NUOVA ANTOLOGIA
DI
SCIENZE, LETTERE ED ARTI

QUARTA SERIE

VOLUME SETTANTA CINQUESIMO
DELLA RACCOLTA VOLUME CLIX

ROMA
DIREZIONE DELLA NUOVA ANTOLOGIA
Via S. Vitale, N. 7
1898

Ricorre il cinquantesimo anniversario della proclamazione dello Statuto sabaudo, che per l' onestà del Principe, il senno degli uomini di Stato, la serietà e la moderazione del popolo piemontese, ebbe, solo, il vanto di sopravvivere alla foga rivoluzionaria che aveva invasa l' Europa, stanca di secolare servaggio, e alla reazione paurosa che ne seguì, per divenire legge fondamentale della patria. Molte terre d' Europa, la nostra Italia specialmente, furono ricacciate fra le tenebre del dispotismo; il Piemonte soltanto, benchè sconfitto ed affranto, seppe serbare intatto l'ideale di libertà intraveduto, e ben presto per suo mezzo il sogno di tanti secoli divenne realtà: l'Italia una e indipendente prese posto fra le nazioni.

Con nobile gara gli studiosi, a preparare gli elementi della storia dei nostri tempi, frugano negli archivi pubblici e privati, rimettono alla luce scritture, che colse l' oblio ingiustamente, proclamano i nomi di quelli, che con tanto ardore lavorarono e patirono per la santa causa della patria. Anch'io, con filiale commozione, ho frugato fra le vecchie carte per ricercare quale fosse stata l' opera di Pasquale Stanislao Mancini in Napoli nell'epoca che attrae il nostro pensiero, passa innanzi a noi, ombra eroica e luminosa con gli occhi velati di lagrime eppur rifulgenti di una speranza immortale.

Pasquale Stanislao Mancini, nato nel 1817 in Castelbaronia, piccolo comune del circondario di Ariano, trovavasi nel 1848 nel pieno rigoglio della gioventù e dell' ingegno. Adolescente appena e sotto l' egida dello zio materno, G. B. Riola, insigne magistrato e poscia avvocato di grande rinomanza, aveva ottenuto nel foro napoletano le prime vittorie della eloquenza persuasiva e commovente a lui concessa dalla natura. Alle doti spontanee dell' ingegno univa i forti studi letterari e scientifici, una memoria portentosa, i modi eletti del vero gentiluomo, la nobile passione per ogni forma di arte, un cuore generoso, che già aveva dato prova di sè agli amici e a quanti miseri a lui si erano rivolti.

Per più anni aveva diretto una piccola Rivista mensile, elegante e civettuola nella forma, compilata dai migliori intelletti del tempo: nelle pagine delle Ore solitarie il Mancini si era rivelato, non solo poeta e novelliere, ma anche scienziato e musicista. La sua mente eclettica amava di abbracciare ogni parte dell' umano sapere; niuno forse al pari di lui, dicono i suoi biografi, seppe assimilarsi con tanta rapidità ogni argomento che imprendeva a trattare; e la stessa versatilità dell'ingegno gl'impedì di lasciare ai posteri opere complete e di pubblicare scritti più che sufficienti a dargli fama: del proprio lavoro egli non era mai soddisfatto, sembrandogli essere ancora lunge da quella perfezione cui aspirava.

Nel 1836 scrisse di medicina (1) Sull'indole del colera e le sue cause nel Filiatra Sebazio, Rivista diretta dal prof. Salvatore De Renzi., presentò una Memoria di scienza fisica alla Società Reale delle scienze in Londra (2) Nuove idee sulla elettricità applicata all'invenzione di un paratremuoto., diede per le stampe varie versioni dal latino e dal francese (3) I libri di Giobbe; Canzoni di Beranger., volumetti di versi e di novelle bellissimi nella forma e riboccanti di sentimenti liberali appena velati per necessità della censura. Nominato membro dell'Accademia Pontanina, lesse quasi in ogni tornata alcun suo lavoro e commemorando Pasquale Liberatore, magistrato e scrittore di diritto, rammentò come avesse sofferto la prigionia e l'esilio per i fatti politici del 1799, ma poi esclamò: “non solleviamo il velo che ricopre un' epoca di sangue e di disastri!” e i presenti applaudirono. In quel tempo le Accademie servivano a qualche cosa.

Ma un piccolo libro attirò specialmente sul Mancini lo sguardo dei filosofi e die legislatori, ed anche oggi si legge con amore, se ne fanno citazioni e confronti. Nelle lettere a Terenzio Mamiani (1) Nozioni del Diritto., pubblicate con le risposte del filosofo romano, allora esule a Parigi, Pasquale Stanislao Mancini espone fin d' allora le dottrine di diritto penale e costituzionale, che furono le norme della vita pubblica. “La retta ragione non crea i doveri, ma li scopre e li attinge dalla natura delle cose, e scoperti, li prescrive alla volontà … Kant alla regola fondamentale della morale: perfeziona te stesso! non ebbe ragione di aggiungere: cerca l'altrui felicità, ama gli altri uomini… La beneficenza, la bontà, l'amore dell' umanità sono tutte forme di morale perfezione dell'animo che le possiede…”. Quale nobile filosofia e come diversa da quella che predicano i nostri giovani filosofi moderni! Per il Mancini “la pace deriva quale effetto necessario dal giusto e solamente da esso: senza il giusto la pace è una impossibilità…”. Per lui “il diritto e il dovere sono anteriori alla legge…”, il diritto è la libertà di avere e di fare il giusto dichiarato dalla legge”. Egli vuole che tutto si spieghi seguendo i dettami della natura. “Niuno degli elementi naturali della personalità umana merita esser dimenticato o rigettato dalle leggi… ”.

Queste idee del giovane non ancor trentenne si ritrovano più tardi nelle prelusioni, nei discorsi, nei lavori per l'Istituto di diritto internazionale. Egli fu sempre eguale a se stesso per tutta la vita: come giovanetto opinava contro la legittimità della pena di morte, come proclamava allora il necessario connubio del giusto con l' utile, della morale con la politica, così fino all' ultimo infuse nell' insegnamento, nei Codici, in ogni suo lavoro quei principî di morale e di libertà senza i quali non vi è duraturo progresso.

Nel 1843 il Mancini aveva aperto nella propria casa un corso di diritto penale. L'insegnamento privato in Napoli, per tradizionale consuetudine, era lasciato libero, e certo valse a preparare quella schiera di giuristi, scienziati e patrioti, che tanto onorarono la patria. I pochi superstiti di quel tempo lontano anche oggi rimpiangono che l' Italia non abbia saputo far sue quelle libere istituzioni, e che abbia preferito la via angusta dei regolamenti, della burocrazia e degli studi universitari obbligatori. Col Mancini tenevano cattedra il Savarese, il Pisanelli, lo Scialoia, ed era una nobile gara quella che animava i giovani professori nel disimpegno del loro ufficio volontariamente assunto; essi avevano formata una specie di Facoltà collegando insieme i vari corsi, e i giovani accorrevano numerosi, mentre le panche delle cattedre governative erano vuote. Si narra persino che un povero professore menava seco il servo o qualche uditore pagato per non insegnare al deserto.

Le gentili Ore solitarie non si pubblicavano più, ma al loro posto era sorta la importante Rivista intitolata Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche. Il Mancini l'aveva fondata e diffusa in Italia ed all'estero; spesso accanto al nome del Mamiani, del Carmignani, dello Sclopis leggevansi quelli del Mittermayer, dell' Ortolan e del Cobden. Moltissime Accademie scientifiche accolsero il giovane giurista, già noto ovunque come propugnatore di una scienza rinnovata. Quello che per la Toscana era il Guerrazzi, il Mamiani per lo Stato della Chiesa, il Gioberti per il Piemonte, era il Mancini per la gioventù napoletana.

Questo giovane dalla simpatica fisonomia, dall'ornata parola, veniva da tutti riconosciuto ormai come il capo del movimento intellettuale del paese; la sua casa si apriva a geniali riunioni, presiedute dalla madre, Grazia Maria Riola, donna di mente elevatissima e di piacevole ed erudita conversazione; allietate dalla giovane sposa, Laura Beatrice Oliva, che accoppiava al nome già chiaro nelle lettere una bellezza rara ed una gentilezza di modi non dimenticata da chi la conobbe.

L' eloquenza forense fu sempre in Napoli sorgente di ricchezza e di rinomanza e il giovane avvocato Mancini, ora che Giuseppe Poerio, Antonio Starace e Pasquale Borrelli potevano dirsi astri tramontati, aveva occupato, con pochi altri, il primo posto nel foro. È famosa la sua difesa degli eredi del marchese Mascara contro i gesuiti, anche perchè la rammenta con elogio il Gioberti nel primo volume del Gesuita moderno. Così pure, in materia penale, la difesa dei fratelli Landi di Messina, contro il marchese Di Gregorio, favorito di Ferdinando II. La memoria giudizio di falso, fu ritenuta ingiuriosa per il Governo e il ministro di polizia, generale Delcarretto, ordinò l'arresto dell'avvocato; ma appena se ne sparse la notizia, una solenne e numerosa dimostrazione di studenti e di avvocati si riunì sotto il palazzo della prefettura acclamando alla dottrina del giurista e all'indipendenza del foro. Il giorno dopo il Mancini fu rilasciato e la Curia napoletana diede in onor di lui un banchetto che terminò fra i brindisi e gli augurî ad un'êra di libertà, che si presentiva e si sperava vicina.

Maturavano gli eventi. Il Congresso del 1845 riuniva in Napoli tutti gli scienziati italiani, affratellando negli studi e nelle idee quelli, che già lavoravano al illuminare l' opinione pubblica, a preparare tempi meno tristi. Nel 1846 gli stessi uomini furono convocati da Carlo Alberto in Genova, in occasione delle feste in onore di Cristoforo Colombo.

In Napoli il Mancini, membro della sezione di scienze giuridiche, sostenne brillanti discussioni, lesse interessanti monografie, seppe guadagnarsi la simpatia degli intervenuti; così in Genova si trovò fra amici e conoscenti. Sono notevoli le sue relazioni sulla statistica della beneficenza in tutta Italia, quelle sull' istruzione popolare. Nelle serate artistiche alternate alle sedute scientifiche, Laura Beatrice, che aveva accompagnato il marito, lesse la sua tragedia: Cristoforo Colombo (1) Pubblicata in Genova per cura della Commissione incaricata delle onoranze nel 1892., tutta piena di allusioni liberali. La bella e giovane poetessa aveva succhiato col latte le idee democratiche e l' odio per la tirannide; suo padre, letterato chiarissimo per quanto sventurato, le aveva appreso a leggere nelle tragedie di Alfieri, che da bimba sapeva a mente. E forse ella contribuì a liberare il marito per sempre da ciò che ancora persisteva in lui, nato di famiglia patrizia, delle vecchie idee di nobiltà e dei pregiudizi di casta.

Di ritorno da Genova e da un lungo viaggio per tutta Italia, la coppia Mancini fu messa sotto sorveglianza Fin a quel giorno Ferdinando II aveva mostrato molta simpatia e deferenza per il giovane avvocato, gloria del paese, ma i rapporti che gli erano stati fatti non gli andavano a sangue, specialmente gli dava da pensare ciò che aveva saputo della sua permanenza in Roma. Colà monsignor Muzzarelli, che nell' esilio, povero e cieco, fu a sua volta confortato dai Mancini, una vera potenza in quei giorni, aveva dato un gran pranzo alla eletta coppia napoletana; vi si era parlato liberamente delle disposizioni del nuovo Pontefice a concedere le desiderate franchigie. Luciano Bonaparte, intelligentissimo e giusto estimatore del sapere e della bellezza, aveva invitato il Mancini e la moglie ad un ricevimento e aveva fatto loro conoscere quanto di meglio albergava Roma in fatto di arte. Il conte Domenico Gnoli, dotto professore alla Sapienza e padre di famiglia esemplare, albergava il Mancini e la moglie nella propria casa e con la istitutrice dei propri figli, Rosa Taddei, li accompagnava a visitare i monumenti, che suscitavano in essi quella commozione che è propria delle anime nobili.

La Rosa Taddei, poetessa improvvisatrice di gran fama, stanca della vita girovaga, aveva trovato presso il conte Gnoli amorevole rifugio ed era stata l' anello di congiunzione tra i Mancini e la famiglia del suo benefattore. Ella aveva conosciuto il giovane Mancini in Napoli, quando si era colà recata a dare un saggio del suo talento; anzi una sua poesia dedicata a Laura Beatrice e pubblicata nelle Ore solitarie, fu il punto di partenza del grande amore dei due giovani. Nella città eterna e meravigliosa, che già futuri. Da quel momento non ebbe che un solo pensiero: aiutare con tutte le forze del cuore e dell'intelletto il riscatto del proprio paese. A tale scopo egli, che non ammetteva se non le vie oneste e legali, immaginò di fondare un giornale per promuovere le idee liberali; ma la censura preventiva non consentì per allora l'attuazione del disegno; egli si servì più tardi del programma quando pubblicò nel febbraio 1848 Il riscatto italiano e poscia La libertà.

Intanto il Governo del Borbone, a rendere meno odiosa la censura, immaginò di nominare una Commissione di uomini colti incaricata di mitigarne i rigori e in questa pose il Mancini, il quale, appena ricevuta la nomina, sdegnosamente si dimise con lettera a stampa, nella quale qualificava la censura “incompatibile con lo spirito dei tempi” e dichiarava che solo quando fosse garantita la libertà del pensiero egli sarebbe tornato nel giornalismo.

Molto si adombrò Ferdinando II del rifiuto e dell' ardita dichiarazione e la prima volta che il Mancini si recò da lui per chiedere la grazia di un condannato a morte, il che gli era concesso immancabilmente, non essendo il Re sanguinario, nel concederla gli battè sulle spalle, dicendogli nel dialetto che affezionava: “Pasqualì, fa u paglietta, che fai buono!” (1) Pasqualino, fa l' avvocato, che farai bene.

Alla fine del 1847 era scoppiata la rivoluzione in Calabria al grido di viva Italia, viva la Costituzione, viva Pio IX, bentosto seguìta dai moti di Sicilia. Il ferro, il fuoco, le prigioni, la fucilazione erano i mezzi adoperati a domare l' effervescenza popolare; ma invano! Spaventato il Re dai sintomi di aperta ribellione, poichè fu scoperta una congiura contro i suoi giorni; consigliato dallo stesso Delcarretto, ministro di polizia, deliberò di promettere alcune fra le chieste franchigie. Per compiacere al voto popolare furono licenziati parecchi ministri, tra cui quel Nicola Santangelo da tutti ritenuto ladro, ma che pure aveva ereditato dal padre con un magnifico museo di antichità l' amore delle arti belle. Man mano in tutti rinasceva la sicurezza e l' ardire; senza più celarsi i liberali accorrevano giornalmente alla prigione di S. Maria Apparente, dove Carlo Poerio da più mesi era prigione con Mariano d' Ayala, Domenico Mauro e tanti altri, arrestati quali fautori della rivoluzione calabrese. Colà, nella stanza del custode maggiore, si discutevano gli avvenimenti del giorno, si leggevano gazzette e libri proibiti, si rannodavano le fila di nuovi complotti.

Nel novembre fu decisa una grande dimostrazione sotto le finestre del palazzo reale, nell' ora in cui soleva radunarsi la gente a sentire la banda musicale; il motto d' ordine era: viva il Re, viva la Lega italiana! Re Ferdinando allora ordinò che non più suonasse la banda, e volle che il prefetto di polizia pubblicasse un editto a vietare le grida sediziose, comprese quelle di viva il Re! (2) Ferdinando II e il suo Regno, per Nicola Nisco. Ma era tardi. La rivoluzione di Sicilia non potè domarsi neanche con quel feroce e barbaro bombardamento di Palermo, che meritò al Re napoletano l' odioso soprannome di Bomba. I Napoletani, elettrizzati dalle notizie siciliane, che assicuravano il popolo padrone in Palermo del palazzo reale e delle fortezze, l' esercito in piena rotta, presero animo a pretendere intera la libertà.

I tre colori, prima con timidità, poi arditamente si mostravano dovunque: all' occhiello dei giovani, sul petto delle signore, nell' addobbo delle case, nei mazzi di fiori, nella disposizione delle frutta e delle vivande; nella grande dimostrazione popolare del 27 gennaio 1848 si osò far comparire per Toledo un carro sormontato dalla bandiera italiana cui facevano corona, come un tempo al Carroccio, una schiera di ardimentosi giovani delle migliori famiglie della città. Una petizione, redatta dal giovane giornalista Ruggero Bonghi, che indicava chiaramente al Principe la via da seguire, fu coperta d' innumerevoli firme, tra cui quelle del principe Strongoli e di Gaetano Filangieri; vinta così ogni resistenza reale, all' alba del 29 gennaio l' atto sovrano che prometteva fra dieci giorni un progetto di Costituzione, venne affisso per le cantonate.

Tutti i giornali del tempo sono pieni di smaglianti descrizioni di quei giorni di giubilo e di vera frenesia. Archi di trionfo, luminarie, dimostrazioni entusiastiche si succedevano senza posa, notte e giorno; dovunque sventolavano bandiere, si distribuivano coccarde, si arringava il popolo, si acclamava al Re liberale.

La nomina di Paolo Bozzelli a capo del nuovo Ministero, che doveva compilare lo Statuto, sembrò a tutti una scelta felicissima. Costui, imprigionato per ragioni politiche, da poco era tornato da Parigi, dove aveva vissuto lungamente in esilio. Aveva pubblicato colà un libro di diritto costituzionale (1) Esquisses politiques sur l'action des forces sociales. Bruxelles, Arnould Lacrosse, 1827. in lingua francese, e si riteneva che avesse molto letto e meditato sull'arte di governare. Anche il Mancini credette felice tale scelta, e ne gioì con gli amici; era suo collega nella Pontaniana e spesso insieme avevano conversato di politica; anzi, appena lo seppe al Ministero, si recò da lui per ottenere che fosse tolta la censura sulle rappresentazioni teatrali; il che subito gli fu accordato.

Intanto erano passati i dieci giorni, e lo Statuto promesso non era pubblicato; una grande agitazione regnava nei circoli della città, e già si parlava di disordini, quando la mattina del 9 febbraio si sparse la notizia che il Bozzelli aveva letto il suo disegno di Statuto nel Consiglio dei ministri; questi lo avevano approvato e il Re vi aveva apposto la firma. Alla sera, quando fu pubblicato, recò a molti una crudele delusione. Ben diverso da quello sabaudo, concesso poco tempo dopo, non ammetteva la libertà di coscienza, concedeva esclusivamente al Re tanto il diritto di conchiudere alleanze, come di commandare senza controllo tutte le forze di terra e di mare. Spiacquero sopratutto la formazione di una Camera di Pari. Ad ogni modo i più l' accolsero con favore, perchè consacrava i principî di parecchie desiderate libertà. Si rinnovarono le manifestazioni di gioia, e il Re ordinò che si celebrasse in tutte le chiese un solenne Te Deum.

Che tutti quelli, che, come il Mancini, il Poerio, lo Spaventa, vagheggiavano fin da quei giorni l' unità della patria, credessero possibile di vedere il Re di Napoli alla testa della nazione, è facile immaginare. Amantissimi della terra natale, dimenticavano i recenti fatti per ricordare soltanto che nell'andare al trono il giovane Ferdinando aveva accennato a voler regnare con giustizia e clemenza.

Dovunque la fiaccola rivoluzionaria spandeva luce, ora fosca, ora di mite splendore. Le dimostrazioni di Torino facevano eco a quelle di Roma, di Bologna, di Parigi, di Vienna. Milano con le famose giornate di marzo ispirò Brescia, Pavia, Venezia; ed un solo pensiero si faceva strada: quello di unire le forze sparse, di confonderle per affrontare lo straniero e discacciarlo per sempre dal suolo italiano.

Mazzini, repubblicano fino a quel giorno, accettava la presidenza della Associazione Nazionale, e proclamava la necessità di promuovere con ogni mezzo possibile lo sviluppo del sentimento nazionale, senz' anelare al trionfo dell' una o dell' altra forma di governo.

Mancini, uomo d' ordine per quanto entusiasta e liberale, presentì che nei piani lombardi si sarebbero decise le sorti d' Italia, e formulò in una petizione al Re i voti dell' intero popolo napoletano. Quello scritto puo dirsi la prima rivelazione del suo talento politico, il primo passo nella carriera di uomo pubblico; esso terminava con questa apostrofe: “Accorrete, Sire, a ricevere il battesimo della gloria italiana, a riacquistare la simpatia e le benedizioni degli Italiani. Non lasciate a Carlo Alberto la gloria di essere il solo Principe d' Italia pronto ad affrontare il nemico comune… E se anche i decreti dell' Eterno preparassero nuove sventure all' Italia nella riuscita di questa guerra santa, siate persuaso, Sire, che sarebbe men triste e più glorioso per noi tutti perire con l' Italia, anzichè rimaner salvi per viltà”.

I propositi vacillanti del Re furono scossi da quell' appello eloquente. Egli chiamò a sè il Mancini, ebbe con lui un lungo colloquio, e lo congedò promettendogli di far noto al paese che il suo desiderio sarebbe ascoltato. Infatti un giornale ministeriale riportando la petizione aggiungeva: “S. M. ha dato al Mancini, che gli presentava la petizione con le istanze orali le più calorose, l' assicurazione che un corpo di truppe napoletane partirebbe tra poco per raggiungere l' armata piemontese”.

Gli storici dell' epoca, tra cui il Nisco, testimone e parte di questi avvenimenti, che gli costarono la galera, l' esilio ed immensi sagrifizi e dolori, sono unanimi nel ritenere che in quel momento colui, che doveva registrare la storia come l' ultimo dei tiranni, ancora non avesse meditato il tradimento e fosse di buona fede. Anche a lui dovette balenare nel pensiero quel sogno do gloria e di grandezza: mettersi a capo delle genti italiane, riunirle in una federazione di cui egli sarebbe il capo temporale, mentre Pio IX serberebbe la supremazia di nome e quella delle anime. Se pur lo concepì, vano e breve fu tal sogno; tutto gli faceva difetto: le tradizioni di famiglia, poichè l' avolo e il padre avevano regnato tra le stragi e il terrore; l' educazione politica, poichè fino all' età maggiore non aveva partecipato a nessun atto pubblico, educato da gesuiti, e vissuto nella Corte fra le lotte e i pettegolezzi delle camarille cortigiane.

Un lungo periodo di tirannide aveva pesato sulla plebe napoletana aggravandone l' ignoranza. Per contrapposto, in poche città d' Europa, quanto in Napoli, nell' alta borghesia e nella nobiltà si contavano tante individualità spiccate, tanti ingegni dediti agli studi letterari e sociali; e tale distacco fra le classi rendeva difficile il governare. Soltanto una perfetta buona fede, la spassionata ricerca del bene, un desiderio ardente nei governanti di compiere la riforma delle istituzioni avrebbero potuto avviare il paese a trarre profitto dal nuovo stato di cose. Invece la diffidenza e l' inganno, la visibile brama di ritogliere lo Statuto concesso per forza, resero vana l' opera degli onesti, dando a tutti, fin dal primo giorno, l' impressione di vivere nel precario.

Se Napoli aveva esultato per lo Statuto finalmente concesso, non volle prestar fede alle promesse la Sicilia, nè deporre le armi. Palermo trionfante e libera aveva proclamato nel Parlamento siciliano la decadenza della dinastia borbonica e la necessità di eleggere un Re autonomo per la Sicilia, scegliendolo fra i principi delle famiglie regnanti più liberali. Tutti rammentano come l' offerta fosse fatta al secondogenito di Carlo Albeto, e come questi la declinasse. L' Inghilterra, sia veramente per simpatia verso l' isola, sia per assicurare a sè un protettorato che equivalesse a signoria, aveva lavorato pubblicamente a sostenere le pretensioni dei Siciliani alla completa indipendenza. È noto l' eroismo dei Siciliani e come resistessero a lungo per gran parte dell' anno fino al nefando bombardamento di Messina; ma è cosa certa, che se il Napoletano e la Sicilia avessero potuto unirsi nel pensiero dell' unità per combattere la reazione, servendosi dei mezzi legali ed onesti, se gli utopisti e gli arruffapopoli non avessero profittato della libertà per promuovere disordini, gli avvenimenti si sarebbero svolti in diverso modo nel Mezzodì d' Italia.

Il generale Guglielmo Pepe era bensì partito per la Lombardia con alcuni reggimenti, ma per via gli si era ordinato nel nome del Re di non valicare il Po senza ordine sovrano. In Calabria già era scoppiata di nuovo la rivolta, e in molte città del Regno faceva capolino la reazione capitanata spesso dal clero. Nella reggia stessa si era formato un Comitato reazionario, che, consenziente il Re, pensava di rovesciare il Governo costituzionale appena iniziato. Esso si adoperava a spargere la notizia che la guerra contro l' Austria fosse opera scomunicata, e aizzava la plebe al disordine, nella speranza che i più, per quieto vivere, avrebbero bramato il ritorno al dispotismo.

Indette nel Regno le elezioni dei deputati, il Mancini fu eletto all' unanimità nel collegio della nativa Ariano, che doveva rimanergli fedele fino alla morte. In nessuna epoca, e forse in nessun paese, gli elettori, invero in numero ristretto, seppero disimpegnare il loro còmpito con tanta coscienza e criterio. Essi profittarono della facoltà di eleggere i loro deputati dall' età di 25 anni per inviare alla Camera l' elemento giovane, imbevuto di idee moderne e pronto alla lotta per difendere le conquistate istituzioni. Fra i vecchi tornarono in Parlamento quelli che in gioventù avevano sofferto per le idee liberali e che sotto la canizie conservavano il fuoco dei primi anni. Molto sperava il paese dai propri deputati e aspettava con ansia l' apertura della Sessione.

Il 13 maggio nella sala di Monteoliveto, palazzo di città, vi fu la prima seduta preparatoria; bisognava formulare un regolamento e stabilire il cerimoniale per l' inaugurazione. Ma già gli animi non erano sereni; il Petruccelli, a capo di un piccolo gruppo di perturbatori, minacciava i primi scandali. Si era sparsa la notizia che il Re volesse imporre ai deputati e senatori la formola di un giuramento restrittivo, che non accennasse al possibile svolgimento dello Statuto. I moderati compresero il pericolo di una discussione preliminare sopra una intricata questione di diritto costituzionale, e ad eliminarla inviarono al Consiglio dei ministri un Commissione per ottenere che il giuramento fosse differito fin dopo la verifica dei poteri. Di questa Commissione faceva parte il Mancini, che perorò tanto bene da persuadere il Ministero ad accordare la desiderata promessa.

Il 3 aprile, caduto il Bozzelli sotto il peso della disapprovazione generale, prova vivente di quanto poco valore abbiano le teorie scritte, se non vivificate dal sentimento e dal carattere, era stato incaricato della formazione di un nuovo Ministero il vecchio Carlo Troia, storico insigne, di animo gentile, di costumi illibati. Esule dal '21, serbava sotto i capelli bianchi un entusiasmo giovanile e prediligeva tra i giovani il Mancini, nel quale riconosceva una delle speranze della patria. Con lui erano al potere Raffaele Conforti figlio di uno dei martiri del Novantanove, Luigi Dragonetti, anch' esso imprigionato parecchie volte e proscritto, Antonio Scialoia, giovane economista professore a Torino, ed altri, tutti egualmente amati dal paese. Perciò i deputati si erano recati fidenti dai ministri e non dubitavano di aver appianata ogni difficoltà. Lieti di ciò tornarono a riunirsi il giorno seguente per nominare la Commissione che doveva ricevere il Re e la famiglia reale. A un tratto lo staffiere di Corte reca un gran pacco di programmi e ognuno legge con stupore e dispetto mantenuto l' articolo sul giuramento. Tornata la Commissione parlamentare dai ministri, apprende che questi sono dimissionari, perchè il Re non ha voluto cedere: un vero colpo di Stato. Si propone un compromesso, una nuova formola di giuramento, ma invano tutto il giorno e la notte durano le discussioni, gli andirivieni, le proteste, le preghiere. La folla che circonda il palazzo di Monteoliveto, capitanata dal facinoroso La Cecilia, senza nulla comprendere, incomincia a tumultuare. La notizia si sparse in un attimo, che i forti sovrastanti alla città erano armati e pronti a far fuoco, che i reggimenti svizzeri, riuniti nelle caserme, avevano ordine di assaltare i posti di guardia nazionale; e come se un motto d'ordine già esistesse, si die' mano ad innalzare le barricate. Carri, carrozze, mobili gittati dalle finestre; le imposte e le insegne delle botteghe; le larghe lastre di lava vesuviana, che lastricano le vie napoletane; tutto fu adoperato a formare enormi cataste ad ogni sbocco di via, mentre i militi della guardia nazionale, fraternizzando con una parte del popolo, caricavano i fucili, pronti a far fuoco sulle truppe ed a vendere caramente la vita.

Ad evitare il conflitto il Re fece sapere che acconsentiva a tutto: che nella sala della Regia Università, dopo la verifica dei poteri, il Parlamento avrebbe giurato fedeltà al Re ed alla Costituzione senz'altro. A questo messaggio conciliante del Re, i deputati, nella speranza di ricondurre la pace, si aggirarono fra i tumultuanti per persuaderli a disfare le barricate, per lasciare libero il passaggio al Re, che doveva recarsi all' inaugurazione del Parlamento. Essi s'impegnavano a far ritirare la truppa e molti deposero il pensiero di combattere. Con l'esempio, anche i più esaltati avrebbero finito per cedere, man nel Re, nella Regina, nei loro consiglieri lo sdegno ed il timore furono più forti della prudenza. Per ordine di Palazzo i reggimenti svizzeri furono sguinzagliati per la città col mandato di assalire e distruggere le barricate ancora esistenti. Nel tempo stesso gli usseri, i reggimenti della guardia, dei granatieri, dei cacciatori erano schierati lungo le vie e allineati sulle piazze; l'artiglieria da piazza e da campagna caricava i suoi cannoni, e l'apparato di tante forze inaspriva i rivoltosi, gittava il panico fra gli inermi. La battaglia, che invano si era cercato di evitare, scoppiò verso il mezzodì del giorno 15, senza poter dire da qual parte si fossero tirati i primi colpi.

Il Re aveva dato ordine agle Svizzeri di non tornare al Palazzo, se prima non avessero sbarazzata la via di Toledo; e questi ubbidirono. Un eccidio orribile ne seguì. I lazzaroni, capitanati dagli stessi soldati, incominciarono il saccheggio sfondando le porte; e le grida sediziose ogni tanto erano sopraffatte dalle cannonate che facevano rovinare i tetti e le mura. Donne, vecchi e bimbi venivano miseramente trucidati e fra le fiamme e i cadaveri passavano rapide le orde dei saccheggiatori, cariche delle rapite masserizie; oppure, aggruppate nel sangue e fra le rovine, avidamente si dividevano la preda.

Quella scena faceva pensare alla strage della Saint-Barthélemy e molti storici opinano che quella fosse voluta e preparata da Re e dai suoi complici. Ma anche fra i borbonici vi erano anime virtuose; nel momento che una mano di soldati svizzeri si slanciava nel palazzo di Montemiletto in cerca di alcuni ribelli, che si dicevano colà rifugiati, il vecchio principe apparve coraggiosamente innanzi a quei forsennati (1) N. Nisco, Storia del regno di Ferdinando II. nella uniforme di gentiluomo di Corte e giurò che niuno sarebbe penetrato nella sua casa senza prima trucidarlo; così furono salvati Luigi Settembrini, Filippo Capitelli ed altri veramente colà rifugiati.

Mentre ferveva la lotta, i deputati napoletani non si mossero dalla sala di Monteoliveto e diedero al mondo in quel giorno un grande esempio di civile coraggio. Il venerando arcidiacono Samuele Cagnazzi, ottuagenario, presiedeva l'Assemblea per ragione di età, e la discussione procedeva seria e ordinata fra gli urli, le fucilate, i colpi di cannone; ogni tanto qualche deputato, non presente dalla mattina, accorreva volontario a dividere i pericoli dei colleghi ed era accolto con segni di approvazione; Vol. LXXV, Serie IV—16 Maggio 1898. molte furono le proposte; ma prevalse quella di nominare un Comitato di pubblica sicurezza e d' inviare un oratore al comandante della piazza e ai ministri, mentre due questori avrebbero badato alla disciplina e impedito che niun deputato si affacciasse al balcone a parteggiare con i combattenti.

A un tratto un drappello di gendarmi comandati dal capitano Pignatara, per ordine del generale Nunziante, penetrò nella sala; colpiti quei soldati all'inatteso spettacolo, come un tempo i soldati di Brenno alla vista dei senatori romani, muti e rispettosi non osarono di usare la forza a sgombrare la sala, come voleva l' ordine. Il vecchio Cagnazzi dapprima si rifiutò recisamente ad ubbidire, ma poi persuaso con gli altri che la loro opera era vana a salvare il paese; richiese dal Pignatara che mostrasse un ordine per iscritto. Questi, che poi dovette pagare caramente la propria moderazione, accordò all'Assemblea una mezz' ora di tempo, e mandò un messo al generale. In quel mentre fu deciso di formulare una protesta, che tutti avrebbero firmata, a ricordo della violata libertà dei rappresentanti del paese: e il giovane Pasquale Stanislao Mancini fu eletto al pericoloso onore di stenderla sotto gli occhi del capitano Pignatara e dei suoi gendarmi.

Quella protesta io qui la trascrivo commossa e sarà letta da chi ancora non la conosce con uguale commozione. Fu tracciata in pochi minuti, ricopiata e sottoscritta dai 66 deputati presenti. Stefano Romeo, calabrese, figlio di Andrea, e di quella eroica famiglia dei Romeo che tutto sagrificò alla patria, ebbe, come il più giovane dell'Assemblea, l' incarico di custodirla. Egli trovò rifugio sopra una nave francese e ben presto la rese nota in Europa (1) Fu stampata dalla Patria di Firenze del 27 maggio e riprodotta subito ovunque..

La Camera dei deputati, riunita nella sua seduta preparatoris in Monteoliveto, mentre era intenta ai suoi lavori e all'adempimento del suo sacro mandato, vedendo aggredite con inaudite infamie dalla violenza delle armi regie le persone inviolabili dei suoi componenti nei quali è la sovrana rappresentanza della Nazione, protesta in faccia alla Nazione medesima, in faccia all' Italia, l' opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con nefando eccesso, in faccia a tutta l' Eutopa civile oggi ridesta allo spirito della libertà, contro questo atto di cieco ed incorreggibile dispotismo e dichiara che essa non sospende le sue sedute se non perchè costretta dalla forza brutale; ma lungi dall'abbandonare l'adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi momentaneamente per riunirsi di nuovo dove ed appena potra, a fin di prendere quelle diliberazioni che sono reclamate dai diritti del popolo, dalla gravità della situazione, e dai principî della conculcata umanità e dignità nazionale.

Compiuto il pericoloso mandato il Mancini e gli altri uscirono senza troppo affrettarsi nè nascondersi. I più giovani facevano scudo del loro petto al vecchio Presidente, che nel firmare per il primo la protesta aveva esclamato sorridendo: “È bello morire per la libertà e il decoro del proprio paese!”

La bozza di questo scritto (1) Ne fu fatto un facsimile che può vedersi innanzi ai Discorsi parlamentari di P. S. Mancini, stampati per cura della Camera dei deputati. così come uscì dalla penna concitata del Mancini, reca quest' annotazione della sua stessa mano:

Questo manoscritto mi è carissimo, perchè ricorda uno dei giorni più infausti della mia vita e della storia napoletana. Esso fu da me vergato nella sala di Monte Oliveto ove la Camera dei deputati era adunata, in uno stato di suprema concitazione, quando accerchiata dai battaglioni svizzeri vittoriosi delle barricate, diede a me il mandato di fiducia, non so se più onorevole o pericoloso, di compilare in suo nome una solenne protesta o programma, mentre ci credevamo tutti inevitabilmente consacrati alla morte, che attendevamo, come era debito dei rappresentanti del paese, immobili ed imperturbati.

Questo manoscritto, dopo che la protesta fu copiata e firmata da tutti i deputati presenti senza alcuna eccezione, fu da me nascosto nella mia cravatta per salvarlo dalle possibili ricerche degli armati venuti a sacciarci e catturarci e così trovasi in mio potere.

Quali fossero le vittime e le conseguenze del 15 maggio ha registrato la storia. Il Mancini, con altri deputati, trovò rifugio nel palazzo Gravina, sede della posta, già crivellato di palle; e soltanto all' alba si avviò verso Portici, dove dimorava in villeggiatura la moglie con i bambini, mentre la povera madre era avvertita in Napoli da un amico della salvezza del figlio. Mio padre mi ha narrato più volte come nel suo animo non albergasse un solo istante un sentimento di paura per se medesimo: provava soltanto un infinito dolore per le sventure della patria, un senso di umiliazione nel veder crollare in tal modo tanti sogni di gloria e di grandezza, accarezzati dall' adolescenza. Giovane entusiasta, avrebbe data volentieri la vita per salvare il proprio paese e per la prima volta in vita sua era invaso da crudele scoraggiamento. E mentre nella luce scialba del mattino camminava incerto fra i rottami, o rabbrividiva alla vista di un cadavere abbandonato, mentre qualche soldato ubriaco lo insultava bestemmiando nella via deserta o una ciurma di popolani cenciosi, affaccendata a raccogliere nella polvere gli avanzi del bottino, pareva pronta a slanciarsi su di lui, riconoscibile all'abito nero ed alla cravatta bianca per uno dei deputati, che il popolo riteneva causa dei disordini, egli esaminava la propria coscienza per sapere se di nulla fosse colpevole. Ma no, egli ed i suoi colleghi erano stati vittime di un tenebroso intrigo; la plebe ignorante e crudele era degna del Re traditore e tiranno. Egli presentì in quell' ora che era vano sperare in un prossimo rinnovellamento della diletta terra napoletana: chinò la testa e pianse.

Ognuno può immaginare lo stato di angoscia della giovane moglie, la quale oltrechè per il marito tremava da più giorni per la vita di un suo bambino colpito dal tifo che infieriva nella città e nei dintorni. Infatti due giorni dopo anche il Mancini fucolto da quel morbo e i patemi di animo, in cui era vissuto, aggravarono il male. Per due mesi lottò con la morte e finalmente fu salvo, ma la convalescenza durò a lungo, resa penosa dalle notizie he gli giungevano da ogni dove. L' alito reazionario che soffiava nel paese cercava di spegnere la fiaccola vacillante delle concesse libertà; la polizia inaugurava il regno dei sospetti, dei soprusi, degli arresti arbitrari, interrotto un momento dal febbraio al 15 maggio; i caporioni del popolo, incoraggiati dai gesuiti già ricomparsi, dagli antichi ricordi della Santa Fede, lavoravano a pervertire gli ignoranti. Per contro, i liberali tornavano alle sétte, ne creavano di nuove, fra cui la più famosa è quella dell' Unità Italiana, della quale il Settembrini compilò gli statuti ed ebbe a presidente il giovane deputato Silvio Spaventa. Ma il Mancini non fu mai settario; la sua natura onesta e veritiera rifuggiva dal mistero; non volle mai essere nè carbonaro, nè massone, e vecchio, soleva dire sorridendo, che se ciò forse non aveva giovato alla sua vita politica, l' aveva fatto vivere in pace colla propria coscienza, non mai schiava dei criteri e delle passioni altrui.

Caduto il Ministero liberale del 3 aprile, il Bozzelli aveva riafferrato il potere; il suo primo atto fu quello di richiamare il corpo di spedizione spedito in Lombardia. Tutti ricordano come il generale Guglielmo Pepe, seguíto da alcuni uffiziali tra cui il Cosenz, l' Ulloa, il Mezzacapo, valicasse il Po non tenendo conto dell' ordine ministeriale; ma attenendosi a quello anteriormente ricevuto dal Re: il grosso delle truppe collocato sotto i suoi ordini non volle seguirlo, e il valoroso colonnello Lahalle, nell' atroce bivio, si fece saltare le cervella.

Malgrado c ò, non essendo abolito lo Statuto, fu necessario acconsentire alla rielezione del Parlamento arbitrariamente disciolto con la violenza; e questo fu l' unico atto che fra tanti arbitrarî sembrò un accenno a voler tornare nella legalità; infatti per legge non si potevano esigere le imposte, se non prima discussi e votati i bilanci. Il giornalismo, che per un mese aveva taciuto, tornò ad inondare le città di pubblicazioni, spesso servili e prezzolate, ma più spesso ancora coraggiose ed inspirate al sentimento dell' italianità.

Gli elettori, il 15 giugno, adempirono nobilmente il loro mandato riconfermando i deputati uscenti, e il primo luglio questi furono convocati nella sala dei Regi Musei per l' inaugurazione. Il duca di Serracapriola, prescelto dal Re a leggere il discorso della Corona, cominciò con voce trepidante. Pari e deputati lo ascoltarono freddamente; ognuno commentava il fatto, che il Sovrano non aveva osato avventurarsi di persona fra quelli che dovevano essere il palladio del trono e delle istituzioni.

Nel discorso il Bozzelli faceva dire al Sovrano: “Mentre nel mio animo vagheggiava il sospirato giorno in cui sarei circondato dalla Camera rappresentativa del Regno, un fatale disastro, del quale non lascio mai di contristarmi, sopraggiunse a protrarre la solenne niunione”.

Quindi, fatta la enumerazione delle leggi che avrebbe proposte, raccomandava l' ordine e conchiudeva: “Avendo chiamato Iddio giudice della purità delle mie intenzioni, non altri mi rimangono a testimoni che voi e la storia”.

Alla guerra contro l'Austria non un accenno. Il silenzio subito inacerbì gli animi. Una Commissione di uomini prudenti e coraggiosi fu eletta a proporre l' Indirizzo di risposta. Il Savarese ne fu l' estensore ed in esso era chiaramente espressa la sfiducia nel Ministero e la necessità di prender parte alla guerra che si combatteva per l' indipendenza della penisola. Insomma era un programma politico e si compendiava nelle seguenti parole: Italianità, ritorno alla legalità costituzionale (1) Vedi Casi di Napoli dal 20 gennaio 1848 in poi, per Giuseppe Massari..

Re Ferdinando rifiutò di ricevere tale Indirizzo. Invano i deputati scongiurarono il ministro Bozzelli di consigliare al Re di non mettersi in aperta lotta col Parlamento fin dal primo giorno: ogni rimostranza fu inutile.

I deputati eletti erano 164, per cui ne abbisognavano 83 presenti perchè fossero valide le deliberazioni, ma subito questo numero fu oltrepassato e alla prima Sessione presero parte centoquattordici deputati; nobile esempio, perchè tra i cinquanta che mancavano bisognava tener conto delle elezioni doppie, delle annullate, degli ammalati, di quelli che preferivano combattere in Sicilia ed in Calabria. La maggioranza era schiettamente costituzionale; il Ministero non aveva per sè nessuna persona di valore: Carlo Poerio capitanava l' opposizione. Il Mancini non era presente a quelle prime avvisaglie e nella seconda tornata l' onorevole Giardini domandò per lui un congedo di alcuni giorni per motivi di salute. Ma già al primo di agosto egli era in grado di pronunziare un eloquente discorso sul progetto di legge per la guardia nazionale; da quel momento prese parte a tutte le discussioni importanti. Il 2 riprese la parola in favore della petizione dei Siciliani arbitrariamente ritenuti prigioni in S. Elmo. Il 19 pronunziò il suo primo discorso contro la pena di morte, sostenendo il progetto proposto dal Pisanelli. Il 26 si associò all' ordine del giorno proposto da Carlo Poerio, di protesta alla nota del generale Nunziante sulla rivoluzione delle Calabrie.

Molti oratori di vaglia si rivelarono fin dai primi giorni nel Parlamento napoletano. I loro nomi, che più tardi l' Italia intiera acclamò rispettosa, evocano nel mio cuore i giorni lontani nei quali anch' io bambina appresi ad amarli. Fra i giureconsulti ricordo Domenico Capitelli, eletto presidente, Roberto Savarese, Giuseppe Pisanelli, Leopoldo Tarantini, Raffaele Conforti, Giuseppe Pica, Pasquale Stanislao Mancini. Fra i letterati e gli storici, il venerando Carlo Troia, Paolo Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, Nicola Nisco. A rappresentare la giovane aristocrazia intelligente, il duca di San Donato, il barone Mazziotti; le scienze naturali, la medicina, l' agricoltura, Salvatore Tommasi, Antonio Ciccone, Francesco De Blasiis, Giuseppe Devincenzi, Saverio Baldacchini; e l' economia politica, il giovane professore Antonio Scialoia, il ministro che, prima di dimettersi il 15 maggio, aveva coraggiosamente detto al Re verità terribili, che questi non doveva perdonare. Ma fra tutti, Carlo Poerio e Silvio Spaventa acquistarono il privilegio di rispondere ai ministri e ai pochi loro sostenitori per la vibrata vivacità della loro eloquenza, resa tagliente dalla contraddizione.

Il Parlamento aveva contro di sè l' esercito, il Ministero, i clericali; era avversato dalla plebe ignorante, maledetto dalla Corte. Eppure seppe dar prova di tanto senno nel breve tempo che potè funzionare, da creare alla provincia napoletana un titolo di onore nella storia dei Parlamenti. Non vi è traccia di un solo corrotto e pochissimi lasciarono decadere il mandato; e malgrado la malevolenza, continuarono le nobili iniziative. Così il primo settembre il Mancini propone l'abolizione del dazio sui libri; il 2, insieme a Poerio ed altri, il progetto di legge per far decadere dal mandato chi si assenta per 24 giorni dalla seduta senza regolare congedo. Oltre i lavori parlamentari, ogni giorno egli vien chiamato a discutere cause politiche; ogni giorno colleghi, ministri, magistrati, perfino il Re, ricorrono a lui per consiglio nell'intricata matassa politica. Arditamente dice a tutti la sua opinione avvalorata dalla scienza e non risparmia ai governanti il biasimo sul sistema di repressione adottato.

È peccato che nel trambusto della partenza per l' esilio, forse nella necessità di distruggere le carte pericolose, poche memorie legali dell' epoca si trovano nella raccolta completa lasciata dal Mancini, a testimoniare della sua attività durante 56 anni di avvocatura, mentre infinite furono le cause che difese durante quell'epoca di persecuzione. È però da tutti ricordata la sua difesa di alcuni giovani studenti strappati alle famiglie perchè imputati di cospirazione contro il Governo con subornazione di soldati dell' esercito. In quel giorno l'eloquenza del Mancini, al dire di un testimonio oculare, raggiunse il più alto grado della perfezione. Mi sembra anche interessantissimo, a mostrare quale fosse l' opera della polizia, la causa a carico dei naturali di Greci, Savignano e Celle imputati in numero di mille e quattrocento per gravi reati politici e comuni. Il fatto era questo: le dette popolazioni pretendevano diritti sul bosco la Ferrara, di proprietà del duca di Bovino, e ne presero possesso nel settembre 1848, ribellandosi alle guardie accorse; vi fu qualche ferito ed un morto. La polizia profittò del caso per imprigionare quei cittadini che avevano nome di liberali, sotto l'accusa di aver tentato di distruggere “l'attuale Governo, di discorsi ingiuriosi contro la persona del Re”, per fuga violenta dalle mani della giustizia e simili cose. Per un anno intiero tanti infelici popolarono le prigioni, mentre le famiglie languivano nella miseria, o si resero latitani pei boschi, preparando adeguato contingente al futuro brigantaggio. La difesa del Mancini innanzi la gran Corte criminale di Lucera fu splendida e coraggiosa. Egli mostrò con tale evidenza la niuna serietà dell'accusa, che, se ritenuta vera, avrebbe dovuto punirsi con la morte e la galera, che quasi tutti furono assolti e soltanto pochi rimandati al tribunale correzionale.

Benchè sia precorrere gli eventi, citerò anche qui la Memoria presentata alla Commissione consultiva di giustizia presso la Suprema Corte, in difesa del giornale L' Indipendente. Il titolo era: “La facoltà che la polizia vuole arrogarsi di chiudere o interdire la tipografia annulla la libertà della stampa e si oppone allo Statuto costituzionale ed alle leggi comuni”. E subito incomincia: “Alla violenza armata, alla magistratura intimidita, al lusso di quotidiane sospensioni di quei giornali che mostrino desiderio di qualche cosa di più del semplice nome della Costituzione; alle tante vittime che prima ancora di essere giudicate, espiano miserevolmente nelle carceri la colpa di aver usato del sacro diritto della libera stampa… abbiam veduto aggiungersi un ultimo eccesso, il quale se impunito, ecc. Lo scandalo e il fremito pubblico eccitati nella città nostra da questi atti hanno mostrato qual giudizio ogni onesta ed imparziale persona ne portasse, e giustificano la solenne protesta, che nel più grave dei casi di tal natura i sottoscritti avvocati si credettero nel dovere di opporvi, rivolgendosi con espressa querela alla giustizia punitrice contro le autorità di polizia”.

E narrato il fatto e sostenuta la tesi con dovizia di dotti argomenti incisivi, termina così: “Le misure preventive e le precauzioni eccezionali in materia di stampa finirono per perdere tutti i Governi che le adoperarono. Una lezione così salutare sarà dunque perduta pel nostro paese, dove la libertà della stampa, nata appena, è minacciata di perire sotto i coipi di un risorgente spaventevole sistema di prevenzione? Affidiamoci all' efficacia delle pene per reprimere i reati di stampa già avvenuti; alle leggi, per determinare, non le precauzioni, ma le pene; ai giurati, che esprimeranno la imparziale sincerità del senso popolare; ai magistrati inamovibili e indipendenti, per far rispettare ed eseguire lo Statuto e le leggi. Son questi i soli mezzi, che volendo fare la società sicura, non la faranno infelice e schiava”.

La Memoria presentata nel gennaio 1849 recava anche la firma dell'avvocato Gennaro De Filippo, a lui compagno carissimo in quasi tutte le difese politiche.

La mattina del 5 settembre 1848 il ministro Ruggiero, in gran divisa, si presentò alla Camera dei deputati a leggere il regio decreto che la prorogava al 30 novembre. Essa non contava che due mesi di vita, ma il Governo sapeva già per esperienza che non avrebbe potuto abbandonarsi all' eccesso della reazione finchè non avesse fatto tacere le voci eloquenti, che mettevano in guardia il paese contro la tirannide. I numerosissimi deputati presenti non fecero udire una sola parola, ma tutti atteggiati a mestizia si levarono come un sol uomo e uscirono in segno di silenziosa protesta. Forse la polizia aveva sperato ben altro, ed aveva organizzata una dimostrazione ostile, che avrebbe potuto essere segnale di nuovo spargimento di sangue. Ma il popolo fatto accorto da naturale intuito che si complottava una infamia, di cui poi sarebbe stato vittima, accolse i deputati al grido di viva il Re, viva la Costituzione, nè si permise altre grida.

Giungevano da ogni terra italiana notizie di vittorie, di rivoluzioni, di sconfitte. In Roma, dopo l' assassinio di Pellegrino Rossi, Pio IX fuggì dal Quirinale per rifugiarsi a Gaeta, che divenne il quartier generale della reazione, poichè presto vi giunsero Leopoldo II di Toscana e molti diplomatici delle Corti europee più ligie al Papato. Il Re e la Regina di Napoli esultavano per tanti ospiti illustri e già sin da quei giorni era deciso nell' animo loro il ritorno al passato. Ma sembrò pericoloso abrogare lo Statuto di un colpo; infatti alla sola notizia, dopo un primo differimento, che il Parlamento era di nuovo abrogato, un fermento di cattivo augurio incominciò anche nelle provincie sino a quel giorno tranquille, per cui i ministri consigliarono al Re di riaprire le Camere il 10 gennaio 1849.

Appena i deputati comparvero nell' aula furono accolti da applausi e dalla parola: coraggio, coraggio! Le tribune erano colme di popolo, fra cui molte donne con ornamenti tricolori, e malgrado un grande apparato di forze, la polizia comprendendo che quel giorno non avrebbe avuto il disopra, lasciò libero corso alle manifestazioni liberali.

Nelle ultime elezioni di ottobre la rappresentanza del paese aveva acquistato maggior forza di opposizione e subito furono proposte e discusse ottime leggi; il Governo sapeva che non dovevano attuarsi mai, e temporeggiando accortamente, lasciava fare. E il Mancini si affermava con memorabili discorsi. Un vero trionfo segnò il giorno in cui per la seconda volta parlò della abolizione della pena di morte. Nella lunga sua vita parlamentare quante volte tornò sullo stesso argomento! Ma se più tardi seppe essere più dotto, certo a trent' anni potè trovare quell'alta nota di sentimento che lo additò al mondo come colui che avrebbe fatto cancellare dal Codice italiano la bruttura della pena di morte.

Molte altre nobili iniziative l' ebbero propugnatore; il progetto di legge per diminuire l' imposta sul sale ed accrescere quella sugli oggetti di lusso; quello per istituire per legge la sorveglianza dell' alta amministrazione finanziaria; quello per separare i poteri della polizia ordinaria dalla giudiziaria. Quasi tutte le cose che egli immaginò e propose in quel tempo sono conquiste fatte poi con gli anni e con lunghi studi. Ma la proposta di legge svolta il 6 marzo, sulla reintegrazione nell' impiego dei compromessi nella rivoluzione del 1820, fu vivamente applaudita.

Mancini (dalla tribuna). Signori, nel sottoporre al vostro esame l' idea di una legge destinata alla riparazione di nobili infortuni, fu mio intendimento offrirvi l' occasione di esercitare un atto di giustizia, un atto di saggia politica, un atto di nazionale riconoscenza. Sono di già compiuti 28 anni da che, mentre quasi sull'interno Continente europeo profonde regnavano le tenebre del politico servaggio, in questa elettissima parte d' Italia una generazione di valorosi, cui dal pie' delle Alpi altri valorosi fratelli pure risposero, alzava il santo grido di libertà, e si raccoglieva sotto la bandiera delle costituzionali franchigie.

Ma non era ancora giunto, o signori, il giorno del riscatto dei popoli; la Provvidenza riserbava tuttavia gli Italiani a lunghe e dolorose prove. Ben presto scesero, a recarci sulla punta delle loro barbare armi orrenda scelta tra la schiavitù e l' esterminio, le immonde teutoniche turbe avide ognora, non so dir se più dell'oro o del sangue italiano… Fu allora con sagrilego trionfo della forza brutale atterrato l' edifizio delle nostre nascenti libertà; coloro i quali lo avevano innalzato, gittati nel fondo di oscure carceri, non ne uscirono che per ricevere la palma del martirio politico; ovvero, dopo aver contate le ore che li separavano dal carnefice, si sentirono condannati a vivere negli ergastoli; o peregrinando lungi dalla patria tra le angoscie dell' esilio, lasciarono le ossa illagrimate in terra straniera. O se pure a taluno fu dato di qui ritornare, gli toccò di tracannare fino all' ultimo sorso la tazza delle persecuzioni e delle amarezze.

Spaventevoli liste di proscrizioni spopolarono allora dei migliori, non meno le civili magistrature che l'esercito: quello strenuo esercito che nella Spagna, nella Germania e fin tra i ghiacci inospitali aveva partecipato con gloria ai successi come ai rovesci del maggior capitano del secolo. Prodi uffiziali, i quali avevano conquistati i loro gradi a prezzo di sangue su i campi di battaglia, si videro al di là dei monti—narro, o signori, fatti di cui posso garantire la esattezza—furono colà veduti porger la mano ai più ignobili mestieri, ovvero costretti con la vergogna in viso e con le onorate cicatrici mal celate da lacere vesti, stendere la mano alla elemosina. Così fu espiata la sola colpa che il dispotismo non perdona, quella di aver amato la patria e la libertà.

E questa espiazione fu lunga; durò quasi sei lustri. Oh! quanti di questi sventurati sperarono invano che tornasse a sorgere sul loro capo la luce delle istituzioni costituzionali; e col cuore lacerato dallo spettacolo delle pubbliche miserie, nè confortati da un raggio solo di vicina speranza, discesero sdegnosi nell'oblio del sepolcro.

Il Mancini continua a dimostrare come scarsamente il primo Ministero costituzionale del 17 marzo '48 provvedesse all sorte di una parte di essi. La Camera deve supplire alla deficienza governativa. Se un cittadino viene sospeso o destituito da un pubblico uffizio per colpa che poi è riconosciuta insussistente, deve essere ripristinato al suo posto; se poi la supposta colpa si converte in merito, deve essere ricompensato per i danni patiti. E continua:

Nè questa massima io debbo additarvi soltanto scritta in un testo espresso delle leggi comuni; essa deriva da una sorgente più autorevole, da quel pronunziato della ragione umana, non potere l'effetto sopravvivere all'estinzione della sua causa efficiente. Ora, o signori, che altro sono, ho domandato a me stesso, le lunghe lotte politiche, nelle quali s'involgono i popoli e le generazioni, se non grandi e solenni giudizi ne' quali si contendono l'imperio della terra i due grandi principi della libertà e della servitù, della civiltà e dell' ignoranza, della luce e delle tenebre? Di queste contese, testimoni sono il mondo e la storia, giudice Iddio E se è così, le pretese colpe di coloro che nel 1820 si raccolsero in Italia sotto il vessillo costituzionale non debbono dirsi omai cancellate dal dito Onnipossente? Non è l' Europa intera che proclamò nel 1848 innocenti gli uomini, i quali 28 anni innanzi, coi loro voti e coi loro atti presagivano le non lontane tendenze fatali dell'umanità?

Lasciate, o signori, le cose nella condizione in cui tuttavia sono oggi, e voi offrirete in ispettacolo uomini onorevoli, incanutiti fra le sventure… ai quali, se abbiasi a dimandare qual mai cagione li escluda dal ritornare in quella carriera che sì onorevolmente, nei primi loro anni, intrapresero, essi saranno costretti a rispondere: il nostro torto è di avere desiderato ed abbracciato il reggimento costituzionale 28 anni prima degli altri, di averli preceduti nel consacrarsi a questa nobile causa.

Egli prosegue, dopo aver convenuto che si deve andar cauti per non ledere il diritto del presente; dopo di aver dimostrato come deve bastare una presunzione della causa politica, dove manca la prova materiale, e citando argomenti relativi a quanto vanne operato in Francia ed in Piemonte.

Anche in Napoli, durante il decennio della straniera dominazione, molti impiegati avevano abbandonato volontariamente le pubbliche funzioni, o ne erano stati dal Governo decennale allontanati. Nel 1816, restaurato l'antico Governo, si emanava un decreto, che porta la data del 3 maggio, il quale applicò il principio, che oggi difendo, che nella liquidazione delle pensioni quei dieci anni intermedi valer dovessero come di servizio effettivo. Ora la restaurazione della libertà dovrà farsi vincere nella virtù della riconoscenza dalla restaurazione di un potere assoluto?…

Signori, non lascerò il mio soggetto senza allontanare anche un'altra obbiezione, che si attinge dalle condizioni attuali della finanza e dal bisogno che ha la Nazione di grandi e severe economie. Non sono in gran numero i funzionari civili destituiti dopo il 1820 tuttora viventi: la morte ha mietuto i loro ranghi; non costerà che poco soccorrere i superstiti. E poi, o signori, se è innegabile che le giuste economie sono tra i primi doveri dei dispensatori della fortuua pubblica, non è men vero altresì che per insidioso costume è sempre questo l'ostacolo; sempre questo lo scoglio a cui si fan rompere tutte le opere buone, tutti gli atti doverosi, che ai Governi si propongono. Ma, di grazia, questa obbiezione si presenta forse, allorchè si tratta, o di prodigare i nostri tesori reclutando in terre straniere con inutili sacrifizi una parte del nostro esercito, o di pagare generose pensioni ai nemici del popolo, a molti, i quali non hanno che titoli ignominiosi per vivere lautamente a spese del tesoro pubblico?

Signori, credo di aver detto quanto basti a mostrarvi conforme a giustizia il mio progetto di legge; ma non discenderò da questa tribuna senza accennare di volo anche alla sua utilità politica. Se ben si considera, in questo momento gli interessi di questa classe sventurata sono intimamente legati con quelli della nazione intera. Infatti nulla è tanto efficace a generare e propagare le virtù cittadine, a difendere il palladio delle libere istituzioni, quanto il benefizio delle nazionali ricompense ottenute sotto i loro auspicî. E che, credete forse che la memoria delle patite persecuzioni non abbia esercitato in questo paese una grande influenza per isterilire molte anime, o per rendere tra noi ritrose, timide, mal disposte alcune classi a propugnare con ardore la causa delle istituzioni costituzionali? Se oggi la nazione, potendo riparare una lieve parte almeno delle durate sventure, trascurasse di farlo, non sarebbe ella stessa che appresterebbe incoraggiamento a questa accidia politica e forse anche all'aperta diserzione nel giorno del pericolo della combattuta bandiera della Costituzione?…

Oh fosse a voi egualmente possibile ridestare dai loro sepolcri le ossa di coloro che in questa terra perirono martiri della libertà! Oggi non altrimenti vi è dato onorare costoro, che votando la presa in considerazione della legge.

E il Parlamento napoletano prese in considerazione la legge ad unanimità.

Al certo, fra i discorsi del Mancini, questo, per sentimento, efficacia, concisione è uno dei più belli; ma se col pensiero ci trasportiamo a quei giorni di terrore, ripensiamo le carceri riboccanti, la polizia signora dei cittadini, la via dell'esilio già riaperta come unico scampo ai generosi, non possiamo se non ammirare le anime fiere che sapevano compiere così nobilmente il loro mandato. I discorsi del Pisanelli, del Conforti sono improntati della medesima italianità ed era appunto l'unanimità di pensiero della Camera napoletana in quei giorni supremi, che atterriva i governanti.

Una Commissione era stata scelta per formulare un Indirizzo al Principe, nella quale col Mancini erano il Pisanelli, il Conforti, l'Avossa ed altri patrioti. Alcuni si erano opposti temendo che un tale indirizzo non fosse costituzionale, memori della sorte di un altro Indirizzo nella Sessione precedente. Ma il Mancini dimostrò che se il biasimo al Ministero era sottinteso, l'iniziativa della Camera legislativa era rivolta ad ottenere l'amnistia per i carcerati politici: l'Indirizzo era una preghiera perchè il Principe esercitasse la più splendida, la più nobile delle sue prerogative. E l'Indirizzo votato quasi all'unanimità era caloroso, nobilissimo:

E ben potrebbe la Camera ritrarre agli occhi di V. M. un quadro doloroso di sofferenze ed angoscie indicibili; le carceri riboccanti d'imputati per sospetto di opinioni politiche, gran numero di famiglie vedovate dei loro cari astretti ai dolori dell'esilio, e l' universale mestizia, inavvertita dal Ministero, che indugia a V. M. la gloria e la gioia del perdono!… Sire, collocata V. M. nelle alte sfere di quelle sublimi attribuzioni costituzionali, che spogliandola di ogni possibilità di fare il male, le lasciano l' onnipotenza di operare il bene, non tarderà a profferire quella regia parola, medicina suprema ai travagli dello Stato…

Ma la misura era colma. Il Governo reazionario non poteva permettere più oltre che la Camera napoletana facesse siepe ai tristi propositi. Essa venne disciolta con regio decreto accompagnato da una Relazione ministeriale insana e vergognosa. Quel giorno dal Cariati, dal Bozzelli, dagli altri ministri del Re napoletano fu firmata la vicina decadenza della dinastia borbonica.

Appena promulgata la Costituzione e tolta la censura, ho detto che i giornali avevano pullulato in Napoli; ve n' erano di seri e di scherzosi, con o senza pupazzetti; di monarchici, di repubblicani, di socialisti o di anarchici, poichè nulla vi è di nuovo sotto il sole, e molte cose, che sembrano invenzioni del giorno, trovano riscontro nelle epoche più lontane. Osservano alcuni che la sconfinata libertà accordata a tali pubblicazioni giornaliere in un paese fin al giorno innanzi governato con mano di ferro, e dove era perfino proibito di scrivere: eziandio, Italia, libertà, avesse assai nociuto alla graduale formazione di una coscienza pubblica. È però interessante sfogliare le raccolte di periodici di quell' epoca e leggere scritti firmati da giovani saliti poscia in fama nel giornalismo italiano. Del rimanente, se davvero esistette una tale sconfinata libertà, essa durò assai poco.

Qui mi occuperò dell'Indipendente, perchè il Mancini ne fu lo strenuo difensore. Esso aveva incominciato le pubblicazioni nel dicembre 1848; contava tra i suoi scrittori oltre il Mancini, il Trinchera, il Pisanelli, ed altri spiriti battaglieri, e si stampava presso un modesto tipografo chiamato don Raffaele Trombetta (1) GRAZIA PIERANTONI-MANCINI ha descritto quest' umile eroe del lavoro e della libertà di stampa nel romanzo Alla vigilia. Roux e Frassati, Torino. Fin dai primi numeri la polizia prese a perseguitare quella pubblicazione ed è interessante percorrere le sue pagine per farsi un' idea della piacevole esistenza di un giornale tacciato di liberalismo presso un Governo dispotico. Dopo i primi numeri incominciarono i sequestri, le sospensioni, le liti; e malgrado ciò andava innanzi. Lo stile era vario come i suoi scrittori, alcune volte, serio, moderato; altre volte, avanzatissimo con tendenze al socialismo. In un numero narra di un banchetto di donne emancipatrici; in altro, a proposito dell'elezione del duca di San Donato in Castellammare; elezione contestata perchè alcuni elettori gli avevano dato il titolo, altri il nome di Sambiase, altri il nome e il titolo; esclama: «Ma si sbattezzassero una volta per sempre questi duchi, questi principi!»

In ogni numero erano riportate notizie di Roma, di Torino, della guerra; tutto ciò che poteva mantener vivo il sentimento nazionale; riaperta la Camera, vi erano riportati i migliori discorsi e sempre i più liberali; nè mancavano le cronache di vita mondana e gli annunzi.

Nel numero 18 febbraio vi è il resoconto di una recita al teatro dei Fiorentini; colà, dalla Compagnia permanente, di cui facevan parte l' Adami e l' Aliprandi, si era rappresentata la tragedia di Laura Beatrice Oliva, moglie del Mancini, dal titolo Ines de Castro. Reso conto del successo trionfale, dei mazzi adorni di nastri tricolori, il critico osserva:

Questa tragedia, di soggetto spagnuolo, s'informa del pensiero politico che al presente assorbe tutto… Vi si vede spiccato l'odio profondo per l'abborrito straniero che con piede profano calpesta questa classica terra.

E a proposito di annunzi, interesserà questo ripetuto in vari degli ultimi numeri: Manuale del Diritto pubblico costituzionale per Enrico Pessina. In quel tempo il Pessina contava appena diciasette anni; la sua giovane intelligenza si apriva alla vita intellettuale commentando lo Statuto che già di fatto era tolto.

Ben tosto il giornale aprì una rubrica interessante: le liste di tutti quelli che gemevano nelle prigioni per causa politica; e come era lunga! Già alla fine del dicembre 1848 comprendeva più di 8000 nomi. Altra volta trascrive le lettere di un condannato politico: Vito Porcaro, che a nome dei detenuti suoi compagni invia il denaro raccolto in prigione per venir in aiuto ai combattenti in Lombardia.

Già nel numero quattordicesimo, invece dell'articolo di fondo, si legge:

Abbiamo indugiato la pubblicazione poichè il Commissario di Polizia ha chiamato presso di sè il proto, i giovani di stamperia e li ha trattenuti dalle undici del mattino alle cinque pomeridiane. Vederemo a che approderanno queste pratiche e se lo Statuto dovrà essere lettera morta per la libertà della stampa.

E più oltre:

Ebbero il martirio delle prigioni Paolo De Cesari, amministratore, Enrico Pannetier, gerente, Raffaele Trombetta possibile stampatore; e Sesto Giannini, poeta, che in un angolo dello stabilimento, ove ricoverava per la notte, e dall' estasi beata delle sue visioni fantastiche, passò di un tratto nelle carceri della Vicaria, reo di aver portato in tasca un nastro tricolore.

Pasquale Stanislao Mancini, appresa la carcerazione di quegli infelici, prova che allora e sempre sono gli umili quelli che debbon pagare, scrive al direttore:

È egli vero, mio buon amico, che ieri il vostro giornale generoso abbia sofferto la minacciata misura dell' arbitraria sospensione? Se vi è bisogno dell' opera mia presso questa larva di potere giudiziario, eccomi a ripetervi l' offerta fattavi alla fondazione del giornale. Ciò che posso offrirvi è zelo di amico, coraggio non indegno degli scrittori dell' Indipendente, sincero desiderio di concorrere a fondare (se i tempi tristissimi vorranno concederlo) una giurisprudenza onesta sulla stampa.

Ma tutto è vano; malgrado le Memorie, le difese del Mancini e del De Filippo, continuano le persecuzioni della polizia. Il povero Indipendente se ne va rammingo da una ad altra tipografia; cambia ogni giorno tipo, carta, inchiostro e titolo: ora si chiama Gli Indipendenti, ora mette una grossa sbarra nera in vece del nome; spesso non consta che di una facciata, lasciando bianco il rimanente del foglio; ma comunque, continua a pubblicarsi ed esclama:

Non vi ha chi ci ascolti, chi ci faccia giustizia! I giudici tremano, ci son chiuse le porte dei tribunali, ci è tolta la pubblicità della discussione, che pure era un benefizio del dispotismo!

Gli ultimi fogli del giornale stampati alla macchia su carta azzurra non destinata alla tipografia recano, accanto alle notizie palpitanti della guerra e delle vittorie italiane, i decreti draconiani del Governo napoletano, atti a soffocare qualunque anelito di libertà; già gli scrittori dell' Indipendente sono latitanti; il povero don Raffaele Trombetta viene di notte dal Mancini, spesso travestito, per ricevere notizie ed articoli; gli hanno sequestrato la tipografia e le macchine; egli e la sua famiglia sono ridotti alla miseria, ma finchè don Pasqualino non gli dirà di smettere, egli farà ancora uscire il giornale a dispetto della polizia. Egli, poveretto, sogna di salvare il paese.

Verso la fine di marzo il Mancini fu avvertito di tenersi in guardia; egli continuava a difendere cause politiche, tra cui quella iniziata per i fatti del 15 maggio, a mostrarsi in pubblico intrepido e sereno; ma già lo Scialoia, il Poerio, il Nisco erano in prigione; il Massari ed altri, fuggiti. Un giorno, recatosi alla Corte di appello, pensò di entrare nel gabinetto del procuratore generale Angiolillo, prima dell'udienza, per chiedergli conto di altri arresti arbitrari. Il magistrato lo guardò fiso con la meraviglia in volto: «Non sarebbe meglio», gli disse poi, dopo averlo ascoltato, «che in questi tempi difficili ognuno pensasse a sè? Chi può dire che cosa avverrà di noi domani? Avreste fatto meglio ad essere cauto; altre volte vi ho dato questo consiglio». Egli congedò il giovane avvocato e suonò il campanello. Mentre questi scendeva per vestire la toga, un fanciullo adibito alle commissioni del tribunale entrò nel gabinetto e ne riuscì con un pacco di carte per la polizia. Per le scale il Mancini aveva carezzato il bambino secondo il suo solito, gli aveva regalato una moneta, poi si era seduto al banco della difesa. Nel momento di prendere la parola si sentì tirare per la toga: era il suo piccolo protetto; aveva gittato gli occhi sovra una lista di nomi scritti sul primo foglio di quelle carte; il Mancini con gli altri doveva essere arrestato nella notte.

«Grazie, piccolo amico», egli disse sorridendo e senza scomporsi, «se riescirò a mettermi in salvo non ti dimenticherò e un giorno forse potrò ricompensarti. Mentre discuterò le mie cause scrivi per me tutti i nomi che potrai ricordare di quella lista». E corse per la difesa di una causa importante senza più pensare a se stesso. La discussione durò due ore; alla fine uscì senza fretta, ma non rientrò in casa. Dalla villa di un amico scrisse al ministro francese M. De Reynal, che già per suo mezzo aveva dato rifugio ad altri liberali su navi francesi: «Signore, anche per me è giunto il giorno; badate peraltro che non posso partire solo, vi accludo la lista di quelli che debbono venire con me». Il console da principio riflutava di accogliere tanta gente, ma il Mancini fu inflessibile: «O tutti o nessuno!» Finalmente col Pisanelli, il Trinchera, il duca di San Donato e molti e molti altri fu imbarcato sull' Ariel, piccolo avviso fatto venire espressamente da Civitavecchia. All' ultimo momento il Mancini pregò gli si concedes se di recare un suo servo fedele; era il buon don Raffaele Trombetta, il tipografo entusiasta dell' Indipendente. Mio padre non raccontava mai senza una commozione profonda la scena della sua partenza, la stretta di mano dell' ufficiale di marina, che accompagnandolo a bordo gli aveva detto: «Eccovi in Francia!», la benedizione della vecchia madre, l' addio della giovane moglie e dei bambini.

Molti dolori, molti sagrifici erano serbati ancora al dolce popolo del Mezzodì d' Italia, creato per il riso e la gioia, non per il pianto e il rumore delle catene. Pochi altri giorni, e il breve intermezzo di simulate libertà ebbe fine; raddoppiarono invece le persecuzioni inaudite. Per i fatti del 15 maggio 1848 il Mancini fu condannato in contumacia a venticinque anni di lavori forzati. Il processo contro i migliori deputati è un ammasso di menzogne, di errori, d' infamie.

In Torino il Mancini già noto ed amato entrò subito in dimestichezza con i migliori giureconsulti del Piemonte ed ebbe dal D'Azeglio la cattedra di diritto internazionale creata espressamente per lui. Egli, malgrado le sventure e le disillusioni, serbava intatta la fede nella legalità e nelle libere istituzioni e pensò di stigmatizzare pubblicamente in un voto sottoposto alla firma dei migliori avvocati di Cassazione l'atto di accusa del tribunale napoletano, continuando dalla terra d' esilio la difesa propria e quella dei colleghi.

Mi piace di terminare questo mio scritto dedicato ad un' epoca oggi risorta nel cuore di tutti con questo ricordo che onora la mia diletta Torino. Il Mancini rivolse ai suoi colleghi, avvocati di Cassazione, questa lettera:

Ill. mi ed Ecc. mi signori.—A voi, eminenti giureconsulti, come a rappresentanti la sapienza giuridica di questa superiore Italia, e da ogni parte onoratissimi per intemerato amore alla verità ed alla giustizia e per ogni maniera di morali e civili virtù, io presento alcune quistioni legali e costituzionali di grande importanza; perchè da uomini privati e senza alcuna relazione al pubblico carattere, di cui parecchi tra voi sono con tanto merito rivestiti, vogliate meditarle, e secondo la vostra coscienza, risolverle.

È mio debito dichiarare, che se io oso ricorrere all' autorità del vostro suffragio, ne ho ragione ben grave, e tanto più degna, perchè estranea affatto alla sfera della politica, essa è rivolta unicamente ad uno scopo di umanità ed a prevenire, se sia possibile, la consumazione di una serie di grandi e deplorevoli ingiustizie. Non si richiede di più per indurre gli animi vostri nobilissimi a non rifiutare il pietoso e morale uffizio, e a concorrere ad una buona opera, la quale non può non riescire accetta a Dio e a tutti gli uomini dabbene.

Ho l' onore d' inchinarmi alle SS. VV. con profondo ossequio.

Torino, 15 dicembre 1851.

Sette erano i quesiti che il Mancini sottoponeva ai giure consulti piemontesi, che qui ricordo abbreviati: 10 Se appartenesse esclusivamente alla Camera dei Pari la competenza di giudicare i deputati napoletani; 20 Se fosse illegale il procedimento contro A. Scialoia e Pietro Leopardi, ministri; 30 Il Leopardi ambasciatore, accusato di reato commesso a Torino, quale delle Corti criminali era chiamata a giudicarlo? 40 Chi doveva giudicare gli altri coaccusati non deputati, nè ministri? Erano abolite le Corti speciali in forza dello Statuto? 50 Era conforme alla legge il procedimento marziale al quale volle assoggettarsi il giudizio dei fatti del 15 maggio? 60 È abolita l' azione penale dall'amnista? 70 La istruzione del processo è viziata da altre nullità?

Quarantaquattro furono gli avvocati che confortarono dell' autorevole loro avviso il voto redatto dal Mancini con dovizia di citazioni ed argomenti valevolissimi.

E voglio qui trascriverne i nomi in memoria della loro amicizia non mai venuta meno all' esigliato e alla sua famiglia. I pochi superstiti s' abbiano anche oggi la mia riconoscenza.

Luigi Ferraris—Gaspare Benso—cav. avv. Pietro Paolo Villanis— Gio. Batta Cornero—G. B. Cassinis—Giuseppe Buniva—Arnoldo Colla— Antonio Ferrero—Francesco Saverio Vegezzi—Celestino Gastaldetti— A. De Margherita—avv. S. A. Priggione—Sebastiano Tecchio—avvocato Francesco Proglia—V. M. Minghetti—Riccardo Sineo—Antonio Ajrenti—Luigi Gianone—avv. prof. in legge Nepomuceno Nuyts—avvocato Leone Rocca—avv. Benedetto Fabre—avv. Leandro Gotto—avvocato Giovanni Virginio Tonso—avv. Gustavo Paroletti—avv. Giovanni Bosio—Albini Pietro L. avv. collegiato—avv. Pietro Rozzi—professore Leandro Saracco—avv. A. Brofferio—avv. Pescatore prof. di legge— avv. Giovanni Notta—avv. Federigo Gobbi—avv. Paolo Carretta—avvocato Carlo Giordano—S. Novelli—prof. avv. conte Giuseppe Baretta—avv. Felice Giosserone—avv. Fedele Dallosta—avv. Giambattista Badoriotti —avv. U. Rattazzi—avv. Giuseppe Corno—avv. Luigi Demichelis— avv. Francesco Savio.

Questo voto (1) Con le firme autografe e legalizzate fu in questi giorni presentato in omaggio al Municipio di Torino, dal senatore A. Pierantoni., spedito a tutti i ministri e giureconsulti stranieri, determinò una grande corrente di simpatia verso le vittime del dispotismo borbonico, e di sdegno contro il tiranno che Gladstone stigmatizzò: la negazione di Dio.

GRAZIA PIERANTONI MANCINI.