forse già ella vagava nei laberinti dell' infinito cercando l'eterna via, mentre in terra la sua fallace bellezza deturpata si offriva in olocausto sotto le stelle. La spada di Dio è spuntata: giustizia misericorde.

Valentino non seppe mai quanto si prolungassero le sue fervide preghiere per la morta. Riacquistò la cogni zione dell'ora soltanto la mattina dopo. Ma era certo trascorso un gran tempo quando un'automobile riportò dal Comando il caporale in compagnia di un capitano e di due soldati. I soldati e il caporale rimasero indietro. Il capitano si presentò.

«Garsenna, ufficiale d'ordinanza di Sua Eccellenza il generale Gheronti.»

«Marulli.» rispose Valentino.

«Lei è il duca di Varo, lo so. E Sua Eccellenza ha per lei molta considerazione.»

Pareva che, con questa frase, volesse o propiziarsi il giovine o dorargli una pillola amara. Egli non parlò.

«È là?» domandò il capitano a bassa voce, dopo un momento.

«È là.»

«Una ferita spaventosa, è vero? Samoiedo ci ha detto.»

Avrebbe, evidentemente, desiderato di sincerarsene, ma di fronte all' immobilità e al silenzio del duca credè miglior partito rimangiarsi la curiosità. Riprese:

«È un incidente deplorevole…. Nessuno può esserne tenuto responsabile. È certo però che gli ordini di Sua Eccellenza sono stati trasgrediti.»

A un gesto di Valentino, continuò rapidamente:

«Sua Eccellenza desidera che la cosa resti nei suoi termini precisi di fatto. La donna non si trovava nell'automobile del Comando. È la verità, ed è inteso. D'accordo?… Ho qui due soldati che trasporteranno il cadavere a Ròscopa. Li chiamo?»

Un furore acerbo torceva le viscere di Valentino. Quel capitanuccio impomatato e pieno di decorazioni parlava in un modo offensivo bugiardo e brutale. Ebbe voglia d'agguantarlo per il collo. Si contenne. Disse, vibrato:

«Ma io non ho nessuna difficoltà a riconoscere ed anche a proclamare che la signora era con me.»

«Va bene, va bene.» si affrettò l'altro a soggiungere, senza rilevare il tono del giovine «Le ripeto che non occorre dare pubblicità alla cosa.»

Poichè il duca taceva, il capitano si trovò impacciato a tornare sùbito sull'argomento del trasporto. Tentò un'altra via, più confidenziale.

«Tirano alla cieca, non c' è che dire!… La conosceva da molto tempo lei?»

Insistè, fingendo di non badare al silenzio di Valentino:

«Sa che era figlia d' ignoti?… Trovò un protettore fin da bambina, il padre stesso forse: la fece educare, istruire, poi perse la testa e fu il primo lui che se la colse. Aveva venticinque anni. Era superba, ma non cattiva.»

Vedendo che la sua loquela non attaccava in nessun modo, perse la pazienza. Si voltò ai soldati:

«Animo, ragazzi!»

E al duca:

«Se vuole accompagnarla, staremo un po' stretti, ma….»

Valentino aveva il cuore che gli scoppiava.

«No, no….» balbettò appena, e si allontanò dal cadavere.

Poi, per non assistere alla scena che si preparava, si gettò in corsa verso la campagna.

Il giorno dopo un ordine inaspettato sbalzava dal suo reggimento il tenente Valentino Marulli, duca di Varo e Basurto, facendogli obbligo di raggiungere in qualità di terzo addetto una missione militare che partiva per ignota destinazione.

Gli eserciti d'Altamagna, oscillanti alle frontiere occidentali sotto i grevi colpi dei soldati di Costanzo e del piccolo duca, si avvantaggiavano invece ad oriente avanzando in Vertoìza. La regione era già in gran parte occupata, e il vecchio re di Vertoìza, che divideva patriarcalmente col suo popolo i rischi del campo, cedeva a poco a poco sotto la spinta del nemico i duri anfiteatri rocciosi e nevosi della sua terra. Si aspettavano altri alleati contro l'Altamagna. La potentissima Bremislavia moltiplicava in Venustria il servizio d' informazioni e di officiosi approcci, ma non si decideva ancora a schierarsi da quella parte. Dal canto proprio l'Altamagna mobilitava uomini di Stato e diplomatici per trar dalla sua l' imperatore di Bremislavia. Pareva tuttavia che il paese di Albano avesse maggiori probabilità d'amicarsi il poderosissimo aiuto. E le cose stavano a questo punto, quando un singolare intrigo nacque dall'ultima condizione che, in strettissimo segreto, l' imperatore di Bremislavia pose come indispensabile per un definitivo e fattivo accordo col regno di Venustria.

Si sapeva ormai, in patria e fuori, che le redini di tutti gli affari attinenti alla guerra erano rette in Venustria dal generale Costanzo e dal granduca Stefanolo. Accadde dunque che Sua Altezza il principe Arturo di Wallemburgo, cugino dell' imperatore di Bremislavia e suo messaggero confidenziale nella vicenda che si prospettava, giunse ad Almo, munito di credenziali e di sigilli, per conferire col generale Costanzo. Capitò là una mattina, appunto due giorni dopo dacchè Wanda e i suoi aiutanti eran venuti ad Almo con lo scopo d' incontrarvi la principessa di Cerito e la marchesa di Pietracamela. Quella mattina Wanda era uscita prestissimo, per un giro d' ispezione tra i reggimenti in riposo, e non sarebbe tornata che sul far della notte. Ruggero e Leonardo erano con lei; e Franca aveva condotta Maria a visitare il suo ospedale, per convertirla — come diceva, pur sapendo che sarebbe stato invano — alla missione di infermiera.

Costanzo ricevè il messaggero imperiale nell'umile saletta ch'egli occupava alla parrocchia. Carte topografiche e due telefoni; una gran tavola; un letto da campo; poche seggiole. Non altro. Bouturline si ritirò, occupandosi dei due ufficiali che accompagnavano il principe. Sicchè questi e Costanzo rimasero soli per il loro privatissimo colloquio.

Arturo di Wallemburgo era un giovanottone solido e quadrato che respirava la salute e il buonumore. Aveva un 'intelligenra limitata, ma pratica quanto mai e decisa. Capace d'atterrare un bue con un pugno, se doveva fare una cosa la portava in fondo senza incertezze e contro ogni ostacolo. Amava i liquori, le donne, i cavalli e il tabacco forte. Conosceva tutte le lingue, e, pur non sapendo scriverne correttamente nessuna e neanche la propria, le parlava tutte con una spigliatezza vertiginosa e con certe frasi locali non di rado canagliesche che acquistavano nell'orribile accento un sapor curioso, comico e sconcertante. Aveva girato e rigirato il mondo, il più delle volte in incognito, infischiandosi dei monumenti e delle pinacoteche, e alternando le larghe comodità dei modernissimi alberghi internazionali con le frequenti visite alle taverne dove si beveva e si giuocava in mezzo alle risse e alle bestemmie. Viaggiava come un dio, con treni e navi di lusso sempre a disposizione; ma non isdegnava nè veicoli volgari nè veicoli pericolosi pur di saziare la sua brama di avventure. Era nato principe, e non se ne rammaricava. Ma sarebbe stato un magnifico campione di teppa e di camorra. Aveva tuttavia la virtù di non perdere mai la testa, e di non compromettersi mai stupidamente: al più al più, quando le faceva grosse, pensava da sè a suggellarle in modo che lo scandalo restava al sicuro meglio che sotto una pietra tombale. L' imperatore di Bremislavia suo cugino, maggiore a lui di parecchi anni, gli dedicava una tenerezza speciale. Lo aveva adoperato spesso in còmpiti imbrogliati, e sapeva per esperienza che di Arturo, quando ci si metteva, si poteva fidarsi ad occhi chiusi.

Tale il personaggio che si trovava di fronte a Costanzo.

Per sbrigarsi della sua imbasciata, il principe andò per le spicce: pur senza precipitazione; anzi con un esposto così stringentemente ordinato e metodico che, fin dalle prime battute, Costanzo intuì e pensò che il groviglio s'andava imbrogliando più stranamente che mai. Un oscuro presentimento attanagliava l'anima del generale: in modo che la botta finale lo trovò preparato perchè egli potesse in apparenza dissimulare il terribile tormento che lo angustiava.

Il discorso di Arturo di Wallemburgo si riduceva, per sommi capi, a due sillogismi di tornaconto politico e privato.

Il regno di Venustria, nemico guerreggiante dell'Altamagna, non può definitivamente vincere la rivale senza l'aiuto dell' impero di Bremislavia. L' impero di Bremislavia, antico avversario dell'Altamagna nella supremazia economica dei mercati delle industrie e delle banche, non potrà decisamente trionfare di quell'antagonismo, se non profittando del momento in cui i soldati miracolosi del regno di Venustria e gli eserciti alleati dànno all'Altamagna scosse formidabili. Dunque è indispensabile, per il vantaggio comune, che Venustria e Bremislavia si stringano in accordo. Fin qui il sillogismo politico. Ferreo. E tanto più rigoroso e necessario per il paese di Venustria che già sanguinava nella strenua lotta impegnata.

Il sillogismo privato, anch'esso, se l'avventura guerresca non avesse nascosto in sè il segreto di Wanda, si presentava vantaggioso per ambedue le parti. L' imperatore di Bremislavia ha potente corona, ma non eredi maschi diretti; solo una figlia, la principessa Elisabetta. Il granduca Stefanolo è principe valoroso, ma senza terra e senza regno. Dunque il matrimonio tra Stefanolo ed Elisabetta concilierebbe le due deficienze, dando un ambìto erede d'adozione e di parentado al vastissimo impero.

Costanzo allibì. Erano in giuoco le sorti della patria. E il generoso inganno della regina minacciava di tutto rovinare, o di doventare una truffaldina mistificazione. In nessun modo si sarebbe potuto evitare il pericolo. O rinunziare all'alleanza dell' impero di Bremislavia, o ingolfarsi nei rischiosi meandri d'una incredibile sopercheria.

La maschera immota di colui che ascoltava fece sì che il relatore insistesse nel colorire la magnifica offerta, e che per ultimo riaffermasse la decisa volontà dell' imperatore di Bremislavia di non entrare in lizza se non avendo tutte le garanzìe che le nozze si sarebbero compiute.

«Dunque che c' è?» concluse infine, con un'ombra d' impazienza «Che avete da perdere, acconsentendo? Noi, in Bremislavia, apriamo cordialmente le nostre porte a un giovinotto simpatico e coraggioso. Non è il primo venuto, d'accordo. Ma gli diamo in compenso qualche cosa…. — mi permetta di dirlo — molto più solida della simpatia e del coraggio. A me pare anzi che questa dell' imperatore mio cugino non sia nemmeno da chiamarsi una condizione, ma da considerarsi senz'altro un onorevole e pratico vantaggio….»

Costanzo dovè pur rispondere, e lo fece evasivamente, serbando un' impassibilità esteriore che drizzò in piedi il principe come una frustata e lo mosse per la stanza in un 'irrequieta passeggiata.

«Vostra Altezza sia persuasa che mi rendo conto dell'altissimo onore.»

«Va bene, va bene!» e Arturo gli si piantò davanti, cacciando le mani nelle tasche dei pantaloni «Lei capisce, generale, e lo capisce appunto perchè me le tira fuori invece d'una risposta concreta, lei capisce che non sono qui in cerca di frasi ossequiose. Che c' è? Stefanolo non è libero?»

«Sì.»

«Qualche amoretto?»

«No.»

«E allora? Non è portato al matrimonio?…», rise grassamente, dopo un istante di perplessità «Per Dio! Non lo credo! Un ragazzo che ha quel fegato che dicono, sarà anche costruito di tutto punto come si deve, noh?…»

Costanzo capì che gli bisognava per forza sciogliere il ghiaccio.

«Non ho nessun motivo, per non rallegrarmi personalmente della proposta che Vostra Altezza ha la benevolenza di trasmettere a me prima che ad ogni altro. Ma la delicatezza stessa della cosa di cui si tratta mi consiglia l'elementare dovere di non precorrere una decisione che è riservata a una sola persona, a Sua Altezza il granduca Stefanolo.»

Il principe storse un po' la bocca.

«Ma non ci sono altre difficoltà?» domandò.

«Sul momento, infatti, non ne vedo.»

Arturo finì col ridere anche questa volta. Era convinto che nel suo messaggio fosse contenuta una grazia così speciale da far saltare di gioia principi e sudditi di Venustria: epperò pensò che Costanzo dissimulasse la profonda soddisfazione sotto un modo imperturbabile di freddezza cortese. Trovò conveniente, per il momento, di mangiare la foglia. E tuttavia osservò, con un briciolo di scherzo:

«Mio caro generale, è un fatto che le tradizioni si vanno perdendo. Avevate fama, in Venustria, d'essere una razza impulsiva!…»

«Non si può mai sapere, Altezza!» rispose Costanzo sullo stesso tono.

Il principe, che pur era un conversatore inesauribile, quando erano in ballo gli affari si seccava di parlarne a lungo inconcludentemente. E perciò volle chiudere sùbito questa prima fase delle trattative.

«Siamo intesi. Lei parlerà a Stefanolo. Stefanolo torna stasera, non è vero?»

«Stasera. E Vostra Altezza lo vedrà domani, perchè dovrò disporre, per la strettezza d'alloggi in cui ci troviamo ad Almo, che Vostra Altezza pernotti a Ròscopa. La distanza è breve.»

Fu dunque convenuto così, e che Arturo, a mezzogiorno, avrebbe pranzato con i suoi ufficiali alla tavola del generalissimo. Il quale informò il principe che, per eccezione, vi erano commensali anche due signore: la principessa di Cerito e la marchesa di Pietracamela. Eccezione che rallegrò in anticipo lo spirito compagnevole e galante del messaggero imperiale.

Bouturline fu per tutta la mattinata a disposizione dei tre ospiti, e li condusse qua e là per gli attendamenti delle retrovie. Il telefono lavorò con Ròscopa per preparare ad essi stanza conveniente. E a mezzogiorno, con esatta puntualità, il pasto frugalissimo fu servito nella parrocchia di Almo ai sette personaggi.

Arturo aveva trovato di suo gusto le due convitate. Si mise a raccontare con un brìo indiavolato i più sballati episodii della sua vita di zingaro principesco. Maria di Cerito lo canzonava graziosamente, senza sapersi difendere da un istintivo sospetto di diffidenza: pareva tuttavia che in fondo in fondo si divertisse, un po' a spese delle narrazioni, e molto a spese del narratore. Anche la marchesa di Pietracamela era animata e sorridente. Motivi per cui Costanzo potè in parte sottrarsi al peso di una conversazione ch'egli non aveva animo di sostenere così leggera e spensierata: e questo senza mostrare l'ansia che lo travagliava. I due ufficiali che accompagnavano il principe di Wallemburgo assolvevano con perfetta e corretta discrezione al loro còmpito di comparse: mangiavano e bevevano coscienziosamente, sottolineando con approvazioni e risatine tutto ciò che si diceva. Chi, invece, navigava in mezzo alle nuvole era Pietro Bouturline: non apriva bocca, e Maria lo guardava di tanto in tanto con un'ombra veloce d' inquietudine. Mentre prendevano il caffè, Arturo si chinò verso la principessa.

«È suo cugino quel conte?»

«È mio cugino. Perchè?»

«Perchè è…. tenebroso. Somiglia…. Mi aiuti lei! Che cosa somiglia?…»

Maria, prevedendo un apprezzamento poco cordiale, rispose:

«Non so, Altezza. Non sono affatto fisonomista.», e si voltò ad ascoltare Costanzo il quale parlava della recente incursione aerea su Ròscopa.

«Una sola vittima. Una donna, non bene identificata. E, pare, guasti insanabili nella Sala dei Buoni Uomini.»

Fu risollevato il problema se fosse delitto maggiore troncare una vita o rovinare un monumento.

«Per me» proclamava Arturo «sono sentimentalità fuor di posto. La guerra è un cataclisma. Il terremoto non guarda in faccia nè ad esseri viventi nè a opere d'arte. Butta giù tutto. Vorreste che gli uomini fossero più accorti della natura?»

«Il terremoto è nelle mani di Dio, la guerra è in quelle degli uomini. C' è una bella differenza!»

Franca contraddisse l'amica:

«E gli uomini non sono strumenti in mano di Dio?»

«Ma sono strumenti responsabili davanti a sè stessi. Hanno in potere il bene ed il male.»

La marchesa di Pietracamela gettò scherzosamente una briciola di pane contro Maria.

«Va' là, va' là…. Non volevo attentare nè alla Divina Provvidenza, nè al libero arbitrio, nè al Paradiso perduto….»

La principessa, ridendo, la interruppe:

«Zitta, chè ho detto una sciocchezza anch' io. Gli uomini non sono, non possono essere più grandi del bene e del male. Ma abbiamo spostato la questione. Riportiamola al suo punto. Vostra Altezza monterebbe un aereoplano per bombardare una città?»

«No. Ma per una ragione che forse non ha niente a che fare con le sue. Io voglio vedere il bersaglio, e colpirlo in pieno, sempre. Cosa impossibile, al buio, e di lassù. Ma i monumenti?…. Torniamoci, al punto di partenza. Tutto è relativo: se la donna incognita di cui parlava il generale fosse stata mia sorella, avrei certo preferito che andassero giù venti sale…. Come ha detto, generale?… Dei Buoni Uomini?… Guardate un po' che nome!… Beh! Venti sale dei Buoni Uomini, giù, purchè fosse salva lei. Ma donna incognita e Buoni Uomini mi sono perfettamente indifferenti.»

«C'erano degli affreschi» disse Franca «che a me piacevano molto poco. Erano, tuttavia, un patrimonio artistico. Una vita si rifà; un capolavoro, quand' è distrutto, non risorge più.»

«Ma sì!» ribatteva il principe «Si rifà come una vita. Solo che non è più lo stesso.»

«Tutte le vite si somigliano. I capolavori no.»

«Oh Dio, marchesa! Se lei li chiama capolavori, vuol dire che appartengono a una medesima specie. Si somigliano anch'essi, come vita a vita.»

Maria masticò educatamente uno sbadiglio.

«Se si entra in questo campo» celiò, con una piccola vena di nostaglia «rimetteremo le decisioni estreme a quando avremo con noi il nostro poeta. Valentino di Varo è l'unico….»

Costanzo la interruppe.

«A proposito! Ho firmato ieri un ordine che concerne Valentino di Varo. Gheronti mi ha sollecitato perchè la pratica fosse subito pronta, scrivendomi del duca parole molto lusinghiere. Sono rimasto, nonostante ciò, un po' perplesso. Forse ha domandato lui. Va lontano. Addetto alla missione che raggiunge il re di Vertoìza.»

Franca s'era fatta subitamente attenta.

«Ha domandato lui?»

«Lo suppongo, marchesa. Gli ufficiali prescelti erano già in numero sufficiente, e stavano ormai per imbarcarsi. Il duca di Varo è un aggiunto dell'ultim'ora. Del resto è una designazione onorevole, e Gheronti mi ha lasciato capire che teneva molto alla cosa. Se il duca non fosse d'accordo, spero bene che si sarebbe rammentato della nostra vecchia amicizia!»

Maria osservò:

«È curiosa che non si sia fatto vedere. Era in riposo qui vicino, noh? Ruggero e il marchese di Pietracamela lo incontrarono l'altro giorno.»

Il generale s'era alzato, e Franca fu la prima ad imitarlo.

«Se penso a Valentino di Varo» continuava la principessa «sento quasi una puntura di rimorso. La guerra lo ha separato da noi, eppure, anche per la preparazione della guerra, fu dei nostri amici migliori. Stavamo tanto insieme, e mi pare che se ne sia andato come un estraneo. Negli ultimi tempi, forse, non lo capivamo più: viveva già solo, spiritualmente. è un' impressione che mi riafferra, qualche volta, e che allora, quando il duca era con noi, non provavo mai….»

Arturo di Wallemburgo, trovandosi accanto alla marchesa, le bisbigliò:

«Quel duca, se non sbaglio, sarà stato un malinconico come questo conte.» e accennò rapidamente Bouturline «Ho anche trovato a che cosa somiglia….»

Gli sembrò di cogliere un gesto della signora, o di udirne un'esclamazione; e s' interruppe, aspettando. Ma Franca gli domandò:

«Che cosa somiglia?»

E il principe disse, a voce alta:

«Una cancellata in ferro battuto, stile nobilesco, di quelle che chiudono nei cimiteri le cappelle gentilizie….»

La marchesa fece:

«Ah!», poi dichiarò che doveva tornarsene in fretta all'ospedale.

Maria, udita la frase di Arturo, intuì ch'egli aveva ripreso l'argomento delle somiglianze appuntando il suo strale contro Bouturline. Le dispiacque. Infilò la mano sotto il braccio del cugino, e si volse a Costanzo:

«Se non ha bisogno di Pietro, generale, glielo sequestro io per qualche minuto.»

Pietro la guardò, evidentemente stupito.

«Ma sì, principessa.» accordò Costanzo «E credo che Sua Altezza….»

Sua Altezza colse a volo l'occasione di liberarsi da quel compagno così poco gaio e comunicativo.

«Anzi, anzi!… La volontà delle belle signore prima di tutto. Basterà che il tenente Bouturline abbia la cortesia di trovarsi qui verso le cinque, per guidarci fino a Ròscopa…. Non è Ròscopa il paese dei Buoni Uomini?… Belle signore, buoni uomini…. Generale, lei mi concede un'ospitalità superlativa…. Marchesa, se andrò sul campo e se avrò l' intelligente fortuna di versare un pochino del mio sangue, mi serbi un cantuccio nel suo ospedale…. A tra poco, tenente: lei sì, ch' è fortunato!… Principessa, i miei ossequii…. Stia certa che, per obbedirla, non volerò mai a bombardare una città…. Grazie, grazie, generale. Senza complimenti. Mi faccia strada….»

Seguì Costanzo fuor della saletta, e dietro a loro uscirono i due ufficiali di Bremislavia.

«Non mi ringrazi nemmeno!» esclamò Maria all' indirizzo di Pietro «Ti seccavi con quei tre, di' la verità!…»

Bouturline ebbe come uno scatto di sollievo, o, forse, un piccolo movimento di delusione.

«Era per questo?…»

Franca rise.

«Se Maria ha indovinato la sua impressione, non le sembrerà poco!…»

Mentre Bouturline la aiutava a mettere il mantello, ella domandò improvvisamente:

«Si sarà già imbarcato?»

«Chi?»

La marchesa era alle prese con un bottone ribelle.

«Valentino.» disse dopo un momento.

«Mah!…» dubitò Maria «Forse no. Da ieri a oggi…. Forse verrà ancora a trovarci….»

Franca cambiò discorso.

«Bel tipo quel principe di Wallemburgo!….»

«Ti piace?»

«Oh Dio!… Il mondo è seminato d' imbecilli. Uno di più, uno di meno…. Che importa? Ma è divertente.»

«È divertente, Pietro?»

Bouturline si strinse nelle spalle.

«Troppo!» rispose.

Franca salutò.

«Se non mi rimetto a lavorare sul serio, in questi ultimi giorni sono sempre in vacanza….»

Maria le accomodò una ciocca bionda sotto i veli bianchi e blu.

«Addio, bella infermiera!… Non aver tanta fretta di consumarti, anche tu…. Dopo, sarete tutti nevrastenici.»

«Mi curerai!» esclamò la marchesa ridendo.

Pietro le baciò la mano.

«Comincia l' inverno, eh?…» gli disse Franca con cordialità benevola «Nuvole, nuvole…. Si rischiari, tenente!»

Bouturline si schermi.

«Ma no, ma no….»

Sua cugina, non appena la marchesa di Pietracamela fu uscita, gli fece eco alla rovescia.

«Ma sì, ma sì…. Scriveremo a Mimì Fontanarosa che il suo signor fidanzato è nero come un calabrone!»

«Maria?…»

L'accento dell' invocazione e il sùbito esitare tradivano nel giovine un'agitazione violenta. La principessa si pentì d'averlo trattenuto.

«Oh, guarda!» pensò «Ora si slancia nella via delle confidenze anche lui!… Possibile che nessuno riesca a tenersi un sentimento per sè?»

Le confidenze, infatti, la spaventavano. Col suo grande buon senso, Maria le considerava pericolosissime per coloro che le versano nel seno altrui: esse precisano, esagerano, esasperano, e segnano sempre la vigilia di un colpo di testa, irreparabili come una premeditazione. Da Pietro non se le sarebbe mai aspettate, perchè lo conosceva troppo poco espansivo e riteneva che la sua parte nella vita fosse quella della vittima, non quella dell'attore. Cercò di stornare la bufera, ed esclamò:

«Hai ragione a dirmi “Maria!…” con quegli occhi. Non t'arrabbiare. Scherzavo. Sua Altezza ha fatto venire i nervi anche a me. è peso. Franca lo trova divertente, ma è peso….», finse uno sbadiglio, e tese la mano a Pietro «Ho sonno. Vo a buttarmi sul letto…. con minor rimorso, perchè ti ho liberato dalla corvée….»

Pietro era più cupo che mai. Lì per lì non replicò, e Maria sperò d'essersela cavata; ma, quando fu sulla porta, egli la richiamò, supplichevole:

«Maria, ti prego…. Non ti vedo mai da solo a sola…. Un momento. Ho bisogno di parlarti.»

La principessa tentò un'ultima resistenza, a costo d'apparire rudemente sgarbata.

«Il “solo a solo”, mio caro Pietro, è anche meno divertente di Sua Altezza, perchè ho sonno, te l' ho detto.»

«Ho da parlarti.» ripetè lui, ostinato «Vieni qua.»

Maria, di mala voglia, si mise a sedere; e Pietro chiuse l'uscio. Ella capì che la cosa doveva esser più grave di quanto credeva, e temè d' indovinare il motivo di quella torbida ansia che ora, senza più controllo su sè stesso, il giovine mostrava nel viso e nello sguardo.

«Giurami che mi risponderai la verità.» disse Pietro con una voce e con un gesto come se fosse sul punto d' inginocchiarsi.

La principessa sentì che il tono dello scherzo sarebbe stato inutile a placarlo. E allora ribattè seriamente, ma con ferma tranquillità:

«Per tua regola, non giuro mai, e per nessuna cosa. Se ti contenti d'una frase pacata e senza melodrammi, ti risponderò.»

«Giurami almeno che non mi ingannerai.»

«Ma no, mio caro! Non giuro niente. Bada, ho detto niente, mai. Nè la più futile sciocchezza, nè la verità più solenne. Daltronde, non capisco su quale argomento una conversazione tra te e me abbia bisogno di tanto apparato.»

«Maria…. Maria…. Se tu sapessi che non reggo, che mi par d' impazzire…. Debbo avere la sicurezza che sarai sincera: da anima a anima….»

Era pallido come un morto, e tremava.

«Ma dunque?» fece Maria, cercando un sorriso quieto e leggero «Che c' è? Non ho nessuna ragione per non essere sincera. Che c' è?»

La domanda prevista scattò con tempestosa rapidità.

«Il piccolo duca…. non è lui. Vero?»

Che desolata stanchezza, dover contendere, e far mostra di non capire, epperò mettere Pietro nella condizione di spiegarsi, di colorire a sè medesimo il suo sospetto!…

Egli insisteva, disperato:

«Non mi persuadi, non mi persuadi…. è lei, è lei…. L' ho riconosciuta fin dalla prima volta…. Son cinque mesi che duro nel supplizio…. Ora non voglio più. Ora devi dirmelo. Se me lo dici anche tu, mi calmo, forse mi calmo…. e forse mi passerà. Ma averlo io, soltanto io, averlo nel cuore, questo dubbio, questa certezza…. mi rode, mi consuma…. Non voglio più. Dimmelo, Maria…. Non credere di far male. È meglio che tu me lo dica.»

«Figliuolo mio, posso inventarti un romanzo per tua soddisfazione?… Prima esigi la verità, eppoi vuoi costringermi a rispondere a modo tuo…. Sei allucinato. Tutto perchè in un minuto secondo si ha la debolezza di dimenticare promesse, doveri, onestà di propositi….»

Una viva sofferenza si dipinse sul volto di Pietro. Maria trovò dunque il tasto più sensibile perchè quella coscienza tormentata intoppasse i suoi voli rischiosi contro la piccola malinconica realtà del fidanzamento compiuto e non disciolto.

«La sera della tua venuta a Planacomba, ti abbandonasti ad un fascino di cui….» ella mentì a sè stessa «di cui la regina non ha altra colpa che quella d'esser regina. Forse t' è sembrato d'essere un paladino antico, e la visione t' ha sedotto. Ora tu continui la sceneggiatura della tua fiaba. E dimentichi volontariamente una creatura che non ti cercava, e alla quale tu hai domandato che t'amasse. Se per il momento ti senti infelice, la responsabilità è tutta tua. Ma tutta tua sarebbe anche quella dell' infelicità di Mimì, che non avrebbe nulla da rimproverarsi, e che ti vuol bene, ti vuol bene davvero, e non merita d'esser sacrificata a un falò di corone, d'ermellini e di scettri…. Pietro, Pietro! Non t'accorgi che è una strada chiusa?… Le farfalle che si precipitano nella fiamma viva sono povere illuse; ma almeno trovano sùbito la conclusione: ardono, si torcono, finiscono. Sai dirmi invece la sorte delle farfalle che battono e ribattono contro il cristallo d'una lampada elettrica?… Ci lasciano la forza delle ali, e domani non saranno più capaci di tornare al fiore dolce e succoso nel quale soltanto è la loro vita, è la loro gioia…. Pietro, se non vuoi avvelenarti per sempre, stràppati da questo gorgo di fantasìe e di pazzie. La stessa supposizione di cui pretenderesti la conferma da me è un frutto della poca serenità del tuo spirito. Domanda a Costanzo che ti esoneri dall'ufficio che hai. Di' che sei malato, di' che vuoi vedere paesi nuovi…. Non c' è la missione in Vertoìza? Valentino di Varo ce l' hanno aggiunto all'ultim'ora. Se credi, dico anch' io una parola a Costanzo.»

Pietro si ribellò.

«Maria, non avrò pace se non saprò. Tu non vuoi o non puoi trarmi dal mio dubbio. E non pensi che in questo dubbio io mi dibatto terribilmente. Dubbio?… No, no, ho la certezza, debbo avere la certezza…. Perchè io non la amo a condizione che sia lei; io amo lei, lei, capisci? Se tu mi dici “sì”, rientro nella normalità dei sentimenti. Se insisti a negare, mi domando che è di me, della sanità dei miei affetti…. No, Maria. Tu capisci che è terribile. Peggio del male che soffro se mi ricordo di Mimì. Mimì, povera bambina, ignorerà sempre che mi sono distaccato da lei. Le scrivo ancòra, sai? Brevemente, in fretta; ma le scrivo. Non sospetterà che io non le abbia serbato la mia fede…. La guerra è lunga. Perchè dovrei scampare proprio io? Sono così sicuro che non tornerò — vedi, Maria — che, quando le parlerai, voglio che tu le dica della mia tenerezza per lei, della mia devozione, dei sogni per l'avvenire…. Mi piangerà come un buon compagno perduto, ed io avrò le sue lagrime senza meritarle….»

Maria non parlava. Se uno accenna la previsione della propria morte, chi ascolta si sente in dovere di protestare. Maria non parlava. Le risorgeva nella memoria il palco ch'ella aveva fissato una sera lontana attraverso le lenti del binocolo male aggiustato: rivedeva, nella zona d'ombra, la figura di Pietro levarsi come uno spettro alle spalle di Mimì…. Dirgli la verità? A che scopo? Eppoi, anche se uno scopo ci fosse stato, ella non poteva rompere il segreto. Il quale era così fatto che ad ogni passo la coscienza avrebbe trovato giustificazioni e sofismi per credersi autorizzata a rivelare l' identità del piccolo duca. Erano ben questi i preveduti e temuti sovvertimenti contro cui Maria aveva messo in guardia la sovrana. Non il gran gesto le era apparso pericoloso; ma pericolosissima la rete inestricabile delle sottigliezze, degli incidenti, degli episodii secondarii. La vita sentimentale di Wanda, ed ora anche quella di altri venivano sconvolte fin dalle radici. Il sentimento è l'ordigno più infido che la natura abbia posto nell'uomo: l'atto del pensiero e l'atto della volontà obbediscono o' contraddicono al sentimento, ma non possono in alcun modo prescinderne, nè ignorarlo. Il pensiero e la volontà hanno in sè qualche cosa che è materia o è simile alla materia: si può infrenarli e comandarli: perchè il pensiero ragiona secondo schemi già ordinati, e l'atto della volontà si misura per intiero dal punto di partenza al punto d'arrivo. Ma il sentimento?… Nessuno lo insegna; incomunicabile, non ha vocabolario di parole; non ha confini; perturba tutto l'essere; sveglia il pianto e il riso, le due misteriose espressioni che solo le creature umane posseggono; semina invisibili primavere di gioia, più possenti e travagliose ed apriche di quelle che fioriscono nei campi; senza percosse e senza sangue accumula il dolore in stragi ed in rovine. Che diventano il pensiero e la volontà, se il sentimento è attossicato?…

Inutile dunque mettersi a ritroso della corrente, e predicare, e catechizzare…. Tutto ciò che si poteva chiedere a Pietro, egli lo offriva spontaneamente: non disingannare Mimì, e lasciar passare il tempo: dal quale il giovine aspettava la morte e Maria gli augurava calma e rinsavimento.

Quando Bouturline accompagnò il principe di Wallemburgo a Ròscopa, un fonogramma aveva già avvertito il Commando del corpo d'armata che un ospite augusto avrebbe pernottato nella città. Ròscopa non era Almo, e, sopratutto, Gheronti non era Costanzo. Il generalissimo viveva con semplice sobrietà e quasi in solitudine, essendosi acconciato nell'umiltà d'una parrocchia e avendo allontanato da sè quanta più gente poteva. Il generale Gheronti invece — e, come lui, non tutti i colleghi ma molti altri — era circondato da una vera corte festaiola d'ufficiali, e occupava una delle più fastose ville del regno di Venustria. Non era un cattivo soldato, e, se l'occasione si presentava, sapeva non indierreggiare davanri al pericolo personale Ma, di famiglia povera e borghese, trovatosi insperatamente così in alto per le ultime susseguentisi promozioni, aveva preso il gusto del lusso e dello sfarzo, e profittava con larghezza indiscreta della condizione eccezionale che gli era toccata. Daltronde era abilissimo nel muovere, secondo gli ordini che Costanzo impartiva, le ingenti masse affidategli; e non di rado prendeva certe limitate iniziative che pure giovavano alla buona riuscita delle operazioni guerresche. I suoi uomini lo obbedivano; ed egli era solito dire che un capo deve farsi piuttosto temere che amare. Ma la nuvola d' incensi di cui lo circondava la folla gallonata degli innumerevoli ufficiali che gli stavano dattorno in Ròscopa, nelle sicure e più svariate e più inutili mansioni di servi fannulloni che volevan salva la pelle, era ben lungi dal dispiacergli. Pretenziosa, azzimata, decorata, la coorte di Gheronti godeva d'una quantità di privilegi: stridente contrasto col trattamento usato verso le truppe combattenti dello stesso corpo d'armata, alle quali si domandava di non essere mai stanche e dalle quali si pretendeva senza indulgenze che assolvessero i più rudi e più difficili còmpiti.

Arturo di Wallemburgo, che non era venuto in veste di guerriero ma solo per conciliare il suo proprio divertimento col mandato dell' imperatore, si trovò dunque in pieno agio quando gli ospitanti di Ròscopa gli apparvero così diversi dalla fredda semplicità di Costanzo e dalla distratta serietà del conte Bouturline. Capiva anche lui che la guerra non si fa in mezzo ai festini, e, probabile futuro alleato, in questo lo rassicurava ciò che aveva veduto ad Almo. Intanto era lieto di spassarsela, e si conquistò sùbito le più ossequiose simpatie, ch'egli sapeva di dover ricambiare con una pioggerella di nastrini multicolori.

Pietro, quando vide che Sua Altezza se la intendeva benissimo coi nuovi compagni, e specialmente col capitano Garsenna che gli s'era messo premurosamente ai fianchi, domandò licenza al principe di tornarsene ad Almo. Arturo accordò con espansiva cortesia, e gli altri ufficiali furono soddisfatti che se n'andasse quel loro collega muto e severo che — motivo di sdegnose ironie tra i cacciatori di promozioni — non s'era fatto fare nemmeno capitano dopo tanto tempo dacchè aveva una carica così gelosa presso la persona del generalissimo.

Garsenna, anzi, comunicò al principe l' ilare osservazione, e concluse ridendo:

«Ah, Altezza! Gente che non sa vivere.»

Arturo, con una cert'aria bonacciona, rese giustizia al maltrattato tenente che, del resto, gli era poco simpatico.

«Gente che non sa vivere, è vero. E ben per questo va incontro alla morte!… Un paese in guerra ha bisogno di chi sa vivere e di chi sa morire!… No, no, non si metta sugli attenti, capitano! Oggi mi sento vivo, e lei, per oggi, fa al caso mio meglio che il conte Bouturline.»

Pietro era di ritorno ad Almo alle dieci di sera. Invece di ritirarsi sùbito nella casa in cui si era temporaneamente trasferito, si recò dritto verso la parrocchia. Sapeva che il suo capo dormiva pocchissimo, e che si buttava sul letto solo a notte tarda. Avvicinandosi, udì un impaziente scalpitìo di cavalli che stazionavano sul sacrato. Azzarìa ed alcuni soldati badavano alle bestie sellate. Il giovine riconobbe, nell'oscurità, il cavallo bianco del piccolo duca. Pensò che i tre, partiti la mattina pel giro d' ispezione, fossero tornati allora allora; ma si accorse che i cavalli eran freschi e riposati. Non domandò niente ai soldati. Entrò. Nell'antisala, il marchese di Pietracamela, in assetto da campagna, caricava il moschetto. Spiegò a Bouturline che ripartivano: egli era già stato all'ospedale a salutare Franca, e Sua Altezza il granduca Stefanolo si trovava nella camera di Costanzo con Ruggero e con Maria di Cerito. Insolitamente, Pietro mosse un' osservazione.

«Ma il principe di Wallemburgo viene domani mattina per conferire con Sua Altezza.»

«Non so.» rispose Leonardo «Noi partiamo ora.»

E infatti non sapeva nulla, se non che, tornati verso le sette, Wanda aveva avuto un colloquio con Costanzo, e, sùbito dopo, aveva ordinata la partenza. Sopraggiunsero gli altri.

«Oh, Bouturline!» esclamò il generale «Già qui?»

«Il principe non aveva bisogno di me, fino a domani, quando dovrei riaccompagnarlo qui.»; e calcò la voce su quel verbo al condizionale, commentando così, l' inaspettata partenza.

«Dovrebbe?» disse Wanda «Dovrà, tenente. Ed accompagnarlo anche più lontano. Lei sa la strada. Sul colle di Torbaffuoco. Lei si metterà in cammino col principe domani sera. Io non faccio che precedere di ventiquattr'ore.»; gli tese la mano: «Buonanotte, tenente.»

Aveva fretta d'andarsene, di togliersi — ora che un'altra assurda complicazione nasceva — alla vista e alla compagnia delle sue amiche. Costanzo, Leonardo, Ruggero non le davano quel senso d'oppressione e di rossore che Maria e Franca le avrebbero immesso nelle vene se, lei presente, avessero saputo. I tre uomini erano attori nel suo dramma; ma non potevano indovinare e comprendere ciò che si passava nell' intimo di Wanda; tante sottigliezze d' impressione e di giudizio sfuggivano necessariamente alla quadratura del loro spirito: chè infatti il carattere virile — se fosse possibile approssimativamente ridurlo in un disegno da tracciarsi sulla carta — avrebbe dei contorni assai più delineati di quelli tremuli vaghi e non conclusi che s'adoprerebbero a rappresentare visibilmente in un altro disegno il carattere femminile. Prendiamoli, i due disegni, e ritagliamoli in due figure sopra un solido cartone; eppoi tuffiamoli in un groviglio fine e filamentoso: l'uno, che offre all' intorno una lineatura uguale e decisa, nè uscirà schietto e polito; l'altro, tutto segmenti angoli frange minuzie e incisure, si trarrà appresso con tenace resistenza grumoli e fili. Maria e Franca erano, per Wanda, spettatrici troppo penetranti. E di Maria specialmente, Wanda temeva la perspicacia: perchè le era la più cara, e perchè possedeva una lucida facoltà intuitiva che avrebbe profondamente e dolorosamente ricercato cause ed effetti, e crudamente illuminato le angosciose penombre di quell' insidia che prendeva tra le spire del mistero anche colei che la operava. Per tali considerazioni, Wanda aveva pregato Costanzo d' informare le due signore solo dopo la sua partenza, e disposto che il principe di Wallemburgo la raggiungesse per quell'amaro colloquio in un luogo aspro di rischi, lontana da volti famigliari di amiche, ripresa tutta nel gorgo della sua teme raria volontà.

Dopo aver salutato Bouturline, ella rimase un momento esitante e quasi impacciata. Mosse verso Maria, ma sùbito si ravvisò. Fece un gesto rapido, brusco; disse:

«Addio dunque, signori.», e usci sul sacrato.

Qualche minuto, e il croscio della cavalcata sugli acciottolati montani si spense a poco a poco.

Un altro anello si saldava alla catena in cui Wanda s'era impigliata. Bisognava, sì, essere bravi fino in fondo. Bravura o bravata?… Ecco il facinus dei latini: che vuol dire delitto, e vuol dire impresa eccellente. Ecco la fortuna di doppio volto: ottima sorte, e sorte malvagia. La colpa e la virtù si toccano nel giuoco alterno delle umane vicende. Che cos' è il mondo, per certe anime, e in certe ore? è un filo sottile come un'audace sfida sugli abissi, è un filo sottile come il taglio d'una lama; e c' è un palpito all' un dei capi, e c' è un palpito all'altro capo. Notte limpida sulla cerchia alpina di Venustria, mentre la luna esigua tramonta in mezzo ai brividi che in fiati di cristallo piovono sulla terra dal sereno novembrino. Notte nebbiosa, nella capitale di Bremislavia, avvolta in lembi rossastri attorno ai mille lumi della metropoli che, dopo la febbre diurna, beve ama e si diverte. Là un'anima femminile. Un'anima femminile qua. Un piccolo cavaliere tutto bianco, che va, in abiti non suoi, verso la linea dove si muore. Una fanciulla che sogna la vita, nel riparo verginale della sua camera principesca. Pensano l'una all'altra, e non si conoscono. Elisabetta con casta fantasìa sorride all' immagine del giovine eroe da cui s'attende la felicità. Wanda sa che a quel sorriso dovrà rispondere con perfido inganno. Ma Elisabetta non ha che il suo cuore di bimba, colorito di luci d'amore. E Wanda ha gettato il suo cuore nella fornace ardente e insaziata della patria….

Bouturline e il principe di Wallemburgo, lasciate le cavalcature, decisero, onde evitare il lungo e malagevole cammino, di usare la teleferica per giungere sul rovescio del colle di Torbaffuoco. I due ufficiali che seguivano Arturo avrebbero approfittato dello stesso mezzo in una seconda corsa.

Il carrello si innalzava dolce dolce nel buio. E il boato delle artiglierie, più vicino e più lontano, brontolava e tempestava a intervalli.

«Ieri, a Ròscopa» disse Arturo ridendo «qualcuno mi ha parlato di una gita in teleferica. Credevano, alla stazione d'arrivo, che il viaggiatore si fosse addormentato: era morto: una pallottola di shrapnel.»

«Tutto può darsi.» rispose Pietro, laconico.

«Le sorriderebbe proprio, a lei?»

«Se Vostra Altezza non si sentiva, avremmo potuto andare a piedi.»

Un po' piccato, il principe ribattè:

«Non si tratta di questo. Ne ho viste ben altre, io!.

«Allora!» concluse Bouturline, sbadatamente.

«Se l'ordigno non si guasta» proseguì Arturo, accendendo una sigaretta «fa come i cavalli che riportano il padrone in scuderia, o vivo o morto.»

Una pausa.

«Conosce molto Stefanolo?»

Pietro fece, dopo un attimo di perplessità:

«Poco.»

«È bravo, noh?»

«Di certo.»

«Che vita conduce?… Sì, insomma, intendo dire, se, oltre a far la guerra, ama anche divertirsi.»

«Non lo so.»

Il principe sbuffò con impazienza una grossa boccata di fumo. Poi si mise a masticare tra i denti una cantilena barbara:

«“Ulla gna gna gna. Sveda ulla. Ulla gna….”»

S' interruppe:

«Sa che cos' è questa?»

«Altezza no.»

Arturo rise.

«È il concerto vocale con cui gli Zuryi accompagnano le vedove sul rogo per arderle insieme col cadavere del marito. Non gliel' invento mica, veh!»

«Lo credo.»

«Ma i mariti no. Presso gli Zuryi, se è il marito che resta vedovo, deve scegliersi una nuova sposa e consumare le seconde nozze mentre il cadavere della moglie è ancora nella zongha. La zongha sarebbe la capanna, la casa. Un matrimonio allegro, le pare?»

Non ottenendo risposta, ricominciò:

«“Ulla gna gna gna. Sveda ulla. Ulla gna….”»

Qualche cosa di freddo e molliccio gli s'abbattè e abbarbicò sulla mano, spegnendo la sigaretta. Arturò trasalì.

«È un pipistrello.» disse Bouturline, aiutando il principe a liberarsi dalla bestia.

Il pipistrello, stordito dal colpo, fu gettato da Pietro nel fondo del carrello: emetteva ogni tanto uno strido roco e improvviso.

«Siamo in brutta compagnia!» esclamò Arturo stropicciandosi forte la mano per distruggere la spiacevole sensazione che v'era rimasta «Non sarebbe meglio fargli fare un bel volo fin giù?»

Ma la bestia s'era chetata, e la lasciarono.

Si udì uno scoppio vicino, ed un' incerta velocissima illuminazione ruppe dietro a loro le tenebre. Forse la teleferica ora saliva presso lo sbocco d'un corridoio montano, perchè la detonazione echeggiò più e più volte, distinta.

«Tre…. quattro…. cinque….» contò il principe «Là…. silenzio!»

«È un pezzo che tira da Costa Rio. Ha un alzo poderoso. Scavalca un altipiano larghissimo.»

«Vecchia conoscenza?»

«Infatti.»

«Lei c' è venuto spesso, qua?»

«Abbastanza.»

Luci di fanali che s'avvicinavano, e un oscillamento nel carrello come se si mettesse a retrocedere, eppoi la botta della fermata: crano giunti. Nel sollevarsi per ismontare, Arturò barcollò, pestando col tacco ferrato su un ingombro scivoloso che s'appiattì con flaccido scricchiolìo.

«Bestiaccia!» imprecò egli, sorreggendosi alla spalla di Bouturline «Ce l' ha con me. Prima sulle mani. Ora sotto i piedi.»

Saltò a terra, battendo e strusciando la scarpa.

«Cattivo segno, vero? Voi altri siete superstiziosi, in Venustria.»

Pietro non disse niente, occupato a preparare le carte da sottomettere all'esame dell'ufficiale di stazione. Ma questi era il medesimo di pochi giorni innanzi: sicchè riconobbe Bouturline, appose il visto, e lasciò subito il passo.

«No. Rimanda giù il carrello. Salgono ancòra due ufficiali stranieri.»

Mentre si dava l'ordine per la manovra, Arturo adocchiò una panca lì nella baracchetta.

«Tra andare e venire ci vogliono quaranta minuti buoni. Ha sonno lei?»

«No.»

«Che uomo perfetto!»

Si tolse il pastrano; lo arrotolò; lo acconciò a guisa di cuscino.

«È permesso?»

L'ufficiale di stazione offrì anche una coperta.

«Diamine! Si dorme dove si può.»

Tre minuti dopo, il principe di Wallemburgo russava come un mantice.

I due colleghi si trassero all'altro angolo della baracca.

«Chi è?»

Bouturline stimò prudente di non dare particolari informazioni.

«Un pezzo grosso di Bremislavia. Ma, se dovessi dirti chi precisamente, non so.»

«Beato te. Vedi gente, ti muovi. Io, da quindici giorni, crepo di noia. Mi toccava d'andare in riposo…. S' è fatto cinque settimane da non augurarle neanche ai cani…. E nossignori! Capitano tutte a me. Avevan bisogno d'un imbecille da schiaffare qui in sostituzione d'uno che s' è presa la licenza…. Io, si capisce! Senza considerare che ho addosso quarantadue giorni e quarantadue notti da lasciarci il fiato…. Con Gheronti non c' è cristi…. Se n' infischia, lui, della nostra pelle; e fa bene, perchè la guerra non è un letto di piume…. Ma canzonare a questa maniera, è un po' troppo…. Pazienza!… Vuoi una sigaretta? Sono dure come tronchi d'albero, e….»

Bouturline porse le proprie. Quello si servi, facendo cricchiare la prescelta tra le dita.

«A noi ce le dànno da fumarsi con la pompa, mica coi polmoni!…»

Sospirò; e aggiunse, ma senza malvolere:

«Voi altri, almeno, siete fortunati!… Non dico per te nè per chi sta col generalissimo o col granduca, che non v' impigrite e non vi risparmiate…. Ma quelle pelli di coniglio che inzeppano i comandi? Roba da fare schifo, da sputarci sopra…. Una paura maledetta, e una pretesa come se tutti dipendessimo dall'unghia lustra del loro mignolino ben curato…. No, no!… È una banda che non ci starei neanche dipinto!… Ma voi che vi muovete, vedete, sapete…. ah, siete fortunati, siete fortunati…. E una fortuna così non è pane per i denti d'un povero diavolo come me…. C' è una predestinazione. Tu ti chiami conte Bouturline; io mi chiamo Pizzichetti, e per giunta mi chiamo Pietro: un nome da contadinaccio…. Dunque è giusta che vada così.»

Bouturline sorrise.

«Mi chiamo Pietro anch' io, sai?»

«Tu?… Curiosa!… Ti facevo Gastone o Aldo…. Pietro? Pietro Bouturline?… Già ti chiameranno Piero, senza il “ti”. Tra voi è di moda…. Ma non importa. Pietro Bouturline fa un altro effetto…. Vuoi mettere con Pietro Pizzichetti, anzi con Pizzichetti Pietro?… Ne ho ingoiate, dai colleghi, con questo Pizzichetti!… E pizzicotti di qua, e pizzicagnoli di là…. Non la finiscono più!… Me ne strabuschero, io. Quando penso che non son stato buono nemmeno di ottenere un permesso per andare da mia moglie e dal mio bambino…. Pensa che non l' ho visto ancora, che non l' ho visto mai…. Ha due mesi.»

Trasse con religione il portafogli, e, religiosissimamente, ne prese un ritrattino che effigiava un bel tocco di signora Pizzichetti con in braccio un ranocchietto amorfo bardato di trine e di nastri.

«Mi scrivono che somiglia me. Trovi?»

Bouturline si sforzò d'essere compiacente:

«Ma sì…. forse…. un' idea….»

L'altro contemplò l' immagine, con orgoglio.

«Per il nome s'erano fatti tanti magnifici proponimenti…. Ruggero, Leone, Ademaro, Rinaldo…. Io propendevo per Ruggero, mia moglie per Ademaro…. Quand' è nato, quando s' è proprio saputo ch'era un maschiotto, un Pizzichetti in carne ed ossa…. Sì, insomma, allora è venuto fuori il nome a cui non s'era mai pensato. Il nome di mio padre. Prospero. è inutile…. è più solido, e va più d'accordo con Pizzichetti. Ti pare?»

Ripose la fotografia e il portafogli.

«Tu sei ammogliato?»

«No.»

«Fidanzato?»

Una brevissima esitazione.

«Sì.»

«Ce l' hai il ritratto?»

«No.»

Una bugìa. Il ritratto c'era, e proprio nel portafogli, ma in un angolo riposto e dimenticato donde da tempo non usciva più.

«Baie!» esclamò l'ufficiale «Ci crederò per farti piacere. Chi sa che duchessina!… Sei geloso? Io no, ho fiducia in mia moglie. Ora ha il bambino da allevare: come potrebbe avere il capo alle farfalle?… Eppoi, macchè! La metterei ad occhi chiusi in mezzo a un esercito…. Siamo sicuri l'una dell'altro…. Anch' io, da quando son partito, niente, sai!… E se non mi mandano in licenza, niente lo stesso: piuttosto arrabbio.»

Una pausa.

«Quello là….» e l'ufficiale additò il principe addormentato «sembra un treno in partenza.»

Arturo, sempre nel sonno, mugolò e s'agitò.

«Sogna…. Maledetti sogni! Io sogno, per esempio, che son tornato da mia moglie, ma, appena mi riesce d'esser solo con lei, o mi chiamano, o entra gente…. Maledetti sogni….»

Sùbito si schiarì, con un'aria beata.

«Non è vero. Delle volte sogno che vedo Prosperino…. e mi chiama “papà”, e mi viene incontro con le gambette piccine piccine…. Ah, i bimbi! Ne vado matto. Meglio averne dodici, che non averne nessuno. Noi altri siamo nove: io, e otto sorelle. La maggiore è anche nonna. Famiglie dove non ci piove malinconìa. Ormai non conto più le bocche che mi dicono “zio”.»

Si udì, fuori della baracca, uno scalpicciare e vociare come di gente che arrivasse e fosse occupata in qualche scarico. L'ufficiale di stazione s'affacciò sull'uscio, e diede in un brontolìo di malumore:

«Ancora!…»

«Che c' è?» gli domandò Bouturline, che non s'era mosso dal suo posto.

Ma l'altro si voltò verso un graduato che entrava in quell' istante.

«Cinque, da Punta Drago.» informò questi, e consegnò un piccolo sacco sigillato.

«Va bene, va bene.» disse l'ufficiale con impazienza, posando l'oggetto sul tavolino «Ora, appena il carrello arriva su, provvederemo.»

Guardò l'orologio.

«Altri pochi minuti….»

Un colpo sordo e greve sbattuto contro la parete di legno della baracca, forse dagli scaricatori, lo fece trasalire nervosamente.

«Che facciano ammodo, corpo d'un cane!…»

Mentre il graduato usciva, Arturo ruppe in uno sbadiglio sonoro.

«Ci siamo?» interrogò, sollevandosi e stropicciandosi gli occhi.

«È questione di momenti.» rispose Pietro.

Il principe si alzò in piedi, si rassettò addosso cinghie e cinture. Schioccò la lingua due o tre volte.

«Anche a dormire vien sete.» osservò ridendo, e guardando l'ospitante come a dirgli che ne avrebbe preso volentieri un gocciolino.

«Smemorato che sono!» esclamò colui, picchiandosi la fronte «Con la cosa che, fuor dei pasti, non bevo mai, mi scordo sempre di offrire.»

Andò a un armadietto, e si indirizzò a Bouturline.

«Anche tu, scusami.»

Posò sulla tavola una bottiglia intatta di cognac e due bicchieri spaiati.

«Non ho che questo. Bisogna contentarsi.»

Il suo coltello tascabile, grumoso e arrugginito nei varii scompartimenti degli utensili ad eccezione d'una lama grossa e solida, serviva male allo scopo.

«Fermo, fermo!» gli disse il principe, provvedendo con uno degli scintillanti arnesi tascabili che teneva in una busta di pelle «Con Venere, qualche volta, si può procedere senza riguardo; ma con Bacco ci vuole sempre l'osservanza del cerimoniale.»

Attento e svelto, stappò la bottiglia.

«Hop-là!… Tenente?»

Bouturline rifiutò.

«Lei nemmeno non beve, ha detto?»

«Signor no. Si serva.»

I due bicchieri non eran da liquore; ma Arturo se ne versò uno colmo fino all'orlo, assaggiò, borbottò un elogio, e lo vuotò d' un fiato. Nel riporre il bicchiere sul tavolino, egli urtò con gesto malaccorto contro la bottiglia che cadde sul sacco sigillato. Ma era turata ermeticamente, e non successero guai. Nonostante questo, l'ufficiale di stazione si precipitò ai ripari, e girò e rigirò il sacchetto per ogni parte onde assicurarsi che non fosse bagnato.

«C' è la cassa del reggimento?» domandò il principe burlescamente.

Quegli spostò il sacco nell'angolo più lontanto del tavolino.

«C' è l'eredità di cinque morti.» disse «Li hanno portati ora. Aspettano là fuori per andarsene giù con la teleferica. Ne avrò veduti dei morti?… Ma il mestiere di capostazione dei becchini, quando càpita uno di questi carichi, non mi va a genio…. Mentre scendono, finchè il campanello non avvisa che sono arrivati, mi par d'avere l'anima appesa a un filo anche a me.»

Arturo sacramentò, per metà serio e per metà scherzando.

«È allegro, non c' è che dire!… Il pipistrello, lo sdrucciolone, i morti che pigliano il nostro posto…. Ci crede lei, nei presagi?»

L'ufficiale fece lo scongiuro, toccando con tre dita tese le due stellette del bavero e la punta del proprio naso.

«Oh Dio!… Son cose che è meglio non riderne.»

«Non tirano nemmeno più.» osservò Bouturline.

Infatti il tuono delle artiglierie s'andava spaziando rado rado.

«Ecco il carrello.» avvertì l'altro, tendendo l'orecchio esperto a tutti i rumori del macchinario.

Incontrarono i compagni d'Arturo sulla piattaforma della stazione. Il principe e i due sudditi di Bremislavia, prima di rimettersi in cammino, asciugarono la bottiglia del cognac.

«Ottimo!» confermò Arturo, e scambiò coi suoi qualche parola in lingua straniera.

Uno d'essi si preparò a scrivere in un taccuino.

«Nome? Cognome? Indicazioni di reggimento?»

L'ufficiale non capiva.

Arturo, disponendosi ad uscire, disse a Bouturline:

«Gli spieghi lei. È per ringraziarlo dell'ospitalità, quando preparerò la lista delle decorazioni.»

Saputo di che si trattava, il poveraccio sgranò tanto d'occhi e arrosì.

«A me?!…»

«Nome, cognome….» insisteva l' incaricato degli appunti, tamburellando con la matita sulla pagina aperta.

«Tenente Pizzichetti Pietro.»

«Pi….pi….» sillabò l'altro.

«Due zeta…. Signor sì. Ci, acca….»

«Come?… Come?…»

«Lasci scrivere a lui.» suggeri Bouturline.

Il raccuino passò nelle mani del futuro decorato d'un terzo o quart'ordine cavalleresco di Bremislavia.

«Non importa!…» egli sospirò, dopo ch'ebbe segnato le indicazioni richiestegli «Avrei preferito una licenza per andare a vedere il mio Prosperino.»

Bouturline, cordialmente, gli battè una mano sulla spalla.

«Cercheremo di farti avere anche la licenza. Va bene?»

Senza dar tempo a ringraziamenti, uscì lui pure a raggiungere il principe. Lo trovò là che guardava un mucchio di lunghi sacchi oscuri addossati al tavolato della baracca. Una graveolenza fastidiosa prendeva il respiro. Bouturline capì: erano i viaggiatori che aspettavano il turno libero del carrello per andarsene giù….

Dove il monte s'arrotondava declinando in faccia alle linee avversarie, la strada si faceva più lenta e difficile tra camminamenti e posti di guardia. Ma erano quasi arrivati. Il buio che cominciava insensibilmente a sbiadirsi nel presentimento dell'alba non permise al principe di veder niente. Egli fiutava l'aria, curioso d'avvertire una qualsiasi impressione che gli desse la materiale certezza della presenza del nemico. Nulla. Se non un secco scoppiettìo di misteriose fucilate, e il rullo del cannone che pareva riprendere il suo ritmo frequente.

Un'ampia caverna era, in quei giorni, la dimora del piccolo duca e de' suoi aiutanti. Arturo di Wallemburgo e Bouturline giunsero che il sole non era ancor levato. Furon ricevuti dal marchese di Pietracamela che mise a disposizione del visitatore il poco offribile, in quel rifugio da trogloditi, per il ristoro dello stomaco e delle membra. Ma Sua Altezza era impaziente di vedere Stefanolo, e ricusò il sonno, accettando soltanto una ciotola di fumante caffè. Invece, col beneplacito del principe, accolsero sùbito l' invito di ritirarsi a dormire i due ufficiali del sèguito e Pietro Bouturline che parve improvvisamente gravato da un'ernome stanchezza. Leonardo invitò Arturo a pazientare un momento: il granduca non poteva tardare.

«Quando siete arrivati?»

«Esattamente ventidue ore prima di Vostra Altezza. E ieri sera, fin dopo la mezzanotte, Sua Altezza il granduca Stefanolo e Ruggero di Cerito hanno avuto un bel da fare. Sente?… I cannoni abbaiano da levante, adesso: interessano una zona più lontana. Ma stanotte c'era un tiro infernale alle falde occidentali di Torbaffuoco.»

«E Stefanolo è andato?»

«Naturalmente, Altezza. Il granduca va sempre dove si fa sul serìo.»

Arturo, illudendosi di trovare nel marchese di Pietracamela la sincerità d'una natura comunicativa assai più cedevole di quelle contro cui s'era urtato in Costanzo e in Bouturline, ne approfittò per informarsi. Le notizie dategli sulla persona di Stefanolo dagli ufficiali di Ròscopa erano troppo vaghe, venendo da gente che non gli era mai vissuta vicino. E Leonardo aveva l'aria d'abbandonarsi, col suo saper fare conciliante e pieno di cortesìa.

«Quanti anni ha?»

«Diciannove.»

«Giovine…. giovine…. giovine….» ripetè il principe, commentando per conto proprio.

«Vostra Altezza lo vedrà. Non li dimostra neppure. È così delicato, che sembrano impossibili la sua forza d'animo e la resistenza del suo corpo.»

Entrò Azzarìa, si piantò sull'attenti, e fe' un gesto al marchese.

Questi tradusse, perchè Arturo potesse comprendere:

«Sua Altezza sta per venire.»

Infatti, quasi sull'istante, la figura tutta bianca — ch'egli aveva creduta una fantasiosa stilizzazione iconografica — apparve mirabilmente agli occhi attoniti del principe di Wallemburgo. Un giovinetto di notevole bellezza, sottile, biondo, a capo scoperto, chiuso nella candida tunica a bottoni d'oro, i calzoncini stretti, gli alti stivaloni di pelle nera. Si avanzò, con un sorriso un po' freddo.

«Il principe Arturo di Wallemburgo?»

Arturo udì una voce non grave; ma limpida senza acutezze.

Si strinsero la mano.

«Il generale Costanzo mi avrà scusato. Non è stata cattiva volontà. Spero che non abbiate avuto incidenti di viaggio.»

Il principe, in verità molto stupito di vedersi innanzi in carne ed ossa uno Stefanolo di Planacomba che superava ogni aspettativa creata dalla leggenda, si sentiva sbalestrato.

«No, no…» rispose; ma poi, sorridendo, si corresse: «Cioè…. roba da nulla. Piccolissime, minutissime circostanze che, se fossi superstizioso, mi farebbero dubitare della buona riuscita del colloquio che son venuto a chiedervi fin qua?»: c'era quasi un' interrogazione, nella sua frase, e il desiderio manifesto d'entrar sùbito in argomento.

Ancòra, sulle labbra della fragile figura, lo stesso sorriso freddo di pocanzi.

«Per parte mia, non credo. Ma è vero che l'uomo propone e Dio dispone.»

Una pausa, un attimo di malessere.

«Non volete riposarvi?»

Arturo vinse la specie di disagio che minacciava, per la prima volta in vita sua, d' impacciarlo nel disbrigo di un còmpito che aveva accettato di condurre a termine.

«Se non vi dispiace, preferirei parlare con voi.»

Per tutta risposta, Wanda si volse a Leonardo.

«Marchese?»

Questi si dispose ad andarsene. Prima, disegnò un gesto all' indirizzo di Azzarìa: e il gigante, obbediente, si spostò verso l'altra apertura della sala sotterranea, quella per dov'era entrato il principe di Wallemburgo un momento avanti.

«Vostra Altezza ha ordini?»

«Grazie, marchese.»

Leonardo uscì. Azzarìa, colosso immobile, pareva il genio dell'antro. Accorgendosi che Arturo lo guardava come se aspettasse di vederlo andar via, Wanda spiegò:

«È il mio attendente. Non capisce nessuna lingua, all'infuori del suo dialetto di Planacomba. Siamo dunque soli.»

Il principe non sapeva, in cuor suo, se dovesse divertirsi o arrabbiarsi. Ma imprecò dentro di sè al capriccio della cugina Elisabetta cui certo non era estranea la macchinosa combinazione politica e dinastica escogitata dall'imperatore di Bremislavia.

«Il nostro colloquio del resto» riprese Wanda «è molto semplificato dal fatto che il generale Costanzo mi ha già comunicato di che cosa si tratta. è una proposta che mi onora. Per mio conto, accetto. Non c' è che una sola condizione, se tale tuttavia si può chiamare, dal momento ch'essa rappresenta un'opportuna convenienza per ambedue le parti. Cioè che le nozze si celebrino sei mesi dopo la fine della guerra. Si va producendo nei paesi belligeranti un sommovimento che non sarà nè placato nè sedato dall'oggi al domani. Chi combatte ha coscienza che, posate le armi, non potrà sùbito riprendere la sua vita tranquilla. E ritengo che su questo saremo d'accordo.»

Il discorso era stato pronunziato con rapida fermezza. Arturo fu anzi colpito dall'assenza d'ogni calore e d'ogni esitazione in quel giovinetto che decideva, così arido e svelto, del proprio destino di gloria e d'amore. Avrebbe voluto discutere, perchè l' impassibile sicurezza dell' interlocutore era ben lungi dal soddisfarlo. Ma la sua missione si limitava ad ottenere una risposta di massima, affermativa o negativa, ed egli pensò ch'era meglio ritenersi in questi limiti, e lasciar poi che il cugino imperatore se la vedesse lui e per mezzo d'altri intermediarii col granduca Stefanolo di Planacomba. Singolare personaggio! L'augusto messo imperiale non ne rinveniva. Aveva creduto che la terra di Venustria, proverbiale per facili entusiasmi e per larghe espansioni, avrebbe fermentato nelle vene dei primi ammessi alla munifica e mirifica confidenza un'ebbrezza di gaudio e d'esaltazione. E questo duchino che, traverso ai quadri e alle cartoline illustrate aveva infiammato il cuore di Elisabetta con i riccioli biondi e il costume di sogno, questo duchino che con la fama del suo valore aveva levato onde di fervida simpatia in Bremislavia, egli se lo sarebbe immaginato diverso da come ora gli stava innanzi: ghiaccio, misurato, con dei grandi occhi azzurri in cui s'incupiva un'ombra impenetrabile, custodito a vista da quel guardiano gigantesco che, sotto la vòlta bassa della caverna, si ergeva a guisa d'un tronco abbarbicato nella terra.

Arturo non si divertiva, no. E, poichè nei momenti di perplessit à usava smaltire l'ansia e la stizza fumando come una vaporiera, sentiva mordente la nostalgia della sua pipa. Un gesto semplice, lecito, comune: ma ora non avrebbe saputo da che parte incominciare per metter mano alla tasca, o domandare il permesso di tirare una boccata…. Il permesso? Tra uomini?… Non gli accadeva spesso di sentire il bisogno di certe delicatezze, e, rodendosi e arrabbiandosi, rispondeva asciutto o distratto. Ragione per cui la conversazione su quell'argomento si spense. E Wanda disse:

«È inteso che vi tratterrete finchè non siate riposato.»

A questo modo, avendo l'aria di volerlo ritardare, ella gli dava un congedo a brevissima scadenza. Arturo balzò in piedi.

«Appena il tenente Bouturline e i miei ufficiali saranno pronti, state pur certo che vi toglierò il disturbo.»

Si alzò anche Wanda.

«Non è questione di disturbo. È che non potrei tenervi compagnia, se non conducendovi con me. Ed oggi per l'appunto la mia escursione non offrirebbe nessuna garanzìa di sicurezza ai miei ospiti.»

Il principe sentì montarsi il sangue alla testa. Gli parve una sfida o una canzonatura: e certo quel fanciullo delicato come una femminuccia si vantava.

«E se vi pregassi, invece, di accettare per oggi l'incomodo della mia persona?»

«A vostro piacere. Tra un'ora si parte.»

«Va bene.»

Inpiedi, l'una di fronte all'altro, si guardavano.

Wanda porse una scatola d'argento.

«Non fumate?»

Arturo ghermì trionfalmente la sua pipa.

«Vi dà noia?» domandò, mostrandogliela.

«Affatto.»

Wanda ripose le sigarette senza servirsi. Premè un bottone elettrico, a piccoli tocchi ripetuti: l'alfabeto delle sue chiamate. Il principe di Wallemburgo, dato fuoco alla pipa, andò a misurare la sua statura poderosa sotto il naso dell'erculeo guardiano. Esclamò, in ammirazione:

«Che torre!…»

E gettò una boccata di fumo contro il volto del gigante. Questi gli piantò gli occhi negli occhi, senza trasalire d'un muscolo. Arturo girò sui tacchi.

«Come si chiama?»

«Azzarìa.» rispose Wanda.

Entrò Leonardo di Pietracamela.

«Marchése, Sua Altezza il principe di Wallemburgo ci accompagna nella nostra gita. Gli procuri un elmetto. Conducete con voi i vostri ufficiali?»

Arturo alzò le spalle.

«Non occorre.»

«Permettete. Ho ancora da sbrigare qualche cosa, di là.»

Usci per dov'era venuta, e Azzarìa sparì dietro a lei.

Leonardo accompagnò fuori il principe. E fuor dalriparo della grotta profonda il rombo dei cannoni si espandeva con fragore. Era un'alba rigida: scomparivano sotto la brinata il colore arsiccio degli sproni rocciosi e il color tenero dell'erbetta rinata qua e là al tepido inganno del sole autunnale. L'altipiano, in faccia, pareva deserto. All' ingresso della caverna bivaccava una compagnia di soldati. Fu cercato l'elmetto. Le teste di Bremislavia hanno una sagoma differente da quella delle teste di Venustria. Dopo molte prove, si trovò alfine una concavità approssimativa. Leonardo se la rideva sotto i baffi perchè il soldato che aveva l'alto onore di possedere un copricapo che andesse bene al principe mostrava, tutto raso com'era, un grosso teschio di forma buffonesca; ed era, anche di cervello, il più duro e tardo de' suoi colleghi. Il berretto di Arturo fu portato dentro. Sicchè, quando apparve il piccolo duca con la fronte nuda e i riccioli al vento, e disse: “Siamo in ritardo.”; e il marchese di Pietracamela e Azzarìa erano pronti, pur senza aver cambiato i loro berretti, egli, l'unico provvisto dell'arnese difensivo, non ebbe il tempo nè di protestare nè di provvedere. E si mossero, i quattro, verso il luogo dove la morte, quel giorno, scagliava all' impazzata la sua falce implacabile.

La sera, di ritorno, furon tutti riuniti a tavola per una cena modesta. Eccezionalmente, v'era abbondanza di vini e di liquori: e i tre ospiti di Bremislavia davano fondo alle bottiglie. Arturo era pieno d'entusiasmo per il piccolo duca. Aveva visto coi proprii occhi e per parecchie ore di quanta intrepidezza fosse capace quella figurina esile e bianca, epperò si era interamente riconciliato col prescelto dalla cugina Elisabetta e dal cugino imperatore. La giornata vivida di rischi e di spettacoli nuovi, la calma fermezza del giovinetto ch'egli aveva accompagnato, gli sguardi e le parole di fede e di dedizione con che seguivano Stefanolo e inneggiavano a Stefanolo migliaia di uomini presti a sopportare e a morire avevano disposto il principe alla più convinta ammirazione. Ora il calor delle bevande lo accendeva in una volontà di ridere, di parlare a voce alta, di comunicare in fraternità con tutti i presenti.

«Parola mia, quando vi ho veduto dritto e indifeso in mezzo al grandinare dei proiettili, ho pensato che bisognava essere eroi o….» non finì, e tracannò un gran sorso «M'è venuto in mente un episodio che ci narrava un vecchio aiutante di campo dell'imperatore. Storia di mezzo secolo fa. Pare che gli obici diluviassero, e gli uomini s'eran riparati dietro una scarpata. E d'un tratto ecco un generale, alla svolta della strada, e si ferma vicino al gruppo. Alto, snello, piantato in sella, col kepi ricamato in oro splendente sotto il sole, scruta col binocolo la posizione del nemico, e bruscamente: “Ebbene signori, che cosa aspettate? È un pezzo che avreste dovuto rovesciare alla baionetta quelle batterie.” E va e viene, lento, insensibile all'inferno che gli scoppia dintorno, mentre i suoi ufficiali d'ordinanza lo supplicano invano di mettersi al sicuro. Poi, via, prende il galoppo e sparisce. Era Durrieu, generale di divisione, colpito da alienazione mentale senza che nessuno se ne fosse accorto. La sera stessa fu esonerato dal comando e sostituito.»

Leonardo vide il sussulto della regina; e replicò sùbito, con tono di scherzoso sussiego:

«Con la differenza che noi siamo in possesso delle dovute facoltà, e che non saremo nient'affatto sostituiti.»; quindi, per cambiare discorso, s'informò: «La testa di Vostra Altezza va meglio?»

Si trattava della pressura dolente prodotta al principe dal famoso elmetto.

«Va benone, Avete un nettare, qua» e fece lampeggiare il bicchiere al lume elettrico «che beato chi fa questa cura!»

Ruggero sfilava sotto gli occhi di Bouturline alcune istantanee che rappresentavano il piccolo duca. Arturo ne reclamò una per sè, e disse a Wanda con intenzione:

«È per vedere e per far vedere.»

Trasse il portafogli, lo posò, aperto, sulla tavola. Poi, dal mucchietto delle istantanee, scelse quella che meglio gli piacque. Prima di serbarla, cercò tra le sue carte, sparpagliandole per la tovaglia.

«Debbo averci un gruppo più o meno di famiglia…. Volevo mostrare…. Dove s' è cacciato?… L'ho con me, perchè c' è anche una damina che per il momento m'interessava molto…. Dove diamine?… Un gruppo da collezione…. L' imperatore, l' imperatrice, un paio d'ambasciatori, un sultano d'oriente…. Ah, eccoci!» gettò a Wanda la fotografia «Guardatemi un po' la faccina che è a sinistra del sultano?… Il sultano, lo vedete: è quello bardato come la mula del cardinale. Vi piace?»

Wanda sorrise.

«Chi? Il sultano?»

«La faccina che vi ho segnalata.»

«Graziosa. Molto giovine. è la dama che v' interessa?»

«Ma no. È mia cugina. Elisabetta.»

Finalmente Arturo ebbe la soddisfazione di cogliere sulla fronte impenetrabile una fiamma di vivo rossore.

«Ah!»

«Carina, noh?»

«Carina.»

Ruggero e Leonardo, i quali sapevano dalla bocca della regina in che consistesse la missione del principe di Wallemburgo, le vennero in aiuto sbriciolando l'argomento della conversazione.

«Si può vedere anche noi?»

«E la dama di Vostra Altezaa?»

«Oh, oh!… Siamo indiscreti, forse?»

Compiacentemente, e con mille sottintesi di fatuità, Arturo indicò la sua bella.

«Complimenti, Altezza!»

«Vostra Altezza ha buon gusto!»

«Anche la dama ha buon gusto!»

Era in realtà un magnifico campione di femminilità formosa.

La fotografia tornò sotto gli occhi di Wanda per il giudizio. Ella guardò, pur questa volta, soltanto la principessa Elisabetta, con uno struggimento d'ansie e di rimorsi. Restituì il cartoncino, senza dir nulla.

«Dunque, Stefanolo?»

«Ma sì, ma sì…. Certo…. bellissima….»

«Non mi sembrate convinto. Ma forse non è il vostro tipo. Scommetto che la trovate grassa?… Non è questo il grasso, profani che siete! Questa è la vera grazia di Dio che non ti sparisce tra le braccia…. Che farsene d'una carne, se devi cercarla per assicurarti che sei a letto con una donna e non con un bastone?»

«Vostra Altezza permetta….»

«Altezza, sono questioni….»

Ma il principe di Cerito e il marchese di Pietracamela, che tentavano un diversivo dalla scottante scabrosità, furono interroti da Wanda.

«Lascino dire! Lascino dire!…»

Ella accese una sigaretta, con gesto nervoso.

Il principe seguitava a sbraitare:

«I sospiri di luna…. Gli steli di fiore…. Chincaglieria da poeti! E i poeti, si sa, sono un genere sfibrato. Ci vuol altro per un maschio che ha fame! E un maschio, se è sano e ben pensante, ha sempre fame. Ci vuol roba da ficcarci i denti senza arrivare all'osso…. Non sono un sentimentale io, ma, se pretendete d' intenerirmi, datemi un seno da affondarci la faccia…. È l'unico modo per farmi sentire un certo non so che di purezza infinita…. Non protesti, marchese!… Proprio: di purezza e d' infinito, come quando si sta sdraiati su una barca che si culla alla deriva…. La stessa sensazione…. C' è l'ebbrezza, c' è l'estasi, c' è il profumo….»

Ruggero gli versò un bicchiere.

«Vostra Altezza dimentica la sua cura….»

Arturo arrovesciò la testa, e vuotò d'un fiato.

«L'altra notte, a Ròscopa…. Ah, come son forniti quei la…. L'altra notte, a Ròscopa, me n' è toccata una da far perdere la sinderesi….»

«Altezza, non ci scopra gli altarini di Ròscopa!» esclamò Leonardo.

Ruggero appoggiò:

«Qui siamo lontani dalle tentazioni. Non ci corrompa!»

«Un altro bicchiere?»

«Corrompere, corrompere…. Ma se è la valvola migliore di sicurezza!… Vedete me. In tre notti, avrò dormito quattr'ore: e oggi ho camminato quanto voi. Avevo l'aria d'essere stanco, Stefanolo?… Eppure la notte di Ròscopa ci debbo aver lasciato qualche oncia di midollo, perchè….»

Un tinnìo di vetri infranti, e Bouturline che levava una mano insanguinata.

«Che c' è?»

«S' è fatto male?»

Pietro, pallido, s'era alzato. Gli altri lo imitarono.

«Niente…. Ho rotto il bicchiere. Non so come…. Forse nel posarlo sulla tavola….»

Ruggero esaminò la ferita.

«Due millimetri più addentro, e bisognava che mi mettessi io a ricucirti.»

«Ma no, ma no, non è nulla….»

«Sta' fermo. Làsciati fasciare….»

Pietro strappò dalle mani di Ruggero il rotolo di garza che questi aveva già preparato con la boccetta dell' iodio.

«Quando ti dico…. Macchè disinfettare!…. Faccio da me.»

«Ah, tenente, tenente!» si rammaricò Arturo per burla «Noi stanotte si parte, ma vedrà che ad Almo non ci torniamo vivi!… Ieri quel maledetto pipistrello, eppoi i morti in teleferica; e adesso lei che ha corso pericolo di svenarsi…. Marchese, cosa fa?»

Leonardo, con mossa solenne, versò un mezzo bicchiere di vino sulla tovaglia.

«Questo, Altezza, porta fortuna.»

Wanda osservava Bouturline che abborracciava in fretta e alla peggio la sua fasciatura.

«Vuol permettere a me?»

Pietro trasali. Porse la mano. E Wanda, nell'adoprarsi intorno alla piccola ferita, avverti l' impercettibile tremito di lui.

«Le duole?» gli domandò.

«No.»

Bouturline voltava le spalle agli altri, e i loro occhi si incontrarono. Ella fu la prima a riabbassare le ciglia sulla sua opera d'infermiera.

«Troppo stretto così?»

Ma non lo guardò.

«No, va benissimo.»

«Ecco fatto.»

«Grazie, Altezza.»

Mezz'ora dopo, Bouturline e il principe Arturo di Wallemburgo coi due compagni eran già ripartiti alla volta di Almo.

La missione militare che si recava in Vertoìza era comandata da un colonnello, e comprendeva una diecina d'ufficiali: tra gli addetti, anche il duca di Varo. Nel raggiungere gli altri al luogo d' imbarco, egli ebbe una sorpresa gradita: il treno su cui si trovava era pieno di marinai che tornavano dalla licenza; alla penultima stazione eran rimasti fermi un pezzo perchè la macchina era guasta, e Valentino, nel percorrere la banchina di su in giù, pose mente a una voce che si levava cantando da una vettura e cui il coro rispondeva con gaio tumulto. Le canzoni a ritornello si susseguivano senza stanchezza, e il duca, a un tratto, sorrise.

Mi chiamo Venustria, son terra d'eroi….

Ricordò la sera della dimostrazione a Tàllusa, e il giovinetto biondo dagli occhi limpidi e immensi che aveva giuocato le guardie: il cantore era lui. Parve a Valentino, nel momento d'allontanarsi dalla patria, che fosse quello un richiamo di tenerezza e di passione, e che, per quella sola voce, si fendesse finalmente la scorza del silenzio che gli fasciava l'anima. Lo riprendeva una febbre di gioia e di dolore, di memorie e di sogni. Per la prima volta, dacchè era partito in guerra; per la prima volta, dacchè non altro che inerte amarezza e sconfinata solitudine imperavano nel suo cuore: quando pur il lineamento delle battaglie gli appariva estraneo alla volontà eroica che nei tempi della preparazione lo aveva trascinato; quando pure nel furor disumano dei pericoli e della fatica egli provava una sensazione di freddezza e d' inutilità; quando il pensiero di Franca era l'unico che vivesse per lui, ma vano e triste come un superstite in mezzo a una regione di spettri.

Mi chiamo Venustria, son terra d'eroi….

Gridare, gridare; empir di grida il vuoto; riafferrare una fede e uno scopo; risentirsi vivo in mezzo ai vivi con un palpitante tesoro di giorni avvenire che aspettano, di giorni trascorsi che tornano: ieri e domani: è il ritmo stesso del sangue e del respiro, è la vicenda perpetua che dona eterna gemmante ricchezza alle spighe della terra e alle acque del mare, ed è la sola forza che salva dalla morte lo spirito.

Combatti? Dunque vincerai, perchè volesti Ia guerra, e vuoi la vittoria. Ami? Dunque sei amato, perchè non è possibile che la tua anima tutta, intiera e sincera, sia delusa ed irrisa.

Il viso angelico di Franca s' imporporava d'un caro rossore umano; il simulacro scendeva dal suo piedistallo. E il ricordo di lei riassaliva Valentino con una trepida commozione di gratitudine, con una speranza ansiosa, con un sentimento di assoluta e confidente dedizione. Franca gli voleva bene. Perchè, perchè ritenere irraggiungibile questa divina promessa? Franca gli voleva bene. Che valevano le ghiacce ambiguità ch'egli aveva patito da lei? Che valevano, se tante volte gli occhi miracolosi avevan traversato le sue vene con isguardi traboccanti di dolcezza?… Ripensava ai felici vaneggiamenti, quando sulla sera, rincasando, egli sognava sapendo di sognare.

«Ella è nel mio studio, e mi aspetta. Mi dirà: “Valentino!…”; mi tenderà le sue mani, mia, per sempre; si lascerà prendere tutta dalle mie braccia e dal mio cuore, mia, per sempre; mi darà le sue pàlpebre, perchè io le baci, pallide e soavi; mi darà le sue labbra, perchè io senta di più, fino allo smarrimento, fino allo spasimo, che ho sete di lei, da tanto, tanto tempo; mi darà la sua bocca, riso di bellezza, riso d' infinito: mia, mia, mia…. Come la ringrazierò? Le dirò: “Ti adoro.” Le ripeterò: “Ti adoro.” La vestirò, la stringerò, la difenderò, la adornerò con questa parola: “Ti adoro….» Franca, Franca!… Così bella, bianca, bionda, dolce, e tutta mia!…»

Sognava, sapendo di sognare. Franca gli voleva bene.

«Ti ricordi, amore?… C' incontrammo, una volta, in una città che non era la nostra. T' invitai a concedermi qualcuna delle tue ore. Venisti. Ci ritrovammo in un giardino alto su un colle, proteso a guardare il formicolìo d'un milione di uomini nella marea immensa degli edifici e delle case. Ma tra tutti, nella città e nell'universo, non altri che tu vivevi per me. Eri seduta contro una spalliera fitta di verzure, e ti sollevasti, vedendomi, con un moto di grazia, con un sorriso tenue e esitante. Scendemmo. Ti dicevo delle cose che non mi interessavano. Lo sentivi; e sapevi perchè. Sostammo in una saletta frequentata da ospiti stranieri: si udivano parole ed accenti che non erano della nostra lingua, e questo ci isolava anche più. Fumo di sigaretta. Aroma di bevande eleganti. E le tue mani bianchissime, e il tuo gesto per liberare la bocca dal velo. Pensavo che tutti dovessero guardarti, e mi offendeva l'attenzione che ti prodigava un signore con le basette e la rosetta blu infilata all' occhiello. Quando uscimmo, mi lasciai guidare da te, per conoscere un luogo che ti piaceva. Palazzo Massimo. Una facciata curiosa perchè seguiva la strada in una linea di curvatura convessa: bruna e severa, incastrata di qua e di là, ma senza stacchi di risalto, alle costruzioni vicine. Tre scalini rustici e stretti, per raggiungere il loggiato d'un breve portico aperto che non aveva nulla di notevole. Eppoi, infine, ciò che mi avevi promesso. I due cortili di palazzo Massimo. L'aria grigia che scendeva dal cielo rannuvolato non era un dono passeggero della mutevole luce: no: sembrava anch'esso, quel grigio morbido e uguale, una suppellettile del luogo, un dado alto e rettangolare di atmosfera che si colorisse così e si respirasse così soltanto là dentro; e riempiva il vano come d'un'arcana eppur visibile presenza, e s'appogggiava aderendo alle superfici, e penetrava gli angoli e i ripari con una permeabilità delicata ed unita. Morbido, uguale, dominava su tutto. Chi ha detto, Franca, che il grigio è uno scialbo colore, e ingenera monotonia e fastidio? Non è vero. Forse nessun altro ve n'è che serbi sotto il suo velo cinereo una sì possente e ammirabile varietà. Anche i tuoi occhi erano fatti grigi, e io dovevo più fissamente guardarli perchè vi riscin tillasse alla mia vista la piccola stellatura dorata. Le pietre del pavimento vaste e consunte aprivano il varco, tra le commessure vetuste, al disegno regolare d'un'erbetta rasa e profonda, e il disegno si ripeteva più ricco e sinuoso lungo le mura fendute, dove le schiumature del musco e degli arnesi ferrigni s'allargavano luccicando. Inchiavardature di resistenza; anelli e bracci per le torce. Qualche bizzarro altorilievo spezzato di cornici a rosoni e a spirali. Le andane e le altane, sospese alle pareti, parevan tra le colonnette e gli intagli celare il mistero d'una chioma accesa come la tua, d' una mano bianca come la tua, quando la dama spiava l'arrivo dell'amatore per sùbito gettargli il fiore del suo sorriso. Chioccolava una fontanella, echeggiando. E non c'era posto per altre voci…. I primi spruzzi della pioggia ci colsero ch'eravamo ancor là. Palazzo Massimo. Ricordi, Franca?… Poi ci avviammo, piano, vicini: e il contatto della tua persona profumata; e il tuo quieto volto, dolce e sommesso; e il tuo silenzio intento, un po' triste, quando ti dicevo che eri tanto bella, da doverti ringraziare di questa bellezza che esprimeva l' infinito…. tutto, tutto, Franca, m'è rimasto nel cuore. E non dicevo: “Ti amo.” E ti dicevo “lei”, come sempre t' ho detto: “lei”: piccola insormontabile barriera che permetteva a me di parlare e a te d'ascoltare. La pioggia veniva giù, violenta; ma il cielo s'era strappato d'azzurro in più punti, e lo scroscio luminoso cantava come una fanfara di primavera. Ci riparammo sotto la tettoia vetrata sporgente sulla porta d'un albergo. S'avvicinava il tramonto, e s'annunziava il sereno. Ricordi?…»

Anch'egli ricordava. Che importa? La vita non è forse ricordo? L'attimo che passa non è in umano potere, se non quando lo avvinghiamo nella memoria: allora soltanto risorge, vero, vivo, nostro.

Mi chiamo Venustria, son terra d'eroi….

Il treno aveva ripreso la sua corsa; il canto non si udiva più. Ma Valentino lo risentiva sonoro nell'anima: e il canto ridava voce a tutti i dolcissimi inganni. Egli si apparecchiava ad abbandonare la sua terra con un cosciente sentimento di nostalgie e di speranze.

Quando arrivò sulla marina, sommergibili torpediniere e legni leggeri da guerra stazionavano nella rada scogliosa. Trovò i compagni. Il colonnello Rosalbini gli fece una cordiale accoglienza, e gli spiegò subito qual'era il luogo dov'erano diretti, e il loro còmpito: che consisteva nel proteggere la famiglia reale di Vertoìza e trarla al sicuro fuor dei confini del regno durante una strategica ritirata che doveva da quella parte lasciar libero il campo all'Altamagna. Avrebbero attraversato il mare con un convoglio di torpedinere.

«Si parte sotto buoni auspici.» gli disse il colonnello «Muove di qua una bella impresa. Segreta. Ma certo grandiosa, perchè Marino d'Anghelos la conduce.»

«Marino d'Anghelos?…»

Fu così che il duca di Varo potè vedere il poeta. Lo incontrò sulla punta della diga schiaffeggiata dalle onde e spazzata dal vento. Era con un compagno, ed ambedue portavano mantello e casco da marinaio, neri lucidi e grevi come fossero stillanti d'acqua: della medesima statura, non alti, il duca dovè avvicinarsi per riconoscere quale dei due fosse d'Anghelos; e riconobbe anche l'altro, il giovinetto biondo del canto.

«Polotto Sparanich, studente.»

Tutto l'azzurro che il vento agitava in cielo ed in mare si specchiava limpidissimo nei grandi occhi del ragazzo. Aveva una voce pura e ridente, e, nella voce, un accento rapido e dolce, vivido spiraglio del suo dialetto ciarliero ma senza rettorica. Evidentemente il poeta si compiaceva di sentirlo parlare: ed anche all'orecchio di Valentino quell'arguta abbondanza d'eloquio suonava balda e sicura come solo può essere se viene da una superata e diritta esperienza e da un cuore intatto ed acerbo. Ricorreva frequente nel suo discorso un' invocazione intercalare che aveva tutta la morbidezza confidente d'una benedizione che si chiede e che si riceve: “Mamma mia.” Il duca ne fu colpito, e non avrebbe saputo dirne il motivo, perchè in bocca di tanti altri questa medesima parola è un vezzo cui non si bada o che attedia. “Mamma mia”: con tutto quell'azzurro negli occhi, con quel baleno di riso giovine e forte, col misterioso destino annidato al di là della cerulea lontananza in quella opposta riva per ove scoccava la segreta impresa guidata da Marino d'Anghelos. “Mamma mia”: il primo fiore che sboccia sulle labbra dei fanciulli.

Polotto Sparanich era stato in licenza, ma sul territorio di Venustria, perchè non poteva passare i confini del suo paese guardati dagli usurpatori d'Altamagna; ed aveva affidato agli amici il suo povero testamento d'affetti: la cura della madre; ch'era rimasta di là, nella patria da redimere, col suo gran cuore paziente e devoto.

Il giovinetto precedè d'Anghelos.

«Arrivederci.» disse al duca, stringendogli la mano.

Quando si fu allontanato lungo la diga, piccolo punto nero tra due orli instabili e veementi di spuma, Marino esclamò, pensoso:

«Tornerà?… Ha in sè una ricchezza immensa. Tanta, che non potrebbe spenderla intiera nemmeno dove siamo avviati, dove, come per tutti i combattenti, la morte si paga a gran prezzo. E sarebbe un peccato, perchè un'energia così può sanare tra gli uomini molte debolezze e molte miserie morali….»

Prese a braccetto il compagno, camminando con lui.

«E voi, Valentino?…»

Lo guardò.

«Avete gli stessi occhi…. Non mi sfuggite!… Il filtro magico opera ancòra su voi.»

Non insistè.

«Rammentate?… Scendevamo da Vezio verso Tàllusa, quando ci siamo visti l'ultima volta. Ma ora soltanto viviamo, perchè dicono i Santi che la fede senza l'opera è morta. Voi mi incuoravate a parlare, a rivelare al popolo la verità. Temevo di peccare d'orgoglio. No. Capii che dovevamo, io e chi sentiva come me, far sì che non potesse dirsi a noi la dura parola di riprensione: “Maledetto sia tu che tacesti.” Non più tacere. Gridare con cento migliaia di lingue, e che, per tacere, non fosse guasto il mondo. Eccola, la verità. Sprizza dal sangue; e il sangue inebbria, fortifica, scalda e illumina l'anima della verità. Non lo provate anche voi sul campo di battaglia?… La verità risplende, come una gemma. Chi non la vede esclude da sè il maggior tesoro, nega l'anima propria: e, gettata fuori la pietra preziosa, altro non è che un sacco pieno di sterco, cibo di morte, e cibo di vermi. Ridiamocene, Valentino, ridiamocene di costoro. Non c'è tempo che di riderne, ora che abbiamo da menar le mani. Tornerà, pur troppo, il giorno in cui dovremo riprendere la fatica delle parole, più terribile e più amara di queste presenti che sopportiamo. Ma vinceremo, Valentino, vinceremo anche senza convincerli. Li spazzeremo via col fiato, gli ingombri vergognosi, e rinnoveremo l'aria.»

Quando il duca ripensò a queste e all'altre cose dettegli dal poeta, sceverò la duplice impressione ch'esse gli producevano. Oro sincero, senza dubbio; ma, sopra il luccichìo del metallo schietto, un sovrapposto luccichìo d'orpello. Come giudicare quell'uomo? Valentino si rendeva conto che molti dovevan riceverne un urto spiacevole: il troppo agghindamento ha volto di falsità. Ci sono spettacoli di natura che ti colpiscono: insueti disegni di nuvole, e toni di colore, e qualità di luci che tu ammiri senza sospetto; ma se un pittore te li stende fedelmente sulla tela, rimani freddo e perplesso, e non ne senti più la purezza; dici: “è manierato.” Udendo d'Anghelos, lo spirito di chi ascoltava non pativa irrequietudini: si placava nel vigore spontaneo del costruttore armonioso, e s'animava di coraggio e di fede, riconoscendo ch'egli portava nell'operare la medesima ardente volontà che suonava nella sua voce, riconoscendo che la fatidica pienezza delle sue parole si traduceva intiera nell'atto inspirato. Ma i lontani che ascoltavano echi e riferimenti di quei discorsi ne traevano esca, se erano avversarii, a proclamare l'artificio e l' istrionismo. Valentino pensava:

«Le parole furon trovate perchè gli uomini comunicassero tra loro e meglio conoscessero gli scambievoli bisogni e i sentimenti. E son doventate invece la più opaca barriera tra cuore e cuore d'uomo. Piccoli segni melodiosi e misteriosi, chi troppo vi ama si perde nella musica che esprimete. Il vostro torto è d'esser musicali, mentre pur significate le cose concrete. Voi siete buone e pacate amiche, utili ed obbedienti a chi vi domanda di dire soltanto quello che dite. E siete dolci — oh, sì!—, ma tormentose irridenti e infide per colui che, sentendo in voi ebbrezza di sapori odori e splendori, vi chiede di più, e vuol costringervi a farvi possenti e infinite, impalpabili e soavi, impetuose e canore, sottili e vanenti come l'eterna terribile bellezza che vince i sensi e in cui l'anima affiora e si sommerge. Chi vi intende così, molti altri uomini non lo intendono: tra essi e lui, al di là del vostro significato, si versa un'onda di armonia che è per lui chiara ed espressiva o è divina tortura, e per essi è nulla o è un ostacolo. Parole, parole…. Fatale ammonimento quando la Sibilla vi componeva scrivendo le vostre lettere su foglie staccate che si rimescolavano e sparpagliavano lievi al vento, tremendo e segreto oracolo dietro cui turbinando si avventava la vita degli uomini. Strumenti materiali dovete rimanere perchè il perpetuo giuoco sibillino non sia una rovina; ma, se vi fate sangue e spirito, ecco, tutto il mondo si riempie di melodia, e nei crolli del fragore e del clamore, e ne' brividi de' canti e dei sospiri l' instancabile cuore si riconosce e si smarrisce, crea e discioglie la propria vicenda come al vento le foglie di Sibilla, e, parimenti, è cieco al suo destino….»

Senza avvedersene, egli era scivolato nel commento di sè stesso. Parole?… Erano state l'unica espressione del suo amore. Note nell' infinito: consolanti a volta a volta e struggenti. Non aveva voluto dirle: “Ti amo.” Non poteva più dirle: “Ti amo.” Epperò tutto doventava carezza per lei, tutto spasimo di lei. “Ti amo.”: in quel bacio Valentino avrebbe còlto l'universo….

In Vertoiza la missione militare di Venustria si divise. I più degli ufficiali si posero a capo di forti contingenti alleati per guidarne la manovra di lenta retrocessione sotto i colpi degli avanzanti eserciti d'Altamagna, e il colonnello Rosalbini e il duca di Varo raggiunsero la famiglia reale incamminata verso l'esilio. Triste convoglio di portantine slitte e cavalli: varcava gli altipiani e forava le gole delle montagne, sopra le vie nevose e difficili, mentre anche tra cielo e terra, tra bianco e bianco, il grigiore fioccante metteva il freddo nelle ossa e la malinconia nelle anime. Re Alessandro era vecchio e ammalato. Lo assistevano le figlie, Màriza e Anna. I due aiutanti del re si chiamavano Demetrio Gyka e Nicola Condùlos. Gyka era principe. Condùlos, invece, un ufficialetto da niente. Ma ambedue provati: fedeli e devoti fino alla morte. Valentino visse una vita inattesa, accanto a gente diversa. Alcune volte, guardando il corteo di cui faceva parte, gli sembrava d'esser miracolosamente capitato in una vicenda di tempi remoti e leggendarii. Il gelo e la neve cricchiavano sotto le peste, ma intorno era alto il silenzio e denso come una fascia. Sì che i costumi ricchi e pesanti di ori e di ricami, le bardature vistose delle bestie e le fogge pittoresche dei tràini parevano il sigillo d'uno scenario irreale. A quando a quando incontravano torme di altri fuggenti; e un dolore muto e rassegnato incombeva, agguagliando nella misera sorte il monarca di Vertoìza e il suo popolo. Re Alessandro, ancòra possente nella persona come una quercia abbattuta, mostrava, dalla slitta o dalla portantina in cui stava sdraiato, il viso pallido e fermo in mezzo alla gran barba fluente. Le principesse si davano il cambio nella cura del padre; e, quando l'una era con lui, l'altra spesso cavalcava nel gruppo degli uomini. Talvolta Gyka o Condùlos cantavano, e, se il cantore era Condùlos, gli occhi del re e della principessa Màriza si empivano di lagrime: Valentino non comprendeva le parole; sentiva bensì la nenia dolce e stanca fendergli il cuore, farsi voce d'esilio, carezza, sospiro, singhiozzo desolato. Nicola Condùlos, piccolo di statura, elegante e snello di membra, aveva un profilo nobile e delicato; e mani bellissime, agili e bianche. Nelle soste del viaggio, la sera, Alessandro lo pregava di prendere il liuto. Le capanne ospitali erano povere: il lume a olio posato sulla tavola diffondeva sotto la campana di metallo un cerchio basso di luce. Nicola Condùlos, in piedi tra gli ascoltanti, riceveva a mezzo il petto il taglio tra ombra e chiarore, e le sue mani sole parevano vivere e splendere sullo strumento bizzarro frangiato di corde e di denti metallici. Tutti tacevano, come nel tempio. Màriza s'inginocchiava accanto a suo padre, e nascondeva il volto contro i cuscini.

Una notte Valentino sorprese senza volerlo un colloquio tra Màriza e Nicola.

«No, no.» diceva lui «Se fate questo, metterò fuoco al convento e vi rapirò.»

Ella parlava in dialetto, ed egli, ora, le rispose in dialetto. Poi, nella lingua che il duca di Varo conosceva:

«Siete la mia colomba ferita, e avete ferito il cacciatore. Non dovevo alzare gli occhi su voi, Màriza, mia principessa, io misero soldatuccio….»

Valentino non ascoltò di più, perchè ebbe modo di ritrarsi senza destare la loro attenzione.

L'altra principessa, Anna, era maritata; e mal maritata, a quel che il duca potè capire. Bella e fantastica, non si curava di nascondere la sua intimità con Demetrio Gyka. Soltanto il re non sospettava di nulla, e riponeva in Demetrio una cieca fiducia, prediligendolo sopra tutti.

Il colonnello Rosalbini si divertiva un mondo a curiosare e a comunicare a Valentino le proprie scoperte e le proprie supposizioni.

«Le donne, le donne!…. Questa, per consolarsi della cattiva riuscita coniugale, aveva sotto mano Condùlos e Gyka. Come spiega lei che abbia scelto Gyka? è principe, ma è rozzo da parere un pastore; e l'altro, quando cavalca e quando suona, si giurerebbe venuto fuori da una schiera d'arcangeli o disceso da un coro di serafini. Scommetto invece che Condùlos si strugge per la vergine Màriza. Màriza zoppica un po', ha notato? Non è brutta, ma io preferisco Anna. Màriza mi fa l'effetto d'un cero; e Anna d'una torcia accesa….»

Rideva, urtando scherzosamente nel gomito il duca di Varo.

«Fortunato mortale! Non s'è accorto che Anna le prodiga una specialissima attenzione?… Eh, eh!… Se avessi vent'anni meno, parola d'onore, mi ci proverei io a soppiantare il principe pastore!…»

Valentino lo lasciava dire. Rosalbini era uno di quegli uomini che dell'interlocutore si servono unicamente per avere la scusa di parlare; sicchè il duca molte volte non ne seguiva nemmeno il filo del discorso.

«La zoppina se l' intende con Nicola Condùlos. Quando Nicola canta, se lo beve con gli occhi. E chi sa che cosa snocciola costui, con quella voce e con quelle canzoni che mettono i brividi nel fil delle reni!… è un dialetto impossibile, e non se n'azzecca un'acca. Ma è così maledettamente dolce che, se ti dicono un'insolenza, la scambi per un complimento. Ieri gli domandai di tradurmi i singhiozzi melodiosi dell'altra sera. Sciroppo. Se li sentissi con le parole nostre mi volterebbero lo stomaco per la loro candida stupidità. In quel bailamme pieno di zuska e di gloika pare il canto dell'usignuolo. Si rammenta il ritornello?… La principessa Anna guardava lei, tutte le volte che Condùlos lo intonava. Zuska, zuska…. C'era questo zuska che tremava come un invito sulle ciglia e sulle labbra di Anna; per lei, tenente…. No, no, non protesti. Mi rendo conto, mi rendo conto…. Sa che cosa vuol dire quel ritornello? “Se fossi vento ti rapirei, se fossi onda t'avvolgerei; son bocca e occhi, ti guardo e ti bacio.” Stupidino, noh?… Il principe Gyka è paziente: se l'avessi io un'amante come Anna, la morderei per ogni sguardo che non fosse mio. Ha le pupille che bruciano. Non è già un incendio, lei, fortunato mortale?…»

Infatti la principessa Anna s'era incapriccita di Valentino. Egli non poteva amarla. Fosse stata un'altra donna e altre fossero state le circostanze, il giovine si sarebbe certo lasciato vincere dall'impeto dei sensi, e l'avrebbe presa. Ma abusare della doppia qualità in cui si trovava presso re Alessandro, ospite e mallevadore, era un tradimento che non gli garbava Inoltre Demetrio Gyka doveva essere innamorato sul serio, perdutamente, con una debolezza e nello stesso tempo con un attaccamento da schiavo. E lei, Anna, non era tale da saziarsene materialmente senza darle niente di più. Epperò quegli occhi che lo cercavano, e quell'abbandono che gliela stringeva addosso se l'occasione voleva ch'egli le porgesse il braccio, e quelle parole audaci e ardenti che gli alitavano sul volto come lusinghe o come sfide eran tutte cose che lo tenevano in uno stato di scontenta irritazione.

Una volta ella gli mostrò un giornale di Venustria, una vecchia copia serbata per un articolo sulla poesia popolare in Vertoìza. Conteneva anche, troncato a metà, un trafiletto mondano a proposito d'un ricevimento a corte. Tra quelli degli intervenuti c'era il nome del duca di Varo. Anna gli accennò la raccolta sonante della schiera femminile. “Principessa Orabile Jese, donna Alessandra Jese, duchessa di Monterosso, principessa Gloria di Cerito, contessa di Marbello, marchesa di Pietracamela, marchesa Ribaudo, principessa Della Falce….”

«Chi è o chi era, di queste, la sua amante?»

E insisteva:

«Contessa di Marbello…. Nella vostra lingua c' è una canzone che dice “mare bello” o “bello mare….” Si respira qualche cosa di fragrante. Contessa di Marbello. è lei?»

Il duca rise, e le spiegò: aveva ottant'anni, ed era sorda. Anna non si diede per vinta. Lo tormentò perchè commentasse ogni nome. Giunse a quello ch'era fitto nel cuore di Valentino.

«È bella?»

«È bella.»

«Giovine?»

«Sì.»

«Bruna?»

«No, bionda.»

«Più bella di me?»

«Altezza, i paragoni sono odiosi. Anche la principessa di Cerito, anche la principessa Jese, e la marchesa Ribaudo, e la principessa Della Falce sono giovani e belle.»

«Giuri che non è la sua amante.»

«Giuro.»

«Su che cosa?»

«Su tutto quello che vuole.»

Una pausa.

«Le donne dei suoi paesi, del resto, non sanno amare. C' è un proverbio, da noi, che dice: “Se ti amo ti vesto di fiamma, se ti odio ti copro di cenere.”»

Lo guardò, cupa; abbassò la voce:

«Vorrei seppellire il suo ricordo sotto tutta la cenere del mondo.»

Spronò il cavallo, e raggiunse Demetrio.

Una notte — bivaccavano in una fattoria — Valentino uscì. Il cielo, per la prima volta dacchè egli si trovava in Vertoìza, s'era aperto, e miriadi di stelle turbinavan nell'alto. Il paesaggio, così squallido e monotono fino ad allora, acquistava un gelido sorriso di purità, riscintillante intorno come se anche la terra fosse disseminata di stelle. Anna lo raggiunse.

«Non avevo più sigarette.» gli disse «Ho sentito lei che usciva, e son venuta per chiedergliene una.»

Le due sigarette furono accese: piccole luci rossastre tra le mille e mille che gemmee costellavan gli spazii. Tacquero a lungo, camminando un po' distanti l'una dall'altro; e posero mente anch'essi ai minuscoli fuochi che palpitavano sulle loro bocche spandendo un aroma dolce di tabacco.

«Ci parliamo così.» ella disse infine ridendo «Le sigarette sono eloquenti. La sua è nervosa: si distrugge a tratti, con rabbia. La mia è inquieta: vorrebbe, quando la respiro, versarmi nel sangne un'ebbrezza che mi stordisce.»

Il duca non rispose, e gettò l' infido segnale luminoso fatto di fumo e di profumo. Anna gli si avvicinò, gli prese il braccio. Consumò fino all'ultimo la sigaretta, ma non rimise il guauto.

«Supponiamo che una donna volesse fare una dichia razione d'amore. Difficile, noh?»

Valentino tentò di prendere in ischerzo la frase pericolosa.

«Sempre difficile. Per tutti. Tanto, che bisogna pensarci due volte, e la seconda non se ne fa più di nulla.»

«Non è vero. La prima si pensa che sarebbe come accostar le labbra a un calice pieno di rugiada. La seconda si ha l' impressione di affacciarsi sull'orlo di un abisso. E la vertigine è prepotente. Sarà una rovina?… Non importa. Si chiude gli occhi, e ci si lascia andare.»

Gli poggiò la testa sulla spalla, pesandogli sul braccio e contro il fianco, impacciandogli il cammino. Egli sentiva penetrarsi nei nervi il tepore ferino delle pellicce, il calore odoroso della donna. Si fermò. Anna gli venne tutta sul petto.

«Valentino!»

«Anna!»

Aveva alzato il viso, ma egli non la baciò.

«Anna, Anna, è male questo che facciamo….»

«Perchè?»

«Perchè….»

Ella indovinò le parole arrestate dall'esitazione.

«Non mi ama?»

Il duca si sciolse. L'offerta di quel corpo vibrante e profumato lo sconvolgeva. Le parlò con rudezza:

«Amore?… Amore significa troppe cose Anche questa brutta e avvilente: “Ieri non ti desideravo, domani non ti ricorderò. Ma ti sento qui, sei bella, e ti prendo perchè mi bruci le vene.” Così?… No, eh? No, eh?…»

Anna taceva. Egli le afferrò la mano nuda, se l'accostò alla bocca: scottava come per febbre; la baciò, la morse. Sentì sugli occhi il fiato di lei che s'era chinata e lo cercava…. In quel punto uno scricchiolìo di passi stridè sulla terra gelata. Valentino udì, e staccò da sè la donna riluttante. Non ebbe tempo di avvertirla, perchè Anna non lo ascoltava, e, delusa, offesa, lo minacciava.

«Ti odio, ti odio. Pagherei un uomo che ti uccidesse.»

D'un tratto si accorse anch'ella che l'uomo era là, nell'ombra; e lo riconobbero: Dometrio Gyka.

Un attimo di silenzio, che parve un'eternità. Poi Demetrio si volse alla principessa, le indirizzò in dialetto una domanda breve e aspra. Nessuna risposta. Allora gli zuska e i gloika — come diceva il colonnello Rosalbini — si susseguirono dolci tristi e pressanti nella lunga supplicazione di Demetrio, incomprensibile al duca. Anna, immobile, non disserrava le labbra: curva nella persona, quasi raccolta in sè, Valentino la intravedeva nell'atto d'una belva che stia per spiccare uno slancio d'assalto. “Un uomo che ti uccidesse….” E l'uomo era scaturito dalle tenebre, amante e geloso, e un cenno di lei gliel'avrebbe scagliato contro senza misericordia. Il giovine soffocò la tentazione di metter mano alla rivoltella: una morte così sciocca no; pure, egli non poteva per primo disegnare il gesto aggressivo, perchè non capiva nulla del discorso di Demetrio. Il quale finalmente, non ottenendo sillaba da Anna, mosse un passo verso Valentino.

«Debbo dunque domandare a lei….»

Una collera fredda faceva sì ch'egli scolpisse le parole, decise e lente. Non finì. Anna gli s'avvicinò, gli pose una mano sulla spalla, e la sua voce tranquilla, un po' ironica, un po' altera, dominò l'ansia dei due.

«Buonasera, Demetrio. Lì per lì non vi avevo riconosciuto; e dopo non vi ho risposto sùbito perchè quello che avete detto mi ha mozzato il fiato, tant'era fantastico e inatteso. Salutate il duca di Varo, dunque.»

Demetrio indugiava. Allora Valentino disse per primo:

«Buonasera, principe.»

Anna mormorò rapidamente qualche cosa in dialetto; e l'altro si rassegnò a stendere la mano.

«Buonasera.»

«È una bella sera, anche.» aggiunse la principessa con accento lieve, quasi che il suo fosse un giuoco distratto «Gelida e brillante. Sembra che, a sparare una pistolettata contro l'alto, il cielo debba fare cric e rompersi come un cristallo…. Me ne ricorda un'altra, così…. Non è molto tempo, e certo voi, Demetrio, ve ne rammentate. Eravamo inseguiti e cercati da pattuglie di cavalleria. Fummo costretti a frazionare la comitiva e a disperdere in questo modo le nostre tracce. Demetrio ed io, su una slitta: volavamo. Un'ombra nera, giacente, ci attraversò la strada. Lo salvammo, lo prendemmo con noi: un nemico ferito. Se lo avessimo lasciato curandoci soltanto di risparmiare i minuti, sarebbe morto assiderato. Gli facemmo grazia della vita, dunque. Non gli valse. Morì poco dopo, di peste.»

Il duca di Varo accendeva una sigaretta.

«Dove si vede» esclamò «che la vita e la morte non sono nelle mani dègli uomini, ma in quelle di Dio.»

Demetrio Gyka fece volare, con la punta ferrata delle scarpe, uno sbriciolìo di duro nevischio. Rise crudelmente.

«Secondo!… Non ha mai sentito lei la vita di un uomo sulla bocca del suo revolver o sull'ago del suo pugnale?»

Anche questa volta Anna intervenne.

«Il duca ha ragione, Demetrio. Dio. Essi che sono civili se lo rappresentano sovrumano, al di fuori delle passioni, imperscrutabile nella sua potenza. Noi che siamo quasi barbari lo mescoliamo al nostro furore e al nostro dolore, lo facciamo umano e vendicativo e selvaggio.»

Ripetè, come una testimonianza o come un giuramento:

«Dio!»; poi si scrollò in una lunga risata «Noi saltiamo di palo in frasca, con questi discorsi. Anche i figli dell'aria, gli uccelli, fanno così; e seguono il loro destino…. Riaccompagnatemi, Demetrio. E a lei, duca, grazie della sigaretta. A buon rendere!»

Si salutarono senza stringersi la mano; e Valentino rimase solo. Era irritato contro sè stesso, sentendosi, pur involontariamente, attore in un mediocre melodramma. Non ci sarebbe mancato altro che domani il cavallo montato della principessa Anna prendesse la fuga, e che lui, Valentino, con rischio personale le salvasse la vita. Pari e patta: come in un romanzo. Se non fosse stato un creare impicci al colonnello Rosalbini e un aver l'aria di fuggire davanti alle minacce e alle tentazioni, avrebbe volentieri richiesto d'essere esonerato dal suo ufficio. Lo riafferrava il tedio contro tutto e contro tutti. Un pensiero, un solo; un palpito, un solo…. Che vale? L'irraggiungibile s'allontana anche più, e ci si frammette il peso inutile della vita che bisogna pur vivere giorno per giorno fatta di vicende che non interessano e mordono o rimordono quasi fossero volute e degradanti falsità. In quei momenti il ricordo di Franca lo spaventava, così ostinatamente vivo e implacabile in mezzo all' inerzia che gravava da ogni parte il suo spirito. Spavento vero, che lo ghiacciava. Proverebbe la medesima sensazione un morto che miracolasamente acquistasse la consapevolezza del proprio stato, e niente altro che quella: sentirsi morto.

Rientrò di malumore, e trovò in camera Rosalbini che lo aspettava.

Nel frattempo era arrivato il corriere che raggiungeva il re e i suoi compagni dove e quando poteva; e l'ordine era che a ciascuno, in qualsiasi ora, fosse consegnata la posta. Rosalbini aveva tra mano i giornali di Venustria. Eccitatissimo, quasi piangeva e quasi rideva. In fretta, un dietro l'altro, squadernava i fogli stampati e indicava alla rinfusa articoli e passaggi.

«Cose da pazzi, cose da pazzi!… M' è entrata addosso la febbre…. Da una parte santa pazzia, dall'altra pazzìa criminale…. D'Anghelos, un grande!… Dicono che i poeti non sono uomini d'azione?… Imbecilli!… Per ordinare questa impresa ci voleva una praticità, un sangue freddo, una lucidità…. Per Dio, che uomo d'Anghelos!… Entrargli in porto, tranquillamente, far saltare due navi, far saltare un deposito formidabile di munizioni…. E quel ragazzo ch' è rimasto là, e l' hanno preso, e ha avuto tanto animo da ribellarsi resistere e non lasciarsi legare fin quando non ha lanciato il razzo d'allarme: che segnava per lui la morte, e la salvezza per i compagni…. Non hanno capito, non hanno capito quei bestioni maledetti d'Altamagna! Non hanno capito l' immensità d'un eroismo così. Impiccato, impiccato!… E che processo atroce!… Polotto Sparanich! Un nome che ora passa e romba sulla patria come una ventata di gloria…. Impiccato! E lo scempio del cuore di sua madre e del suo cuore di figlio…. Cristo e la Vergine: non c' è altri esempi.»

Il duca di Varo aveva ricevuto nel petto una martellata. Due titoli riddavano sotto i suoi occhi: “Orrendi particolari sull' impiccagione di Polotto Sparanich.” “Il martirio di una mamma.” Ebbe l' impressione che tutto l'azzurro del mondo fosse spento, pensando spente le pupille del giovinetto che specchiavano il cielo ed il mare. “Mamma mia, mamma mia….” Gli tornava negli orecchi la voce rapida e dolce…. Che avevano fatto alla mamma di Sparanich?

Rosalbini parlava e leggeva.

«Empietà, empietà…. I selvaggi non hanno raffinatezze altrettanto crudeli…. Sparanich scende dalla torpediniera. Prodigio non mai visto: una torpediniera sola, minuscola, che penetra come una freccia, come la folgore, nelle difese più segrete e munite del nemico. Un pugno d'uomini sulla torpediniera, ma invincibili e forti più di mille eserciti. L'unico che conosca i luoghi è Sparanich, carne e sangue di quella terra. Diciotto anni e il suo nome, non ha altro: tutta la vita per sè, e il nome segnato sui registri d'Altamagna sotto la condanna della forca. Scende. Hanno regolato gli orologi: tic, tic, tic: è il loro stesso cuore che batte. Alla mezzanotte e dieci minuti tre esplosioni, mirabilmente, beffardamente simultanee. Due navi e la polveriera. Gli ordigni hanno agito come volontà di uomini; la volontà degli uomini come ordigni precisi. Il crollo della polveriera è opera di Sparanich. Egli s'affretta verso il riparo stabilito, per raggiungere la torpediniera. Lo vedono, lo inseguono, gli sono addosso. Si difende da leone, finchè non riesce a mandar su, nel cielo, il segnale luminoso. Quando la costellazione delle stelle rosse si smorza e si perde, quando egli ha così la sicurezza che i compagni s'allontanano a tutto vapore tristi d'averlo dovuto abbandonare alla sua sorte, allora si placa, si lascia ammanettare, percuotere, sputare…. Pensi, tenente, pensi!… Che forza aveva costui? Che padronanza, che placidità di animo, che fermezza di movimenti mentre parava i colpi degli assalitori e compiva intanto tutti i gesti necessarii per accendere il razzo?… Dio doveva lasciarla eterna nel cielo, quella costellazione miracolosa!… Sputato, insultato, percosso…. Come i santi, come i santi!… Non rivela il suo nome, per evitare alla madre persecuzioni e peggio. Ma uno spione schifoso lo denunzia…. Il solo serpente in veste d'uomo che abbia affermato di riconoscerlo. Gli altri pochi che lo hanno riconosciuto, tacciono. E l'Altamagna ghermisce con le grinfie la madre, la porta davanti alla creatura che ha palpitato nel suo ventre, che ha succhiato il suo latte…. Sacrilega imposizione di testimonianza…. Non un muscolo trasale. La voce fredda risponde: “Non lo conosco.” è la prima, è l'unica, è l'ostinata parola, dopo ch'egli ha detto: “Buona signora, vogliono imporle una prova ridicola. Lei ha un figlio della mia età, che si chiama Polotto Sparanich. Condannato come disertore, sa che lo cercano per ammazzarglielo. Se pensa a lui, lei trema di certo o piange, vedendo me che le ricordo il suo ragazzo. Non ci pensi, dunque; e mi guardi, mi guardi bene senza tremare e senza piangere per persuadere questa gente che non mi ha visto mai, che non mi ha visto mai.” E la madre rinnega il figlio davanti ai carnefici. Due volte: questa, e quando la spingono nel cortile, e nel cortile c' è la forca, e sotto la forca lui. Crede che sia un'altra prova. «Non lo conosco.», mentre il boia tenta la corda, mentre il condannato sale gli scalini, mentre il nodo gli accalappia la gola, mentre la voce squilla cantando: “Mi chiamo Venustria, son terra d'eroi….” E la terza volta non lo rinnega più. La voce s' è strozzata, la gola si spezza, il corpo penzola…. “Figlio mio! Figlio mio!” Forse Polotto Sparanich ha sentito l'urlo della mamma, che se l' è ripreso così, suo, suo in faccia a Dio e in faccia agli uomini, se l'è ripreso morto…»

Rosalbini singhiozzava.

Di Polotto Sparanich, d'Anghelos aveva detto: “Ha in sè una ricchezza immensa. Tanta, che non potrebbe spenderla intiera nemmeno dove siamo avviati, dove la morte si paga a gran prezzo.” Invece sì: l'aveva spesa intiera, e così veramente immensa da far tremare il cuore degli uomini, inesauribile nei secoli, gloriosa nell'eternità.

L' imperatore di Bremislavia non aveva che una debolezza: sua figlia. Per lei avrebbe spezzato qualunque delle tante catene che lo inchiodavano sull'altissimo trono; per lei non rammentava più d'essere quello che era, cioè una statua dí granito issata sopra il gran dominio dei mari e delle terre. Era padre come pochi dei comuni e liberi mortali sanno esserlo. Ed ella lo adorava, e si fidava di lui megli che di sè stessa. Da questa confidenza e da questa tenerezza era nato tra i due il complotto per la felicità di Elisabetta. Sapendosi serbata a qualche principe ignoto e indifferente, la fanciulla aveva spesso patito nell'anima dolorose ribellioni. Troppo retta e troppo stretta ai doveri della sua casta, non aveva mai sognato di infrangere la sua prigione dorata per conquistarsi l'amore…. E, d' improvviso, era volata la fama prodigiosa del granduca Stefanolo di Planacomba; e le eran fiorite sotto gli occhi le cento e cento immagini che effigiavano il giovine eroe principesco. Non fu agevole, ma neanche difficilissimo che l' imperatore concordasse con i suoi uomini politici l' idea del matrimonio. Arturo di Wallemburgo era stato spedito, ed era tornato dimentico della prima dubbiosa impressione e tutto acceso d'entusiasmi per il piccolo duca. Restava lo scoglio di quei sei mesi dopo la guerra. Ma Elisabetta trovò che Stefanolo aveva perfettamente ragione, e l' imperatore persuase gli altri che, in fin dei conti, Stefanolo poteva anche aver ragione. Così, prima di stringere e pubblicare la convenzione d'alleanza tra Bremislavia e Venustria, l' imperatore volle conoscere personalmente il granduca di Planacomba e che questi ed Elisabetta si vedessero e si parlassero.

L' incontro ebbe luogo in un paese meridionale, su un golfo perennemente tiepido. Costanzo, non potendo allontanarsi dal campo di battaglia, aveva conferito pieni poteri diplomatici e fiduciarii al marchese di Pietracamela. Il quale, insieme con Ruggero di Cerito e con Azzarìa, accompagnava Wanda nel viaggio angoscioso. Giunti alle dieci di mattina, per il mezzogiorno era fissata la colazione d'onore sulla nave imperiale.

Incominciava per la regina la tremenda partita — non quella del sangue, non quella della fatica, nè dell'orrore, nè della stanchezza —, la tremenda partita dell'anima che ha coscienza di camminare sul baratro d' inferno, e non può arretrarsi, e non può deviare. Vide due occhi neri in un viso pallido di camelia, frangiati dalla cortina spessa e lunga delle ciglia; sentì, sfiorandola con le labbra, una piccola mano trepida e tremante. Aveva promesso a sè medesima di mostrarsi gelida e sgradevole. E non seppe mai rammentare che cosa disse e come si comportò durante gli ottanta minuti di quella prima tortura. Non era finita. Arturo di Wallemburgo sollecitò un colloquio da Leonardo di Pietracamela. Il fermo desiderio dell' imperatore esigeva che Elisabetta e Stefanolo si intrattenessero da sola a solo, e che, dopo l' intervista, dicessero ambedue la loro irrevocabile decisione: o sì o no. Leonardo adoperò invano tutta la propria abilità per evitare a Wanda il pericoloso tormento, e la sera stessa, alle dieci, dovè accompagnarla un'altra volta sulla nave. A bordo li accolse il principe Arturo.

«L' imperatore è in questo momento alle prese con l' implacabile protocollo che lo perseguita fin qui.» egli spiegò con un sorriso di malizia «C' è Elisabetta che, se volete, vi riceverà. Faccio strada io, eh?»….

E dentro di sè pensava:

«È più bravo a fare il guerriero che il pretendente.»

Quando giunse in una sala ampia e brillante di luce, lustra per gli intarsii dei legni preziosi e ricca di addobbi, si fermò. Indicò una porta di cuoio che spalancava i suoi immobili occhi di cristallo tondi e politi.

«È là che legge. Entrate pure.»

Ma, mentre Wanda e Leonardo avanzavano, egli arrestò il marchese agganciandogli con la mano il braccio.

«Un sigaro?… Sono eccellenti. Dopo, raggiungeremo Stefanolo.»

Due passi soli aveva ancora da muovere la regina, e un gesto solo — quello di spingere i battenti —, per trovarsi in faccia a Elisabetta. Non più che un attimo. Eppure ella attraversò con lo spirito un fiotto lungo e tempestoso di pensieri. “è là”: aveva detto Arturo. Un cuoricino attonito e ardente aspettava il primo brivido, il primo spiraglio del gran mistero: l'amore. “è là.” Una creatura ignara, protesa con tutto il meglio di sè — sogni, pudore, speranze — verso chi doveva dirle la parola: “Ti amo”. Profanazione più cruda non s'era forse mai data.

E la porta si schiuse, e la porta si riabbattè alle spalle di Wanda. Ella vinse l' impulso che l'avrebbe gettata ginocchioni, ingollò il singhiozzo che le stava aggrappato nella gola. Ed Elisabetta che non leggeva, ma era in piedi rivolta verso l'uscio, vide dinanzi a sè un giovinetto pallido e biondo, immoto, che pareva miracolosamente emerso dalla nebbia delle fiabe. Fu lei la prima a parlare, e vi riuscì chiamando a raccolta il suo povero coraggio.

«Vi ringrazio d'esser venuto.» disse; e confessò bravamente: «Ho desiderato io di parlarvi.»

Silenzio.

Il povero coraggio tremava.

«Vi è dispiaciuto?»

Wanda fece ripetutamente di no, di no col cenno del capo: non avrebbe potuto pronunziare una sillaba. Le venne accanto, si chinò a prenderle una mano, e, invece di baciarla, v' impresse forte la fronte, quasi che così le fosse stato possibile trasfondere una disperata supplica di perdono. Ma l'altra non sapeva, e quell'atto d'umiltà e quella tacita commozione le immisero nelle vene un sussulto, trafiggendola di non mai provata dolcezza.

«Stefanolo!»

Smarritamente Elisabetta si liberò.

L'anima di Wanda sprofondava in un baratro, ed ella non aveva controllo di sè, nè di ciò che si diceva, nè di ciò che accadeva. Il terribile inganno allacciava il piccolo cuore attonito e ardente senza che Wanda vi ponesse alcun riparo, tant'era sconvolta. Aveva udito, aveva anche risposto: ma non ricordava più. Ora si trovava seduta presso Elisabetta, più in basso di lei, quasi ai suoi piedi. Ed Elisabetta diceva:

«Io ho voluto parlarvi, ho voluto sentire la vostra voce, lontana dall' ingombro degli estranei, pura dalle convenzionalità cerimoniose…. E Dio sa con che ansia vi attendessi!… Quasi il pentimento m'assaliva d'avere osato chiedervi tanto!… E temevo che voi veniste a me con un volto troppo franco per essere sincero…. No, no. Voi tremavate, e i vostri occhi mi hanno detto tante cose…. Vi ringrazio, Stefanolo, vi ringrazio….»

Doveva esserle molto penoso parlare, sebbene quelle parole esprimessero il suo sentimento. Ma il primo silenzio tra una fanciulla inesperta e l'uomo ch'ella ama, anche se l'uomo ha l'aspetto d'un cherubino, è una delizia che si confonde col terrore. Ed Elisabetta si afferrava alla propria voce come un naufrago alla trave. Fragile difesa, che la stancava, perchè — nate in paesi lontanissimi — ambedue usavano per comunicare una lingua che non era la loro: sì che involontariamente l'affanno di Elisabetta si ghiacciava in una forma troppo tornita, precisa, senza esitazioni verbali. Bisognava venirle in soccorso: Wanda lo capì, e s' impose con violenza di strapparsi al doloroso trasognamento in cui soffocava. Amore!… Difficile argomento per lei che ne aveva sì breve esperienza, e conosceva due facce sole del mostro: quella candida e intenta come un'ala, miraggio della pura impetuosa e ignorante fanciullezza; e quella ambigua e beffarda che bacia senza curarsi dell'anima. Difficile argomento! Wanda avrebbe dovuto placare, ed era ella stessa assetata; dominare la barra del timone, ella, incerta e sperduta. Amore!… Un triste velo, ma lieve al pari d'un'ebbrezza, si stendeva dinanzi ai suoi occhi che guardavano Elisabetta; e le sembrava che una musica senza note, nostalgica e bramosa, fluttuasse nell'aria e penetrasse sottile sottile nell' intimo delle fibre.

«Elisabetta, quello che dite mi commuove. Voi meritate la felicità. E la felicità è la cosa più rara che esista al mondo. Temo per voi, temo che vi inganniate. Voi non sapete chi io sono. Perdonatemi. Vorrei, ve lo giuro, che mi vedeste il cuore. E forse v'apparirebbe diverso da come lo immaginate. Esistono periodi di vita in cui non si è ciò che siamo abitualmente. Sul campo di battaglia quasi nessuno è sè stesso. Domani, quando la guerra sarà finita, vi meraviglierete se condanneranno un ladro o un assassino che pur fu decorato per l'eroismo della sua condotta militare. No. I combattenti non sono più gli uomini degli altri giorni, ma torneranno ad esserlo; e allora guai per coloro che li avranno conosciuti ed amati soltanto in quella veste…. Che cosa vi seduce di me, Elisabetta? Il coraggio ha oscure radici, e, scavandole fino in fondo, non è difficile trovarci la disperazione. Il favor popolare è un fiato di vento: quando passo in mezzo alle acclamazioni dei miei soldati ho paura, perchè con lo stesso furore di tempesta potrebbero abbattermi se sapessero tante cose che non sanno. La fortuna è bella a guardarsi: ma di fuori; e anche sotto il sorriso l'anima può spasimare. Tutte mutevoli esteriorità, vedete, che, dopo, non trovereste più in me. Pensateci, Elisabetta. Abbiamo nelle mani il destino dei nostri popoli; non per quello che vale la nostra persona, ma per le complicate esigenze della politica. è un dovere immenso. Pure, ne esiste un altro: il dovere verso sè medesimi. Il vostro, Elisabetta, è di non contaminare la freschezza del palpito che oggi vi persuade nell'animo un sogno d'amore…. Troppo alto, Elisabetta, troppo alto perchè possa avverarsi nella realtà! Mi basta sentirvi così nobile e cosciente, sentirvi così diritta e pura, per indovinare i tesori che avete in voi. Dovete donarli e spenderli, sì, ma in modo che non abbiate a pentirvene mai…»

S 'interruppe. La principessa, fino ad allora attenta ed immobile, lagrimava silenziosamente.

«Piangete?… Elisabetta!… Perchè?»

Temè che, per quella domanda, ella scoppiasse in singhiozzi. Invece no. Era forte; e schietta. Dominò il pianto. Rispose:

«Dunque giudicate il mio atto come una leggerezza!»

Le tremava negli occhi un dolore così accorato, ed ella rivelava le sue impressioni con tanto onesta e modesta confidenza, che Wanda ne ricevè le parole acute e mordenti dentro il cuore. Povera, povera bambina! Tutta limpida; nessuno scudo contro la doppiezza che la minacciava. L'anfora di cristallo tra le punte di ferro.

«No, cara, no. Comprendetemi. Leggerezza la vostra? No…. Il dono impetuoso che offriamo di noi a diciotto anni è sacro. Non leggerezza. Illusione. Si pensa: “Per sempre.” E si crede, sì, d'avventurarsi su un occano; ma di soavità. Si prova, sì, lo smarrimento dell' ignoto; ma è dolce…. “Per sempre.” Oh, Elisabetta! Nè dolcezza nè soavità durano eterue. Un attimo. Si volta la pagina, e il libro della vita — così coerente, così semplice fino a ieri —, non lo riconosciamo più. Io vi supplico, vi supplico, cara, di ritrarre un'altra volta in voi stessa quello che avete dato a me. è la vostra luce che mi illumina. Richiudetela in voi. Serbatela. La via è troppo lunga ancòra. Aspettate di sapere bene chi io sia, di sapere se è degna di me la vostra devozione….»

Wanda avrebbe dato in quel momento tutto il suo sangue, per mettere in guardia la giovinetta. Non poteva gridarle: “Sàlvati!” Non poteva affidarle il suo segreto. Non poteva dimenticare ch'era là per compiere un'azione di guerra, più atroce dell'assalto a corpo a corpo, più fredda della fucilerìa che si parte dall' imboscata, implacabilmente sottomessa alla suprema legge per la salute della patria.

Un gelo nel petto, eppoi la percossa della volontà. S' interruppe. Cadde il calor della preghiera; la voce si fe' misurata c fredda.

«Obbedire alla fortuna dei nostri popoli. Voi sentite al pari di me che non dobbiamo sottrarci. Pubblichiamo il nostro fidanzamento. Ma non scambiamo nessuna promessa, tra voi e me. Il tempo è maestro di tutte le cose; e, se lo lasciamo operare, forse c' insegnerà la strada che dovremo tenere.»

Le lunghe ciglia di Elisabetta si erano abbassate, e fremevano in un battito frequente. Ella non parlava. Spiegazzava il suo piccolo fazzoletto, stirandolo contro il ginocchio. Wanda ora non sapeva più che dire, tormentata da quel silenzio. La chiamò con dolcezza:

«Elisabetta?»

E la principessa trasalì, drizzò gli occhi, mentre un sorriso tenue e triste, un sorriso d'angelo a cui abbiano spezzato le ali, la scolorava.

«Se vi parlo nella mia lingua, mi capite?»

«Molto poco. Troppo poco, temo.»: e l'accento di Wanda restava dolce, pieno d'un affetto ch'era di compatimento e che l'altra non poteva interpretare così. «Vi è difficile esprimervi?»

«Piuttosto. Non importa. Cercherò le parole. Daltronde è una cosa semplice.»; sorrise ancora, più tristemente; parve raccogliersi un istante; poi domando; «E perchè non volete saperne di me, vero?»

Wanda esitò: non sarebbe stato meglio mettersi per quella via, ed ottenere un patto dal quale l'amore esulasse?… Ma l'amore era là: aveva il volto candido e intento di Elisabetta, e Wanda non poteva guardarlo senza sentirsi presa da una fonda tenerezza, dal ricordo di sè stessa, dai sogni antichi, dal divino smarrimento dei giorni lontani. Rispose:

«No. Non è vero.»

E si vide scrutata lungamente dagli occhi limpidissimi della fanciulla.

«Forse siete sincero.» mormorò questa; e dopo un momento: «Allora?…»

Avrebbe voluto essere aiutata, ma, poichè Wanda taceva, riprese:

«Guardate. Mi fido di voi. Vi dico tutto. Ho capito, ho capito ciò che mi proponete: un accordo politico diverso da quello che si aspetta il governo del mio paese. Se….» arrossì, eppur proseguì coraggiosamente «Se voi foste per me un principe qualsiasi, designatomi dagli altri e impostomi da convenienze e da convenzioni diplomatiche, ebbene, vi direi di no egualmente, che non voglio diventare la vostra complice. Avete invocato il dovere che ci stringe alla fortuna dei nostri popoli. Per me questo preciso dovere è di acquistare un successore al trono di Bremislavia…. Perdonatemi se vi parlo così: la lingua che adopro tanto male è pesante come una pietra. Mi pare che trasformi tutti i miei sentimenti, e che i miei sentimenti, passandomi per la bocca, si facciano odiosi, aridi…. Non so. Ascoltatemi. V' ho detto che mi fido di voi…. Il secondo dovere che avete invocato è il dovere verso sè stessi. Vi prego, Stefanolo, comprendetemi senza obbligarmi a dichiararlo. Io…. io mi avvelenerei l'anima, accettando che il mio nome corresse il mondo legato al vostro, accettando di mentire uno stato di felicità, accettando che gli ignari mi ricamassero e ribadissero intorno, ora per ora, la santità d'una promessa d'amore, se poi tutto questo non sarà, e se io lo so, so che tutto questo non è e non potrà essere mai.»

Si alzò. C'era vicino a lei, pendulo in un sostegno mobile che calava dal soffitto, una gran vaso d'erbe vivide folte e riboccanti: vi nascose la faccia, per ispegnere la fiamma del rossore e la prepotenza del pianto. E disse, offrendo il suo dono come se domandasse scusa d'una colpa:

«Vedete che non posso rispondervi sì; e che sono costretta a negarvi la prima cosa che mi chiedete.»

Dono immenso del suo cuore di vergine innamorata.

Wanda piegò il volto tra le mani.

«Elisabetta!… Elisabetta!…»

Il dolce veleno s' insinuava nel sangue di ambedue. Quel nome ripetuto — lenta e fonda carezza — creava nell'una il brivido ignorato, ridestava nell'altra lo spasimo d'una sete antica e mal saziata.

Wanda sentì sfiorarsi i capelli, si sollevò, imprigionò le dita fini e tremanti, le baciò ad una ad una.

«Elisabetta!… Elisabetta!…»

Dal richiamo sorgeva la malinconica novella d'amore: “la novella di quella Elisabetta che amava un giovinetto, e gliel'uccisero i fratelli segretamente; ed egli le apparì in un sogno e mostrolle dov'era sotterrato; ed ella ritrovò il corpo dell'amante e gli spiccò dallo 'mbusto la testa e la mise in un vaso con la terra e dentro vi piantò il basilico e l' innaffiò di pianto e lo crebbe così con le sue lagrime….

«Elisabetta!… Elisabetta!…»

Oh, perdutamente malinconica novella d'amore!… “Avvenne una notte che, avendo lei molto pianto l'amante che non tornava, ed essendosi alla fine piangendo addormentata, l'amante le apparve nel sonno pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi, e parvele che egli dicesse: o Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare, e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue lagrime veramente accusi: e perciò sappi che io non posso più ritornarci, perchè i tuoi fratelli m'uccisero; e le disse che più nol chiamasse nè l'aspettasse….

«Elisabetta!… Elisabetta!…»

Bugiarda invocazione; falso suggello…. E lei, Wanda, aspetto bello e gentile agli occhi di Elisabetta, Wanda si sentiva vivere in cuore, thiaccio e allucinante, lo spettro pallido e tutto rabbuffato del vero Stefanolo, del fratello chiuso nella remota prigione di Planacomba. Vanamente Elisabetta lo avrebbe poi chiamato, vanamente lo avrebbe aspettato….

In piedi l'una di fronte all'altra, così presso che i loro corpi si toccavano, con le mani allacciate, con le pupille fitte nelle pupille in un incontro lungo struggente e quasi insostenibile di sguardi, ormai non più stava in potere di Wanda correggere la sorte. Elisabetta s'abbandonava nella vertigine misteriosa; e Wanda respirava in lei, per la prima volta, una dedizione sincera ingenua pura sconfinata. Inganno per ambedue: per la fanciulla che adunava senza sospetto tutto il suo amore sulla creatura che le era vicina; e per la donna che in lucido delirio misurava e accumulava le insidiose sottigliezze riunite a congiura, quella sera, per farle disperatamente amare l'amore. Piccola dolce e indifesa, Elisabetta si offriva alle braccia di Wanda: un gesto solo per serrarsela sul petto, un gesto solo per rivelarle l'esistenza del bacio che prende le labbra la bocca il fiato e sugge l'odore e il tepore della carne e dell'anima, un gesto solo per traversarle la persona intatta col presentimento della voluttà…. Resistè alla torbida e indegna tentazione, si domandò con terrore da qual parte fulmineamente ne fosse stata assalita. Il disgusto di sè la oppresse, ma peso e sprofondato giù con tutti gli ingombri ch'ella gettava in basso, in basso, lontani, perchè non gravassero alla superficie, ora che soltanto alla superficie ella doveva vivere vivere e vivere, di mille vite, e nessuna che fosse la sua…. Accarezzò la fronte di Elisabetta con atto fraterno, lievemente; si distaccò; cercò di riacquistare il dominio della propria volontà per annodare il meno possibile le maglie della rete in cui la giovinetta s'era impigliata.

«Resteremo lontani un gran tempo, cara; e Dio solo sa quello che il tempo matura. Bisogna promettermi d'esser quieta e ragionevole: ossia non pensare di me tutto il bene che voi pensate, nè darmi tutti i vostri pensieri…. Il destino è attaccato a un filo di ragnatela: che non può sostenere tanta ricchezza. Mi parrebbe, se sapessi che la vostra anima intiera è con me, di non poter più affrontare con la freddezza che mi è necessaria il rischio continuo, e le responsabilità, e le difficoltà…. Se mi amate un poco non dovete amarmi troppo. Nulla è cambiato da ieri a oggi. E non vi sembri una sconoscenza da parte mia. Lasciatevi persuadere, Elisabetta, che nulla è cambiato. Siete ancòra nel sogno, come ieri: quando lo spirito è un seme al vento di primavera, e alita e vola inebbriato di profumi e di musica e tutta la terra gli appare, in ogni punto, un ricettacolo di bellezza e di serenità…. Siete ancòra nel sogno, Elisabetta, e ancòra il vostro spirito vola senza essersi posato. La realtà è sempre più brutta. Ed è la realtà quella che squassa il mondo. Io so che cos' è. Epperò vi prego, vi prego, Elisabetta, di non concederle nulla. Vi sarà facile. Non avete nessuna notizia certa di me, nè delle mie attitudini, nè delle mie abitudini. E voi siete così pura e trasparente come un sorso d'acqua. è dunque un sogno il vostro di stasera, perchè l' ignoto non ha contorni, non ha saldezza; è un sogno il mio, perchè la sincera freschezza che mi offrite appartiene al regno delle cose soavi ed impalpabili che l'esperienza non ha nè precisato nè corrotto. Bisogna promettermelo, cara, e bisogna mantenere la promessa. è vero?»

Elisabetta aveva ascoltato con sommessa e fervida attenzione. Non capiva esattamente quel che dovesse promettere e perchè. Si sforzò di intendere: la voce che la richiedeva era tanto dolce, e tanto gravi e misteriosamente strette alla sua anima le parole che avevano detto: “Se sapessi che siete tutta con me, non potrei affrontare il rischio e le responsabilità….”, ch'ella voleva penetrare e contentare la grave e dolce richiesta. Pure, un oscuro timore la riteneva da ogni domanda: inconsciamente ella già difendeva l'amor suo anche contro l'amato.

«Che io vi pensi come vi pensavo prima. è questo?»

Wanda si sentiva schiacciare da una sfiduciata e mortale stanchezza. Finirla, finirla….

«è questo.» rispose.

Questo che cosa?… Non avrebbe saputo più dire. Stupì che la furia procellosa del suo rimorso, della sua perfidia, delle sue ribellioni, del suo affanno, della sua volontà potesse dissolversi a un tratto in due sillabe fioche e inconcludenti. Questo che cosa?… Nulla. Eterna accolta di fantocci, l'umanità: non sono essi, gli uomini, che si muovono liberamente; l' invisibile tirannia del filo li comanda e li condanna: non lo sanno, non se n'accor gono, epperò è terribile in loro lo sforzo di conciliare le azioni e i risultati con le idee e con i sentimenti; e, se cercano, se si ostinano, vedono innanzi a sè la barriera del vuoto: nulla. A Wanda, fatta ingiusta dai colpi dell'aspra fortuna, pareva che tutto precipitasse nel baratro immane e senza fondo. Nulla. E guardava Elisabetta, e udiva Elisabetta, meravigliandosi che a questa sconsolata e assoluta persuasione la giovinetta non si arrendesse; e che il piccolo cuore fosse ancòra attonito e intento; e che gli sguardi, il rossore e la voce di lei manifestassero una trepida gioia commossa.

«Ve lo prometto, Stefanolo. Come prima. E non potrei diversamente, perchè mi siete apparso secondo l' immagine che m'ero fatta di voi. Buono e un po' triste, senza spavalderìa. Vi desideravo così, perchè così dicevano che eravate, e così avevo imparato a volervi bene….»

La principessa sorrideva: la confessione le faceva battere le tempie e i polsi, le affrettava il respiro. Quando per la prima volta si può dire: “Ti amo”, si crede di porgere un gran dono, e non si sa che la parola “ti amo” è assai più dolce a chi la pronunzia che a chi l'ascolta. Inorgoglita dall' illusione del gesto liberale, la piccola anima acquista baldanza, e non si stanca di dare, perchè dare conferisce una specie di superiorità su colui che riceve. Ma la piccola anima è inesperta, e mentisce a sè stessa un'autorità e una fermezza che è ben lungi dal possedere.

«Triste. Un'ombra sul volto e sugli occhi, più intensa di quella che caratterizza la vostra figura stampata in cento e cento ritratti. Allora immaginavo che, se m'aveste voluto bene anche voi, l'ombra si sarebbe dissipata, per incanto. Non più triste, Stefanolo. è la promessa che io vi domando. E giuratemi, giuratemi che sarete prudente. Io pregherò per voi. La vostra vita è preziosa, ricordatelo. Avete minacciato che vi smarrireste, sentendo il mio cuore sul vostro. Mi studierò di farlo leggero leggero. Non lo sentirete. Sopporterò qualsiasi sacrificio, pur d'avere la sicurezza che vi guardate dal pericolo, e che sarete sempre coraggioso e intangibile. Qualsiasi sacrificio, Stefanolo. Come dimostrarvelo?… Desiderate che non ci scriviamo nemmeno?»

Aspettava che le si dicesse di no, e che l'avvolgesse un turbine delizioso di proteste e di invocazioni.

Wanda invece disse:

«Avete indovinato, Elisabetta. Saremo più forti ambedue.»

La giovinetta vinse l'urto del disappunto, ed accettò rassegnatamente il dolore che gliene sarebbe derivato.

«Va bene, Stefanolo. è un sacrificio immenso. Lo capite?… E per voi no? Per voi non è?… Lo capite?…»

Si protendeva tutta, assetata di bere le eterne parole. Era bella, giovine, soave. Un'altra volta vicine fino a toccarsi, sembrava a Wanda che le sue braccia avrebbero stretto un fascio di fiori fragranti. Le cinse le spalle: vide gli occhi illuminarsi sotto il fremito delle lunghe ciglia, vide la bocca lampeggiare in un divino sorriso; e la chinò contro di sè, obbligandola a nasconderle sul petto quegli occhi e quella bocca. Allora soltanto la baciò: nei capelli, mèsse viva e odorosa. E l'allontanò subito, quasi con violenza, perchè la fulminea dolcissima trafittura ch'ella aveva sentito serpeggiare nel corpo della vergine le apparve come una orribile profanazione.

«In voi sta decidere, Elisabetta. Mi conformerò in tutto e per tutto a quello che mi farete comunicare dall' imperatore.»

Era già nell'altra sala, e sollecitava Leonardo, badando appena al principe di Wallemburgo. Il quale, dopo averli accompagnati fino alla scialuppa, tornò sotto coperta, curioso di notizie. Intravide Elisabetta in lagrime, e seppe dal cugino che tutto andava per il meglio e che Elisabetta era felice. Arturo caricò la pipa, e pensò con soddisfatta giocondità che a lui, la Dio mercè, non era mai accaduto di far piangere una donna nel momento in cui le dichiarava d'amarla.

All'aperto, sotto le stelle, Wanda, invece di placarsi, provò più cocente il rammarico: e non solo della serata or ora trascorsa, ma dell' intiera sua vita. Tra pochi minuti il treno l'avrebbe riportata su, verso il rombo incessante. Aveva sognato, quando maturava il suo folle proposito, che, conduttrice di guerra, l' impresa l'avrebbe inebbriata in un perenne rinnovarsi di croiche vicende. Ahimè, ahimè!… Quale esistenza scialba e borghese non sarebbe stata mille volte preferibile? La regina aveva mosso popoli e fortune; ma questa sorte era piuttosto una distorsione di diritti e di doveri in cui il corso della vita non sapeva sboccare alla sua foce. Ella pensò ad Albano, e non mai così roventemente come allora, mescolando su lui odio e amore, bramosìe e repulsioni.

Nè Ruggero di Cerito nè Leonardo di Pietracamela riuscirono a cavarle di bocca altro che una molto sintetica informazione su quanto con ogni probabilità sarebbe stato concluso tra Venustria e Bremislavia. E dovettero, durante tutto il viaggio, rassegnarsi a vederla cupa e muta, sprofondata nella sua febbre.

Invece di passare per Almo, ella deviò: riferire in quei momenti a Costanzo il suo colloquio trionfante e miserando con Elisabetta era una cosa che la disgustava. Preferì telefonargli, e aspettare che il generale le facesse pervenire sul campo di battaglia le disposizioni e gli ordini da seguire per lo spostamento di manovra che necessariamente la guerra dichiarata di Bremislavia avrebbe portato nelle masse dell'esercito. Il messaggero di Costanzo fu Pietro Bouturline, latore di importantissime notizie militari, e designato compagno del piccolo duca nell' ispezione ad un aspro settore del fronte, dove gli accordi con quel comandante eran da prendersi di persona e dove Bouturline avrebbe dichiarato e particolareggiato le idee direttive del generalissimo.

Per la continua presenza di Leonardo e di Ruggero, a Wanda e a Bouturline non era mai capitato di rimanere veramente soli; ma Wanda, che dell' intervista con la principessa Elisabetta aveva serbato nell'anima e nella carne una piaga sanguinante, capì subito che per Bouturline l' inganno non era valso e che egli l'aveva riconosciuta e che l'amava. Lo evitò, lo trattò con freddezza, a volte perfino con insolenza, tanto molesta e torbida era la lusinga di sentire vicino a sè la possibilità che una voce pronunziasse il suo nome femminile — Wanda — con accento di supplica desiosa, e che le braccia di un amante innamorato le offrissero un rifugio nel quale dimenticare l'atroce e arida finzione, e ritrovarsi donna, finalmente, e farsi cullare proteggere baciare.

Una sera gli indirizzò una domanda brusca, senza relazione apparente con quello che era stato detto.

«Lei, Bouturline, è fidanzato, noh?»

Ruggero di Cerito aveva impreso l'elogio di Mimì Fontanarosa.

«Non sia così triste, tenente!» esclamò allora Wanda con un sarcasmo appena appena velato «Bisognerà farle avere un congedo speciale perchè le nozze si compiano sùbito.»

«No, Altezza. Non si deve mai affrettare il destino.»

C'era un pianoforte, nella casa dove pernottavano — una casa volgare, per metà smobiliata e in disordine, abbandonata in furia dai suoi abitatori nel periodo recente di un rabbioso bombardamento —. Wanda lo toccò, svegliando in qualche tasto ronzanti stonature.

«Oh Dio!… È uno strumento degno del mio castello di Planacomba. C' è un pianoforte là» e guardò Pietro «che vale questo.»

Il giovine non replicò sillaba.

«Ma lei è stato a Planacomba, mi pare?» insistè la regina.

«Infatti, Altezza.»

«Da mia sorella.»

«Altezza, sì.»

Una pausa.

Il marchese di Pietracamela e Ruggero erano occupati intorno ad una carta topografica e discutevano tra loro, senza badare alla conversazione dei compagni e senza sospetto.

«Suoni.» disse Wanda a Bouturline.

Pietro sussultò.

«Come fa Vostra Altezza a sapere che io abbia questa abilità?»

Ella non distolse gli occhi dagli occhi di lui.

«Suoni.» ripetè.

Bouturline obbedì. Attaccò il motivo d'una romanza appassionata, mentre dinanzi, appoggiata al pianoforte, Wanda lo guardava.

«È orribile!» protestò Ruggero ridendo e levando il capo dal lavoro «Non ho mai sentito squarci di singhiozzi così strazianti!… L'accordatore, per carità, altrimenti sveniamo!»

Pietro interruppe la sua musica, sbattè il coperchio.

«Parce sepulto!» borbottò scherzosamente Leonardo, e, sullo stesso tono, richiamò all'ordine Ruggero che si distraeva.

La regina si rincantucciò in un angolo, si fece accendere da Bouturline una sigaretta.

«Mi racconti una bella storia, tenente…. Anzi no, no: le storie belle non esistono, neanche a inventarle. La sua canzone diceva: “Vorrei morir per te….” L'autore se l' è inventata. Sarà un uomo, magari, che ripone il suo ideale in un fiasco di vino. Morire, morire…. Quando si vede tanta gente che muore, non so, mi pare che, restando cocciutamente immuni, s'acquista la disperata convinzione d'essere immortali. Ah, Dio, Dio!… Una cassa per dormire, e cinque palmi di terra per non sentire!… Guardi: ho sulla mano il segno della vita che si piega, si piega, netto, deciso, fin quaggiù, fino al polso…. Ottant'anni, novant'anni…. Quanti me ne conta lei?»

Stese la palma aperta; e rattenne a mala pena un grido, perchè Pietro vi aveva incollato la bocca. Tentò di liberarsi. Tremava di richiamare l'attenzione degli altri due.

«Vede? Vede che sono storie inventate?» continuava a dire, senza sapere che cosa, dissimulando perchè nè uno stacco di voce nè un improvviso silenzio facessero voltare Ruggero e Leonardo «No, sa?… L'eternità…. Perché l'eternità?… è un attimo. Un attimo rubato, cui non si consente, cui non si vuole cedere…. è odioso, è odioso….»

Bouturline distaccò le labbra e abbandonò la mano.

La mattina dopo, incamminatisi per raggiungere un posto avanzato, egli, pallido e reciso, trovò il modo di susurrarle:

«Badi che voglio parlare con lei.»

Nessuno, se non Albano, le aveva mai gettata una frase in cui fosse espressa la parola “voglio”. Ed a nessuno, mai, Pietro l'aveva indirizzata, egli che ora osava imporla alla sua regina come per un acquisito diritto di complicità. E quella parola li bruciava ambedue più che il bacio della sera prima.

Wanda era sconvolta: aveva paura di sè e di lui. Ostinatamente si tenne dappresso o Ruggero o Leonardo, impedendo a Bouturline di cogliere pur una rapida opportunità di discorso segreto. Daltronde la qualità della via, stretta tra la montagna e un alto muro raramente sfinestrato qua e là sopra la valle, era fatta apposta per concedere o per vietare un colloquio a due. Ma Wanda lo vietava, epperò Pietro dovè acconciarsi a precedere con Ruggero di Cerito, mentre a poca distanza seguivano la regina e il marchese di Pietracamela; Azzarìa, ultimo e solo, occupava con la gran possa della persona tutto il sentiero. Ogni tanto, dalla valle, il sìbilo delle schioppettate che bersagliavano le rade aperture del muro: lungo le quali i cinque strisciavano svelti, curvandosi un poco. Molti dei colpi — mal diretti i più — tagliavan l'aria oltre l'orlo della parete, sopra le loro teste, e andavano a conficcarsi nella schiena rocciosa del monte: qualche proiettile svettava le piante che si affacciavano al muro, e i rametti cadevano sulla via.

Pietro esercitava una fermezza e una volontà che non si era mai conosciute. Fitto nell'ossessione di parlare a Wanda, astutamente trasse Ruggero in un argomento per il quale occorrevano i lumi del marchese di Pietracamela. Perciò, quando il gruppo fu serrato e il principe di Cerito interpellò Leonardo, accadde con semplice naturalezza ciò che Bouturline aspettava. Ossia che egli rimase accanto a Wanda senza che questa potesse opporsi e destare la diffidenza degli altri che non sapevano. La regina affrettava il passo per non isolarsi troppo da loro, ma Bouturline le prese il braccio con un gesto che in vista non mostrava nessuna violenza e di cui Azzarìa che vedeva non poteva aver sospetto, e che pure, costringendola come in una morsa, la obbligò a rallentare. Wanda non si dominava più. Non gli diè tempo di cominciare; rapida gli disse:

«Mi lasci, mi lasci, o grido.»

Pietro la trasse invece più vicina a sè.

«Mi prometta d'ascoltarmi.»

«Ora no, ora no. Mi lasci.»

Il giovine la sentiva tremare: un tumulto di parole gli traboccava dall'anima, gli faceva impeto alla gola.

«Wanda!»

Ella si smarrì, udendo il suo nome. E Pietro vide che piangeva. Una pena acuta, una profonda tenerezza, un delirio di pensieri e di desiderii lo involsero. Ma Wanda supplicava:

«Mi lasci. Non capisce che il peggio è per me, se provochiamo una scena ridicola?»

Allora Pietro obbedì. Avrebbe voluto non tormentarla più, e che piuttosto le lagrime di lei si convertissero in gocce di sangue per lui, per le sue vene che gli dolevano. Tuttavia temè, se non le avesse strappato un consentimento, ch'ella lo avrebbe poi allontanato per sempre; e pregò:

«Mi promette di ascoltarmi?»

Wanda non poteva rispondere: una parola in quel momento sarebbe stata un fiotto di singhiozzi.

E camminarono in silenzio.

La piccola schiera avanzava per il sentiero. Nessuno dei compagni s'era accorto di nulla, nemmeno Azzarìa. Avanzavano. E gli schiocchi della fucileria — scintille crepitanti nel sordo boato d'un incendio — rimbalzavano nette sopra l'accordo cupo e lungo dei cannoni lontani.

Pietro guardava la regina, di tanto in tanto. Ella furtivamente si asciugava gli occhi, a poco a poco si riprendeva. Quelle lagrime e quello struggimento, del resto, non appartenevano a Bouturline: il quale era stato per Wanda l'urto occasionale perchè la sua chiusa angoscia si sfogasse. Ora anzi Pietro le appariva come un estraneo, e il saperlo là tutto ardente di speranze e d' illusioni produceva in lei un assai poco gradevole sentimento. Le dispiacque inscenare la necessaria spiegazione sùbito dopo aver mostrata tanta debolezza. Epperò, risoluta a mantenere l' impegno, finalmente gli disse:

«La chiamerò io. Parleremo. Anch' io voglio' parlarle. Non ora.»

«Ma….»

«Glielo prometto. Non insista.»

Sfuggì lo sguardo del giovine pieno di gratitudine e di passione; e si fermò. Bouturline, docile e felice, mosse più in fretta dietro a Leonardo ed a Ruggero; ma non si curava di loro, non badava a nulla: la sua mèta, la sua mèta vera gli splendeva nel cuore vicina e raggiante.

Il marchese di Pietracamela e il principe di Cerito, in quell'attimo, si volsero, facendo cenno verso il muro che, smozzicato da qualche rovina, era per breve tratto più basso. Nessun pericolo, perchè una statura d'uomo, curvandosi appena, trovava ugualmente sicura difesa dalle schioppettate che attraversavano la valle.

«Attenzione!»

Quindi, chinatisi un po', i due senz'altro passarono.

Allora Pietro Bouturline inoltrò diritto, celermente.

«Giù!» gli gridarono Leonardo e Ruggero che aspettavano di là.

Wanda respirò, perchè anch'ella era stata sul punto di sollecitarlo a guardarsi. Videro che Pietro s'arrendeva immediatamente all' invito: troppo: inginocchiandosi, d' improvviso. Poi piombò disteso in avanti. Una pallottola gli aveva forato le tempie.

“Mia cara Franca:

Non dico mica che tu abbia torto? È certo, sì, che i mezzi di veloce trasporto e le operazioni degli impiegati postali furono inventati anche perchè ad una graziosissima infermiera come tu sei giungesse nella sua pietosa relegazione la lunga lettera dell'amica ch' è obbrobriosamente rimasta nel fronte interno. è certissimo, anzi. Tutta quella brava gente — a cominciare da colui che meditando vide levarsi le spire del vapore su dalla pentola che bolliva, a terminare con colui che ultimo disegnò il più moderno fregio per i berretti degli ufficiali di posta —, tutta quella brava gente ha senza dubbio pensato ai tuoi capelli biondi ed al mio crin castano. Ma è faticoso scrivere, specialmente quando non si ha nulla da raccontare. Le lettere brevi sono le uniche che posseggano un contenuto: epperò, cara la mia predicatrice, non c' è da meravigliarsi se la tua penna me ne ha lanciate tre una dietro l' altra. Cesare che “telegrafa” agli amici: Veni, vidi, vici, dà il più bell'esempio di facile piacevole e concludente stile epistolare. Tu, nel tuo ospedaletto, vegli, tagli, cuci, medichi, fasci. Io, qui, non ho nessuna faccenda del genere. Sicchè mi tocca la lettera lunga, di coloro che non hanno niente da dire.

Sei soddisfatta del preambolo? Sarebbe come l'articolo di fondo che usava avanti guerra: contenta tutti. Ora non c' è da riposarsi nemmeno nella prima colonna del giornale, la quale regolarmente, e secondo il colore della direzione, contiene o un grido di vigilia vittoriosa con relativo carico d' ingiurie contro gli avversarii politici, o un ghigno catastrofico con palese armonìa dì vicendevoli contumelie.

Passo dunque al notiziario.

Miss Smedley, l'ombra della contessa di Marbello, ha avuto la scarlattina. La contessa se l' è assistita di persona; ma, ora che già la convalescente è a spasso senza pericolo di ricadute, è furiosa: la copre di scialli, la tormenta con le analisi — non logiche e non grammaticali —, e protesta che è sciocco esser rimbambite fino al punto di prendersi una malattia da “creature”. Miss Smedley è molto mortificata, e arrossisce…. oh, arrossisce! Figùrati che le è venuta la pellicina nuova: tenera, lustra, pare uscita da un istituto di bellezza. È una suddita di Bremislavia, come sai, epperò in questo momento, nonostante la scarlattina e i rabbuffi, gongola; e trova il fiato — pensa quanto ce ne vuole! — per incanalare nella tromba auricolare della sua signora le eterne contraddizioni in cui ormai si dilettano: perchè la contessa tratta dall'alto in basso gli alleati dell'ultim'ora, e la dama esalta la loro provvidenziale possanza. Corrono sempre; fanno più scale in un giorno che per salire la vetta dell' Himalaia; dànno la caccia alle famiglie dei richiamati; distribuiscono corredini, denaro, parole buone; e il popolo le adora.

Ho visto Valentino di Varo. Ma così poco e così male! Era da due giorni a Tàllusa, e non s'era fatto vivo. L' ho rimproverato: credo che il più del brevissimo tempo disponibile lo abbiamo passato io a lapidarlo e lui a scusarsi. Dopo me ne son pentita. L' incontro è avvenuto nella sala dell'Albergo Venustria. Io entro, disponendomi con pazienza ad aspettare la zia Bouturline e Costanzina che non sono mai puntuali. La famiglia Bouturline, tra parentesi, è una di quelle che durante i cataclismi nazionali chiudono casa e vivono in albergo. Andar su da lei mi seccava, perchè i bimbi di Costanzina che fanno la riverenza e baciano la mano con un garbino decrepito da scimmiette in parrucca incipriata mi insinuano nel cuore l'esecrazione per l' infanzia. Sicchè mi rassegno a sedermi tra le cestelle di vimini e le piante di palma e d'azalèa, nè mi colpisce l'unico compagno, perchè lo vedo alle spalle e perchè è vestito come tutti gli ufficiali che oggi popolano il mondo. Ma il solitario si volta, lo riconosco, e, puoi immaginarlo, mi precipito quasi nelle sue braccia. Peccato non averlo potuto fare davvero!… Le convenienze mi impongono di baciare la zia Bouturline quattro volte al giorno, se quattro volte la vedo, e mi vietano di abbracciare un amico a cui voglio bene come a un fratello. E dire che, sulla faccia moralissima della terra, un uomo e una donna, per permettersi questo, debbono essere amanti o sul punto di diventarlo!… Dunque non lo bacio, ma gli domando quello che si domanda in simili casi, anche se si è veramente lieti e commossi.

«Lei qui?»

Sicuro. Lui lì. Mi narra in breve la sua storia. Mentre Costanzo lo ricercava per sostituirlo a Pietro Bouturline, era ammalato di tifo laggiù in Vertoìza. Noi arrivammo a saperlo — ti ricordi? — quando l'aveva già scampata. Ma è stato male. Un assalto violento. I primi giorni lo trasportarono ancora nel corteo dei Re Magi — l'oriente, gli sfondi nevosi, il puzzo di capra, i guarnelletti bardati d'oro: vedi che non esagero, chiamandolo così —; e pare che lo curasse la principessa giovine, Màriza: se ti interessa, guarda l'ultimo numero dell' Illustrazione, e verso la metà troverai la stampa d'una fotografia dove si ammira un cane levriero, riuscito alla perfezione — pare di conoscerlo! —, e una pelliccia che nasconde, alla perfezione anche questa, una figura di donna: è, come ti informa la dicitura, Sua Altezza Reale la principessa Màriza di Vertoìza. è lei l' infermiera di tuo cugino. Il quale, non essendo più a lungo trasportabile in quello stato, fu lasciato negli ameni recessi del sol levante, mentre la famiglia reale proseguiva per lidi più ospitali.

Sapevo che Costanzo, ora, gli aveva di nuovo scritto da poco per offrirgli la carica di ufficiale d'ordinanza; e gli ho chiesto se era sul punto di mettersi la stelletta al braccio. M' è sembrato poco persuaso, sebbene non mi abbia risposto nulla di preciso in proposito. In quell'istante entrava gente: due giovinotti in borghese, tirati a pulimento; ma uno pareva un montanaro rivestito, e l'altro era troppo bello per essere vero. Valentino ha fatto loro un cenno di saluto: cui ha risposto anche l'Apollo di cera, persuadendomi in conseguenza della sua realtà di carne e d'ossa. Si parlava di te. Il duca di Varo credeva che tu fossi ancòra ad Almo. L' ho informato che avevi portato il tuo eroismo in un ospedaletto da campo, ma non ho saputo dargli tutte quelle relative lettere d'alfabeto e quegli zeri che costituiscono il mio tormento quando segno sulla busta il tuo indirizzo. In compenso gli ho spiegato da che parte ti trovi, ossia sul versante sinistro etcetera etcetera secondo le esatte descrizioni che avevo ricevuto da te. Nuovo ingresso sensazionale nella sala: un vecchio patriarca che si regge su due bastoni perchè evidentemente non possiede tre mani in modo da poterne usare un terzo, e due signore giovani l'una delle quali lievemente claudicante. Valentino mi susurra in fretta che sono il re e le principesse di Vertoìza, che è costretto a lasciarmi, e che partirà la sera stessa. Intanto il campione di bellezza e il montanaro si accodano con premura al gruppo sovrano, e la giovine signora che non zoppica — carina, perbacco! e con due occhi di carbone — mi esamina e mi squadra con eccessiva attenzione. Apprendo che questa è la principessa Anna, e che l'altra è Màriza. Saluti di rapido congedo tra il duca di Varo e me: gli stupidi saluti che restano nell'anima come un rimorso, perchè in sostanza non s' è detto neanche la millesima parte di ciò che si doveva e si voleva. Io prendo un giornale e mi riaccomodo nella cestella di vimini; sembro immersa nella lettura, ma non perdo di vista lo spettacolo. Triste. Quei cinque personaggi ch'eran con Valentino parevano in lutto, per quanto non fossero vestiti di nero: i congiunti che tornano dal funerale: non saprei meglio colorirti la mia impressione. E provinciali, poi!… Si vede che non ci guadagnano a smettere i loro costumi da idoli in processione. I corrispondenti di guerra dall'estero avevano fatto piangere e sognare tanti lettori, descrivendo la tragica ritirata di questo re attraverso le nevi — Lear nella tempesta —, e la devozione delle due principesse — Cordelia e la figlia di Belisario —, e il doloroso esilio — chi più esempii aveva più ne sfoggiava —: oh Dio!… per finire nella sala dell'Albergo Venustria, al pari di me, di Costanzina, delle scimmiette ammaestrate di Costanzina, e della zia Bouturline!

La quale, del resto, è rispettabile da quando ha avuto il dolore di perdere il figlio. Almeno, ora, dentro l' impalcatura ossea, ci ha qualche cosa di vero, di vivo oserei dire, oltre il museo delle sue sentenze impagliate. è un fatto che Pietro era il migliore di tutti i Bouturline. Anche morendo, ha regalato qualche cosa a sua madre. Avevo per lui un'affezione sincera. Costanzina mi urta i nervi col suo vezzo di ripetere: “il povero Pietro.”. Povero perchè? Perchè è morto? Perchè s' è levato da tutte le seccature e da tutti i malintesi e da tutte le sciocchezze che fanno i viventi?… Io son sicura che a quest'ora, beato lui, se la ride con indulgenza così dei motti a proverbio della sua genitrice, come delle cantonate in cui si picchia il capo abitando tra i quattro punti cardinali, come del novello idillio di Mimì Fontanarosa.

Non lo sai? Mimì Fontanarosa sta per fidanzarsi col capitano Revedina. Ma sì, ma sì, hai letto bene. Col capitano Revedina. Cosa?… Eh, cara mia! Inutile meravigliarsi. E Costanzina ha un bell'empirsi la bocca col “povero”, quando parla di Pietro!… Pure, da Mimì non me l'aspettavo. C'ero cascata anch' io nel tranello dei suoi occhi azzurri e del suo palpito da uccelletto. Giunsi perfino, la sera famosa nella quale mi piombò a casa lagrimante, ad attribuirle una virtù divinatoria come solo le linee rette — se mi concedi un paragone tra la geometria e la psicologia — possono avere, esse che pigliano tanto poco posto, ma vanno e vanno, e si prolungano fin dove l'occhio umano non arriva. Innamorata, cara la mia Franca, col medesimo fervore ingenuo che le conoscevamo per Pietro. Son certa che, se esistesse un potere capace di scollare dagli uffici del Ministero il capitano Revedina, Mimì tornerebbe da me con eguale disperazione ad informarsi di lui. E mammà Fontanarosa la accompagnerebbe come allora — “figlia bella, figlia adorata” —, e, questa volta, invece della zia Bouturline, la scorterebbe Costanzina.

Ah, Franca!… È un mondo di pazzi: terra, manicomio dell'universo!… Lotario, il marito, lui ch'era l'ozio personificato, ora che ha un braccio solo, il sinistro, sente una furibonda voglia di lavorare. Ha imparato a fare gli oggettini di midolla di pane. Un delirio. Parenti e conoscenti siamo inondati dagli schifosi gingilli di pappa mantrugiata, pietrificata e verniciata. Le collane da lutto e gli orecchini per la zia li ha manipolati lui con questo sistema, sperperando una quantità di farina in barba alle tessere e agli stomachi che hanno la disgrazia di essere più grandi delle tessere.

Gregorio, quell'altro, è passato dal mecenatismo della scena parlata al mecenatismo della scena muta. Ragione per la quale io possiedo sugli schermi del cinematografo un considerevole numero di cugine illegittime che, in bianco e nero, ne fanno di tutti i colori.

“Povero Pietro”?… Ci vuole un bel coraggio, a compiangerlo perchè Dio benevolmente gli ha detto: “Svignatela, caro, prima di diventare anche tu matto del tutto.” Che senso di liberazione deve aver provato! E quanto gli dev'esser sembrato piccino piccino quello che lo affannava!

La morte! Non so come tu la pensi, perchè, mia bion dissima infermiera, sei uno scrigno chiuso a doppia chiave. A vederti, ti giudicano un soffio d'oro e di luce: nuvoletta mistica che trascorri senza fermarti. Eppure ogni tanto fai sì che chi t'avvicina sospetti in te qualche spigolo d'aridità, dura e pericolosa perchè alla superficie non appariva. Come la pensi? Non lo so. Quando siamo insieme, constato, per esempio, che non di rado hai un pessimo gusto — scusami, veh! —, e molte cose ti piacciono o ti dispiacciono proprio alla rovescia del verosimile. Ma, quando siamo lontane, ho un bel malignamente supporre che la tale idea accapponante o il tale oggetto mostruoso susciterebbero la tua soddisfazione…. no, no, è per me un puro esercizio di indovinala grillo, perchè, in sostanza, non so davvero come sei fatta. Se, Dio mi salvi, dovessi descriverti in un romanzo, sarei tremendamente imbrogliata a mettere la tua anima davanti ai lettori: e bisognerebbe per forza che ti facessi vivere nell'anima di un altro personaggio, limitandomi a mostrarti soltanto di fuori, per quel che dici, non per quello che pensi; per quel che sembri, non per quello che sei. Divago, mia cara. Parlavamo della morte. Tu probabilmente credi che tutto finisca in un groviglio di vermi. Io no. E non c' è che una cosa che io rispetti profondamente negli uomini: la morte. Odio le citazioni letterarie; ma io l' ho letto in un libro di preghiere, e perciò la letteratura non c'entra: il cantico di San Francesco. San Francesco ha amorevolmente affratellato la morte con l'anima dei buoni, con le piante, con l'aria, col vento, col fuoco, con l'acqua, con le stelle, con la luna e col sole. E, se si riflette bene, non c' è proprio altro che possa starle in confronto. Ti secco, povera Franca; lassù dove sei ne vedi tanta, della morte, che le mie elucubrazioni debbono farti un effetto piuttosto ghiaccino. Resta inoppugnabile che la morte, anche se tu la consideri un annientamento bruto, è là per insegnarci la vita. Ossia la quiete. Troppa agitazione, dintorno. Le persone attive sono un flagello; e l'attività non è che una febbrile illusione, e si riduce tutta in tre elementi: lavagna, gesso e cimosa: si scrive e si cancella, si scrive di nuovo e di nuovo si cancella. Profittevole divertimento!… Se vi riescisse di star fermi? E bada che fermo non vuol dire nè putrido nè stagnante. La virtù contemplativa è più difficile, epperò non la imparate. Vi torna più comodo scimmiottare Lia, e la vostra ghirlanda non è di fiori come la sua, ma di bubboli e di nappe. Mi domandi chi sono io per impancarmi sulla scranna del giudice. Nessuno, cara: anzi una misera peccatrice cui sarà chiesto conto della sua temerarietà….

Ieri — riprendo la lettera in questo momento, dopo aver veduto tuo marito e dopo avere assaporato i saluti che m' ha portato da te —, ieri ero doventata noiosa. Avrei avuto tante cose da raccontarti, ma non potevo affidarle ad una lettera viaggiante per posta comune. Perciò tempestavo in sordina, e mugolavo come i cani che hanno la museruola.

O senti un po' com' è minuscola questa gran palla rotonda che fa le capriole negli spazii e ci trascina nel suo vorticoso movimento!… Inutile. Tanto minuscola, che si finisce sempre col pestarci i piedi tra amici e con l'urtare il capo nelle faccende intime dei nemici. Tu sai che Tarquinto, la tenuta del principe Ferdinando Jese, confina con una villetta nostra. Cosa voglion dire, alle volte, le tentazioni!… Venti giorni fa mi salta in capo la bella idea d'andarci: avevo visto i Jese in città, e non temevo perciò disturbi di vicinanza. Un febbraio magnifico che mi diceva: “Vieni”. E sono andata. C'ero da una settimana e me la godevo, quando una mattina incontro il principe Ferdinando. Durante l'inverno c'eravamo parlati sì e no due volte; ma il principe riattacca con un'espansione e una cordialità degne di Oreste e Pilade o di Damone e Pizia. Sono anche loro — i Jese — a Tarquinto, dalla sera avanti, e si tratterranno un pezzo. Ci trovavamo sulla riva del fiume, ed io ho pensato alla fortuna dei nostri antenati, quando sapevano far crescere e correre a volontà le onde dei fiumi perchè inghiottissero i personaggi incomodi. Ma il Viserno se la sciacquava lene lene senza nutrire intenzioni omicide. Eppoi si loda il progresso!… Non potendo rimediare in altra maniera, ho tirato fuori il mio sorriso più ipocrita, ed ho esclamato:

«Guarda un po' che disdetta!… Per l'appunto, debbo tornare a Tàllusa stasera!»

Deplorazioni: Orabile sarà veramente desolata d'esser priva d'una compagnia così…. etcetera etcetera; donna Alessandra resterà brutta nel sapere che il caso con una mano porgeva in me e con l'altra toglie in me…. etcetera etcetera. Confidenze: Orabile sta benissimo, non soffre disturbi, nessuno crederebbe che tra un mese sarà mamma. Risatine tra lo smelenso e il maligno: anche lui, il gobbo Ferdinando, sarà padre per grazia di Dio e per volontà della nazione: eh, eh!… e le risatine oblique si prolungano. Ci tiene, perbacco, a far sapere che sa. Il principe Jese è davvero estremamente spiritoso: per me che sono astemia, troppo. Lo pianto in asso senza dargli tempo di snocciolare tutto quello che aveva in serbo, e mi slancio ad impartire gli ordini della fuga. Alle tre mi dispongo per la partenza. Alle tre e mezzo dovrà esser pronta la carrozza. Alle tre e un quarto scampanellata a fuoco: è il principe Jese, pallido, sconvolto: mi si afferra alle braccia, balbetta, mi supplica d'aiuto. Orabile si sente male, improvvisamente, imprevedutamente. Hanno mandato per il professore e per l'ostetrica, ma son soli, non sanno che fare: Orabile urla, donna Alessandra non ha che da offrire una pratica di acida verginità, e lui è la prima volta che si trova in questi impicci. Che avresti fatto tu?… Ombre dei padri miei!… Poter del mondo!… Ho subìto per un attimo la cavatina melodrammatica dell'oscillazione d'anima. Ma…. à la guerre comme à la guerre, ripete sempre la contessa di Marbello. Mi sono foderata di codesta massima preziosa, e via attraverso il podere, per guadagnar tempo, col principe Jese. Saliamo per una scaletta di servizio. Piombiamo nell'anticamera dell'appartamento dove tre giovani cameriere origliano ad una porta: scompiglio ancillare. Lo strido di Orabile fende in quel momento le pareti. Il principe si ferma come se ci avesse battuto contro lo stomaco, e con gesto disperato mi fa:

«Sente?… Sente?…»

Entriamo. Buio pesto. Le imposte chiuse, le tende tirate. Donna Alessandra, ad an inginocchiatoio, prega davanti a un Crocifisso. Due candelabri a tre fiamme ardono come in una stanza mortuaria. E Orabile, sul letto, è tutta nascosta dalle coperte. Donna Alessandra interrompe la preghiera, e viene, rigida, in punta di piedi.

«Perchè quest'oscurità?» domando.

«Di giorno la luce clettrica non funziona.»

«Ma la luce del sole?»

«Ah!…»

Riesco a capire che le tenebre e l' illuminazione a cera sono una trovata di donna Alessandra. Chi sa perchè il mistero del travaglio materno le ha suggerito codesta funebre precauzione? E non altro che quella?… Infatti nessuno ha pensato nemmeno all'acqua bollita, alle fasce…. Niente.

Nuovo strido di Orabile. La cognata alza gli occhi al cielo. Il marito, rientrato più del solito, raccapriccia. Poveretti, non si son fatti da sè, e le seccature non donano. Ma sono orribili: donna Alessandra come una strega, il principe Ferdinando come un nano maligno. Se Orabile sguscia la testa fuor delle coperte e li vede in quello sfondo d'ombra e d' inquieti luccichii accesi sui mobili dalle candele, la fanno morire.

Spedisco lui a dar gli ordini per l'acqua, e tolgo le illusioni a lei perchè, invece di custodire la notte del Sabba, vada a preparare la biancheria che occorre. Poi do aria e luce alla stanza, spengo le candele, e persuado Orabile a levare il capo dal soffoco. Orabile non si meraviglia affatto dalla mia presenza. Ha il viso stravolto. Dapprima credo che in lei abiti un unico dèmone, cioè la vigliacca paura. Invece pensa anche a qualcun altro: lo vorrebbe lì: me lo confida con un' ingenuità intenerente, profittando dell'assenza dei congiunti…. Seconda cavatina melodrammatica nell'anima mia: il poter del mondo, da me invocato, danza in un groviglio di fantasmi tra i quali riconosco un re, una regina, un leggendario giovinetto guidatore d'eserciti, una dama di corte amica della regina, una principessa fidanzata in cospetto dei popoli, l'amore, la chimera, l' inganno…. Eppoi ho torto, se dico che gli uomini e le donne — ah, specialmente quelle, quando ci si mettono! — dovrebbero imparare a star fermi?… Era perfettamente inutile sgranare il rosario della morale; ed ho calmato Orabile assicurandole che certo, e come no?, ma naturalmente, si capisce, stesse pur tranquilla. L' ha bevuta. Chi sa, tra il terrore e la sofferenza, che cosa ha pensato? Forse che Ferdinando Jese fosse andato addirittura a telefonare: “Sacra Maestà, la aspettiamo.”

Non starò a descriverti il resto. Lo immagini da te. Vero che non ci sei passata, ma la descrizione della scena è ormai dominio comune degli scrittori specialmente maschi. Rileggiti i passi relativi, e sei sùbito convinta che le cose non stanno così. Letteratura. Di letterario Orabile non aveva che gli urli: i quali, nella realtà, cominciano a scader di moda, e non sono più sempre ed assolutamente necessarii. Io non urlai; e conosco molte che non hanno urlato. Ma Orabile sì, è un fatto, urlava con foga spietata, e urlava per tradizione, perchè aveva letto e sentito dire che si urla: non per altro. Il pargolo è entrato nella vita normalmente, per benino, senza bizze e senza complicazioni: tanto che il professore e l'ostetrica, arrivati proprio a proposito, non hanno avuto — come suol dirsi — che da guardare. Del resto, sulla qualità dell'urlo dei pazienti anche tu devi avere acquistata una pratica non indifferente, vedendo sfilare nelle tue barelle e sulle tue tavole operatorie l'ossesso che ha una ferita leggera e lo stoico che ha una ferita mortale. Torniamo a noi. Il principe Ferdinando batteva quasi una convulsione; donna Alessandra era piuttosto scandalizzata, e, prima che venissero i dottor magni, mi aiutava in punta di dita e con una smorfia sotto cui stava scritto “oibò!”

Discreto marmocchio: evidentemente lui non aveva sbagliato i calcoli, ma li avevano sbagliati gli altri che lo aspettavano un mese dopo. Discreto, anzi grazioso: diritto di spina, puoi immaginarlo; e il nano maligno se l' è ghermito tra le braccia portandolo in trionfo per tutta la camera e proclamando:

«Un Ferdinando Jese!… Lo chiamo Ferdinando. Ferdinando Jese….»

Si vede che c' è chi tiene al miglioramento della razza, e sa anche essere riconoscente: infatti il piccolo Ferdinando Jese è stato accompagnato al fonte battesimale dal padrino Albano II Romagnano Paleologo, re di Venustria.

Ebbene: questa gente è con franchezza quello che è. Spiacevole, odiosa, disgustosa. D'accordo. Ma….

Franca, bisogna che mi rimetta la museruola. Quanti strazii d'anima si producono pur dall'altra parte! La virtù vera non è mai catastrofica. Dov' è dunque la virtù? Beati i poveri di spirito. La virtù non può essere che là. Quando si devìa dalla semplicità, è finita. E non si sa più essere semplici. Obbedire alla vita non vuol dire crearsi dei gioghi immaginarii: vuol dire accettarla, tal quale è, senza sovrapposizioni, umile e quieta in apparenza, rassegnata. La rassegnazione, quella che intendo io, non è dei deboli; è dei forti. Molti gesti che sembrano magnanimi non sono in realtà che concessioni; molte cosiddette idealità non sono che tentazioni. Parole?… Ecco: basta pensare alla vita come l' hanno ridotta, per impigliarsi in una serie inestricabile di considerazioni difficili; e tali che, se io le nutro in perfetta buona fede, un altro può ugualmente nutrirne di affatto opposte. Non basta: se troppo si ricama di sottigliezze la propria opinione, il sentimento solo rimane, in fondo, saldo ma inesprimibile, mentre l' impalcatura esterna delle dimostrazioni si sgretola, si sfascia, non esiste più. Noi l'avevamo costruita con la ragione, anzi con l'abuso della ragione: e tutto ciò che eccede non ascolta guida nè freno e si perde. La ragione, fin dall'esempio del primo peccato e fin dall'esempio della torre di Babele, è il gran dono che gli uomini non hanno saputo contenere nella misura data e voluta da Dio: e siamo precipitati nell'esilio e nella confusione. Esilio morale, anche se tu non creda alla cacciata dal Paradiso Terrestre. Confusione che non si può disconoscere, da nessuno, perchè sono visibili a tutti i segni del matto arruffìo che ciascuna generazione accumula per le venienti in triste eredità. Miseri esiliati, veri esiliati: chi dei vivi non s' è fatto straniero in terra? Non curo gli scontenti della carriera, dei beni di fortuna, della salute. Ma l' ideale, la gloria, l'amore? Veleni anche questi che attossicano lo spirito, sconvolgono l'ordine, lanciano l'uomo su una vetta che è di terribile solitudine. Bada che non nego l' ideale e l'amore: Dio li ha posti nel mondo, elementi eterni, per tutto diffusi, luminosi e freschi come la linfa essenziale. Siamo noi che non li riconosciamo più; e nessuno sa empirsene il bicchiere giusto per la sua sete: o vi stilliamo le gocce dal fango, o lo opponiamo sotto uno scroscio troppo violento che perennemente vi batte e rimbalza lasciandolo vuoto. Nego la gloria: la quale non è che una derivazione, è passeggera, ed è l' intrusa dei cuori che spesso la scambiano con l' ideale.

A chi va la mia diatriba? Tu lo capisci. Non oso scrivere il suo nome, nemmeno pensando che per giungere da me a te riposerebbe sicuro nel portafogli di tuo marito. è una sentimentale, e il supremo orrore che finora ha incontrato è il sopruso verso la principessa fidanzata. Tragico davvero, perchè non potremo mai indovinare fino a che punto saranno disseccate e contorte le radici di quell'anima, immedicabilmente forse e per sempre. Ma ci sono altri orrori che la nostra sentimentale non comprende, ignora, traveste, e che lei stessa ha suscitati. La serenità e la normalità della sua vita erano in un capino biondo: che ora c' è, respira, cresce; ma non è suo, se l' è fatto rubare, e le sarà perpetua testimonianza del traviamento in cui s' è gettata. Sì, sì, tu mi parli del bene della patria. Chiudimi forte la bocca, Franca. Brava, così. Non ti rispondo più.

è meglio riprendere il notiziario, noh? Sebbene ora, con le garanzie che il marchese di Pietracamela mi offre sotto il caduceo di Mercurio, la mia lettera minacci di farsi pericolosa come una valigia diplomatica. Di' un po' che cosa giurerei? Che Albano sa tutto. è un' impressione. Giurerei che sa tutto. Lui solo è in grado di ricollegare certi nessi, di sciogliere certe coincidenze, di illuminare certi angoli oscuri. Da un pezzo la verità dev'essergli balenata. Io temevo che, giungendo a una tale scoperta, il suo orgoglio di uomo, di maschio, si sarebbe ribellato. E, poichè quando vuole non è gentile, c'era da aspettarsi uno scoppio di folgori, di rivendicazioni, di scandali. Credo che due motivi lo abbiano frenato, o, forse, non gli abbiano nemmeno permesso di andare in collera: la natura del sentimento che lo stringe a Orabile, e la convinzione che l'ultima erede dei Planacomba sia pazza. Garantisco.

Con Orabile si amano in letizia: e, se non ci fosse di mezzo tutto il colpevole e antipatico bagaglio che c' è, sarebbe giuocoforza, vedendoli insieme, ammirarli come due magnifici animali venuti al mondo non altro che per amarsi. Sono giovani, sani e belli. Orabile, che prima pareva nella sua grazia una pianticina di serra, è fiorita ammirevolmente. Albano, dacchè ha lei, conduce una vita più regolata: non per partito preso nè per istinto d'esclusività nè per scrupolo di coscienza, ma così, perchè è soddisfatto e perchè si trova bene. Ha l'aria di uno scolaro in vacanza, d'un savio scolaro in vacanza, e non più quella o dello sbarazzino o della forca come sovente gli capitava d'avere nelle giornate vuote di pesi politici, nè quella del barabba o del delinquente se gli piombavano addosso responsabilità cui egli si rifiutava per cocciutaggine o per vigliaccherìa. è proprio beato. Una donna come Orabile non l'aveva mai avuta, che lo amasse perchè è Albano e non perchè è il re, ma senza seccarlo con i furori le gelosie le catene e le abnegazioni della passione col pi maiuscolo; che si infischiasse al par di lui degli affari di Stato; che fosse allegra di carattere; ardente e docile, ma priva di quella morbosità di cui anche i sensuali si stancano; felice con la stessa franchezza d'un bacio, d'un fiore e d'un gioiello; mediocre d' intelligenza; adoratrice senza adulazione; contenta di vivere, di sgranocchiare i pasticcini, di dire delle sciocchezze deliziose, e di essere non più che una bestiolina la quale si diverte enormemente a fare all'amore. Ti par poco? L'anima gemella che ci voleva per Albano. Durerà quanto durerà. Per ora l' idillio scotta, e non accenna a ghiacciarsi. Aggiungi l'attesa eppoi la nascita del bambino. è certo che lo immaginavano e che se lo ninnolano come un balocco costruito tra risa e canti per arricchire la loro spensierata gaiezza. Cure materne? Doveri paterni? Macchè!… Eppure lo amano; a modo loro: tutto in rose e in piacevolezze. E hanno saputo compiere questo miracolo: innalzare intorno a sè la barriera dell'egoismo, e non cozzarci mai, e non aver freddo, e non essere al buio. Ripeto: durerà quanto durerà. è un fatto che, con tutti i loro peccati, sono gli unici individui che se la passano tranquillamente, e le ansie e l'agitazione che corrono sul mondo non li toccano nè da vicino nè da lontano.

L'altro motivo, anch'esso, inchioda Albano nella tranquillità. Per lui, si tratta d'un caso di pazzìa. Comodo: perchè coi pazzi non si va a ragionare. Sono certa che, se torneranno a vivere insieme, ne avrà un sacro terrore, e non le si riavvicinerà mai più nè spiritualmente nè materialmente. Non ha confidato neanche la vento il suo sospetto, neanche ad Orabile. è entrato di spontanea volontà nella nostra congiura. Egli vigila il peggior nemico che avrebbe potuto, d'un colpo, far crollare l' intiero edifizio: sè stesso. è troppo accomodante, per permetterci di supporre che ignori. Non domanda di andare a Planacomba, evita d'incontrarsi col piccolo duca, ha calorosamente scritto all' imperatore di Bremislavia, quando se ne presenta l'occasione scusa la nevrastenia della regina e deplora che perciò manchi al paese la sua attività di sovrana amante del popolo e delle fortune di Venustria, e insomma si comporta proprio come se avesse imparato la nostra lezione. Triverna, che pure è più intelligente di lui ed è ferrato nel mestiere di poliziotto, appunto per questo non ha capito nulla. Il re, per uso e consumo del confidente, gli inventa senza dubbio particolari di lettere e di fatti che lo tengano bonino e ad occhi chiusi. Il “come finirà?” non deve mai angustiare Albano. è superstizioso, ed attraversa un periodo di ottimismo. Al matrimonio Venustria-Bremislavia non crede, ma finge di crederci con perfetta buona fede: è sua persuasione che tra i due governi sia passata un' intesa, e che il fidanzamento non sia che un vicendevole prestanome per chi sa quali interessi e quali vedute politiche. Non arriva a concepire che l'audacia o la furfanteria si possano spingere fino a quel segno. Tengo a dichiararti che, adoprando questi termini, non ci metto niente di personale intenzione critica. Non è la fatalità del bel gesto?… E sia! Si vince: lo scopo è raggiunto.

Arrivederci, Franca. Tuo marito mi ha detto che facilmente ci incontreremo presto. Ordini superiori ci chiameranno a raccolta per una delle penosissime interviste dalle quali non riesce che una complicazione spirituale di più. Avrei una voglia furibonda di scapaccionarla, eppoi prenderla per mano come una bimba e portarmela via in un cantuccio che le facesse dimenticare la sua follìa e la nostra condiscendenza, e le facesse ritrovare un cuoricino sereno. Era la più disadatta a camuffarsi da eroe: per questo c' è cascata ingenuamente e generosamente. Non lo confesserà mai; pure, se avesse da ricominciare, non si butterebbe nell'avventura.

Arrivederci, Franca. Ti ho dato i saluti di Valentino di Varo?

«Se le scrive, la saluti.»

Ecco sbrigata la commissione; perchè ti ho scritto, oh…. ti ho scritto!

Ti saluta anche Roscio. Era venuto in licenza giorni sono. Pieno d'entusiasmo, di nastrini sul petto, e di una spavalderìa che è giustificata dalle azioni compiute e smussata dalla franchezza con cui la porta in giro. è doventato amico di d'Anghelos. Hanno fatto insieme non so che impresa o beffa che dir si voglia. Non contesto che dovevano essere splendidi. Ma, tant' è: è bene che d'Anghelos mi sia antipatico, altrimenti lo adorerei. E c' è troppa gente che lo adora.

Arrivederci, Franca. Questa volta per davvero. Non mi rispondere. La lunghezza della mia lettera mi dà la nausea per il genere epistolare. I postini mi fanno l'effetto della vetrina del pasticcere, dopo che si è presa un' indigestione di dolci. Non importa: sebbene tu sia dolcissima, ti mando anche un bacio.

Maria.”

Il duca di Varo si accorse della presenza di Paola Rinaldi soltanto dopo una diecina di minuti dacchè aveva preso posto nello scompartimento. Distratto, volgendo gli occhi verso i compagni di viaggio, la scoprì nell'altro angolo, sul sedile di faccia al suo. Salutò. Una signora che, montata sùbito dopo Valentino, aveva dovuto rassegnarsi ad occupare l'unico spiraglio rimasto libero tra Paola e un grosso mercante, pensò come una liberazione, osservando il saluto, che, se lei fosse stata molto gentile con l'offrire ai due conoscenti di ravvicinarsi e se i conoscenti avessero accettato, avrebbe fatto il cambio col giovine e si sarebbe assicurata contro gli incerti dello stomaco che, così di spalla com'era capitata, sarebbero presto, col movimento del treno, doventati certezza. Epperò la sua gentile sollecitudine fu estrema. Non ammise repliche, si alzò, urtò il mercante, vacillò sui piedi e contro le ginocchia del prossimo, e Valentino, per non mostrare scortesìa nè verso Paola nè verso l' incognita, dovè arrendersi senz'altro all' invito.

«Anche lei nel serra serra di chi invano ha fretta, signorina?»

«Anch'io.»: risposta franca e garbata, ma senza effusione.

Per non lasciare cader di colpo il discorso, egli fu costretto ad aggiungere una seconda frase di assai mediocre interesse:

«Qui dentro si direbbe perfino che fa caldo.»

«Caldo animale?… Ma la primavera cammina: avremo presto anche quello naturale.»

«Già.»

Il mercante lanciava senza posa nuvole di fumo appestanti: la porticina del corridoio, aperta, non bastava più. Qualcuno guardava i finestrini; solo un prete, ostinatamente intabarrato, rimaneva tetragono alle minacce dell'asfissia. Ma i tiranti furono tentati, e infine un vetro si decise a calare per metà, gettando dentro uno sbruffo di vento liberatore.

«Si respira.»

«Pare.»

La signora gentile annusava una boccetta di sali, sorridendo in giro con gli occhi. Guardò compiacentemente l'ufficiale e la signorina che per le sue egoistiche cure stavano ora a gomito a gomito, e il silenzio dei due la incuriosì. Perciò Paola si decise a farsi più cordiale.

«Va su?»: “su” era il fronte.

«Sì, signorina. Il ferro da battere sembra che sia caldo, e che il giorno definitivo stia per scoccare.»

«Non ci va mica adesso per la prima volta?»

«Oh, no!»

«Mi racconti.»: e anche Paola ripetè la stupida sollecitazione che tutti i combattenti subivano da tutti i borghesi.

Egli sorrise.

«Un' intervista?»

«Mai più.»

«Gli scrittori sono pericolosi.»

«Brutta razza.»

Non s' intendevano, sotto l'apparenza amichevole della conversazione. La generosa signora, vedendoli intenti a chiacchierare, li accarezzava con lo sguardo. E ambedue, nel proprio cuore, la mandarono al diavolo.

«Raccontarle? Non saprei da dove incominciare. Mi faccia grazia.»

«Non insisto.»

«Ho veduto la sua amica: la principessa di Cerito.»

«Sì? È stato a Tàllusa?»

«Anche. Ma per poco.»

Il dialogo languiva.

Una vivace contestazione tra il controllore e un passeggero li trasse d' impaccio. Valentino si mise a leggere i giornali, e Paola si volse alla fuga della campagna. Pianura: i pali del telegrafo si rincorrevano dando la vertigine all'occhio; e qualche strada diritta, perpendicolare alla linea ferrata, si spostava semicircolarmente come l'ago d'una immensa piattaforma. Cielo di tramonto: e sulla fascia dell'orizzonte che pareva un fiume d'oro stava sospeso un volo nero di piccole nubi. Il mercante, smesso il sigaro, russava sul fragore del treno, a bocca spalancata, enorme. Lo scompartimento a poco a poco si sfollava. Scese l'ombra. Valentino uscì nel corridoio, s'appoggiò dietro il cristallo a guardar fuori: l' inseguimento delle cose intorno al veloce andare del convoglio s'affiochiva in una compattezza cinerea, e la gran coltre bruna orlata di giallo pesava dall'alto e spariva con la notte veniente. Quando il duca rientrò, la fiamma rossiccia della lampada oscillava nel buio senza schiarirlo. Il mercante s'era sdraiato, e la signora troppo gentile parlava con Paola. L'argomento, a quel che il giovine sùbito capì, era di letteratura.

«Che guaio!» egli pensò «È una malattia. Chi tiene la penna in mano non risparmia neppure una buona donnetta che va per i suoi affari in una vettura di seconda classe. Pece nera: tinge dove tocca.»

Ma, ascoltandole, dovè riconoscere che la donnetta non era priva nè di coltura nè di buon senso; e che la Rinaldi lasciava dir l'altra più che dire ella stessa.

«Mi fanno ridere. Vanno in estasi senza capirci niente. Saffo, Saffo…. Se n'empiono la bocca, e giurerei che non l' hanno letta. Già, traverso alle traduzioni, impossibile raccapezzarsi: quelle in poesia poi cambiano il traduttore in traditore, perchè ha da badare al suo verso, qualche volta alla sua rima, e ne vien fuori una miscela che ha tutte le reminiscenze eccetto l'unica che ci vorrebbe. Saffo?… Dico Saffo per dire; ma è sorte comune. Saffo?… Non mi vergogno di confessare che, conoscendola soltanto nelle traduzioni, non mi fa nè caldo nè freddo: piuttosto freddo, se mai. Gli altri invece sono più sfacciati, e trinciano sentenze e paragoni che a noi poveri mortali finiscono col confondere del tutto la testa.»

Paola vide che Valentino sorrideva; gli si rivolse:

«Che ne dice lei?»

«Dico che la signora, dal suo punto di vista, ha perfettamente ragione.»

E la signora replicò:

«Dal mio punto di vista. So benissimo che è miope.»

«Il punto di vista non ha che fare con la capacità visiva. Lei anzi vede molto lontano.»

«Saffo!… Saffo!…» ci si crogiolava, e ripeteva, e ripeteva come se volesse disperdere le due sillabe in vento «Già era una donna…. Tutte queste meraviglie non le avrà messe insieme di certo.»

La Rinaldi si divertiva; e con lo sguardo mostrò al duca di Varo che non dovesse intervenire.

«Non ci crede?»

«Credo che le donne stanno bene a casa, magari a far la calza. Badino che mi do la zappa sui piedi, perchè a casa ci sto poco e di far la calza non ho tempo. Ma sono una spostata anch' io. Mio padre e mia madre erano portinai, e vollero permettersi il lusso d'avere una figlia maestra. Si sa: compiuti quei pochi studii, non ebbi il coraggio di rimediare e di prendere la granata in mano per spazzare le scale. E allora cominciai la vita di commessa viaggiatrice dell'alfabeto. Mi mandarono in un paesino meridionale dove mi pareva d'esser capitata tra gli arabi. Buona gente, ma chi li capiva? Sessanta marmocchi vivi come carbonchi che non impararono la mia lingua; ed io, zuccona, non imparai il loro dialetto. Era di moda, qualche anno fa, scrivere i romanzi delle maestre: noiosi, ma onesti. Al di sotto del vero. Ora è di moda sfruttarle letterariamente, e le descrivono vibranti nevrasteniche avventurose sul tipo delle duchessine di princisbecco o delle cocottes. Bugie. E pensare che i portinai continuano a desiderare che le loro figliuole doventino maestre!…»

Preparava le sue poche robe.

«Scende?»

«Alla prossima stazione.»

Valentino la aiutò a tirar giù la valigia.

Lo sbatacchìo dello sportello fece scuotere il mercante: intravedendo il sedile ormai tutto libero, s'allungò con intiera la persona, e, forse più comodo, smorzò il suo ritmo fragoroso.

«Non ho svelato gli altarini.» disse Valentino alla Rinaldi «Ma lei aveva davanti a sè una feroce antifemminista.»

«Ossia una donna intelligente.»

«Le dà ragione?»

«Il buon senso non ha mai torto.»

«Ma non le pare che, in questo caso, il buon senso sia nemico del progresso?»

«Progresso è un termine errato: bisognerebbe dir movimento.»

«Cosa? Il femminismo? Il voto alle donne?»

«No. Tutto. Tremila anni fa, oggi e tra mille anni gli uomini sono stati sono e saranno sempre gli stessi.»

«Pessimismo.»

«Perchè?… Contemplando la vicenda perpetua delle sorgenti, dei fiumi, dei laghi, degli oceani che dànno il vapore alle nubi, e delle nubi che rialimentano con la pioggia le acque del mare e della terra, non si è pessimisti. è una visione di serenità e di bellezza. Ma cambia forse e vorremmo noi che cambiasse l'essenza degli elementi? Nemmeno gli uomini cambiano. Pensandola così, lei vede che non posso considerare il voto alle donne come un progresso. è soltanto un piccolo movimento. Ne ho sentita qualcuna che lo chiamava rivoluzione. Oh, immutabile significato delle parole! Infatti, rivoluzione. Sono millenni e millenni che il nostro globo compie negli spazii la sua instancabile rivoluzione: cioè ritorna fatalmente, matematicamente, al punto di prima. Non c'era, un tempo, il regime del matriarcato, quando comandavano le donne? Ebbene; a quello stesso punto non siamo ancora arrivati, ma non è improbabile che ci arriveremo.»

«Lei è una negatrice della civiltà, dunque?»

«Quale civiltà? Le civiltà si pèrdono nella notte dei secoli andati. Fin dove la mente può scrutare in addietro c' è il ricordo di popoli che possedevano arte, letteratura, religione, istituzioni, strumenti esatti e raffinatezze. Le generazioni passano sulla terra come il vento sulle sabbie del deserto: nascondono e discoprono, discoprono e nascondono. Una bilancia che potesse pesare le virtù e gli errori, il male e la felicità degli uomini, ci darebbe, a lunghi periodi eguali, un resultato costante.»

«È sicura di non aver torto? Di non parlare — mi perdoni — da scrittrice?»

Paola rise, schietta.

«Sono sicura, per conto mio, di non aver torto. Che io parli da scrittrice — come si esprime lei, e non per farmi un complimento — può essere. Letteratura. Mi piace, perchè è la mia vita interiore. È un ardor freddo, se lei vuole: ma l'ardore è nostro, e il freddo apparisce agli altri. Tutti i pensieri entrano in un'onda di armonia: non sempre cullante; qualche volta travolgente. Letteratura. È vero. Sembra che siamo fuori della vita. Vero anche questo. Siamo, forse, un tantino più in alto. È una sensazione che non ha nulla d'orgoglioso: epperò mi risparmi la sua ironìa. È in alto chi vola, ed è in alto chi sta su uno scalino di legno dipinto. Lo so. Abbia il coraggio di ripetermi che parlo da scrittrice?… Gli scrittori volano — quelli che lo sono sul serio —, non stanno sugli scalini.»

«Se continua, ho paura di vederle spuntare le ali.»

«Alate sono la mosca e l'aquila.»

«Signorina, lei mi vuol confondere; mi vuol ridurre al minimo denominatore.»

«Lasci la matematica e lasci me.»

«A che m'appiglio allora? A Saffo o al voto dalle donne?»

«Il voto alle donne?… Aumenterà la quantità degli elettori, non migliorerà la qualità. Confusione sopra confusione.»

«È contraria al suffragio universale?»

«Ma lei mi sottopone a un interrogatorio, signor mio!»

«Sono un compagno importuno. Quello là almeno» e additò il mercante «non è pericoloso.»

Paola rise.

«E dire che sarà un assertore del suffragio universale!»

«Lo svegliamo per domandargli il suo parere?»

«Dorme come un uomo felice.»

«E russa. Russa la felicità, signorina?»

«Quella positiva forse sì.»

«Che vuol dire positiva?»

«Che ha i piedi in terra e il capo alla materia: non nelle nuvole.»

Valentino offrì ed accese le sigarette.

«Torniamo a Saffo. Mi pare che sia un argomento meno scottante.»

«Ci s' è addensata sopra la cenere dei secoli.»

«Lei certo non è dell'opinione della maestra?»

«E lei?»

Il duca declamò scherzosamente:

«O casta Saffo, da' bruni capelli e dal dolce sorriso!»

«Mi risponde con le parole di Alceo.»

«Signorina, è difficile sostenere una conversazione con lei: sa troppe cose.»

«Ammutolisco.»

«Saffo è l'arma delle scrittrici contro chi nega alla donna la compiutezza del genio artistico. Epperò leggo nel cuore della muta Paola Rinaldi, che adora Saffo.»

«Mi piace enormemente; ma nego lo stesso che nella donna possa esistere la compiutezza del genio artistico.»

«E Saffo?»

«Le è toccata la gran fortuna di averci tramandato in frammenti la sua poesia. Non possiamo perciò portare il nostro giudizio sulla misura e la solidità di tutta la sua costruzione. E misura e solidità, nel genio vero, sono le doti essenziali.»

«Ma la testimonianza dei contemporanei?»

«Non si fidi. Se tra mille anni vorrà scomodarsi a rileggere quello che i critici di oggi dicono delle opere di oggi, rimarrà edificato.»

«Pure Saffo ha una così fonda delicatezza d'immagini, e una soavità e semplicità d'espressione….»

Paola lo interruppe.

«Non ha bisogno di difenderla davanti a me. Deve soltanto ammettere che molti poeti, in ispecie i più fini e — come si dice — squisiti, si salverebbero verso l' immortalità se li considerassimo frammentariamente. E si spiega in questo modo perchè Pindaro sia il più discusso ed anche il più tartassato dei poeti greci: in tanto naufragio della lirica ellenica, egli è l'unico di cui si conservi gran parte dell'opera. Una gemma di magnifico splendore può essere male incastonata, o incastonata in un disegno che non contenta il gusto di tutti; se è sciolta, ciascuno con la fantasia la adagia a suo modo sul fondo che meglio gli piace. Saffo si trova in quest'ultima condizione. Allora, lei capisce, siccome Saffo è anche il solitario esempio citato a conforto della perfetta eccellenza femminile nell'arte, è lecito supporre, fino a nuovo ordine, che l' ingegno della donna non è capace di farsi genio.»

«Parlano di legge atavica. Quando, per secoli, le donne si saranno addestrate nel campo degli studii e dell'arte, maturerà tra loro il frutto miracoloso.»

«Ahimè!… E la musica? Chi di noi — secolo ventesimo — non ha una madre pianista, e una nonna che toccava l'arpa e la spinetta, e una bisnonna che conosceva i segreti del cembalo, e un'antenata esperta di liuto e di viola, su su fino a Minerva che enfiava le gote sul flauto?… Ebbene: mi nomini una compositrice che stia sulle vette?… Nessuna. Vero è che la leggenda del flauto e di Minerva dovrebbe farci pensare: la dea si vide sgarbatamente imbruttita, specchiandosi in un laghetto mentre suonava, e gettò lo strumento.»

«Signorina, lei ora va a caccia di complimenti.»

Paola rise con sonora gaiezza.

«Se fossi un genio!»

«E insinua una malignità contro le sue consorelle.»

«Non lo creda. Scherzavo. E si tratta di un ammonimento spirituale. Anzi lo sciame delle scrittrici, oggi, è come non mai ornato di bei visini e di eleganze.»

«Non esageri!…»

«Non esagero.»

E la Rinaldi enunciò un gruppo di nomi ch'erano in fama: sguardo fosco e sfingeo pallore d'una poetessa che s'era dapprima rivelata con una ricca corona di sonetti audaci e stillanti di seduzione; statuaria e sibillina fronte d'una implacabile confessatrice di sè stessa; occhi dolceazzurri e lieve femminea fragilità di una delicata e finissima novellatrice, evocatrice anche di fiabe che parevano musica; profilo soave e grazia signorile di una deliziosa scrittrice di teatro. Poi aggiunse:

«Ci sono le altre, è vero; e ci sono quelle che non conosco di persona. E lei mi suggerisce tre romanziere e una poetessa. La poetessa — rivendicatrice del servaggio sociale e di recente banditrice del servaggio donnesco in amore —, non l' ho mai veduta. Ma lei non negherà ch'ella possa e debba esercitare un fascino non comune. Le tre romanziere? Una — quella che inforca gli arcioni del suo Pègaso con la stessa sete di sole e di vento, di profumi e di notti stellate, e con la stessa foga bizzarra con cui doma i puledri nelle vaste praterie — è, a testimonianza di molti, assai bella. Le altre due le ho avvicinate, senza delusione. La meridionale impetuosa, veemente, abbondante, buona, carica nell'anima di colori e di scintille come l'aria intensa del suo paese, ha delle qualità così forti e simpatiche da sopravanzarne ogni altra. E l' isolana ha occhi meravigliosi: bastano quelli per raccogliere la bellezza, come le bastan la sua montagna e il suo mare per raccogliervi il mondo.»

«Dalla sezione d'accusa lei è passata alla sezione del gratuito patrocinio.»

«Ma no! Io non dico che la donna sia supinamente stupida: ce ne sono delle intelligenti, e delle intelligentissime. Non c' è il genio.»

«E allora lei perchè scrive?»

Paola si strinse nelle spalle.

«Mi dia un'altra sigaretta. Grazie…. Perchè scrivo? Anche tra gli uomini ci sono pochissimi genii, e molti intelligentissimi, e moltissimi intelligenti. E scrivono. E scrivono, pur troppo, anche i cretini. Ecco perchè scrivo. A lei, esclusa quella del genio, l'assegnarmi alla categoria che le sembra più conveniente.»

«Sentenza oziosa, signorina. È facile immaginare come le risponderei.»

«Ma sì!… Passo oltre. Una mia…. collega è di parere che le donne autrici sono tali perchè portano il lutto: se fossero felici, non scriverebbero. Paradosso. Non c' è di vero che questo: che la sofferenza matura più della gioia. È un' impressione che confusamente provano tutti: epperò, massime tra le donne, c' è una cultura intensiva di tormenti letterarii che, invece di riflettersi dall'anima nel libro, si riflettono nell'anima dalla premeditazione del libro. Ciascuna vuol vivere il proprio romanzo, e — ahimè!… — lo vive più che non lo scriva.»

«Dunque gli scrittori falsificano sè stessi.»

«Non tutti.»

«Lei no?»

«Crede sul serio che io parli sempre di me?… Io, finora, non ho fatto nulla. Se lavorerò, inventerò i miei personaggi ma non inventerò la mia vita. Sciuparsi il cuore per mettere insieme un libro mediocre?… Non ne val la pena. Eppoi la vita ci è data da Dio che è un artefice perfetto: non potremo mai far meglio di lui.»

«E i libri?»

«I libri?»

«Quelli li fanno gli uomini.»

«Ebbene?»

«Il suo, se lavorerà, lo farà lei. Son curioso di sapere che libro sarà.»

Il mercante sbadigliò d' improvviso su tre toni sghangherati; e si sollevò precipitosamente, fregandosi gli occhi.

«Dove siamo?»

Valentino lo informò.

«Ah, diavolo!… Un altro poco, e bruciavo la mia stazione. Accidenti ai treni che fanno venir sonno!»

Nonostante l' imprecazione, era allegro e riposato, in vena di cordialità.

«Posso fumare, signorina?»

«S'accomodi.»

Preparato il sigaro, l'uomo si frugò per le tasche.

«Non ho fuoco.»

Il duca provvide.

«Grazie.»

Rideva.

«Ho dormito, eh?»

«Piuttosto.»

Col sigaro tra i denti, il mercante si ravviava i capelli e la barba, raddrizzava il nodo della cravatta.

«Che cosa vende secondo lei?» domandò Paola piano a Valentino, ammiccando.

«Suola di cartone per le scarpe militari.»: il giovine lo disse ad alta voce; e l'uomo udì.

«Figli di cani!» interloquì «Ma creature alla guerra non ce n' hanno?… Fossero le scarpe sole! Stoffa che va in pezzi, conserve andate a male…. E nessuno sorveglia! Speriamo che la polvere per i fucili, almeno, gliela dian buona, e non la raccattino per le strade.»

Il duca e la Rinaldi si guardarono.

«Me ne capitò uno l'altro giorno» continuava costui «di quelli che succhiano il sangue anche ai morti. L'anno scorso aveva i piedi fuori degli zoccoli, e quest'anno tiene l'orologio a una catena grossa come un ormeggio da bastimenti. Li ha fatti coi surrogati, e avvelena il prossimo. Venne da me per una cisti sebacea dietro la schiena: un focolaio d' ira di Dio dove gli s'era raccolto metà del cattivo che ha addosso. Lo tasto, lo palpo….»

Valentino, sorpreso, non potè a meno di interromperlo.

«Ah, perchè lei è?…»

«Medico, sissignori. Medico condotto. Esonerato, non mi vergogno a confessarlo, perchè fatico quanto una bestia. Dunque, lo visito e gli dico di sì, che con un taglio lo spremo e lo guarisco. Un cuore sano, da animalaccio; ma ho piacere che senta un po' cosa significa straziare sul vivo la carne dei cristiani, e gli do a bere che è più prudente non cloroformizzarsi. Quando l'ebbi lì a strillare come un'oca, prima di fasciarlo, mezzo morto di spavento e di berci, gli cacciai penna e carta sotto il naso. “O firmi questo, per sputare diecimila lire in favore degli orfani di guerra, o ti ricucio e ti tampono coi surrogati: tempo otto giorni, se preferisci che ti conci così, e sei tutto una cancrena.” Bugìa, perchè era già sistemato alla perfezione: un' impunturina da ricamatrice. Firmò. Càspita, se firmò!… Misi in salvo il foglio, e gli dissi: “Sei un gran minchione. Miliardario, te lo garantisco io, non arrivi a diventarlo.” Guarito, fece il diavolo a quattro. Estorsione, violenza…. Lo minacciai di rimpastargli i connotati a forza di pugni, e pagò. Ho perso un cliente, ma mi son cavata una soddisfazione.»

Quando scese, Paola e Valentino si guardarono un'altra volta ridendo.

«Non per vantarci, ma tanto lei che io abbiamo un colpo d'occhio da sbalordire!»

«Signorina, l'apparenza inganna.»; e il duca proseguì con burlevole solennità: «Gli uomini vanno giudicati dalle loro azioni e dalle loro parole.»

«E non sono apparenze anche queste?»

«Può darsi. Ma è vecchia saggezza di proverbio, e non bisogna distruggere tutto con la riflessione. Guardi che eravamo rimasti al suo libro: non si distragga.»

«Il mio libro!… Che cosa preferisce che sia? Un poema, un romanzo, un trattato?»

«Non canzoni, signorina. Altrimenti glieli impongo tutti e tre.»

«Escluda il poema. Non so scrivere in poesia.»

«Modestia!»

«Verità!»

«Ma il romanzo sì? Il trattato sì?»

«Trattato sulle conversazioni di viaggio. Le va?»

«Questo vuol dire che lei si annoia con abbondanza.»

«Malignità!»

«Induzione!»

«È nemico dei trattati?»

«Non sono così irriverente. Ma vedo che l'argomento non le inspira confidenza verso me. Passiamo al romanzo. Intreccio?»

«Intreccio!… Parola volgare. Non accade niente, all' infuori di qualche piccolo gesto scandaloso. L' immobilità è ieratica: conviene di più ai sacerdoti dell'arte. Io la pongo in mezzo a un laberinto analitico: sicchè, se oso spostare una sedia, non lo faccio senza esaminare con cura le interne ribellioni, e i consentimenti spirituali, e l' irradiazione a ventaglio della mia psiche vibrante. Trasformo tutto in titillamento allegorico, con sprazzi e guizzi sull' abisso della tenebra e del silenzio. Per una cosa sola è necessario dir pane al pane, e quella la dirò sforzandomi di trovare i termini più esattamente fisiologici. La tradizionale foglia di fico è troppo angusta per la nostra sete di complicazioni, ed è troppo vasta per la nostra diritta urgenza di verità. Gettiamola via: nulla al suo posto, ma, tutt' intorno, fronde e fronde, di quercia robusta, di mirra olezzante, di amaro alloro, di rosmarino aromatico, di casto ulivo, di pampinosa vite, di cardo pungente…. Oh, botanica dei simbolisti, aiutami a tappezzare la vita in ogni suo atto — la decisione atroce e il sorso del thè, l'agonia e la digestione, il sacrificio e lo sbadiglio —, a coprirla e a vestirla in ogni suo atto o semplice o composito, in ogni suo atto, fuorchè uno, fuorchè uno!…»

«Signorina, è un attacco di lirismo critico!»

«Me ne accorgo. è facile criticare, nel significato corsivo della parola: ossia biasimare. Ed è tanto difficile fare!… Chi ha il cuore in tumulto e gli occhi sulla penna e sulla carta, troppe volte smarrisce il senso della misura e il senso dell' opportunità. Non è vero che si scriva per gli altri: si scrive per sè. Molte pagine a cui si tiene, nelle quali ci si compiace con abbandono d'anima e in lucentezza d'espressioni, rimangono lettera morta, e sono piombo e noia per i lettori. Quello che incontra il loro gusto, non appassiona noi: spesso anzi è una sforzatura stracca o tormentata. Chi ci dà il controllo, per conoscere se l' intreccio che leghiamo non sia puerile o illogico? Chi ci assicura che l'analisi in cui sottilizziamo non apparisca tediosamente grigia o soverchiamente spasmodica?… Eppoi la digressione, la descrizione: sono blandimenti ai quali non sappiamo resistere. L'alba, il tramonto, il mare, la campagna s'avventano con tutti i soffii e gli sprazzi della loro bellezza sana forte e vera a scompigliare la deboletta finzione: bisogna far posto; la mente non rinunzia a riposarsi e adagiarsi nel quieto vagheggiamento d'una realtà che sta al di sopra di ogni vicenda materiale e spirituale: è un rifugio, una contemplazione oggettiva, è l'oasi dello scrittore. Ma per il lettore?… E le digressioni: hanno aspetto d' infarcimento, di rimpinzatura; invece sono il meglio del nostro pensiero, la risultanza di tante convinzioni e di tante fedi: prepotenti parentesi in cui l'autore si fa largo — lui, la sua esperienza, il suo diritto —, e dice: “Ora ascoltate me, finalmente; lasciatemi respirare senza maschera; son io; non recito più.” Lusinghe alle quali si cede. Specialmente se la visione del romanzo turbina come un' immensa e tremenda sinfonia, varia molteplice sonora, e se deve placarsi non allo sbocco di una piccola foce, ma nel gran mare che tutto riassorbe e tutto si offre al sole per tutto svanire, insensibilmente, senza mai morire. È una visione troppo alta e vasta: chi la raggiungerà? Romanzo, specchio di vita. Dio, com' è sconfinata la vita, prima di toccare il suo confine! Siamo noi che, narrando, la ordiniamo arbitrariamente: a freddo. Quei due si amarono: dunque di loro non conta che il loro incontro, e lo svolgersi del loro amore, e la conclusione del loro amore. No. Se fosse stato solamente così e solamente quello, non avrebbero vissuto. E si vive di cronaca, non si vive di storia. Oh, bello svegliarsi dell'umanità al principio delle ère nuove! Ha dormito, si desta, e non s'accorge che un periodo s' è chiuso e un altro ne incomincia. Alba del primo giorno di gennaio: freschezza novella e rinnovellantesi, non mai catalogata da coloro che la vivono! La storia è un'egoistica restrizione, fatta per comodità o per tortura del nostro cervello: i palchetti della libreria. Ma chi studia la storia senza accostarsi alle cronache, così candide d' ingenuità, così impastate d'ombre, così sanguinanti, e proterve, e ciniche, e appassionate; chi studia la storia senza tuffarsi nel sònito discorde delle confuse correnti intrise d'odio e d'amore, si trova nelle identiche condizioni del servo che spolvera la libreria e rimette i volumi al loro luogo perchè sa che le copertine gialle stanno lì e le rilegature in mezza pergamena stanno là. Se fossimo macchine, sì, avrebbe valore solo il gesto compiuto: che invece molte volte è imprevisto, devìa, è irragionevole, è una sorpresa anche per chi lo compie. Le più vere autobiografie sono forse le meno fedeli alla realtà: non quello che fu, ma quello che avrebbe dovuto essere. Non so spiegarmi, vede?… Anzi accumulo considerazioni che sembrano estranee a ciò che voglio dire.»

«No, signorina. Lei accumula i motivi del suo romanzo sinfonico. È un fatto che la vita ha una complessità innumerevole e indefinibile. Un incidente che oggi mi càpita mi commuove e sommuove nel più profondo di me: eppure non avrà seguito, nè domani nè mai. Un altro invece cui non bado, deciderà del mio avvenire. E se io muoio, la vita continua all' intorno. E, se son vivo, ci sono mille altri che muoiono. Lei, se non sbaglio, tende a stabilire, anche nell'arte del romanzo, questa necessità: di rappresentare via via il sublime imperturbabile con cui l'eternità domina gli anni e i secoli, e, nel tempo medesimo, la meraviglia continua dell'anima di fronte ad ogni impressione, sia essa per aver peso o no sopra un destino. è così?»

«È così. Duca, lo scrive lei questo romanzo.»

«Lo leggerò, quando Paola Rinaldi lo avrà scritto.»

«Allora non lo leggerà mai.»

«Smetta di ridere e di favorirmi delle bugie, signorina. Scommetto che è già dietro a comporlo?»

«Un romanzo, sì. Quel romanzo, no.»

«Quanti personaggi?»

«Troppi.»

«Rivendicazioni sociali?»

«No.»

«Amore?»

«Uno solo, vero; ma che non parrà vero.»

«Signorina, lei è superba. Sa quali sono stati finora gli amori, veri, che non sono parsi veri?… Quello di Dante, e quello del Petrarca. Hanno detto che Beatrice e Laura sono astrazioni.»

«Hanno detto uno sproposito. Il momento più divino dell'amore è la sua prima rivelazione spirituale: sentirsi presi e signoreggiati da un soverchio di dolcezza, riconoscere con occhi nuovi la bellezza del mondo, toccare in uno sguardo i termini della propria beatitudine. Dante e il Petrarca hanno potuto e saputo fermare l'attimo, e lo hanno eternato in istato di grazia.»

Paola vide che Valentino s'era fatto serio e rifletteva.

«Ma è felicità?» esclamò egli infine.

«Non è la felicità positiva di cui parlavamo dianzi. C' è pure una felicità che piange, e non è la positiva: meglio conoscere le lagrime senza pace, o conoscere il sonno dopo la sazietà?»

Una pausa.

«Torniamo al suo romanzo, signorina. Viaggi in vetture-letto? Sale di alberghi internazionali?… O parchi misteriosi e ville patrizie?»

«Riempire i portafogli e miniare i diplomi araldici…. Infatti è un genere che sorride a molti autori. Una ragione, per questa preferenza costante, ci sarà. Linea estetica? Non indago. I miei personaggi dovranno chiamarsi il principe tale e il marchese tal altro perchè li aggruppo intorno a una figura cui non sarebbe possibile agire come agisce se non fosse molto in su nella scala gerarchica. È un pericolo. I nomi strambi e le nobiltà sonanti appaiono spesso in guisa d'una decorazione di cartapesta.»

«Romanzo di guerra?»

«Un riflesso, una fantasìa: non so.»

«Difficile concludere un romanzo di guerra. Una guerra non si suggella con le firme di un trattato di pace. Ed io, della nostra per esempio, non vedo la fine, che andrà molto più in là.»

«Ci sono tre conclusioni. Come prima. Meglio di prima. Peggio di prima.»

«Quale sceglie?»

«Come prima.»

«Eppoi non vuole che la chiami pessimista!»

«Errore. Se fossi un uomo, sarei andata a battermi con entusiasmo. E credo in ogni modo che la santità della guerra stia dalla nostra parte.»

«E allora?»

«Movimento, le ho detto già, non significa nè regresso nè progresso: significa soltanto condizione perchè esista la vita. Io sono un'adoratrice della vita: non la mia; tutta la vita. Agli antipodi, dunque, coi pessimisti. Daltronde il mio non è un romanzo di guerra: se fosse, potrei escogitarvi varii finali. Uno lo pensavo ieri. La guerra è terminata; comincia il pellegrinaggio delle famiglie nei luoghi che videro morire i loro figli. Sul fronte nostro, supponiamo. Un ufficiale accompagna. È la volta di una signora in gramaglie: una madre. Muta, dolente, cerca la zona d'una cruenta celebre battaglia. L'ufficiale spiega, rievoca la grande giornata, esalta il tenace eroismo dei nostri caduti. E la signora finalmente dice: “Allora, se v' è costato tanto sangue, è certo che anche i vostri avversarii erano bravi, erano eroi, non è vero?…” L'ufficiale capisce, si mette sugli attenti, e fa il saluto militare: è la madre d'uno di quegli altri.»

«Non mi piace.»

«Nemmeno a me. Buonanotte, duca, buon viaggio, e buona fortuna. Sono arrivata.»

Il treno rallentava.

«Arrivederci, signorina. Terrò dietro alla ridda editoriale, e leggerò il suo libro.»

«Lo troverà inferiore all'attesa.»

Si strinsero la mano.

«Cercherò nelle sue pagine l'amore che non sembra vero: ma io ci crederò.» disse Valentino.

Scese a terra per aiutarla. Piovigginava imponderabilmente: un velo d'acqua, che nel buio, non appena Paola s'allontanò di qualche passo, sùbito li divise.

L'orizzonte guerresco si rischiarava: Venustria, Bremislavia e le altre nazioni alleate s'avviavano verso la vittoria. Come più e più vicina si annunziava l'alba del trionfo, il cuore di Wanda si stringeva. Ella guardava atterrita verso la fine: tremava d'esserne sorpresa da un giorno all'altro, senza avere ancòra nè stabilito nè preparato ciò che sarebbe dovuto seguire. Desiderò di vedere le sue fedeli, Maria e Franca, e desiderò, sopratutto e con cieco egoismo, la morte. Di preferenza, quando il pericolo era nell'aria che si respirava, si faceva accompagnare da Ruggero di Cerito il quale nè le muoveva osservazioni nè la sollecitava di premurosi avvertimenti. Egli aveva capito ch'era inutile insistere, inutile opporre il sottilissimo spessore di qualche piccola prudenza contro l' immane agguato della morte che da ogni parte avvolgeva la regina: obbediente impassibile e sereno, secondava il folle impeto di Wanda. Leonardo spesso lo rimproverava.

«È una pazzìa. Non ti rendi conto della tua responsabilità.»

«Lascia fare al destino. Credi che con te sia più sicura? Illusione. Ella cerca il rischio peggiore, con lucidità. E bisogna che nulla si frapponga tra lei e quest'esatta visione. È l'unico modo, forse, perchè si salvi. L' istinto, inconsciamente, la vigila, prendendola nella febbrile volontà di superare' un passo sempre più arduo. Uno che in quel momento le dica: “Badi.” o la contrasti con un no, la irrita, la mette in sospetto, annebbia la prontezza del suo spirito. Ha sete di finirla. Io non mi domando neppure se abbia torto e se non sarebbe il meglio per lei. è in mia facolta cambiare una virgola? No. Per una volta che potrei mettermi la coscienza in pace con un vano ammonimento, centomila ce ne sono in cui non potrei evitarle l' inevitabile neanche a costo della mia ultima goccia di sangue. E allora?… Ha sete di finirla, sinceramente. Ma, ti ripeto, una fatalità superiore la guida: il suo rischio personale, in quei minuti, è congiunto con la rovina immeditata dei cento o mille uomini che la vedono in mezzo a loro come un simbolo d' invincibilità. Lo sente, e questo, voglia o non voglia, è il suo scudo adamantino. Va' là!» concludeva Ruggero «Con la tua prudenza, non darei un soldo, nè un centesimo, per la vostra vita. Con la mia condiscendenza, spero sempre che se la cavi.»

Ed erano giornate miracolose. E canti di popolo si versavano come linfe vitali per tutto il paese, inneggiando alla gloria imminente.

La marchesa di Pietracamela e la principessa di Cerito si erano da tre giorni incontrate in una città vicina al fronte, e qui attendevano il richiamo di Wanda per raggiungerla dove e come ella avrebbe indicato. Ma il richiamo ora tardava, ed anzi seppero che non prima di due settimane sarebbe stato possibile. Ospiti nel palazzo d'un'amica di Franca, con lei ne abitavano le stanze terrene, perchè i piani superiori erano stati posti dalla trepida proprietaria in assetto di sgombero per ogni evenienza che si fosse presentata. Franca e Maria la canzonavano un po', quando con l'esagerare ad arte i suoi timori, quando con l'alternare le buie previsioni ad una schernitrice ed implacabile ilarità.

Valentino di Varo, di passaggio per un dislocamento di truppe, le vide una mattina sulla piazza. Erano tutte e tre: un gruppo elegante e radioso. Ridevano; e Franca più delle altre. Valentino si fermò di botto, senza accostarsi, senza desiderare che lo scorgessero. Quella spensierata gaiezza gli fece male. Irragionevolmente, ingiustamente. Gli parve che Franca fosse tanto tanto lontana da lui. Un senso di solitudine, di desolazione; e, nel tempo medesimo, quasi la voluttà di tormentarsi, di ripetersi che aveva gettata tutta l'anima sua in un abisso disperato. Bella: gli era folgorata d' improvviso come un'armonia di luce. Troppo bella: forse perciò ella non poteva interamente appartenere a nessuno. Una specie di sordo delirio lo divorava. Avrebbe voluto essere mille miglia distante, e non vederla mai più, mai più: gli aveva guastato la vita, era stata ed era la sua perdizione. Invece non resistè: informatosi con inagevole ricerca dove abitasse, nel pomeriggio si presentò al palazzo. Fu ricevuto da Maria e da Franca con schiettissima cordialità; ed egli colse sul viso della diletta un rossore violento che a lungo persisteva sotto il suo sguardo, sguardo di cupa e sconfinata tristezza. Ma, all' infuori di questo, Franca gli sembrò disinvolta, allegra, pronta ad appoggiare le scherzevoli espansioni della principessa di Cerito. Si pentì d'essere andato. Accampò una scusa di fretta. Maria protestò, chiamò l'ospite, volle che Valentino prendesse il thè con loro. E l'ospite si unì alle premure delle amiche, in maniera che il duca non potè rifiutare. Raccontò la sua vita al fronte nei primi mesi, la missione in Vertoìza, la sua malattia, il ritorno in Venustria: brevemente, evitando di rivolgersi a Franca.

«Ora non ci scappa più, vero?» disse Maria «Costanzo vuol lei. E lei accetta, vero?»

«Oh!» fece la marchesa «Valentino, è chiaro, non sa che farsene di noi. Ha dimenticato il nostro gruppo, ci sfugge.»

Il giovine cercò gli occhi di Franca. Ma Franca non lo guardava. Si sentì frugare il cuore dalla voce un po' ironica e un po' malinconica di lei. Riavvicinarsi, moltiplicare le occasioni di incontrarla e parlarle, rituffarsi nel gorgo torturante d'un sorriso oggi donatogli e toltogli domani, d'un'offerta di grazia e d'un gesto d' indifferenza…. Franca, Franca!… Eppure il soave fascino dell'amata lo vinceva, lo dominava, lo trascinava.

«No.» rispose «Non ho dimenticato. Scriverò che accetto.»

«Pecorella smarrita! Le perdoneremo.» esclamò la principessa di Cerito.

«Il nostro figliuol prodigo!» aggiunse Franca.

E l'ospite versò il thè nelle tazze fumanti.

Domandarono a Valentino se tra cinque giorni sarebbe stato ancor là.

«Vado via stasera. Debbo rivedere i colleghi. Ma ritengo che la disposisione ufficiale con cui sarò chiamato agli ordini di Costanzo non indugerà. E ripasserò certo di qui. Perchè tra cinque giorni?»

Perchè l'ospite aspettava Marino d'Anghelos, devoto amico di famiglia. Egli doveva parlare in un teatro il prossimo sabato; e le aveva fatto sapere che sabato all'ora del thè si sarebbe recato da lei per una visita breve.

«Capisce?» spiegò Maria con abbondanza meticolosa di particolari, un tantino infastidita «Oggi è lunedì. Sabato è tra cinque giorni. Oggi, lunedì, io covo un piccolo raffreddore; sabato, tra cinque giorni, il mio raffreddore sarà sul colmo della parabola, e gli onori di casa li lascerò tutti a chi li desidera.»

Furono inutili le proteste e le insistenze.

«Cosa volete che gli dica? Che lo ammiro? Lo sa da sè. Che non lo ammiro? Questo, almeno, lo sorprenderebbe; ma non sarebbe gentile da parte mia. Verrò a teatro. E m' impegno di applaudire. Basta, noh? Basta per lui, e a me ne avanza.»

D'Anghelos, a quel che Valentino comprese dalle informazioni dell'ospite, si trovava nella zona dove egli medesimo era diretto.

«Vedremo chi è più bravo.» disse Franca «Chi verrà prima: se d'Anghelos o lei.»

Per esser “bravo”, il duca di Varo la sera stessa spedi dal Comando della città un fonogramma di servizio urgente e riservato a Costanzo. La risposta lo avrebbe raggiunto al reggimento. E partì. E Franca gli brillava e bruciava nel petto come fuoco ardente; e sognò di lei ad occhi aperti e ad occhi chiusi: e nel sonno ella gli si mostrava con tanta dolcezza, ch'egli per più ore ne restava sconvolto e abbagliato. In risposta, l'ordine di Costanzo arrivò rapidamente il giovedì: e sùbito dopo Valentino incontrò Marino d'Anghelos.

«Sabato» scherzò «lei è atteso da tre belle signore. La dama del palazzo di Tricante, la principessa Maria Gloria di Cerito, e mia cugina Franca di Pietracamela.»

Al nome di Maria di Cerito, il poeta guardò Valentino. Nè pensò che la donna adorata dal giovine fosse la marchesa.

Stabilirono di partire insieme, sabato mattina. Ma, nonostante questo, il duca di Varo non fu “bravo” come d'Anghelos.

Giovedì. Certe giornate a cui non si pone mente più che di consueto, dovrebbero contare per secoli in ogni minuto. Giovedì: erano le sette, quando i due si salutarono. Valentino si presentò al colonnello, il quale, dicendosi dolente di perdere in lui un ufficiale solerte e coraggioso, lo congedò cordialmente, lasciandolo libero fin da quell' istante. Il duca tornò tra i suoi soldati: l'ultima notte da trascorrere con loro; non voleva staccarsene senza prima averli riveduti ad uno ad uno, i suoi soldati forti e pazienti, i compagni superstiti di tante sanguinose battaglie. Stavano accampati dietro una selvetta d'abeti, assai più innanzi della linea trincerata, ed eran là per costruire un altro ordine avanzato di trincee, sul gomito d'un altipiano che veniva considerato quasi come un angolo morto, e dove non s'erano svolte che scaramucce di poca importanza. I soldati sapevano che il loro tenente se n'andava, e questa volta non in missione, ma per sempre, al Quartier Generale. Li raccolse intorno a sè: erà tardi, già buio profondo: parlò a loro con bontà, con commozione, fraternamente incitandoli al dovere. Poi fu il riposo, il silenzio, la lunga tenebra. E, tra i fantasmi che con più tristezza quella notte popolarono i sogni e le veglie sognanti degli uomini annidati nelle armi sulla montagna, tra i fantasmi pietosi o soavi delle madri e delle amanti e dei bimbi che s'accostavano pian piano, tra cielo e terra, come nebbia luminosa…. il più splendido e caro fu per Valentino: Franca. Notte del giovedì. Una stanchezza d'anima — dormiva egli oppur no?… —, e un'assidua presenza — visione o realtà? —: Franca, sempre Franca. Tenera carezza de' suoi occhi! Il giovine la sentiva sul viso, tenera e lenta: violette pallide e oscure, odorose di fresco; respiro fragrante di violette stellate….

«Amore, amore mio grande, amore mio solo!… Sei dolce, sei dolce, sei tutta dolcezza…. Musica e luce…. Ti adoro. Metti il tuo capo biondo sul mio cuore, così. Senti che è tuo, che si smarrisce in te?… Ora ti riverso la fronte: l'oro dei tuoi capelli pesa più della mia mano; e cade giù; e ti lascia nudo e bianco tutto il volto. Ti guardo…. Bella! Sei bella!… I tuoi occhi si fanno immensi e profondi…. Perchè, Franca, perchè sembra che tu pianga?… Anch' io deliro, ma sono triste: triste e felice…. È triste, Franca, voler bene, tanto bene: è una cosa triste, è una cosa divina…. Ti bacio: è un singhiozzo, è un lamento…. Perchè?… Troppo brevi i confini del mio infinito, per prenderti e comprenderti tutta…. Amore, amore mio grande!… Sei bella!… Ti adoro!… La tua piccola bocca: mia. Quanto l' ho desiderata, cercata, sognata!… Mia. Ti tormento, ti faccio male, ti soffoco?… Non senti che muoio anch' io? Di te, per te, in te?…»

Notte del giovedì. Poi l'alba chiara e nebulosa, portata da sbuffi di vento tepidi e gravi come fiati. I preparativi della partenza: presto fatti, chè le sue robe eran poche. Un ultimo giro tra i soldati…. Ed ecco, in quel momento, un ordine: si sa, da segrete informazioni, che nel pomeriggio truppe nemiche di rinforzo attraverseranno per là: appostarsi, e dar l'assalto. Valentino calcolò le ore. L'operazione non era troppo brillante, ma gli dispiacque abbandonare i suoi uomini proprio mentr'erano sul punto di battersi.

«Andrò via dopo.» disse agli altri ufficiali «Farò egualmente in tempo.»

Venerdì. Uomo, non puoi fermare il minuto che passa….

E venne la notte del venerdì…..

Aprì gli occhi: un gran buio: come se tutta quell'oscurità gli ferisse le pupille più che uno splendore di luce, serrò le palpebre che gli dolevano, o, forse, no, non gli dolevano, ma erano stanche abbattute pesanti. Nel cervello non inerte un pensiero, e nemmeno la volontà di pensare: solo uno sforzo di formular mentalmente parole le quali dovevano avere, sì, coerenza e significato, ma ch'egli non giungeva a capire — e le ripeteva, le girava, le percoteva nel vuoto della testa quasi fossero dadi urtanti contro le pareti d'una scatola scossa. Egli indugiava in quella replicazione meccanica come quando, nell'ozio, un intorpidimento ci occupa che arresta il computo delle ore e astrae da' sensi la vita.

«Dio, che nottata! Dio, che nottata! Dio, che nottata!…»

Poi s'adoprò a intendere che cosa le tre parole volessero dire, e comprese che erano un'esclamazione d'angoscia. Angoscia che genuinamente egli provava, o confusa riflessione e quasi obbiettivo commento del proprio stato?… Si sentiva tranquillo, e il terrore che per istinto avrebbe creduto inevitabile non addentava il suo spirito: anzi temè che il rimover dal fondo della coscienza il ricordo preciso delle cose gl' intorbidasse quella pace, e tentò di abbandonarsi ancòra nell'estatica insensibilità di prima. Ma la lucidità tornava alla sua mente, e spontanea la memoria dei fatti risaliva alla superficie oscillando in una lentezza così dolce, ch'egli poteva guardarla venir su e galleggiare con una serena attenzione velata appena da un quieto stupore.

Ferito, era caduto correndo, come se avesse urtato il petto contro l'aria: era caduto là, certamente, nel medesimo luogo ove giaceva. Aveva dormito? Era rimasto esanime? E per quante ore? Molte: poichè l' imboscata nella selvetta d'abeti s'era fatta poco dopo il mezzodì, e i battaglioni n'eran sbucati fuori al tramonto, gettandosi per un terreno gialliccio sterposo ondulato, sotto una nuvolaglia ventosa e sciroccale che s' intrideva a ponente per qualche sanguigno sgorgo solare. In quel furioso assalto al passaggio della lunga riga nemica egli era caduto: ed i suoi occhi, al rinvenire dei sensi, avevan trovato la notte.

Affondò ancòra lo sguardo, reso più schietto, nella buia ampiezza che gli sovrastava, e potè a poco a poco discernere i mutamenti del chiarore e dell'ombra sul cielo, il quale era tutto nemboso e arruffato, gonfiandosi qui in nube spessa ed' opaca, là diradandosi in fioche nebbie cineree, e per la volubilità delle correnti di continuo agitando in alterne apparenze quell'ombra e quel chiarore. Inseguì con gli occhi una più tenue ragnatura di vapori che dislocava rapidamente una macchia biancastra sulla fosca adunata, e gli sembrò che tale visione destasse in lui un qualche ricordo. Ma fu un attimo: un di quei guizzi improvvisi della coscienza che subitamente si spengono, nè vale a riattizzarli il tormento della riflessione. Omai la scialba forma caliginosa piegava nell'arco delle tenebre dove non più gli era possibile scorgerla se non muovendosi dalla sua postura, e di muoversi non gli veniva fatto per quella pesantezza e svogliatezza delle membra che lo inchiodavano al suolo in un abbattimento che gli era quasi un benessere.

Di nuovo chiuse gli occhi, e i pensieri cominciarono a distaccarglisi dal cervello in una puerile succedenza di constatazioni materiali e di piccole e anco sciocche sorprese: per esempio, che, supino sulla terra dura e privo di guanciale, pur si sentisse comodo così, lui che supino non era mai stato capace di rimanere nemmeno nel suo letto, e che aveva sempre patito una sensazione di vertigine quando, sdraiato, poggiava il capo al livello medesimo della persona senza un più rilevato sostegno; e che quella comodità gli derivasse forse dal bavero ampio del cappotto che nel cadere gli aveva fatto volume sotto il collo, o forse dal pendio del luogo che lo teneva in una giacitura dolce ed acconcia; e che fosse inopportuno l' insister troppo con la mente su quell'agiato ristoro delle membra, perchè è regola consueta che l'attenzione portata a considerare la beata quietudine del corpo riposante svegli sùbito l' insofferenza e il bisogno di mutar posizione. Infatti, una gravezza molesta gli sopraffaceva la gamba sinistra, tra il ginocchio e il piede, e il tentativo di liberarsi valse soltanto a smuovergli per l'arto travagliato un formicolìo spinoso e rodente. Che poteva essere quel peso? Col piede destro cercò l' ingombro e lo sforzò: la rigidezza pur cedevole e la tenacia pur molle con cui l'oggetto pian piano si lasciava spingere e strisciava sulla gamba offesa con lo spostamento semicircolare d'un indice che giri intorno al proprio fulcro gli misero per le ossa un brivido sottile…. Che poteva essere, che era quel peso?… Piegò la gamba ormai libera per non toccare l'oggetto scivolato al suolo, e pensò:

«Sono in mezzo ai morti…. Chi sa quanti, chi sa quanti!… E muoio anch' io.»

Il brivido cessò; e ancòra egli ricevè nelle pupille la diffusione densa e procellosa delle nuvole che s' involgevano per il cielo. Tale spettacolo, congiunto all' idea della morte, reiterò nel suo cervello l' impressione di un ricordo che sùbito si fe' lucido e presente. Ecco: quel medesimo intorbidamento tempestoso e quei radi vapori che qua e là lentamente scioglievano i nodi delle tenebre, egli già li aveva veduti in una sera non lontana, quando nella sua città era rimasto fermo, in attesa, dinanzi ai cancelli chiusi d'un passaggio ferroviario: accanto a lui — come lui, come tutti, uomini e veicoli, che s'erano arrestati per quell' impedimento — aspettava un mortorio: gli accompagnatori erano incappati di bianco, e le torce ch'essi sbattevano a terra per rattizzarle lasciavano impronta di fiamme, ed accendevano in un bagliore rossastro gli ori dello stendardo e della bara; e intanto suonavano, presso il casello del sorvegliante, i rintocchi della campana d'avviso; e i fanali dei guardiani in basso, e le luci dei segnali in alto costellavano il buio; e le nubi correvano e si scapigliavano…. mentre dalla parte opposta, al di là della via ferrata, compariva un secondo mortorio, e anch'esso si fermava, e — con gli incappati bianchi, coi guizzi fumosi delle torce, con lo stendardo e la bara — faceva màcabro riscontro al corteo ch'era di qua. Poi la vibrazione roca d'una tromba, cui un'altra rispondeva, più vicina; e gli sbuffi della locomotiva; e la fuga del treno, rapida e fragorosa, tra i due funerali; e l'aprirsi dei cancelli; e l'affluire in direzione inversa delle due correnti umane che s'erano per un istante arginate; e l' incontro dei due morti sulla ghiaia e sulle verghe della ferrovia; e sopra tutte le cose il cielo, quello stesso cielo inquieto sconvolto e maculato che ora incombeva sul giacente. Egli ricordava, e con vigile spirito raffrontava le impressioni della sera lontana con queste della sua solitaria agonia: — agonia: chè certo egli era per morire, e non altrove che sul varco della morte potevan farglisi alla mente tanta purità, e tanta quiete ai sensi, e all'animo tanta sicurezza —. Ricordava: allora quella scena di vita e di morte, compartita sotto l' intemperia del cielo in torbide vampate ed in ombre occupanti, gli aveva dapprima chiamato alla memoria talune manierate acqueforti nelle quali una breve violenza di luce è contenuta nel torpore cupo di tutto il disegno; eppoi gli aveva rimosso nell' intimo delle fibre un sussulto ghiacciato, perchè le due bare che aspettavano il passaggio del treno e, una di qua, una di là, pareva volessero confinarne l'efimera corsa tra i segni immobili del fato eterno, mettevan nelle radici dell'esuberanza vitale ch'egli sentiva prorompere in sè un'uggia tetra e un viscido ribrezzo come se veramente il tarlo di un verme gli insidiasse il suo giovine diritto alla sanità, alla gioia, all'amore. Ora…. ora per lui la morte non era più rappresentata in un simbolo, ma si ammucchiava senza cortei e senza torce all' intorno, e, vicina, china su lui, gli donava quel libero dominio di sè stesso in un trapasso sereno. Chè giovine ora come allora egli era, nè peranche l'amore aveva in fatto compiuto le vicende sognate: eppure senza tremito e senza rimpianto egli vedeva prossima la morte. Così poco dunque è il tempo che passa tra la vita e la morte? Così breve lo spazio? Così pronta la rassegnazione? O non piuttosto è umana illusione che tempo e spazio intercorrano tra vita e morte, illusione che vita e morte sian condizioni tra loro diverse, illusione che la vita finisca con la morte?…

Sorrise, il morituro, e interruppe l'esplicazione di questi suoi pensieri, perchè comprese che le grandi verità s' impigliano e si dibattono e s' impoveriscono quando gli uomini voglion formularle secondo il vocabolario ch'essi hanno fatto pieno di termini inconciliabili. Nè più s'adoprò a cercar le frasi le quali significassero la ricchezza sicura e senza brama dei sentimenti che gli empivano il cuore, e lasciò invece — lui, indagator sapiente di stile e di dettato — che le piccole faticose e tormentate vene delle parole fosser coinvolte e sopraffatte dall'onda inafferrabile, ma rinnovellante limpida e fresca, di tutte le comprensioni che misteriosamente fluiscono all' intelletto e si detergono senza bisogno di venir precisate ed espresse.

A questo soverchio di splendore che gli fece palesi in miracolosa visione i poteri dell'anima, seguì in lui un abbacinamento della coscienza dal quale a poco a poco si riebbe: gli era parso, per un attimo o per l'eternità, di non viver più o di viver meglio; e il ritorno alla consueta misura dei mezzi umani lo trovò consapevole ormai e certo che altre cose esistono — non di misura, ma d' immensità; non mezzi, ma fine; e non umani, ma divini —. Vicine a lui erano tali cose, nè egli avrebbe tardato a possederle intiere e per sempre.

Quietamente, pazientemente, raccolse i suoi pensieri onde ingannare l'attesa. Si formava in lui come uno sdoppiamento: l'una parte chiamava le memorie e stimolava la riflessione; l'altra, non operante, rimaneva spettatrice in una vicenda di curiosità e di stupore, — legittimo stupore, poichè la materia non del tutto spenta lo faceva ancòra soggetto a difettosi sillogismi, pei quali egli non avrebbe mai creduto che sul passo estremo la morte potesse incontrarsi con sì vincente semplicità di spirito.

«Forse» domandò a sè stesso «muore beato chi muore per la patria?»

Rievocò i fervidi entusiasmi che lo avevano spinto sul campo; e la dura rassegnazione all' immobilità difensiva nei ripari delle trincee; e il gaudio febbrile della liberazione e dell'azione dopo i giorni stagnanti del lungo e forzato rintanamento; e lo scoppio dell'ardore e del furore nel lancio dell'assalto; e le grida concitate, e gli urli, e il calpestìo…. e, ora, l'urto violento nel petto che lo aveva fatto barcollare e piombare, spezzandogli in bocca la voce che osannava il nome della terra per cui si combatteva e si cadeva.

«No, non per questo si muore beati.»

Infatti la rievocazione gli era apparsa con una sembianza pallida e scarmigliata di furia impotente. No, no: non per quello. E c'era già stato qualcuno, nel mondo, che aveva capito perchè si morisse beati: uno, come lui, ucciso in battaglia. Chi?… Non riusciva a snebbiare il ricordo indeterminato: forse una creatura fantastica, il personaggio d'un romanzo…. Ma certo quell'uno — che nell'esercizio della vita era stato soltanto bramoso di guerre e ardente di glorie militari —, quell'uno, abbattuto al suolo dalla ferita mortale, non più aveva sognato la mischia e la vittoria, e, nel punto dell'agonìa, s'era fatto mite puro ed ingenuo contemplatore delle stelle che la notte serena gli versava sul capo.

«Muore beato chi muore comprendendo che cosa sia la morte.»

Egli si domandò quanti fossero in grado di conquistare tale beatitudine. Pochi: perchè esiguo è il numero di coloro che, secondo il detto biblico, stanno preparati coi fianchi cinti e la lampada accesa; e per essi daltronde l'avvento della morte non è rivelazione improvvisa ma raggiungimento dello scopo cui tesero traverso alle lor lunghe meditazioni. Pochi: perchè quei che s'esaltano della morte offrono in olocausto sè stessi sopra un altare — che può esser votivo alla patria, o all'onore, o al salvamento di un simile, o al suffragio d'un' idea —, ma che pur sempre risponde a un vocativo di fatti umani, ed esige in acerbo sacrificio quello che deve invece naturalmente in ogni momento accettarsi come opima e matura vendemmia. Chi dunque è degno e consapevole della beatitudine, se tutti gli altri muoion ribelli e disperati, perchè nella vita non considerarono che le azioni materiali, epperò la morte non li raggiunge come un compimento e una pienezza d'esistenza, ma li coglie come un' interruzione e come un troncamento brusco e sgradito?

Passò sul caduto una volata di vento che gli alitò sulla faccia, e con un sibilo si rilevò nell'alto all' inseguimento delle nubi.

«Muore beato chi muore comprendendo che cosa sia la morte.» ripetè il morente, trovando nella leggerezza de' suoi pensieri una continuità che si partiva di lontano lontano e che non sarebbe finita, no, tra poco, non avrebbe patito alcuna sosta; ma si sarebbe fatta più leggera ancòra e più luminosa, eternandosi nell' infinito.

Le nubi, aizzate dalla caccia del vento, rupper qua e là la lor tenacia ingombrante: traverso al mosso scompiglio qualche profondità di cielo si aprì, qualche stella brillò.

Perchè non gli si facevano alla memoria le lotte sostenute nell' impeto della sua ardente giovinezza, e i caldi errori delle sue passioni, e quanto di positivo la sua attività aveva compiuto, e quel che insomma era stato in lui opera militante? Tali domande, in confuso, la parte spettatrice della sua coscienza rivolgeva all'altra: e l'altra non curava di rispondere, ma — tutta intesa a perseguire i fili aerei che soli congiungono le condizioni della vita con quelle della morte — discopriva e raccoglieva i più tenui ricordi di ciò che, non avendo mai avuto traduzione materiale, gli era durante la vita sbocciato a fior dell'anima con la medesima lieve e fresca meraviglia d' irrealità che ora egli incontrava sulle soglie della morte.

Il vento, imboscato tra le nuvole, balzava a tratti dall' agguato e scovava le stelle: una, rampollando solitaria nella cavità d'una radura serena, fermò lo sguardo del giacente. Egli era un amico delle stelle, e riconobbe quell' una con un sorriso d'amore. Rammentò d'aver frugato, nei lunghi vespri estivi, la morbidezza profonda del cielo per cogliere il primo battito d'una scintilla dorata, ravvisandovi in iperbolica immagine gli occhi pallidi e oscuri ch'egli somigliava al color malinconico e costellato delle violette doppie, gli occhi dolci e tristi della donna ch'era stata meno realmente e più veramente sua.

«Franca!…»

La stella che il vento aveva rivelato gli pendeva ancor solitaria sul capo: ma le pupille stanche n'erano abbarbagliate, e la piccola bianca luce si moltiplicava in uno sfavillìo d' immensa serenità.

«Perchè non grido, perchè non chiamo aiuto?»

Un fumo leggero di delirio gli saliva al cervello.

«Se un uomo ora venisse, se volesse sollevarmi e trasportarmi, gli direi: “Lasciami!”; se insistesse, lo morderei; se non ne avessi la forza, invocherei i morti, tutti i morti che mi sono dallato, a tenermi con loro: e l'uomo fuggirebbe, perchè gli uomini hanno paura della morte.»

Il vento incalzava: l'urto e il ringorgo delle correnti richiamavano all'orecchio il croscio delle ondate del mare. Poi, la foga mugghiante attutendosi verso una pausa, era come un frusciare e uno strusciare di fogliami percossi. L' illusione occupava i sensi del caduto in una ebbrezza mutevole: e tutte le marine e tutte le alberate ch'egli aveva conosciuto con cuor di poeta ora gli componevano intorno un miraggio d' incantevoli scenarii. Vedeva un mare chiaro, azzurrino, increspato di scagliette d'oro sotto la dismagliatura dei riflessi solari, al tramonto; e sùbito la persistente luce di quel tremolìo vespertino cambiava apparenza, e si faceva biancheggiante sferza di flutti contro una bruna scogliera intorno a cui, ribollendo, si allacciavano gli anelli occhiuti della spuma; e qualche miracolo sorgeva dal mare in isolette fronzute e solatie: ed egli or si sentiva cullato dal respiro ritmico ed ampio d'una vela, ed ora posava all'ombra di un boschetto, bevendo a volta a volta frigidi aromi salmastri e dilatate aure campestri; e mescolava le pulsazioni delle sue vene ad un'eco ribattente di rime vaghe e melodiche, mentre l'anima gli si riempiva d' ignorate armonie.

Su questi immacolati splendori di sogno passava, a quando a quando, tacita e serena, l'angelica figura di Franca.

«Franca!… Le diranno che son morto con un grido eroico sulle labbra: e non saprà — nessuno saprà — che io non muoio, non muoio, ma proseguo all' infinito la via luminosa per la quale già m'ero messo, senza riconoscerla, quando pur mi agitavo ed affannavo nel cerchio ristretto delle faccende umane….»

Svanivano a poco a poco i pensieri che lo ricollegavano al passato; ed egli non sentiva più nè il volume, nè il peso, nè l'esistenza del proprio corpo. Tutto preso da quanto finora gli era stato inafferrabile, e tutto compreso di quanto finora era stato inesprimibile, una plenitudine conclusa e leggera lo sollevava verso l' infinito….

Un rombo opaco di volata bassa e compatta volteggiò e trascorse: egli ne provò l'ultima sensazione umana, parendogli che rondini e rondini accompagnassero il trasmigrare divino della sua anima. E quando dalla negra volata — che era di corvi — un'ala si staccò, e puntò la preda serrandola in una roteazione guardinga, e vi piombò con furore, e il becco affondò un primo colpo nella faccia del morto…. l'anima di Valentino era già lontana, incurante di quello scempio ………… …………………

Marino d'Anghelos venne con l'aurora a cercarlo sul campo. Lo ritrovò mescolato nel mucchio dei cadaveri, il petto squarciato da una baionettata, il volto crivellato dalla macabra rapina notturna: nero di sangue, riconoscibile a stento. Lo sollevarono; lo portarono indietro. D'Anghelos, con la gola serrata dai singhiozzi, seguendo il corteo, pensò che Maria Gloria di Cerito aspettava quella sera il giovine innamorato. Anche pensò che una volta — prima della guerra — Valentino aveva detto: “Se morirò, vorrei che lo sapesse quand' è sola, quando nessuno portrà penetrare nel mistero del suo cuore: se m'ama oppur no.” E la stella che appaga i desiderii aveva solcato il firmamento in quel punto…. Ora il poeta giurò di adoprarsi in modo che il voto fosse esaudito.

Lo deposero in una baracchetta, tra il pianto dei soldati. Non aveva indosso che l'orologio, la scatola delle sigarette e il portafogli. D'Anghelos e il colonnello guardarono tra le carte: denaro, tessere di riconoscimento, l'ordine ultimo di Costanzo, e una lettera: una lettera che da molto tempo doveva esser là. Il colonnello la cedè a d'Anghelos. Il resto rimaneva con le altre robe presso di lui a disposizione d'ogni richiesta.

Deterso, composto, giaceva tra le pieghe della bandiera. Fronde di ramoscelli dissimulavano le ferite del viso. Pallido, quasi livido, pareva tremendamente solo, sebbene un folto stuolo di compagni affluisse senza posa intorno a lui.

D'Anghelos voleva compiere la sua missione. Si staccò a gran pena. Dalla soglia si rivolse a guardare il suo giovine amico: gli rimase negli occhi così: severo, immobile, solenne.

S'affrettò. Doveva giungere al palazzo di Tricante prima che la notizia di quella morte fosse conosciuta. Avrebbe escogitato tutti gli espedienti perchè la principessa di Cerito non rivelasse a nessuno il suo segreto. Guardò la lettera. Indovinò ch'era una lettera dell'amata. Busta ampia e grigia: l' indirizzo al nome del duca di Varo la attraversava di caratteri snodati, alti, in inchiostro verde. Trasse il foglio che serbava due pieghe tenaci, in croce, e lesse:

«Tàllusa, Io d'aprile.

Caro cugino:

Grazie d'aver pensato a me per i quadri modernissimi. Mi venga incontro per la mia strada: alle due. Sarò forse un po' in ritardo, ma verrò…. senza pesce d'aprile. Se poi è lei che col suo invito abbia voluto pescarmi, non me ne avrò a male. Non la incontrerò, non la troverò, e visiterò l'esposizione sola soletta.

Sua affezionatissima

Franca di Pietracamela.»

Fu un lampo. Non Maria di Cerito. La marchesa di Pietracamela. È strano come per gli uomini esistano tanto poche donne, ch'essi nemmeno sanno riconoscer la diletta d'un altro….

La lettera non aveva la data dell'anno. Ma non era certo recente. Forse la prima che Franca aveva scritto a Valentino. Egli la serbava: poteva parer dimenticata, e non comprometteva nessuno. Per lui era stata un tesoro: l'avvento dell'amore e delle speranze.

Marino d'Anghelos arrivò al palazzo di Tricante alle cinque e mezzo. Là aveva dato appuntamento, per un poco più tardi, a una delegazione della città: di proposito, perchè maturava il suo disegno. Il caso, poi, lo avrebbe aiutato. Delle tre signore, due soltanto lo riceverono. Maria non c'era. Pur attendendo alla conversazione, egli guardava la marchesa: bionda, alta, fredda, gentile, quieta. Impenetrabile veramente. Quando l'altra accennò che per quel giorno aspettavano anche il duca di Varo, Marino trovò la maniera di distrarsi e di lasciar cadere il discorso. E s'ingegnò a porre sùbito in atto la sua crudele e necessaria astuzia. Disse all'ospite:

«Lei suona il pianoforte, vero?»

Sapeva che costei strimpellava, ma sperava nell'aiuto del caso. Che non mancò.

«Io?… Accanto a Franca di Pietracamela, sprofondo. Franca sì, ch' è una musicista.»

Era quello che d'Anghelos voleva.

«Allora bisogna che, o l'una o l'altra, mi vengano incontro come la cortesìa in persona. Desidero, per un carme che mi martella le tempie, di risentire due suonate.»

«Ma il pianoforte è su!…»

Il grido di spavento non fu compreso dal poeta. Gli spiegarono il perchè di questo sobbalzo. Su, la luce elettrica non funzionava, ed era tutto in disordine, chiuso, imballato.

«Anche il pianoforte?»

«No. È la sala che è sottosopra, iuabitabile.»

«Non importa. Una caudela, e si rimedia.»

Salirono; ed ogni scalino ed ogni passo furono punteggiati dalle esclamazioni dell'ospite.

«Dio, che gelo!… Che polvere!… Domenico, attento a non metter fuoco…. Eppoi la musica è serbata nelle casse…. E il pianoforte, chi sa che sconquasso!… Nessuno lo tocca da più di un anno…. Domenico, badate alla cera: gocciolate come una spugna…. Fortuna che Franca è una biblioteca musicale!… Ah, che tanfo, che tanfo!… D'Anghelos, lei è un traditore…. Non doveva farsi ricevere così!…»

Domenico posò i candelabri, smosse qualche ingombro e qualche poltrona secondo l' indicazione della signora, e si ritirò. Aprirono il pianoforte.

«Segga, fumi…. Ah, già, lei non fuma…. Dio mio, che squallore!… Sta bene a questa maniera?… Sì?… Colpa sua. Idee da poeti.»

«Che cosa dovrei suonarle?» domandò la marchesa.

«Chopin. La marcia funebre.»

«Allegri!» si rammaricò l'ospite.

«Fin qui ci arrivo.» disse Franca.

E cominciò.

D'Anghelos la vedeva di profilo. Nella poca luce, così bionda e bianca, irradiava luce ella stessa, svegliando la sorgente dell'armonìa. Note dolorose, gemiti, singulti: e si placavano in un inno possente di pace e di gaudio.

Franca era un'esecutrice appassionata. E non sapeva, non sapeva che quella musica era per il morto ch'era stato tutto suo….

«Le basta?» fredda e quieta anche ora.

«Un angelo, un angelo!… Non suona come un angelo?»

Marino approvò. Quindi rispose alla marchesa:

«Non basta. Beethoven?»

«La marcia funebre?»: Franca lo aveva domandato per scherzo.

«La marcia funebre.»

L'ospite sospirò.

«È una fissazione!… Par d'essere nel deposito del cimitero.»

«Sarà una faccenda complicata. Senza musica?… Mi proverò.»

Gli accordi lenti e maestosi del principio tempestarono sonoramente urtando le pareti. Poi la nota chiara, tenue, implorante….

Entrò Domenico. La marchesa s' interruppe. C'era giù la delegazione che cercava di d'Anghelos.

«Meno male!» s'allietò la signora «Lei voleva farcì doventare tisiche, noh?… Scendiamo.»

Invece dovè scendere sola, per ricevere e far pazientare quel gruppo di maggiorenti cittadini.

«Sia buona. Dicci minuti, se la marchesa acconsente; e vengo giù anch' io. Lasci Domenico là fuori perchè mi insegni la strada.»

«Implacabile!… Franca, ti presti a questi capricci?»

«La prego.» disse d'Anghelos; e Franca acconsenti.

La musica ricominciò…. Invadeva la sala, empiva l'aria di vibrazione: terribile annunzio.

Il morto era lontano: pallido, solenne, tremendamente solo.

La nota chiara e implorante serpeggiava come un pianto, dopo il furore degli accordi tonanti.

Valentino s'illividiva, lontano: severo ed immobile nelle pieghe della bandiera; e le fronde morivano su lui, sul suo tragico volto straziato.

La musica finì. E questa volta Franca nè parlò nè si volse sùbito.

Allora d'Anghelos s'alzò, le venne dappresso e s' inchinò.

«La ringrazio.»

Le baciò la mano.

Anche la marchesa s'era alzata.

Egli, venuto il momento, aveva smarrita la sua lucidità.

«Non ha paura a restar sola qui?»

Forse sperava ch'ella gli dicesse: “Scendo anch' io.”; e che con ciò gli vietasse di assolvere il suo còmpito.

«Paura?…» e Franca rise «Ma no!»

Erano vicini alla porta. Le candele, dal pianoforte, non ginngevano fin là se non per mettere un'incerta penombra.

D'Anghelos aprì. Gli tremava la voce. In fretta, porgendo la lettera, pronunziò la sua frase:

«Mi è parso di sentire che la nostra ospite aspettasse per oggi il duca Valentino di Varo. Non verrà. Mai più. Glielo dica lei. Era un valoroso. Morto stanotte. Ho preso questa dal suo portafogli.»

Nella densa penombra, non guardò la donna che gli stava di fronte, e non le vide il volto. Richiuse l'uscio forte, d' impeto, per non udire neppur lui, se ci fosse stato, nè sospiro nè grido….

E il segreto di Franca rimase là, intangibile: nella oscura sala rifattasi silenziosa dopo la musica.

Fuggita, fuggita: mentre il grido frenetico della vittoria rombava come un incendio nel cielo di tutti i paesi alleati, e il nome di Stefanolo vi guizzava e serpeggiava per entro come scintilla.

Fuggita, fuggita: mentre il piccolo duca, l' idolo, il prediletto, era aspettato da cento città, e ciascuna avrebbe voluto esser prima a porgergli la corona del trionfo.

Fuggita: mentre la giovinetta fidanzata rompeva i patti del silenzio per scrivere all'amato in ardore e dolcezza; mentre la capitale di Bremislavia era corsa d'un delirio d'entusiasmo, e chiamava l'eroe; mentre nella capitale di Venustria il popolo imponeva i festeggiamenti, ed esigeva — per magnifica cerimonia — che il re, Albano, muovesse a'cavallo fuor delle mura millenarie per incontrare il giovine vincitore….

Fuggita.

Non sopportava la presenza d'alcuno. L'unica vigilanza alla quale non si sottraesse era quella di Azzarìa. Di lui ella non s'accorgeva nemmeno: tanto poco ha peso la muta fedeltà d'un servo.

Giunse al castello di Planacomba in corse pazze e vertiginose, avanzando d'assai Leonardo e Ruggero, e prima che vi arrivassero Franca e Maria cui là era stato dato convegno.

La raffica piombava su Planacomba: l'urto e l'urlo del vento torcevano le nubi in cielo e sommovevano in buie ondate le acque del mare e gli alberi della terra. L'uragano, sospeso come una minaccia, accordava il suo lungo preludio.

I fratelli di Azzarìa presero le briglie dei cavalli. Wanda entrò, ed Azzarìa la seguì. Nelle vaste sale il mugolìo del temporale s'ingolfava pei camini, rabbioso, insistente. Quando furono nel quartiere abitato da Stefanolo, Onoria si fece loro incontro, accennando col dito sulle labbra che c'era qualcuno, nelle stanze vicine, di cui non doveva svegliarsi l'attenzione. Si abbracciarono, in silenzio. Negli occhi della donna un'ombra di pietà e d'affanno s'incupiva.

«Voglio vederlo.» disse la regina, con un fil di voce.

«Più tardi, più tardi. Dorme.»

Un sospetto attraversò l'anima di Wanda.

«Sta male?»

«No, no…. Più tardi.»

«È stato sempre bene come scrivevi?»

«Sì, ma sì…»

Le risposte di Onoria sgusciavano.

Allora un terrore atroce attanagliò il cuore di Wanda. Non insistè. Si lasciò accompagnare via dalla nutrice; e nell'anticamera del pauroso mistero restò Azzarìa.

Era necessario, per vedere Stefanolo, abbandonare quegli abiti falsi; tornargli presso con le vesti della buona sorella. Docile, senza più nulla domandare, Wanda si sottomise alle cure di Onoria: sul pavimento, a poco a poco, s'affloscì ed ammucchiò come una buccia spenta il tragico costume del piccolo duca. E rifioriva in vista, ma nel pensiero e nell'anima ancòra immemore, la figura della regina: calze sottili e morbide scarpette, fruscìo odoroso di biancherie trinate, la cintura esigua, la gonna, le perle intorno al collo, e i riccioli brevi rialzati e raccolti in un mazzo vivo dai pettini e dal nodo di velluto. Mentre svelta operava, Onoria parlava: e nelle sue parole s'annidava l'agguato della tremenda cosa che Wanda oscuramente presentiva…

Stefanolo stava bene, ma….

Che era quel “ma”? Che era quel “ma”?… Non interrogò. Disse soltanto, un'altra volta:

«Voglio vederlo.»

E andarono.

Azzarìa, anch'egli, s'affacciò sulla porta.

Stefanolo non si volse. Era fermo in mezzo alla stanza, con gli occhi al soffitto. La sua bellezza pareva cancellata, impastata in un vuoto d'espressione, contratta da un'orribile smorfia di riso. Contava, riprendendo fiato di rado, con la voce grassa di saliva:

«Tre milioni e duecento novantuno, tre milioni e duecento novantadue, tre milioni e duecento novantatrè….»

Wanda lo chiamò:

«Stefanolo!»: un grido, un'invocazione, un singulto.

Senza muoversi, il demente tacque.

«Stefanolo!…»

Onoria venne avanti, abbracciò alle spalle il giovinetto, lo obbligò a guardare Wanda, dicendogli piano carezzevoli inviti e persuasioni. Ma gli occhi intorbidati sùbito sfuggirono, ed egli ricominciò:

«Tre milioni e duecento novantaquattro, tre milioni e duecento novantacinque….», poi un riso ebete, spaventevole, e una filza vertiginosa di parole triviali, oscene, sovrastate dalla voce alta di Onoria che tentava di rimproverarlo e di farlo tacere.

Azzarìa sorresse la regina che vacillava, la trascinò fuor della stanza. Quando Onoria li raggiunse, ella, abbattuta su un divano, singhiozzava convulsamente. E tutta la sua disperazione scoppiò, in un fiotto di confessioni, di accuse contro sè stessa, di rimorsi, di orribili e insostenibili visioni di responsabilità passate e future. Onoria, in ginocchio davanti a lei, piangeva senza osare di placarla. Azzarìa dritto in un angolo, unghiava la palma delle sue mani coi pugni chiusi e possenti.

«E che sarà, dopo…. E che sarà, dopo…. lo l'ho ucciso, mio fratello; ed era meglio mille volte che gli uccidessi la vita in un colpo…. Ho usurpata la sua coscienza, la sua volontà, la sua anima…. E l' ho lasciato solo, vuoto, preda della maledizione che doveva rovinare su me…. Gli ho data la vittoria, la gloria, l'amore…. perchè tutto questo lo schiacciasse anche più, sempre più nella sua tremenda follìa…. Assassina di mio fratello!… Non avrò pace sopra la terra, odierò il sole, avrò paura della vita e della morte…. Sarò perseguitata giorno e notte, nasceranno le serpi sotto i miei passi, il respiro diventerà cenere nella mia bocca, e i fiumi si cambieranno in sangue, e l'erba appassirà sotto i miei piedi, e gli alberi mi negheranno l'ombra, e il cielo mi negherà Dio…. Assassina di mio fratello!… Ho cacciato le mani più addentro che nel suo sangue, e gli ho estirpato l'anima, lasciandolo vivo…. Lo cercheranno, senza trovarlo…. I soldati, il popolo, i re lo cercheranno, senza trovarlo…. Elisabetta lo chiamerà, perduto, perduto per sempre!… I minuti che passeranno, i volti che piangeranno, lo sbigottimento del mondo di fronte a lui, tutto e tutti mi ripeteranno inesorabilmente: “Che hai fatto di tuo fratello?…”»

Delirava. Poi, scossa da un tremito di febbre, si rannicchiò tra i cuscini, mentre finalmente il tuono si rovesciava dai nembi e la pioggia e la grandine s'arruffavano nelle pieghe del vento.

«Dio dovrebbe prendersi Stefanolo!» aveva sospirato Onoria.

Questo sospiro, questo anelito di liberazione era rimasto fitto nel petto di Azzarìa, dopo che Wanda, sollevata come una bimba tra le braccia della nutrice, era statà trasportata lontana di là.

Ecco la soluzione, perchè la regina non incontrasse momento per momento il rinfaccio del suo gesto e il nodo del suo intrigo; perchè la regina non camminasse eternamente sull'orlo dell'abisso. Per salvarla, Azzarìa avrebbe avuto anche il coraggio di strangolarla con le sue mani, di stroncarle la gola. Ma non l'avrebbe salvata. Sarebbe rimasto più insolubile il groviglio, e lei non avrebbe trovato pace nemmeno nella morte.

«Dio dovrebbe prendersi Stefanolo.»

A poco a poco, sparito Stefanolo, Wanda avrebbe riaperto gli occhi intorno a sè…. L'anima del fratello, ch'ella s'incolpava di aver divelta, avrebbe ottenuto il suffragio che si dona agli eroi. Poi…. tutto sopito, tutto spento. Nessuno avrebbe più il diritto di chiederle conto di nulla.

Azzarìa, risoluto, entrò nella stanza del pazzo.

«Usciamo?»

Timoroso, Stefanolo s'accantonò contro il muro.

«Tre milioni e seicento dodici, tre milioni e seicento tredici, tre milioni e…. e….»

S'ingarbugliò. Tacque.

«Usciamo? Andiamo a trovare quattro milioni?»

Il pazzo rise, si lasciò avvicinare.

Azzarìa, seducendolo con l'irragionevole miraggio che lo aveva colpito, continuava a parlargli. Intanto lo inviluppò nel mantello che s'era tolto di dosso, e lo prese per mano.

«Andiamo?… Ma zitto! Se no, i quattro milioni scappano.»

Fu una pena, arrivar fuori: per il dubbio che i quattro milioni scappassero, Stefanolo si fermava ad ogni scricchiolìo, ad ogni passo. Da ultimo, quasi al momento di uscire, s'impuntò, cocciuto.

«Ho paura.»

«Di che cosa?»

«Bum, bum…. Non senti?»

Il rombo della folgore e della tempesta lo inchiodava al suolo. Ed Azzarìa non veniva a capo di quell'ostinazione.

«Ma è meglio, è meglio.» lo persuase infine «Se tutto fosse zitto, i quattro milioni ci sentirebbero. Aspettando che smetta, non li pigliamo più.»

La notte e la bufera li avvolsero. Il pazzo rabbrividiva; ma andava avanti ripetendo:

«Meglio, meglio…. Ora li pigliamo, ora li pigliamo….»

La folgore accendeva di nero la foresta, di bianco e d'azzurro il mare. Poi tenebre, spaventose. E sempre il fragore dell'uragano.

Salivano una rupe che si protendeva su una vasta scogliera.

«Son là?» domandò Stefanolo.

«Son là.»

E Azzarìa, dopo tanto tempo d'assenza, riconosceva la strada nel buio, tra i baleni.

Giunsero. E il gigante fermò il giovinetto cento passi lontano dall'orlo.

«Inginocchiati!»

Lo piegò a terra, sentendolo di nuovo vibrare di paura; e s'inginocchiò anche lui, senza tremare.

«Fatti il segno della Croce.»

Gli prese la mano, lo aiutò.

«In nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Amen.»

Lo risollevò, lo volse con la faccia verso il mare. Dovè richiamarlo alla sua folle speranza.

«Vuoi i quattro milioni?»

Il pazzo rise.

«Dove?… Non hanno posto. Sono un numero. I numeri stanno nell'aria….»

«Li vuoi?»

«Sì.»

«Chiudi gli occhi e corri, corri senza fermarti.»

Non ebbe più tempo nè di pentirsi nè di trattenerlo. Lo vide alle spalle, bianco piccolo veloce, portato dal vento e dalla pioggia, inseguito da due lampi frequenti vividi lunghi.

Nè grido, nè colpo. La rupe, illuminata dal terzo baleno, era deserta.

Un sudor ghiaccio imperlava la fronte di Azzarìa. Egli respirò profondamente, più volte. Come se si sradicasse, si staccò dalla roccia che lo teneva abbarbicato. Giunse sull'orlo, s'affacciò. Il cielo, chiuso, non voleva far luce: ed ai confini del mare, in fondo, torbidi guizzi rossastri saettavano screpolando le nubi, e irridevano, ghigni demoniaci, senza rivelare l'arcano delitto. Allora Azzarìa, lento, guardingo, si calò per le pareti scabre e sdrucciolevoli. Si lacerava le vesti, si graffiava le carni. Qualche scheggia cedeva sotto il suo peso con uno sbriciolìo sinistro; qualche pietra rotolava con rumori secchi, a rimbalzo. Buio, silenzio. Non lampeggiava più, non tuonava più; il vento s'affiochiva; la pioggia era fina e rada, impercettibile. Buio e silenzio.

«Se tutto fosse zitto….» aveva detto Azzarìa poco prima.

Orribile. Quando le altri voci tacciono, la voce interna urla come una iena.

Giù, giù; piano; a tentoni….

Gli parve di udire un gemito. Fu sul punto di cadere. Immobile, miracolosamente aggrappato, sospeso, schiacciato alla ripa, sentiva il proprio cuore percotere forte contro la pietra e spingerlo indietro. Si riebbe. Tese l'orecchio. Nulla. Il mare sciacquava, monotono, senza rompere la opprimente cintura del silenzio. E ricominciò a scendere, più cauto, più tardo.

Mise finalmente il piede sulla distesa della scogliera, si assicurò d'esser giunto, e le sue mani abbandonarono il sostegno. Barcollò: temè d'essersi ingannato, e di precipitare nel vuoto. Con uno sforzo di volontà si rinsaldò dritto sulle gambe, agitò le braccia indolenzite e le mani rattrappite e brucianti. Guardò intorno. Spessi luccichii mobili e oscuri rivelavano le piccole conche d'acqua nel cavo degli scogli. E subito uno scialbo biancore, sì e no visibile, attrasse i suoi occhi, a pochi metri, a terra. S'avvicinò, si chinò. Era un gabbiano, sbattuto e ucciso dalla procella. Dovè continuare la ricerca. Che non fu lunga. Il corpo giaceva, inerte, non lungi dal luogo dove Azzarìa era disceso. Se lo caricò sulle spalle, e si mosse. Girò la rupe andando per la scogliera, e incespicava a ogni passo. D'un tratto s'arrestò. Gli colava per il collo, giù per le spalle incurvate, tra le vesti e la carne, un fiotto appena appena tepido, denso e lento come una pasta liquida. Tentò di spostare il fardello; ma il movimento gli fece sentire, distinto in un brivido, ch'egli era ormai tutto intriso, fino alla cintola. Provò un immenso desiderio di tornare indietro, e buttarsi in mare, col morto. Resistè, riprese la via del castello….

Una settimana piena di tumulto e di sgomento. I minuti parevano eterni, eppure fulmineo il calar della notte sorprendeva l'agitazione del castello di Planacomba. Bisoguava provvedere a tante cose, in fretta; e, nè telegrafo, nè mezzi di locomozione, bastavano più per l'enorme affluenza delle corrispondenze ininterrotte e dei personaggi ch'eran venuti e che venivano.

Morto, il granduca Stefanolo. Morto, l'eroe biondo adorato e glorioso. Morto, il giovinetto leggendario che aveva impugnata la vittoria…. La notizia corse il mondo come una luce funerea: milioni di popolo piansero sulla tragica sorte che l'aveva voluto illeso tra le battaglie, e che nello stupido incidente di una passeggiata lo aveva precipitato e sfracellato sugli scogli. Unico testimone, compagno e spettatore impotente, il suo fedele, Azzarìa, l'ombra assidua e gigantecsa del piccolo duca, già scudo a lui contro cento e cento pericoli.

Tàllusa, la capitale di Venustria, avrebbe voluto custodirne nel suo tempio il corpo prezioso. Ma gli aiutanti e il generale Costanzo s'erano opposti in nome della regina: Stefanolo di Planacomba apparteneva alla sua terra. Ed ora aspettava, nel suo castello, d'essere trasportato alle cappelle. Aspettava in un'ampia sala che aveva le finestre sul mare. Ai lati del catafalco s'assiepavano selvette di bandiere, consunte lacere bruciate, e sopraggiungevano senza posa ad infoltirsi attorno al loro duce. Non fiori, nella sala, non ceri; ma rami di quercia e d'alloro, e lampade bronzee grandi e solenni come roghi. Per tutte le altre stanze fiori: invadevano gli atrii e le scale, e i più recenti coprivano gli altri appassiti, e filtravano per l'aria un odor triste ed intenso che agguantava il respiro. Lui, tra le fiamme i vessilli e il verde, sotto il Crocifisso, era visibile sul catafalco nella cassa di cristallo e d'acciaio: esile, bianco, con le occhiaie infossate, il profilo fine ed acuto sotto la pelle cerea e trasparente, i riccioli morbidi e folti che sembravano aureolarlo di santità nel lampo un po' affiochito della lor chiara biondezza. Ai piedi, un cuscino ricamato con le armi dei Planacomba, sopravi la spada con l'elsa d'oro.

Quanti singhiozzi passarono, passarono dinanzi al moto eroe…. Quanti ne udì, impietrito, diritto, le braccia al moschetto, Azzarìa, che non abbandonava il suo posto di guardia d'onore….

Il principe di Cerito e il marchese di Pietracamela impartivano tutte le disposizioni. Erano giunti all'alba, dopo la notte fatale. Avevan trovato Stefanolo deposto sul letto, con l'addome pesto e il torace stritolato; e Onoria piangente, invocante da Wanda un gesto e una parola. Wanda faceva terrore, muta, spettrale. Vedendo gli amici, era caduta riversa, come morta, e una violentissima febbre cerebrale la aveva assaltata. Ruggero, aiutato dal medico del paese, prestò le prime cure a lei, e gli ultimi servigi al cadavere di Stefanolo per preservarlo il più a lungo possibile. Ore atroci, ore di tregenda, sebbene con la fine del vero Stefanolo s'annunziasse l' insperata risoluzione del tortuoso e avvolgente viluppo di guerra e di alleanza e di vittoria. Ma le condizioni della regina erano gravissime, e, durante i tre giorni che seguirono, ella fu tra la vita e la morte. L'ostinata vigilanza di Ruggero, di Maria e di Franca valsero a scongiurare la catastrofe. Ancora Wanda giaceva priva di conoscenza, debolissima, senza altre parole che lamenti, senza altro moto che sussulti. Sperandola salva, i suoi quattro devoti pensarono ch'era meglio per lei e per tutti il durare di quello stato che le impediva di vedere, di sentire, di agire. E si moltiplicavano, soffocavano l'ansia e l'angoscia perchè tutto si compisse secondo il destino che aveva mostrato la via da seguire.

Il destino?…

La prima a dubitarne fu la principessa di Cerito. Guardare Azzarìa le metteva un urto nel petto. Lo disse al marito. Ruggero, perplesso, riflettè. Poi si strinse nelle spalle.

«Oh Dio!… Sarebbe stato il destino anche questo!»

Non ne parlarono con nessuno. E Maria si rifugiò nella preghiera presso il letto di Wanda.

«Assolvi gli uomini, Signore. Placa gli offesi e gli offensori. Che tutto si converta in amore di te. Concedi a chi ha peccato per amore e per errore, a chi per amore e per errore ha patito, concedi che rivolga il passato e il futuro in amar te e in patire per te, e che egli voglia indifferentemente ricevere dalla tua mano il bene ed il male, il dolce e l'amaro, il lieto e il tristo, e d'ogni cosa ti renda grazie. Fai, o Signore, che l'amore stia in veglia, pure dormendo, e, affaticato, non perda la lena; e, ristretto, non sia angustiato; e, atterrito, non sia turbato; ma come fiamma accesa, così scocchi verso l'alto, e passi oltre sicuramente…. Perdona, Signore, e fa' che gli uomini perdonino per amor tuo agli altri uomini e a sè stessi….»

Il pellegrinaggio metteva immense correnti di pietosi viaggiatori da ogni parte delle terre a Planacomba. Ufficiali di Venustria, e ufficiali alleati; madri di caduti; superstiti; principi e contadini; sovrani ed artieri.

Poi, il sesto giorno, alla vigilia delle esequie, un fascio di rose rosse entrò nella sala severa dove non avevan posto che la morte e i segni delle battaglie e della gloria. Elisabetta lo portava, sorretta dalla marchesa di Pietracamela, seguita dall' imperatore di Bremislavia e dal principe di Wallemburgo. La fioritura d'amore non si poggiò sul cuore di Stefanolo, diviso per sempre dal mondo con lo spessore diafano e duro del cristallo mortuario. E così tutto, come quelle rose, andava verso lui, per lui: senza toccarlo.

Venne Albano. Convulso, febbricitante, sospettoso, irritato, la chiaroveggenza che Maria aveva indovinato in lui non serviva in quel momento se non a intorbidargli le idee, a farlo dubitare, a rimuovergli un sordo rodìo di coscienza, a porgli dinanzi agli occhi spaventi confusi. Avrebbe trovato Wanda, mai più?… S' informò di lei. Volle vederla, prima di domandare null'altro, prima d'incontrare nessun altro. Che pensò, in presenza dell' inferma? Che cosa lo spinse a gettarsi in ginocchio con un furore di singhiozzi? A chiamarla, a chiamarla in alte grida, insensibile alle raccomandazioni ed agli ammonimenti di chi la vigilava?… Wanda, a quel tumulto, s'era scossa; aveva tentato di ricordarsi; di tornare a impadronirsi di sè. Fu il primo segno del suo risveglio alla vita cosciente, mentre Albano era tratto via a forza dalla camera, in preda alla sua interminabile crisi di pianto. Incomprensibile travaglio, quello che si opera nella testa e nel petto degli uomini!… Lo sfogo lo calmò. O una seduttrice e nuova speranza gli sorrideva?… Cinse al braccio la fascia del lutto, imbrillantò la tunica di ordini cavallereschi; e con un viso d'occasione, ma bello, stringato, elegante, visitò la salma. Impossibile sapere che cosa chiudesse dietro quella sua ingannevole e perfetta fronte di viva statua magnifica. Forse niente, giudicarono Ruggero, Leonardo e Franca. Forse, pensava Maria — ricredendosi del vaticinio che aveva scritto nella lettera a Franca, — forse un desiderio di riprendersi nelle braccia e ridestarla al delirio della carne la donna misteriosa cui aveva dato il nome ed il regno, e, fino ad allora, tanto poco del proprio cuore.

Con la medesima stupenda e acconcia grazia di gesti e d'espressione, seguì il funebre corteo dal castello alle cappelle. Se lo additavano. La sua giovine bellezza disarmava, al suo passaggio, ogni malevolenza. Il popolo, fitto di qua e di là, lo guardava ammirando, con soddisfazione: il re. E guardava, precedente la bara, il gigante di Planacomba, Azzarìa, intonando negli animi un commento di commossa simpatia. Poi, portata a spalla dal principe di Wallemburgo, da Ruggero di Cerito, da Leonardo di Pietracamela e dal principe Demetrio Gyka, la cassa avvolta nella bandiera di Venustria: tutti s' inginocchiavano, oppressi, schiacciati dall' ineluttabile e imperscrutabile fato. Il gruppo dei monarchi e dei principi. I dignitari, i ministri, i generali. Costanzo: un'onda di riconoscenza e di riverenza. D'Anghelos: un fremito di curiosità e di passione. E gente, e soldati; insegne, ceri, armi, bandiere…. E salmodiare di preci, e il tuono lento e solenne delle trombe e dei tamburi mentre il cannone sparava…. Fiori, fiori, fiori: una macabra primavera che sfilava, sfilava, senza esaurirsi mai. Le berline di corte, chiuse, con le tendine calate: dov'era la fidanzata Elisabetta, dove le dame della regina?… E la folla anonima, muta, ordinata: come se ciascuno fosse stato un amico, come se ciascuno piangesse il suo più caro. Quindi la sosta, i discorsi, la voce di d'Anghelos, il silenzio….

E Stefanolo di Planacomba scese sotto la pietra tombale ………………. …………………

Che è un rumulo che si chiude?… Nulla…

Occhi nuovi guardano l'eterno sole; sospiri nuovi si esalano alla eterna luna. Per questo l'errore e l'amore non finiranno mai; e l'esperienza dei passati non servita per i futuri. Divina inesperienza, sorgente di forza!… Tu sola fai l'universo perennemente giovine agli uomini, e mostri a loro la natura come un miracolo di perpetua freschezza. Tu sola, divina inesperienza, poni nei vecchi solchi del mondo un seme acerbo, il cuore umano. Ed in lui, per te, inesauribilmente la vita rinverdisce e fiorisce.

PARTE PRIMA

Capitolo I.… pag. 9

Capitolo II.… 25

Capitolo III.… 35

Capitolo IV.… 47

Capitolo V.… 65

Capitolo VI.… 77

Capitolo VII.… 94

Capitolo VIII.… 108

Capitolo IX.… 125

Capitolo X.… 145

Capitolo XI.… 163

Capitolo XII.… 177

Capitolo XIII.… 193

Capitolo XIV.… 208

Capitolo XV.… 225

Capitolo XVI.… 247

Capitolo XVII.… 265

Capitolo XVIII.… 270

PARTE SECONDA

Capitolo I.… pag. 305

Capitolo II.… 322

Capitolo III.… 339

Capitolo IV.… 358

Capitolo V.… 376

Capitolo VI.… 394

Capitolo VII.… 412

Capitolo VIII.… 427

Capitolo IX.… 444

Capitolo X.… 462