ELENA DA PERSICO

SANTA MELANIA
GIUNIORE
(387-439)

TORINO
LIBRERIA SACRO CUORE
Rimpetto ai Ss. Martiri



ELENA DA PERSICO

SANTA MELANIA
GIUNIORE
SENATRICE ROMANA
(387-439)

Una pagina di azione femminile nel secolo V

DAI DOCUMENTI RACCOLTI
DA SUA EMINENZA IL CARD. M. RAMPOLLA
DEL TINDARO

TORINO
LIBRERIA SACRO CUORE
DI G. B. BERRUTI

PROPRIETÀ RISERVATA

Torino, 1909.—Tipografia Salesiana
Via Cottolengo, 32

AI PIEDI DI GESU,
VERO DIO E VERO UOMO,
SALVATORE DELL'UMANITÀ,
CHE DALL'ABBIEZIONE IN CUI LA TENEVA LA CIVILTÀ PAGANA
SOLLEVÒ LA DONNA A SUBLIME ALTEZZA,
L'AUTRICE
DEPONE, UMILE OMAGGIO, QUESTE PAGINE,
CHE NARRANO L'EROISMO D'UNA DONNA,
LA QUALE NELL'AMORE DI LUI TROVÒ IL PUNTO D'APPOGGIO
PER FARSI PIÙ GRANDE D'OGNI GRANDEZZA TERRENA
EGLI, FONTE D'OGNI FORZA E D'OGNI SANTITÀ,
BENEDICA AL POVERO LAVORO
E LO RENDA DEGNO
DI SUSCITARGLI DONNE SECONDO IL SUO CUORE

Eminentissimo Principe!

Ecco terminata la storia di santa Melania, che Vostra Eminenza ebbe la bontà di lasciarmi comporre sui preziosi documenti da Lei raccolti. Nel corso del mio lavoro ebbi sempre presente le parole che l'Eminenza Vostra mi disse nel darmene licenza: «Desidero che questa storia faccia del bene alle anime; io raccolsi i documenti per far del bene; abbia lei pure questo scopo nello scrivere ». E tale divenne infatti lo scopo mio; mi sentii tuttavia subito tanto ad esso inferiore che nel mio smarrimento non seppi far di meglio del deporre subito l'opera mia ai piedi del Divin Salvatore, affinchè si degni Egli supplire all'insufficienza mia. Spero con questo di essere anche entrata maggiormente nelle mire dell' Eminenza Vostra, cui umilmente chieggo venia e compatimento se questa mia povera opera non riuscì quanto Ella aveva ben ragione di desiderare e d'aspettare.

Prostrata al bacio della Sacra Porpora

L'Autrice.

Preg.ma Sig.ra Contessa,

Nel rispondere alla gentile sua lettera non so quale di due sentimenti prenda il disopra; se quello di offrire sinceri rallegramenti per la bella sintesi, onde ha saputo comprendere e ritrarre egregiamente l'angelica e maschia figura di Santa Melania; ovvero se porgerle singolari azioni di grazie per aver appagato il mio desiderio di veder data alla luce per la nostra Italia una storia della cara Santa, la cui lettura fosse per recare vantaggio alle anime. Ed in ciò Ella, a dir vero, ha posto tutta la mente e tutto il cuore, a far sì che dal suo scritto emanasse ed entrasse nell'animo del lettore un soave profumo di schietta pietà. Laonde io m'auguro che il suo libro, facendo meglio conoscere ed amare la nobile eroina Romana, offra alle donne Italiane un modello perfetto da imitare quale all'età nostra fa d'uopo; ciò che fu pur nelle mie viste allorquando mi accinsi a scrivere un volume che non poteva essere per fermo opera di volgarizzazione.

Voglia dunque, Signora Contessa, gradire ad un tempo e le mie congratulazioni e i miei rallegramenti congiunti a sensi di verace stima con cui mi affermo

Roma, li 10 Gennaio 1909

Dev.mo Servitore
M. Card. RAMPOLLA.

Santa Melania è nostra, come sono nostre Paola, Marcella, Asella, Marcellina e quelle donne mirabili, che furono l'onore dei secoli IV e V. Sono nostre, perchè Roma nostra le vide nascere. Roma con quella sua sacra terra imbevuta del sangue dei martiri e con quella sua maestà di città di Dio fu l'inspiratrice e divenne pure prima ammiratrice di loro virtù; sono nostre, perchè sotto il nostro ciclo d'Italia cominciarono ad esercitare quell'eroismo, che portarono poi col nome d'Italia e di Roma sui lidi d'Oriente e trasfusero perfino nel cuore delle figlie dei barbari invasori. Esse sono nostre, vanto del nostro sesso e del nostro paese, e per questo quando l'Eminentissimo Cardinal Rampolla lanciò nel mondo degli studiosi i documenti da lui faticosamente raccolti su santa Melania, ed espresse il desiderio che qualcuno ne traesse una storia della Santa, io sentii che sarebbe stata vergogna se nessuna donna italiana avesse raccolto l'invito, e lo raccolsi. Certo questo non fu vantaggio nè per la migliore riuscita dell'opera, nè per voi, amiche e sorelle, cui essa è specialmente lestinata. Altre donne vi sarebbero state in Italia, che meglio di me avrebbero saputo valersi del lavoro dell'illustre Porporato e fare un quadro più vivo di quel secolo IV, così pieno di ombre e di luci, che si tuffa da una parte in tanta miseria e si cleva dall'altra a tanta altezza, nel quale lo spirito di Dio sembra correre come un fremito le file cristiane per suscitarvi un moto anelo verso la più alta perfezione; altre donne avrebbero saputo meglio di me delincare quella figura soave di Melania cosí bella e cosí santa tra le belle e sante della sua epoca, e questo sopratutto a me spiace, perchè tanto m'innamorai della dolce Santa man mano che la venni studiando che avrei voluto ritrarla con insuperabile pennello. Ma Iddio non volle inspirare ad altre il pensicro che inspirò a me. Bisogna che ce ne accontentiamo tutte; io per la prima, che non sul valore dell'opera mia, ma sulla intrinseca bellezza del soggetto e sul vostro buon volcre, amiche mie, fondo le mie speranze, perchè gli esempi virili della nostra eroina portino i loro frutti.

Il Cardinal Rampolla trovò nel IV secolo molti lati di rassomiglianza col nostro. Come il IV, così il nostro è secolo di decadensa morale, secolo di sfibramento di caratteri; nel nostro sccolo come nel IV il dilagare dell'immoralità è così spaventoso da far raccapricciare e così sfacciato da far tremare, poichè pare che nulla più ne possa andar salvo; anche al nostro secolo la sete dei beni terreni è immensa, più grande forse ancora che nel secolo IV, perchè fomentata dalle teorie materialiste sparse ormai anche nel popolo; la brama di piaceri, che si vanno cercando anche nel fango più vile, la brama di lusso sono arrivate al punto d'insana manìa e non si restringono come in altri tempi ad una classe, ma sono divenute contagiose e si sono estese anche alle classi più povere, mettendo in loro un fremito malvagio fatto di brame insaziate, di invidie, di odi. Il nostro secolo non ha, per lo meno in seno alla civiltà curopea, la piaga della schiavitù; ma per una parte lo sviluppo nuovo preso dalle industrie, dall'altra il bisogno sacrificarono torme di uomini, di donne, di fanciulli in luoghi malsani, senz'aria nè luce, tra l'assordante lavorio delle macchine, al calore insopportabile degli immensi forni, in lavori superiori alle loro forze, che stremano la loro salute. Luoghi dove spesso per l'avidità di padroni non cristiani turbe di esseri umani sono ridotte come quelle degli antichi schiavi quali bestie da soma, che non conoscono più chi sia Iddio, perdono il senso morale, non sanno più che sia famiglia. Il secolo nostro non teme per l'appressarsi di orde selvagge, non trema la nostra terra sotto il cavallo dei barbari, ma essa è in sussulto e si commuove, perchè la nostra civiltà porta nel suo seno un clemento di distruzione peggiore ancora delle invasioni barbariche, che nel luccichio del pugnale anarchico, e nel bagliore sinistro della dinamite già ci fece sentire la sua terribile minaccia.

—Da Persico. Santa Melania Giuniore.

Ed oltre a tanti mali comuni col secolo IV un male nuovo è penetrato nella fibra consunta e incancrenita del secolo nostro, un male lasciatoci in conseguenza dalle dottrine razionaliste, dal naturalismo, dalla superba deificazione della natura umana, che ci infettarono ultimamente: lo spirito di insubordinazione e di rivolta, male capace da solo di dissolvere un corpo anche nel resto sano.

Queste le linee tristi di somiglianza col IV secolo. Ora ne abbiamo almeno anche di consolanti? Vi ha per esempio nel nostro mondo femminile quello spirito di sacrificio, quella elevatezza e fortezza di mente e di cuore, per cui le donne del IV secolo portarono rimedio ai mali dell'epoca loro, non con sterili pianti, nè con ciance vane, ma coll'opera e sopratutto coll'esempio croico delle virtù opposte ai vizi dominanti? Chi studia il IV secolo lo vede questo gruppo di sante e forti donne accanto ad un gruppo di uomini di Chiesa eminenti, avvolte in tutto lo splendore dei raggi, che emanano dalla luce di questi, partecipanti alla stessa loro gloria di salvatori della propria epoca. Esse furono invero in tutta l'estensione del termine ciò che la donna dovrebbe essere sempre: le ausiliarie dell'opera sacerdotale. Per compiere la loro missione si penetrarono infatti interamente di spirito sacerdotale; spirito di rinuncia di sè, di sacrificio, di amore illimitato alle anime, di zelo, di attaccamento all'integrità della fede cattolica.

Dire che il nostro secolo disconosca l'importanza dell'azione femminile sarebbe calunniarlo; anzi non mai come ora se ne è parlato, e la donna del secolo nostro mostrò per lo meno il desiderio di essere all'altezza della sua missione, ma non possiamo ugualmente dire che i suoi moti abbiano sortito l'efficacia desiderata; forse essi mancarono alla loro base di quelle due qualità, che avrebbero loro dato l'equilibrio; la generosità e il senso della giusta misura; da una parte essi furono incomposti, dall'altra troppo incerti e timidi. Il mondo femminile del nostro secolo peccò di un grave peccato, che mai non potremo piangere abbastanza: una parte di esso, non ho il coraggio di esaminare se grande o piccola, si schierò dal lato dell'incredulità e dell'errore. La parte rimasta fedele alla verità si di vise in gruppi: alcune più ardenti mancarono forse di vero senso femminile, vollero oltrepassare la portata della missione della donna, invadere campi non propri, e finirono in certe cose a dar la mano alle sbracate incredule; altre, mancanti di coraggio, fredde, troppo attaccate ai propri comodi, a frivolezze, anche ai loro pregiudizi non capirono i pericoli che ci minacciano e tutto quanto il bene che è in mano alla donna, e rimascro e rimangono inerti in una vita fatua. A tutte io confido possa esserci di giovamento l'esempio di Melania, una delle eroine del secolo IV. In lei troveremo il più perfetto equilibrio di quelle qualità, che sembrano non voler mai accordarsi in noi; in lei vedremo conciliarsi in ineffabile armonia tutte le arditezze della carità per Dio e per i prossimi colle riserbatezze suggerite dal più delicato pudore femminile; tutta la fermezza di chi non conosce più altri interessi all'infuori di quelli di Dio colla più dolce soavità, colla più umile sommessione. Donna grande, ma sempre vera donna, in tutti i suoi atti ella porta una squisita delicatezza femminile; unico diritto ch'ella implora è quello dell'intero sacrificio di sè. Ingegno virile, assiduamente e profondamente studiosa, ella non disdegna le umili faccende domestiche, che divide colle sue schiave; guida grande di anime, apostolo presso il marito e molti uomini, è tuttavia così sottomessa che pare non muoversi se non al cenuo dello sposo, ed il suo contegno è sempre quello della più umile, vispettosa osservansa con tutti. Anima eminentemente ascetica ed in continua preghiera, tale è tuttavia la sua attiva sollecitudine per alleviare le miserie del suo secolo e la sua profonda intelligenza di esse, che se volessi usare un termine moderno la chiamerei donna eminentemente sociale; ma troppo mi spiace sostituire con quest'aggettivo di origine non interamente nostra i nostri dolci termini cristiani; troppo mi spiace sopratutto applicarlo a quell'angelica figura, la cui opera benefica fu tutta e solo un'emanazione della cristiana carità, che l'aveva interamente penetrata. Innamorata della solitudine e del ritiro, quando gli interessi di Dio lo vogliono si reca anche alle corti di Roma e di Costantinopoli e vi sta colla stessa amabile modestia come quando è tra le povere figlie del popolo e della schiavitù, che istruisce nella via di perfezione. Pura così da bramare le cime della purezza, protettrice ed istitutrice di migliaia di vergini, alle quali non solo non permette una parola su soggetti meno casti, ma di cui scruta anche i pensieri, trova nel suo zelo e nel suo amore per le anime il coraggio di oltrepassare le soglie delle case del vizio per strappar fanciulle al fango, purificarle sul suo purissimo cuore e donarle a Dio. Austera con se stessa al punto da far raccapricciare la delicatezza nostra e da desistere solo per obbedienza da penitenze ancora maggiori, è colle vergini che dirige di tale benignità e discrezione da accondiscendere a tutta la debolezza di loro natura e di loro complessione. Mite e mansueta così che il suo biografo sfida quanti la conobbero a dire se la videro un giorno irata, piena di carità cogli crranti, diviene affatto intransigente quando si tratti della purezza della dottrina cattolica, la cui integrità non soffre sia menomata pure di un filo.

Tale è la donna che il Card. Rampolla rivivificò davanti agli occhi nostri, la donna, che ebbe tanta parte nel rinnovellamento dei costumi e per il bene dell'umanità in uno dei periodi storici di maggior sconvolgimento; possa il santo esempio suo e delle donne, che le fanno corona, scuoterci dal nostro torpore; queste eroine divengano nostre protettrici, e colla loro profonda umiltà ci diano pure la loro forza per scioglierci dai mille vincoli che ci legano ai futili interessi mondani, e ci rendano superiori a noi stesse, salvatrici del nostro secolo come esse furono del loro.

Fino a pochi anni or sono nulla o ben poco si parlava di S.ta Melania giuniore; appena appena se ne sapeva il nome e qualche cenno vago e spesso errato veniva dato di lei dagli studiosi dell'epoca in cui ella visse e dagli storici de' personaggi suoi contemporanei. Di documenti intorno a lei non si conoscevano che: 1. Le notizie fornite nella sua collezione di vite di santi da Simone Logoteta detto il Metafraste fiorito nel secolo X; di essa esistevano vari esemplari; il più autorevole era quello della scuola evangelica di Smirne, ma il più conosciuto e usato dagli agiografi fu un'assai imperfetta traduzione latina del Surio, sorgente di errori storici e cronologici. 2. La Storia lausiaca del Vescovo Palladio, il quale, spronato da Lauso patrizio, raccolse i vari aneddoti a cui aveva assistito ne' suoi viaggi. Questo Palladio era vissuto due anni in casa di Melania e scriveva cose vedute e udite; da questo lato dunque la sua testimonianza ha un valore storico, ma limitandosi la sua narrazione a ciò di cui egli era stato testimonio oculare riusciva affatto monca. Inoltre con l'andar del tempo la storia genuina del Palladio fu soggetta ad alterazioni e rimaneggiamenti. 3. Il carme del Natale XIII di San Paolino di Nola rinvenuto dal Muratori nel 1697, dove preziose notizie si trovano su Melania e Piniano, ma del quale gli storici con incomprcusibile trascuratezza non tennero mai conto. Infine alcuni accenni sparsi qua e là in San Gerolamo, Sant'Agostino, San Paolino, che certo non potevano servir di base ad una biografia.

A tal punto erano le notizie storiche su Melania giuniore quando il Cardinal Rampolla, trovandosi in Ispagna, ebbe agio di esaminare alcuni codici, di cui Filippo II arricchì la biblioteca dell'Escuriale e tra gli altri manoscritti gliene venue tra mano uno, che subito attirò la sua attenzione; era una biografia latina di S.ta Melanio piena di particolari preziosi, di una semplicità di dettato incantevole e di grande autorità, perchè lo scrittore si manifestava palesemente contemporaneo e testimonio oculare dei fatti, che narrava. Si trattava di un documento inedito della prima metà del V secolo, e di tale importanza lo trovava il dotto Cardinale, che non pose tempo in mezzo a copiarlo di propria mano con ogni accuratezza. Ma questo apografo rimase per varie cause qualche tempo seppellito. Intanto venivano alla luce altri codici parziali dai quali il Kohler, lo Smedt, i Bollandiani pubblicavano notizie su santa Melania colmando le lacune colle notizie fornite dal Metafraste. Questi codici però non apparivano che derivazioni parziali del codice latino dell'Escuriale. Nel 1900 i Bollandiani scoprivano nella biblioteca barberiniana un'altra biografia di S.ta Melania corrispondente alla biografia latina dell'Escuriale, ma in testo greco; questo codice soltanto poteva tener il confronto con quello escurialense.

Come fonti a cui attingere per la storia di santa Melania si hanno dunque ora:

a) Il codice latino dell'Escuriale, trovato dal Cardinal Rampolla, accanto al quale sta un gruppo di altri otto codici latini sparsi: 1. nella biblioteca nazionale di Parigi; 2. nella biblioteca di Chartres; 3. in quella di Valenciennes; 4. nella biblioteca di Bruxelles; 5. e 6. nella biblioteca di Douai; 7. nella biblioteca di Monte Cassino; 8. nella biblioteca Corsini.

b) Il codice greco della biblioteca barberiniana trovato dai Bollandiani nel 1900.

c) La biografia greca del Metafraste colle sue varie traduzioni latine.

d) La storia lausiaca del vescovo Palladio.

Il Cardinal Rampolla prese ad esame e criticamente discusse questi documenti, li classificò, li raggruppò a seconda della loro probabile derivazione, ritenendo sempre come i più importanti il codice latino dell'Escuriale e quello greco barberiniano, che contengono tutta intera la biografia della Santa, mentre gli altri l'hanno mutilata in più parti. Confrontati tra loro anche questi due documenti, che, benchè diversi in molti particolari, sono però uguali nella sostanza, e presentano ambedue un carattere: singolare quello di parere scritti da persona familiare della Santa, credette di poter opinare che tutti e due provengano da un'altra biografia originale molto probabilmente latina scritta da Geronzio, il prete familiare della Santa, ad istanza di un Vescovo occidentale, forse africano, cui lo scrittore spesso si rivolge; di questa biografia il codice dell'Escuriale e quello greco barberiniano sarebbero trascrizione e versione; più autorevole il codice dell' Escuriale perchè più antico e immediatamente prossimo alla sorgente, mentre il greco sarebbe una trasformazione posteriore rifusa inoltre e rimaneggiata tra il VI e il IX secolo, ma questo può servire a reintegrare e vantaggiosamente illustrar quello, che presenta tracce di abbreviazioni.

Esaminata criticamente anche la biografia del Metafraste, che è derivazione della greca barberiniana, esaminate le varie edizioni a noi pervenute della Storia lausiaca del Palladio, scritta prima ed indipendentemente da tutte le altre biografie, la quale contiene notizie preziose su Melania giuniore, dimostrate vere e genuine anche dal loro confronto colla biografia latina, il Cardinal Rampolla ci diede questi documenti collazionati nell'ordine seguente: 1. La biografia latina dell'Escuriale, notando appiè pagina le varie discrepanze che s'incontrano tra essa e i codici latini inediti delle altre biblioteche. 2. La biografia greca della barberiniana colle discrepanze tra essa e la biografia del Metafraste, da essa derivata, e colla traduzione italiana. 3. Le notizie della Storia lausiaca del Palladio secondo i due testi greci finora a noi pervenuti e la traduzione latina di Pascasio diacono, passata sotto il titolo di Paradisus Heraclidis.

Questa raccolta preziosa di documenti criticamente commentati e discussi, il Cardinale corredò poi di note copiose e dotte, che illustrano i documenti stessi col fornire abbondanti notizie sui personaggi coi quali ebbe a trattare la nostra Santa e sugli usi e costumi del suo tempo; in questo modo egli gettò sul secolo IV una nuova luce, in mezzo alla quale spicca vivamente la figura della nobile eroina, per cui il Cardinal Rampolla può ben dire di aver raggiunto il suo scopo di »raccogliere », cioè, »e di purificare, mercè una critica serena e scevra di preconcetti le sparse acque della storia della santa matrona, affine di riallacciarle in limpida fonte, alla quale possa fiduciosamente attingersi ».

A questa fonte io, grazie alla facoltà benignamente concessami dall'illustre Porporato, attinsi copiosamente nell'intento di mettere quel suo difficile lavoro storico alla portata anche di chi si spaventi dell'aridità degli antichi documenti e della fatica di andar a cercar notizie sparse in varii codici e nelle note. Il mio fu l'umile lavoro di chi mette in mostra all'ammirazione del pubblico ed in quell'ordine, che subito risalti alla vista la bella merce da altri pazientemente ed abilmente raccolta e preparata. Iddio voglia che per lo meno non sia riuscita a guastar la merce e a diminuirne il valore agli occhi di quelli, cui invece avrei voluto farla apprezzare.

Un matrimonio patrizio.—La gente Valeria.—Il cristianesimo ed il paganesimo di fronte nel secolo IV.—Il sacrificio di Melania seniore.— Valerio Publicola—Albina Ceionia.—Nascita di Melania juniore.

Circa l' anno 382, quando l' Impero già sentiva minaccioso nell' aria il rombo dell' uragano, che stava per scatenarsi rovinoso sopra di esso: l' invasione dei barbari, una delle prime famiglie patrizie e senatorie di Roma, la prima anzi forse per censo e nobiltà, la famiglia dei Valeri, era in festa per le nozze dell'ultimo discendente del ramo principale, quello dei Valeri Massimi (1) Altri rami dei Valeri erano: Valeri Severi, Valeri Proculi Valeri Messala.. La gente Valeria vantavasi discendere da quel Valerio Publicola, che con Bruto fu primo console della Repubblica romana dopo scossa la tirannide di Tarquinio. Essa poteva mostrare sotto la rupe Tarpea il luogo, ove il suo capostipite s' era eretta una casa splendida quanto una reggia, e l' aveva fatta atterrare appena avuto sentore ch' essa dava ombra al popolo, e sotto il Palatino il luogo ove il popolo, riconoscente alla generosità del suo console, gli aveva elevato un palazzo non minore al primo in splendore. Ma ora anche quel palazzo non esisteva più; le fiamme dell' incendio di Nerone l' avevano distrutto, ed i Valeri, che coll' andar dei secoli erano cresciuti in potenza e ricchezza, se ne erano fabbricato uno sul Celio, che superava in sontuosità ogni altro edificio di quella Roma, così usa ormai al fasto de' suoi patrizi.

I marmi più fini, fulgenti così da emanare quasi lampi di luce, vi erano a profusione; s'adergevano in artistiche forme nei magnifici colonnati degli atri ornati di capitelli e di erme, rivestivano le pareti delle aule vastissime, si mescolavano in una vaghissima armonia di tinte e di disegni nei pavimenti e formavano le conche di vasche ricchissime, che accoglievano l'acqua cristallina zampillante dalle fontane, rilucevano negli edifici per bagni e, trasformati in busti e statue, facevano rivivere nel loro palazzo le figure dei nobili personaggi dell'antica famiglia. Accanto alle ricchezze dei marmi erano sparse nelle sale, nelle biblioteche, nei triclini quelle dell' oro e delle pietre preziose, e capolavori d'arte tali, da disgradarne il palazzo dei Cesari; pitture delle più belle che esistessero in Roma, statue dei migliori artisti antichi e moderni, suppellettili poi a profusione di finissima materia e di squisita fattura. Nel centro di questo palazzo da sovrani, una ricca cappella di forma absidale ornata di mosaici diceva che il cristianesimo era entrato nella doviziosa famiglia. A mantenere, non dico il decoro, ma la magnificenza di tale splendida dimora, turbe di schiavi, di eunuchi, di donzelle vi si affacendavano pronti al cenno dell'unico padrone, e dagli immensi possedimenti del Lazio, della Campania, della Spagna, dell'Africa venivano a profusione i tributi, vari secondo i climi e secondo le arti, che in quei latifondi erano esercitate dagli schiavi addettivi.

L'unico erede di tante dovizie, lo sposo ammirato ed invidiato era un giovinetto, che toccava il diciasettesimo anno d'età. Portava il nome del capostipite di sua gente, Valerio Publicola, ed oltre che del suo censo e dell'avita sua nobiltà, egli andava altero delle dignità pubbliche ereditarie nella sua famiglia e delle altissime sue parentele, perchè suo padre, Valerio Massimo, morto quando egli era ancor bambino, era stato legato del patriziato romano presso l'imperatore Costanzo e poi prefetto di Roma, ed una lunga serie di prefetti di Roma egli trovava ne' suoi antenati, mentre per la madre, appartenente alla gente Antonia, era stretto in parentela colle più nobili famiglie sì romane che spagnuole, e per l'avola, sorella di Galla moglie di Costanzo, restava cugino dell'imperatore Giuliano. Egli stesso a sei anni era stato fatto pretore urbano (1) La questura e la pretura al secolo IV erano cariche onorifiche, non solo, ma anche forzati oneri, per le feste che i candidati dovevano dare al popolo; per questo venivano designati a tali cariche i figli dei senatori anche in tenera età, e quanto più grande era il censo della famiglia tanto più ne veniva sollecitata la designazione.
Card. Rampolla N. V
, e nella società in cui era cresciuto aveva bevuto, insieme a bellissime qualità, uno sfrenato amore a queste grandezze mondane.


***

La società romana di quell'epoca offriva infatti i più stridenti contrasti. Il cristianesimo, reso libero dall' editto di Costantino, uscito dalle catacombe e praticato all'aperto, si infiltrava a poco a poco nel consorzio civile, e con lavoro tranquillo, ma perseverante, cercava informare del suo spirito le leggi, costumi, tutto il vivere. L'amore universale, la fratellanza di tutti gli uomini, la dignità e grandezza di ogni vita umana, la nobiltà del perdono delle offese, il disprezzo dei beni della terra si sostituivano a poco a poco alle teorie dei filosofi pagani ed avvincevano le menti e i cuori, attratti da quella luce; l'astro cristiano sorgeva così sempre più fulgido sull'orizzonte, e quello pagano tramontava, non però senza sussulti e ribellioni nella sua agonia. Certi spiriti non sapevano staccarsi dal paganesimo, che pareva loro come incarnato colle grandezze dell'antica Roma; degeneri dai loro antenati per virtù, i romani del IV secolo attribuivano la gloria degli avi ai loro numi e non al loro valore, e invece di pensare ad imitarli nella semplicità ed austerità della vita, si ostinavano a seguirli nel culto idolatrico; inoltre i patrizi erano singolarmente attaccati al paganesimo, fonte per loro di cariche e di onori. La società pagana e la cristiana erano dunque di fronte mescolandosi l'una coll' altra, tanto che nella stessa famiglia si trovavano spesso fanatici pagani accanto a ferventi cristiani, sacerdoti dei numi accanto ad unti del Signore. Questo contatto ebbe un lato buono, perchè grazie ad esso il cristianesimo potè diffondersi più facilmente ed infiltrare alquanto del suo spirito anche nelle file pagane; esso portò però anche un danno non lieve, perchè le file cristiane si inquinarono a poco a poco; molti dei nuovi convertiti non erano tali che per ingraziarsi gli imperatori, e sotto l'esteriore cristiano conservavano l'animo pagano; altri cristiani erano pur convinti, ma deboli e attratti dai più facili costumi pagni; tutti questi falsi cristiani, o cristianelli per metà introducevano nel cristianesimo più o meno di paganesimo. »Possiamo forse sperare », esclamava sant'Agostino amareggiato a tale spettacolo, »possiamo sperare di guadagnare in questo modo il mondo a Gesù Cristo? » e continuava con un' esortazione, che si potrebbe ripetere anche oggi a tanti, i quali confondono la carità per gli erranti colla fiacchezza verso l'errore: »Siate dolci colle persone pagane, ma quanto al loro delirio mostrate di giudicarlo risolutamente. Poichè siete cristiani, fuggite le loro solennità, fuggite le loro feste ».

Fu in questo modo che tra i cristiani si videro comparire l'orgoglio e le mollezze del paganesimo; tali mollezze sono indescrivibili; uniche occupazioni dei patrizi erano ormai divertirsi, crapulare, circondati di schiavi, che li seguivano a turbe, indossare abiti ricchissimi e gemme, procacciarsi ricchezze ed onori immeritati; la brama dell'oro e dei piaceri era fonte di delitti continui e di tali vergogne nei palazzi dei grandi, che san Gerolamo vietava alle donzelle cristiane di frequentarli. Il popolo era quale poteva venir formato da un tale patriziato; crapulone, vile, abbietto, ozioso, avido solo di piaceri e degli spettacoli fornitigli gratuitamente dai ricchi; adulatore quello, gonfi questi d'orgoglio, millantatori delle glorie degli avi in mancanza di proprie. E tanto l'orgoglio pagano era penetrato anche nelle file cristiane, che gli imperatori, anche cristiani, non sapevano rinunciare ad un frasario, che dava loro attributi più da numi che da sovrani cristiani; ciò anche malgrado santi Vescovi, come Ambrogio, Cirillo, il Grisostomo, li ammaestrassero sui limiti, che Iddio pone anche alla loro dignità, e Agostino delineasse per loro la sua bellissima pittura del principe cristiano.

Eppure in mezzo a questa società corrotta, in mezzo a questa confusione di viva fede cristiana e di superstizioni e di costumi pagani, cui s'aggiungeva il pullulare delle eresie, che, finite le persecuzioni esterne, sorgevano dal seno stesso della Chiesa a minacciarla, il IV secolo portava con sè gli argomenti a bene sperare: un accordo perfetto tra popolo cristiano e Vescovi sui mezzi da prendere per far trionfare la religione, un'ammirabile alleanza tra questa e i governatori cristiani. Lo Stato, divenuto cristiano, riconosceva la diversità tra il campo d'azione della Chiesa e il proprio, anzi l'Impero riconosceva alla Chiesa, per la sua origine divina, ed il suo fine divino una dignità più grande che a se stesso. I governatori proteggevano la religione, mentre al loro fianco uomini illuminati li guidavano. Tra questi, parecchi erano eminenti in santità; tutti stretti intorno alla sedia di Pietro, tanto che alcune loro frasi rimasero celebri: »Dove è Pietro, ivi è la Chiesa », diceva Ambrogio; »Roma ha parlato, la causa è finita », sentenziava Agostino. »Io so che la Chiesa è fondata sopra una sola roccia; chi si attacca alla sedia di Pietro, quegli è il mio uomo », esclamava Gerolamo.

Anche in questo secolo poi come in ogni altro, la Chiesa mostrava, non solo tra gli uomini addetti all'altare, ma in tutte le schiere dei fedeli la sua virtù fecondatrice di santità. Accanto agli arrabbiati pagani, accanto ai cristiani paganizzanti v' erano migliaia di anime avide di interamente dissetarsi alla sorgente purissima, che scaturisce dalla rocca cristiana, bramose di mettere in atto tutto l'ideale di perfezione racchiuso nel Vangelo. Creature più di Cielo che di terra, nelle cui vene scorreva caldo ancora il sangue dei Martiri, sulle tombe cruente di questi loro eroici antenati s'accendevano del desiderio di dar tutto per Iddio, e, poichè era passata l'êra di deporre per Lui la vita, volevano per lo meno spogliarsi per Lui d'ogni cosa che la renda piacevole; gettavano le loro ricchezze in mano ai poveri, e, abbandonati i propri palazzi, i propri cari, se ne andavano a vivere di penitenza e di preghiera lungi dalla patria, nei deserti, che popolavano di cenobi, o nella Palestina, ove ogni pietra parlava loro del Salvatore divino, ove i loro cuori di credenti trovavano un'altra patria. Forse le stesse sozzure della società in cui vivevano contribuivano a mettere nelle anime più pure, o in quelle, che, sorte appena da tanta corruzione, guardavano con orrore al pericolo di ricadervi, la brama di un'aria più respirabile ed insieme il bisogno di rigettare con disprezzo da sè quei beni della terra, che, riducendo l'uomo alla propria schiavitù, lo possono di tanto avvilire. Ad alimentare questo fuoco per la vita monastica aveva contribuito anche la venuta a Roma di sant'Atanasio, che, raccontando all'alta società romana le virtù di sant'Antonio, tuttora vivente, e quelle che si praticavano nei monasteri della Tebaide, aveva innamorato di vita ascetica la parte migliore del patriziato. Per cui una sete parve allora invadere gli animi come un contagio, una sete di virtù, e non virtù mediocre, ma addirittura eroica, una sete di povertà, di umiliazione, di nascondimento, di penitenza, che faceva riscontro alla sete di ricchezze, di onori, di piaceri, cancro dell' epoca; così moltissimi dei cristiani di Roma si riversavano in Oriente ad espiarvi in una dura vita alcuni le proprie colpe, tutti le colpe e le vergogne della patria.

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»Tra le donne, che per le prime sentirono la nostalgia della povertà e della penitenza, e in mezzo al fasto delle ricchezze sognarono le privazioni di una cella nel deserto, troviamo la madre del nostro Publicola: Melania Antonia, detta seniore per distinguerla dalla nipote. Sposa ancor giovane di Valerio Massimo, quando questi era stato appena eletto prefetto di Roma, ella aveva conosciuto il culmine della gloria e degli onori mondani, se ne eccettuiamo gli splendori d'una corona; vedova a ventidue anni, era entrata in Roma seguendo il feretro del marito e di due figlioletti rapitile pure dalla morte, ed aveva stabilito di abbandonare il mondo e di mutare col saio le sue splendide vesti da dama. Tutto il parentado numeroso, ricco, potente, che riguardava come vergogna di tutti l'abbiezione di uno di loro, le si era sollevato contro, movendo la più aspra guerra al suo progetto; ma la lotta più fiera ella certo aveva dovuto sostenerla nell'intimo contro lo strazio del suo cuore materno, poichè accanto a sè ella si vedeva un figlioletto ancora, il suo primogenito, Valerio Publicola, allora di sei anni appena. Tuttavia la voce di Dio fu in lei più forte d'ogni altra. Ella cercò nella parentela un tutore al suo bambino, perchè vi era obbligata dalla legge, ma poi, quanto all' educazione di lui, con fede sublime lo affidò interamente a quel Dio, per il quale soltanto si staccava da lui, ed un giorno in una delle basiliche romane si vide questa giovane madre, forse sull'ara di un martire, forse nelle mani del Pontefice Damaso, donare a Dio questo tenero oggetto del suo amore, donarglielo, non perchè crescesse ministro del Santuario come Anna fece del suo Samuele, ma perchè Iddio si degnasse essergli doppiamente Padre e farne un uomo secondo il cuor suo. »Ella si strappò dal petto l'unico suo», dice san Paolino da Nola, »e lo buttò in seno a Cristo, affinchè Iddio stesso lo nutrisse».

Così interamente aveva ella compito quest' atto di abbandono in Dio, che mai più volle in tutta la vita sua nel deserto raccomandare ad un parente l'educazione del suo diletto, nè ragionarne; ella avrebbe riguardato un tale atto come un'oscillazione della sua fede, chè non nelle mani d'un uomo aveva abdicato ai suoi diritti di madre, ma in quelle soltanto del Padre celeste.

Al tempo nostro di fede fiacca deve senza dubbio parer duro il concepire l'eroismo di un tale sacrificio, ed uno scrittore moderno, il Thierry, ne fece una colpa a Melania, ma i contemporanei, giudici più competenti, l'ammirarono, e Padri della Chiesa dell'autorità di san Gerolamo, di san Paolino da Nola l'encomiarono con alte lodi. In un'epoca in cui chi sa quante altre madri perdevano il sentimento così naturale e così alto insieme dell'amore materno nei vortici della vanità e delle passioni, in cui chi sa quante sacrificavano i propri figli all'ambizione, o, rimaste vedove, dimenticavano per un nuovo amore i nati dal primo marito e li gettavano in braccio a patrigni spesso inumani, questa ancella di Dio sublima l'amore materno e lo rende qualche cosa di celeste, togliendo ad esso ogni soddisfazione sensibile; rimasta senza appoggio terreno, non ne vuol altri di quaggiù, ma si rifugia colla sua creatura nel seno di Dio; per Iddio vuole interamente immolarsi, e gli chiede in cambio che si tenga quel suo diletto tra le braccia in amorosa custodia, affermando così al mondo tanto elevato essere l'ufficio materno, che Iddio solo può sostituirlo. Ella va con questo slancio di fede a tale altezza, ove, bisogna confessarlo, non si può seguirla senza che venga meno la lena, ma da quell'altezza piove sulla via comune una luce di Paradiso, la quale illumina lo stato di madre cristiana, mostrando ch'esso è tanto alto perchè la sua dignità, i suoi diritti, i suoi doveri hanno la loro sorgente non solo nella natura, ma in Dio; insegnando che solo dalla volontà di Dio e non da riguardi umani, nè da impulsi di sentimento meramente naturale devono dipendere le madri nel modo di condursi coi loro figlioli; inculcando che quanto all'educazione dei figli le madri devono fare tutto il possibile, ma devono poi aspettar tutto da Dio, perchè da Lui solo viene la grazia fecondatrice di loro fatiche, perchè, se vuole, Egli può far tutto senza di loro, mentre esse non riusciranno alla menoma cosa per il bene dei figli senza l'unione con Lui.

Ed il Padre celeste, che ad anime eroiche si complace talora chiedere eroici sacrifici, ma che non si lascia mai vincere in generosità, non deluse la fiducia, che la sua serva aveva riposta in Lui. Egli custodì gelosamente il deposito affidatogli e con tale cura materna lavorò l'animo del piccolo Publicola, che questi non sarebbe potuto crescere migliore, se sua madre non si fosse staccata un sol giorno dal suo fianco. Egli era un modello di giovane patrizio ed ottimo cristiano; probo e giusto nel maneggiare gli affari, di costumi illibati, erudito, diffidente di sè, umile anche in mezzo allo sfarzo, caritatevole in modo affatto straordinario, egli meritò che i Beneventani, che furono da lui governati, lo chiamassero: »benevolo verso tutti, da tutti amato, nobile del pari che giusto», e che San Paolino gli desse l'elogio di »perfetto imitatore di Cristo e a Cristo devoto». Sant'Agostino pure lo amava, e Publicola gli scriveva spesso come a padre e come a sacerdote, prendendo consiglio da lui, manifestandogli con fiducia di figlio i suoi scrupoli ed i suoi dubbi per certi giuramenti, che i barbari ancora pagani, confinanti con i suoi immensi possedimenti di Numidia e di Tripolitania, facevano circa a non danneggiare le cose sue; in quella corrispondenza si rivela un animo delicato ed una mente, cui le sante Scritture sono famigliari, ed il Vescovo d'Ippona, rispondendogli, lo chiama: »figlio diletto».

In mezzo a tante virtù, una debolezza sola era nel giovane patrizio, tale debolezza tuttavia, che, se pareva molto grave all'occhio severo d'una madre come Melania, parrebbe forse un'inezia a qualche buona madre d'oggidì. Il giovane patrizio, sentendosi il più nobile e dovizioso dei senatori romani, amava appassionatamente la ricchezza ed il fasto, che gli venivano dal suo grado sociale; e, benchè non ne prendesse orgoglio, tanto che san Paolino di Nola potè dire che se nell'esteriore delle vesti egli non aveva la nobile umiltà della madre, pure la portava nel cuore, faceva tuttavia sua felicità di possedere il più splendido palazzo di Roma, così magnifico da esser degno d'un sovrano, gioiva al pensiero che non si potessero numerare gli schiavi nelle sue terre e nelle sue ville, di cui ciascuna era come una piccola città; amava tener alto il lustro del suo nome e comparire primo tra gli altri patrizi in cocchi fulgenti di metalli preziosi con cavalli dalle splendide bardature, vestito di seriche vesti a grossi riporti d'oro. Anche al matrimonio lo traeva, coll'amore per Albina, la sua giovane sposa, il desiderio di assicurare alle sue immense ricchezze un'erede, che continuasse nell'avvenire a far grande il nome dei Valeri, cui aggiungeva nuovo lustro la cospicua parentela ch'egli contraeva colle nozze. Albina infatti discendeva ella pure da antichissima e nobile famiglia. Ella apparteneva alla gente Rufia Ceionia di origine etrusca, che aveva affinità coll'imperatore Costantino, ed i cui membri avevano pure coperto le più alte cariche nelle prefetture e nei consolati, ma soprattutto nel sacerdozio pagano, perchè la gente Ceionia, o per lo meno il ramo al quale Albina apparteneva, non aveva ancora abbracciato il cristianesimo; l'ava di Albina, Cecina Lolliana, moglie a Rufio Cecina Volusiano Lampadio, era stata sacerdotessa d'Iside, ed il padre di lei, Publio Ceionio Albino, era pontefice di Vesta, cui egli aveva a sue spese eretto una basilica. Ma la madre era cristiana pia e fervente, tanto che Sant' Agostino tenevala in grandissima stima e di null'altra cosa era più sollecita che di condurre tutta la sua famiglia al cristianesimo; v'era riuscita colle due figliuole, Albina e Leta, molto minore di Albina; quanto ai figliuoli, Volusiano, il maggiore, seguiva certamente il gentilesimo come il padre; egli non era tuttavia fanatico pagano, e, come era colto in tutto, studiava anche la religione cristiana, ne discuteva con sant' Agostino, col quale teneva corrispondenza epistolare e col tribuno e notaio dell' imperatore Onorio, Marcellino, alla cui amicizia tanto sua madre che Agostino non cessavano di raccomandarlo, era anche amico di Possidio, vescovo africano di Calama, e di Paolino da Nola, che gli dedicò un carme (1) Il carme fu pubblicato dal Muratori, imbarazzato a determinare la persona cui era dedicato. Il Card. Rampolla dimostra essere Volusiano. Nota VIII. invitandolo a lasciar il paganesimo; tuttavia, malgrado il vivo dolore di sua madre e de' suoi buoni amici, Volusiano persisteva nel gentilesimo, non tanto per convinzione, quanto per le pressioni del partito aristocratico gentilesco, che dissuadevalo dal passare al cristianesimo.

Volusiano aveva ancora due fratelli minori. Decio, datosi sul principio alla carriera della armi e delle lettere e che poi governò la Campania, fu questore e prefetto di Roma, e Gregorio, che resse da consolare la provincia del Piceno e della Flaminia e ne fece sì buon governo da meritarsi che i Fornovani gli erigessero una statua per riconoscenza; nè dell'uno nè dell'altro però conosciamo la religione.

Cristiana fervente come ella era e addolorata perchè la sua famiglia era addetta al culto idolatrico, la madre di Albina deve aver guardato con invidia alle famiglie cugine della gente Ceionia: la gente Furia e la gente Claudia, nelle quali il cristianesimo era penetrato e che avevano dato, una il fervente senatore Pammacchio, l'altra le due sante sorelle Marcella ed Asella.

Ma all'epoca di cui scriviamo anche per la povera sposa del pontefice di Vesta era sorto un giorno di gioia e di speranza, perchè la sua Albina s'era unita ad un cristiano di famiglia ferventemente cristiana, e, forse, piangendo nella sua casa senza altari al vero Dio, ella avrà pensato confortata a quella cappella dello splendido palazzo sul Celio, ove la sposa di Valerio Publicola poteva pregare quanto voleva per il padre ed il fratello idolatri, aspettando che alla sua s' unisse la voce di qualche innocente, dato da lei alla luce.

Gli ardenti voti di Publicola parevano infatti dover sollecitamente avverarsi, e se già i due sposi potevano dirsi felici, parve la loro felicità dover presto divenire compiuta; poco tempo dopo le nozze, Albina potè sperare di dare alla gente Valeria un discendente, che perpetuasse il nome e le glorie degli avi. Tutta la casa dovette allora essere sottosopra nella grande aspettativa, tutta la potente parentela dovette partecipare alla gioia dei due sposi, tanto è grande negli uomini il desiderio di perpetuare quello, che deve di sua natura aver termine, e su cui pende forse già, come pendeva allora su Roma e le sue più grandi famiglie, la spada di Damocle!

Sullo scorcio dell'anno 383 Albina divenne madre, non tuttavia di un Valerio Massimo, bensì d'una tenera bambinetta, che fu però accolta colla massima gioia come primo pegno di discendenza, ed alla quale al fonte battesimale venne imposto il nome dell' avola: Melania.

L'erede dei Valeri.—Sua educazione.—La coltura delle dame romane al secolo IV.—La verginità nella Chiesa.—La promotrice della vita monastica a Roma.—Lo sviluppo spirituale di Melania.

L'erede maschio tanto desiderato da Publicola non venne; Melania rimase figlia unica, e in lei si concentrò tutto l'amore dei genitori e, bisogna confessarlo, tutta l'ambizione del padre. Nel pensiero di questi ella doveva divenire la prima dama romana e contrarre un giorno tali nozze, per cui le ricchezze dei Valeri non avessero a passare ad altra gente, ma rimanere nella stessa famiglia, benchè in altro ramo. Insomma in un futuro matrimonio di sua figlia Publicola pose tutte le sue speranze di gloriosa discendenza, che aveva prima poste nella sua unione con Albina. Intanto la bambina era educata come una piccola regina; attorno a lei tutto era finissimo, dai lini che coprivano il suo tenero corpicciuolo, alle vesti di broccato ricamate in oro troppo pesanti per esso, ai mobili della sua camera, al vasellame, al cibo prelibato, che le veniva posto davanti. Sul suo passaggio schiavi e schiave e servi e amici e parassiti della grande famiglia, tutti s'inchinavano come davanti all'erede d'un trono; le più nobili dame romane sorridevano alle sue grazie ingenue, pensando già forse in se stesse per quali vie potevano riuscire ad averla un giorno per nuora, e chi sa quante giovinette l'invidiavano vedendola circondata da tanto splendore, crescere accanto ad una tenera madre e ad un padre, che pareva vivere solo per lei, per farla ricca e felice! Ben potevano invidiarla, oltre che per i suoi beni di fortuna, per le doti, di cui andava ornata. Bellissima, ella aveva un ingegno non comune, un carattere virilmente forte, temperato a tale affabilità di modi, a tale dolcezza soave, a tale abituale serenità, che la facevano cara a tutti. Tali doti, che crescevano in lei cogli anni, rendevano sempre maggiori le speranze in lei poste dal padre, il quale volle ch' ella ricevesse l'educazione più eletta, che potesse venir data a fanciulla romana.

Il programma di studi di una giovinetta di ragguardevole famiglia nel secolo IV non era cosa tanto da poco come si potrebbe credere; esso comprendeva la conoscenza del latino e del greco, e non conoscenza superficiale, ma profonda dell'organismo della lingua e di tutte le sue classiche manifestazioni; grammatica, rettorica, poesia, matematica, filosofia musica, arte del tessere e del ricamare formavano pure oggetto di studio serio per ogni nobile donna; ed infatti a quest'epoca non sono poche le donne ragguardevoli per sapere, sì tra i gentili che tra i cristiani: la filosofessa pagana Ipazia, chiamata madre e maestra da Sinesio di Cirene, il futuro vescovo di Tolemaide; Atenaide, che troveremo sul trono di Bisanzio, Pulcheria cognata di lei, quella scave principessa Serena, che faceva sue delizie di leggere Omero e Virgilio e di regalare dei ricami delle sue mani i suoi fratelli imperatori, infine tutta quella schiera di vedove e di vergini cattoliche, che oltre al latino ed al greco s'applicavano all'ebraico, e tanto s'approfondivano nello studio dei Libri Santi, che san Gerolamo doveva talora meravigliarsi delle obbiezioni mossegli dalle sue discepole; poichè la Chiesa alla coltura letteraria della donna aveva aggiunto la morale e religiosa. Così serio e profondo era il corso di studi religiosi seguito dalle giovani cristiane, che farebbe indietreggiare le giovinette d'oggi, avvezze a tutto sfiorare e ad accontentarsi del superficiale in tutto, e si capisce come, trovando ingegni robusti e già nutriti anche da buoni studi profani, esso abbia potuto dare le Marcelle e le Paole, che formarono l'ammirazione dei secoli posteriori. San Gerolamo, che a Leta consigliava di far apprendere il verseggiare greco alla figlia Paola, quanto a coltura religiosa voleva che le fanciulle apprendessero, per così dire, fin dalle fasce ad amare i sacri Codici più delle gemme e delle vesti preziose e che imparassero per nome la serie dei profeti e degli Apostoli; giunte al settimo anno, esse dovevano studiare i salmi a memoria; poi i Proverbi di Salomone come insegnamento di vita savia, l'Ecclesiaste, per apprendere a calpestare le vanità del mondo, il libro di Giobbe, per trarne esempi di pazienza nelle traversie della vita; infine dovevano passare allo studio dei Vangeli, che non avevano più a deporre e fare loro tesoro degli Atti e delle Epistole degli Apostoli. Quando l'animo loro si fosse ben nutrito di tali opere, egli poneva loro in mano i Profeti, l'Eptateuco, i libri dei Re, dei Paralipomeni, di Esdra, di Ester; ultimo infine, affinchè non ne fraintendessero il senso mistico e spirituale, il Cantico dei Cantici. Alle adulte prescriveva inoltre la lettura dei commenti dei Padri (1) San Ger. Ep. CVII ad Laetam. Ep. CXXVIII ad Gaudentium. Ep. XLV ad Furiam. 2—Da Persico.—San a Melania Giuniore.. Che cosa manca per rendere compiuto un tal programma anche per un uomo? Mi pare che la sua sola esposizione debba aver oggi l'aria di pesante per tutti, di addirittura schiacciante per lo spirito femminile, che il nostro secolo rende leggero a forza di considerarlo tale per necessità di natura. San Gerolamo pare non la pensasse così, nè pare che così la pensassero quelle donne del secolo IV, che si accingevano volonterose e liete a tali studi robusti, e, lungi dal divenirne accigliate e malinconiche, vi attingevano quella grazia soave, quell'aria serena di innocenza e di pace profonda, quella dolce gaiezza, che rendeva attraente l'austera serietà della loro vita. Esse restavano per così dire impregnate di dottrina cattolica e della divina parola racchiusa nei libri Santi; esse vivevano e palpitavano colla Chiesa, poichè le preghiere della Chiesa erano le loro preghiere abituali, le espressioni della Chiesa erano le loro espressioni imparate, meditate, fatte proprie fin dalla fanciullezza. Questo studio profondo era il pane del loro spirito, che le rendeva forti e faceva robusta la loro virtù; lungi dal gonfiarsene d'orgoglio, le loro anime pure, i loro cuori semplici e retti trovavano in esso i motivi e gli aiuti per scendere negli abissi della più profonda umiltà; questa famigliarità colle altezze sublimi della Bibbia toglieva al loro spirito ogni frivolezza femminile e lo rendeva desideroso solo di cose alte; questo contatto continuo con Dio, col Dio vivente nella parola dei libri suoi, questa continua meditazione della grandezza divina e della miseria umana, di quella mirabile epopea, che è la storia delle relazioni tra l'umanità bisognosa e colpevole e la Divinità ricca e misericordiosa, le staccava da ogni cosa terrena, le poneva in una luce di verità, e alle loro anime, assetate di bontà e di giustizia, apriva e rendeva agevoli e soavi i sentieri della perfezione più eroica. Così avvenne che quest' epoca vide donne piene di dottrina e di santità opporsi con resistenza virile allo spirito del secolo, mettere un argine valido al dilagare di tanti mali, e, quando delle nuove eresie sorsero a turbare la Chiesa, le vide uscire dal silenzio e dal ritiro loro cari ed abituali, e farsi valido appoggio ai Dottori ed ai Vescovi, prodigando i loro beni, il loro ingegno, la loro coltura, il potere dato loro dalla nascita e dalle cospicue aderenze, infine tutte se stesse per difendere quella fede, per la quale le loro antenate avevano sparso il proprio sangue.

Melania, destinata dai suoi ad essere astro fulgente nel mondo più che nella Chiesa, dovette venir istruita soprattutto in quelle arti, che fanno brillare presso i mondani; bambinetta ancora, sulle ginocchia della greca nutrice ella apprendeva la lingua greca, e la coltivava poi con tale perfezione ed amore assieme alla latina, che il suo biografo applica anche a lei l'elogio fatto già da san Gerolamo a Blesilla, figlia di santa Paola: quando leggeva il greco, si sarebbe detto ignorasse il latino, e quando invece leggeva il latino, si sarebbe detto non conoscesse altra lingua; la sua voce, naturalmente armoniosa, veniva sapientemente modulata collo studio della musica, mentre la sua piccola mano acquistava perizia singolare nel tracciare caratteri meravigliosamente belli. Lo studio attirava la sua intelligenza sveglia e precocemente matura, ed il suo biografo ce la dipinge anche soverchiamente avida del sapere. Tuttavia, per quanto amanti del fasto mondano, Publicola e Albina erano buoni ed anche ferventi cristiani; è impossibile perciò che abbiano lasciato mancare alla loro unica figliuola quell'istruzione religiosa, della quale essi stessi erano ben nutriti. Nelle mani della piccola ereditiera dei Valeri dovevano passare dunque, a date ore del giorno, quei libri delle Sacre Scritture, nelle quali era versato suo padre; la sacra manna, che nutriva di cibo sostanziale quei forti cristiani, veniva a nutrire anche quella giovane anima, e vi faceva germogliare e crescere quei semi di eroiche virtù, che la mano stessa divina vi aveva lasciato cadere. Chi può dire come dalle pagine da Lui inspirate Iddio parlasse a quella creatura innocente, che pareva non accorgersi d'essere sulla terra se non per soffrire dei suoi legami, che veramente era quaggiù un'esiliata, pensosa sempre della Patria celeste! Chi può entrare nel segreto delle comunicazioni di Dio con un'anima, ch'Egli vuol elevare sopra tutte le miserie terrene e far tutta sua? Chi può mettere l'orecchio curioso nei colloqui susurrati tra l'Amante divino e il giovane cuore, che Egli vagheggia? La parola d'amore di un Dio chi può ripeterla?

Era bella, ricca, nobile, intelligente, colta, graziosa la piccola senatrice romana, l'ultima discendente dell'illustre famiglia patrizia; eppure a tutte queste grandezze ella non sapeva attaccare il cuore; il suo cuore anzi se ne ritraeva disgustato, perchè altre grandezze esso aveva intravvisto, perchè il fulgore di altri tesori lo aveva ormai rapito! »Lungi da me», ella esclamava colla martire tredicenne sua concittadina, »lungi da me, convito di morte, perchè un altro Amante mi ha prevenuta; Egli appese pendenti d'inestimabile valore alle mie orecchie e pose monili al mio collo; le gemme ch'Egli mi donò hanno tale fulgore che carbone e cenere sono al loro confronto tutte queste gemme terrene!». Su colei, sulla quale s'erano subito posati gli sguardi ambiziosi di un padre terreno, che voleva darle un primato di gloria mondana, si posavano con compiacenza gli sguardi del Padre celeste, che voleva darle un primato di santità, e far di lei un miracolo della sua onnipotenza misericordiosa! Quella, le cui nozze dovevano nel pensiero di un uomo continuare lo splendore d'una sola famiglia, nel suo cuore si disposava a Colui, che l'avrebbe resa madre di un'immensa famiglia, una famiglia d'infelici secondo gli uomini, innalzati da lei ad una grande beatitudine secondo Dio.

Questa tenera fanciulla non doveva come tanti altri Santi conquistarsi con fatica il distacco dalla terra; vi aveva si può dire appena posto il piede che già le due grandi correnti, che si dividevano allora la società romana, la corrente mondana e l'ascetica, erano giunte a lei, cercando ciascuna di attirarla a sè; subito i suoi sguardi puri s'erano portati con desiderio sulla più elevata delle due; il suo cuore aveva palpitato per la via seguita dall'avola, più che per quella amata dal padre; mentre indossava le preziose vesti di costosissime stoffe, l'adolescente patrizia sognava il saio ed il cilicio, mentre si nutriva di cibi delicati, invidiava i digiuni dei penitenti, mentre il mondo, contemplando le sue doti, le presagiva un avvenire di trionfi, ed i suoi parenti ne susurravano tra loro con compiacenza, ella non voleva nel suo avvenire sorridere se non allo smagliante candore di un giglio: il giglio verginale.


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Nella Chiesa cattolica la verginità fu sempre tenuta in gran conto. Grande vi è pur considerato il matrimonio cristiano, anzi nell'ordine delle cose naturali il matrimonio è ciò che vi può essere di più grande, poichè il patto d'amore e di unione, il giuramento di reciproca fedeltà corre tra due creature fatte da Dio ad immagine sua, le cui anime devono essere tempio di Lui, e frutto di quest'unione è la generazione di altri esseri liberi e ragionevoli, la cui vita è ordinata a conoscere, amare, servir Dio per goderlo un giorno eternamente. Nobilissima unione essa è dunque, e Gesù la rese sacra elevandola al grado di Sacramento. Ma la verginità è cosa ancor più grande; essa è cosa di cielo e sta più alta del matrimonio quanto il cielo è più alto della terra; essa è unione della creatura col suo Creatore, è rinuncia alle gioie anche lecite della terra e aspirazione solo alle celesti, è distacco dalla terra quanto lo possono avere creature in carne umana, è imitazione quaggiù della vita angelica, è l'ultimo anello che unisce la vita terrena alla celeste. La sposa sacrifica il suo candido fiore verginale e la sua potenza d'amore, ciò dunque che ha di più prezioso, all'uomo; la vergine ne fa un'immolazione a Dio; nel suo fine dunque l'un sacrificio è superiore all'altro quanto Dio è superiore all'uomo. Stretti così al Cielo, dimentichi quasi della terra dove vivono, i vergini non devono più essere tra gli uomini che come angeli visibili, destinati a sollevarne tutte le miserie, a provvedere ai loro bisogni, a salvare le anime loro. L'olocausto a Dio d'una parte dell'umanità, un servizio più perfetto a Lui, un sollievo a tutte le miserie umane, ecco i frutti dello stato verginale, stato così celeste che non poteva essere rivelato agli uomini se non da quella religione, in cui s'adora un Dio, che si abbassò all'uomo per sollevarlo fino a sè. I pagani ne avevano intravviste le bellezze e avevano create le vestali, sforzo imperfetto e non riuscito di chi avrebbe voluto, ma non poteva, raggiungere le cime. Ma dopo che l'Uomo Dio ebbe preso carne umana da una vergine ed ebbe portato sulla terra un ideale non mai pensato di purezza, questo stato fu compreso nella sua perfezione, amato, abbracciato da migliaia di anime. La legge di Gesù Cristo non ne fa un precetto a nessuno, ma solo un consiglio a quelle anime fortunate, ch'Egli si compiace di sollevare colla sua grazia a tanta altezza, e la Chiesa sua circondò sempre di un'aureola speciale d'onore queste anime elette, le considerò come le gemme più belle della sua corona, come lo splendore della sua purezza, e prodigò le sue sollecitudini materne a guardia e difesa del loro tesoro.

Durante l'êra delle persecuzioni, le vergini cristiane vivevano nelle loro famiglie, alcune senza nessuna consacrazione esterna, altre riconosciute ufficialmente dalla Chiesa col rito della velazione (1) Di questo rito si ha un classico esempio in una pittura del cimitero di Priscilla. (Vilpert. Tav. I e p. 52).; fu quella l'êra d'oro per loro, perchè imporporarono di sangue le loro candide vesti e, giovani ancora, se ne andarono ai supplizi colla letizia di volare presto all'amplesso del loro Sposo divino, dopo avergli dato la migliore prova di fedeltà ed avergli reso patimenti per patimenti, vita per vita. Il patriziato romano diede allora il suo tributo a questo giocondo stuolo di vergini martiri; bastano i nomi di Flavia Domitilla, Prassede e Pudenziana, Cecilia, Agnese, Sotere.

Cessate le persecuzioni, non cessò nella Chiesa la stima per lo stato verginale, il quale ebbe anzi nel IV e nel V secolo dei grandi apostoli: il pontefice Damaso, la cui sorella Irene era vergine consacrata, sant'Ambrogio, Vescovo di Milano, che nel grande amore e nella venerazione alla sorella sua, la vergine santa Marcellina, trovava alimento al fuoco del suo zelo, sant'Atanasio, che nella sua venuta a Roma dava alle vergini un istituto di vita ascetica, e san Gerolamo, l'educatore di moltissime vergini. Per l'azione di questi uomini di Dio, l'amore alla verginità diveniva a poco a poco entusiasmo; esso invadeva le fanciulle, le cui madri le chiudevano nelle loro case, perchè troppo non s'infiammassero ai discorsi di sant'Ambrogio, invadeva anche molti pii genitori, i quali, per il diritto di patria potestà dato loro dalle leggi e dalle consuetudini romane, consacravano a Dio le proprie figlie fino dalle fasce, offrendole a Lui sull'altare dei martiri; talora anzi giungevano a consacrarle mentre erano ancora nel seno materno, e le facevano poi educare secondo la vita, cui erano destinate; la Chiesa tuttavia, mettendo un limite alla potestà dei genitori, esigeva che quest'offerta da loro fatta venisse ratificata poi dalle figliuole con piena libertà e conoscenza, affinchè non vi fossero vergini forzate. Questo trasporto così contagioso verso lo stato verginale fu il gran farmaco di quest'epoca alla universale corruzione. Intanto, sopratutto dopo le istruzioni ricevute da sant'Atanasio, cominciavano le vergini ad appartarsi dal mondo, a cercare la solitudine, a riunirsi tra loro, praticando una vita comune di preghiera, di studio, di penitenza, facendo così dei piccoli nuclei di comunità, che si trasformarono poscia nei monasteri. L'Oriente fu primo a coprirsi di monasteri; in Egitto una città, Ossirinco, era costituita esclusivamente da monasteri con ventimila vergini; nella persecuzione ariana le vergini alessandrine furono numerosissime a testimoniare col sangue per la divinità di Cristo; nella Cappadocia, nella Isauria e nella Galizia, nella Persia, perfino nella Scizia, nella Tracia, nell'India in mezzo ai barbari le comunità di vergini si moltiplicavano ogni giorno più. Dall'Oriente il movimento si propagava all'Occidente; Roma ne divenne un centro, e il patriziato romano ancora una volta diede allo stato verginale il fiore più eletto della sua gioventù femminile; talora anzi i palazzi stessi delle patrizie si trasformavano in luogo di riunione per le vergini. Ad esse si mescolavano spesso giovani vedove, che, abbandonato il mondo e consacratesi a Dio, si facevano alle vergini protettrici ed istitutrici insieme.

Tra queste vedove troviamo una prossima parente di Melania; Marcella, figlia di quell'Albina Ceionia, sorella di Volusiano Lampadio, zia perciò del pontefice Albino, che era entrata nella gente Claudia. Sposatasi a tredici anni, dopo sette mesi di matrimonio Marcella era rimasta vedova ed aveva stabilito di darsi a Dio; ella, e probabilmente la sorella sua Asella, (1) Il Lagrange nella sua vita di santa Paola sostiene che Asella non poteva esser sorella di Marcella, perchè questa era vedova e san Gerolamo nella sua epistola XXIV dice che la sorella d'Asella era vergine: sororem virginem. Ma il Card. Rampolla, ricostituendo la cronologia, pone il matrimonio di Marcella alquanto dopo il decimo anno di Asella, età in cui questa si consacrò a Dio e cominciò quell'ammirabile vita di cui parla Gerolamo, per cui vien tolta la difficoltà sollevata per la lettera di questi. Inoltre il card. Rampolla riconosce nei nomi Marcella ed Asella due cognomi della gente Claudia, alla quale apparterebbero le due sorelle, le quali sono poi anche dette tali da un'altra lettera di San Gerolamo. erano state tra le prime discepole di sant'Atanasio. Asella, prima della nascita offerta a Dio, oblata formalmente all'età di dieci anni, viveva segregata in una celletta del palazzo; ella stessa appena varcato il decimo anno vi si era racchiusa, togliendosi, per primo atto, l'aureo vezzo dal collo per comperarsi una sacra tunica, che i suoi genitori le avevano fino allora negata; tutta assorta nelle cose celesti, ella menava una vita purissima di preghiera, di penitenza e di lavoro, senza mettere mai il piede fuori della sua cella solitaria, se non per visitare di nascosto i sepolcri dei martiri. Quanto a Marcella, sua madre desiderava riprendesse marito, e cospicue nozze le furono offerte; il console Nerazio Cereale, zio di Gallo Cesare ed affine a Costanzo imperatore, invaghitosi di lei, le prometteva di costituirla erede delle sue copiose ricchezze, purchè accettasse di sposarlo; Marcella gli rispose che, ove avesse voluto passare a seconde nozze e non piuttosto donarsi a Dio, avrebbe cercato un marito, non un'eredità. Ella rimase così colla madre, alla quale obbediva anche in cose che la contrariassero, principale tra queste, ch'ella avrebbe voluto tutto profondere ai poveri, mentre sua madre voleva tutto serbare ai nipoti.

Donna di esimia virtù, di poderoso ingegno, di amabilissime maniere, Marcella acquistò presto un grande ascendente sulle altre patrizie romane; a lei accorrevano tutte quelle vergini e vedove, che aspiravano a vita più perfetta; ella era per loro interprete dell'istituto di vita dato da sant'Atanasio; la sua casa divenne il principale focolare della vita di fede e di ardore cristiano a Roma, e quando san Gerolamo abitò nella città eterna, non potè a meno di gettare lo sguardo meravigliato su quel nucleo di sante donne, che nella città del lusso e della corruzione avevano trapiantato le virtù del deserto: digiuni continui, benchè moderati, astinenza di carne e vino, abito semplice e povero, punto oro, neppure l'anello o sigillo delle nobili romane, vita appartata dal mondo, assiduo studio delle sacre Scritture; il palazzo dell'Aventino fu presto la scuola, dove l'illustre interprete delle Sacre Scritture non sdegnava di scendere a spiegarle a donne; esso fu la biblioteca centrale, ove ciascuno poteva avere, consultare e trascrivere a suo grado gli esemplari dei Libri sacri e le opere degli scrittori ecclesiastici più rinomati; in esso vi fu la prima comitiva di vergini e di vedove, che vivessero vita monastica, la quale, benchè non costituisse veramente un monastero, fu, secondo l'elogio di san Gerolamo, esempio ed eccitamento al moltiplicarsi dei monasteri in Roma.

Alla nascita della nostra Melania, Marcella aveva ormai raggiunto il cinquantesimo anno d'età; ella era già da tempo venerata in Roma, ove il suo ascendente sempre più si sentiva. Nella vocazione della sua giovane cugina ebbe parte quest'ascendente? Pensando all'indirizzo che i suoi genitori volevano dare a Melania, bisogna supporre che non la lasciassero troppo colla grande promotrice della vita monastica; ma di che vi ha bisogno a due anime sorelle per intendersi? Prima cugina del pontefice Albino, Marcella non poteva a meno di frequentare la casa della figlia di lui; uno sguardo di Melania, una parola sfuggitale, una domanda sulla vita che menavasi sull'Aventino, l'espressione di un desiderio potevano essere sufficienti, perchè l'occhio esperto di Marcela penetrasse nel cuore della fanciulla: l'anima della donna consumata nel servizio di Dio e l'anima della giovane vergine, che vi aspirava, s'erano comprese, e chi sa che in un momento favorevole questa non sfogasse con quella tutti i suoi sentimenti e non ricevesse consigli ed eccitamenti al bene! È impossibile che Marcella, che a tante giovani patrizie giovò, che più tardi s'adoperò anche per l'educazione dell'unica figlia di Leta, non abbia fatto ogni sforzo per essere utile, se non altro col consiglio, a questa giovinetta sua parente, le cui belle doti, le cui sante aspirazioni facevano così bene sperare di lei! Chi sa quante volte la ricca discendente dei Valeri avrà dalle finestre del suo palazzo guardato con struggimento secreto a quel monte dell'Aventino non lungi dal Celio, sul quale s'ergeva il palazzo della cugina, e, ripensando alle istruzioni di lei, avrà invidiato quelle, che di queste istruzioni potevano pascersi ogni giorno! Ella doveva conoscerle tutte, se non altro di fama, le sante donne dell'Aventino, chè tutta Roma, sia per ammirarle sia per biasimarle, non poteva a meno di parlar di loro: la vedova Paola, la discendente dei Gracchi e degli Emilii, colla figlia Eustocchio, ormai passate in Palestina, Principia, che Marcella si riteneva qual figlia; Marcellina, Felicita, Feliciana e la solitaria Asella. Per tutte queste fortunate erano il raccoglimento, il silenzio così caro a quelli cui parla Iddio, le lunghe ore d'orazione, le ore di studio profondo, la solitudine allietata dalla presenza dell'Amante divino, la povertà delle vesti, la frugalità del cibo, la penitenza a calmare la sete dell'anima di patire per una grande causa, per dar prova del proprio amore a Dio, e, nelle ore di ricreazione, era il dolce conversare con anime sorelle, la cui gioia, il cui riposo stavano pure in Dio. Per lei invece erano il frastuono del mondo, l'importunità di visite mondane coi loro frivoli cicalecci, l'affaticarsi per saziare ambizioni terrene, il comparire continuo davanti a sguardi umani per far ammirare il proprio ricco abbigliamento, l'udirsi parlare sempre di aspirazioni, di interessi terreni, il menare una vita forzatamente molle!

Quale alimento al sacro fuoco, di cui ardeva l'anima sua, doveva essere la vista di quel monte Aventino davanti a lei, e qual tormento insieme! Ma come tutto doveva riuscirle tale in quella vetusta Roma! Quelle tombe delle Agnesi e delle Cecilie, che le parlavano delle eroine della fede e della verginità, l'anfiteatro flaviano ai piedi del Celio, il cui suolo tante volte s'era imbevuto del sangue dei martiri, il contrasto tra la monumentale Roma pagana, col suo foro, i suoi archi di trionfo, i suoi templi, e quella Roma cristiana, che, uscita appena dalle strette della persecuzione, compariva all'aperto col suo arco di Costantino, le sue basiliche, ed ogni giorno si faceva più grande, più augusta, signoreggiando a poco a poco l'altra Roma come il trionfo del regno dello spirito sul regno della forza; quelle torme di pellegrini d'ogni paese, che dalla basilica Costantiniana, percorrendo la via sotto il Celio, si recavano oltre al Tevere in Vaticano ad onorare la tomba dell'umile pescatore di Galilea, le stesse magnificenze del suo palazzo, quelle magnificenze, che avevano circondato un giorno l'ava sua, la quale le aveva tutte calpestate per stringersi alla Croce di Cristo, lo stesso fasto dei visitatori della sua nobile casa, la stessa mollezza delle dame romane, quelle superbe grandezze, di cui ella vedeva la fallacia e la caducità, di quante profonde meditazioni dovevano essere fonte a quella mente già matura, quale azione dovevano avere sui moti di quel giovane cuore, come dovevano accrescergli la sete dei beni eterni! Ed il contatto, sia pure alla sfuggita, col peccato, di cui l'anima tanto più scorge l'orrore quanto più è vicina a Dio, e lo vede nella luce di Dio, doveva renderle più irresistibile il desiderio di espiazione e di penitenza. Chi può dire il fastidio, il tedio, il vuoto, che dovevano tormentare quell'anima anelante a grandezze divine, obbligata invece a portare come una grave catena il peso delle glorie mondane? Chi può dire la nausea di certi discorsi vani, di certi spettacoli di mollezze epicuree? Chi può dire il tormento di dover ella pure accomodarsi a tali mollezze, di dover vedersi sempre ai piedi torme di schiavi? Oh! quante volte nel contemplare quei poveri esseri, ella si sarà sentita trascinata a spezzare quei loro ceppi, a trattare come fratelli quelli, sulla cui fronte la sua fede le mostrava il segno della redenzione di Cristo, a sollevarli dalla loro abbiezione, a mostrar loro in che modo potevano essere grandi!

Roma dunque tutta intera, Roma co' suoi ricordi augusti, Roma co' suoi esempi di santa elevatezza e di eroismi presenti, Roma anche colla sua vana pompa, colle sue miserie, colle sue abbiezioni, aveva la sua parte nella formazione di quell'anima e nel confermarla sempre più in quella via, a cui Dio la chiamava. Questa azione della vita romana sull'anima sua. Melania stessa la riconoscerà, quando ai suoi figli spirituali parlerà dei poveri schiavi stesi nel foro a tutte le intemperie, come di un fatto, il cui vivo ricordo l'accompagnò fino in vecchiaia, facendole trovare in confronto lievi le aspre penitenze, a cui si dava.


***

Ma Valerio Publicola era di quei padri, che all'ambizione sacrificano anche le più sante aspirazioni e la felicità dei loro figli. Fu questo il grave fallo di quel buon cristiano. L'uomo, che temeva sempre di fare un torto ai barbari confinanti colle sue terre, non si prendeva scrupolo di fare il maggiore dei torti alla figliuola sua, negandole la libertà di seguire l'inspirazione divina; quegli, che i beneventani chiamavano «benevolo con tutti, da tutti amato», diveniva coll'unica figlia sua crudele tiranno, mettendo la sua volontà inflessibile come ostacolo insormontabile tra l'anima di lei e quella divina attrattiva soavemente irresistibile, che tanto è felicità a chi l'abbraccia, quanto è infelicità a chi non l'asseconda. Dopo aver forzata la sua creatura alla vita di lusso e di fasto, cui ripugnava, appena fu giunta all'età richiesta dalla legge, egli le impose il matrimonio sognato per lei. Oh! come penetrare in quel cuore verginale ed indovinarne lo strazio per tale imposizione paterna? Il suo giglio, quel giglio custodito con tanto amore, veniva spezzato; l'innamorata di Dio era costretta ad accontentarsi di nozze terrene! Come in quel momento la povera fanciulla deve aver rimpianto il tempo, in cui la consacrazione a Dio aveva ad essere pagata col martirio! Come deve aver invocata la spada del carnefice, che, troncando la vita del corpo, lasciava libera l'anima di volare allo sposalizio eterno! Ma no; l'êra dei carnefici era pur troppo passata: a Melania non restava nemmeno quella beata alternativa fatta alle vergini antiche: o un vincolo terreno, o la morte. Questo vincolo terreno era l'unica via, in cui ella doveva venir trascinata a forza da suo padre, cui le leggi romane circa alla patria potestà davano ampio potere su lei. Povera bimba! Tredicenne appena, circondata sempre da schiave obbedienti al cenno del padre suo, sola a lottare per la libertà della sua anima! La storia non dice con quali istanze ella abbia cercato di piegare la volontà di Publicola, nè se sia potuta ricorrere alla mediazione dei più pii tra i suoi congiunti: dì Marcella, l'angelo del patriziato romano, di Pammacchio, come Marcella cugino di sua madre, nè dice con quale ansia ella abbia aspettato l'esito di tali intromissioni. E neppur dice la storia quali lagrime abbia versato la povera fanciulla nelle ore vegliate la notte nascostamente nell'oratorio della sua casa, chiedendo allo Sposo delle vergini l'aiuto, che la terra non le sapeva dare. Povera Melania! Egli pure pareva sordo alle sue preghiere Quegli, che le aveva rapito il cuore col suo amore. Egli pure le negava quel bene, di cui tanta brama le aveva posta nell'anima, perchè a lei, destinata ad essere vittima volontaria d'espiazione per i traviamenti ed i pregiudizi della casta cui apparteneva, Egli voleva invece far trangugiare fin dal principio la feccia del suo calice amaro. Non sarà dunque per lei la consacrazione verginale, ma quelle sue dolorosissime lagrime, raccolte dagli Angeli e portate al trono di Dio, le otterranno un giorno di arricchire di quel bene a lei negato migliaia e migliaia di altre anime, che la chiameranno madre, aspettando di esserle corona in Cielo.

Istanze, preghiere, lagrime, intromissioni d'amici, tutto inutile dunque; la nobile casa dei Valeri ha bisogno di un erede alle sue sterminate ricchezze; Malania deve dare quest'erede. Non importa che l'anima sua, cui son vita altri ideali, agonizzi; non importa che ogni passo verso l'ara maritale sia segnato dal sangue del suo cuore; ella deve assicurare la successione di famiglia. È il peso di tutte le glorie terrene, ammassatesi secolo dopo secolo nella grande casa patrizia, che grava tutto sulla creatura celeste, ultimo suo rampollo, e la schiaccia, facendone una vittima!

Ora che da secoli la fiumana dei barbari travolse tutte quelle grandezze romane, ora che quei nomi gonfi di gloria umana non risuonano più che come un ricordo di cosa morta, ora che altri nomi, altre glorie, altre ambizioni sorsero sopra quelle di un tempo e le seppellirono, quanto gretto appare quel sacrificare all'ambizione di un nome le aspirazioni più nobili di un'anima umana! Ma è la sorte di ogni ambizione di rivelare il suo lato meschino solo ai lontani, seducendo i vicini con bugiarde apparenze. Beati coloro, che sfuggono ad ogni ingannevole seduzione, perchè, più grandi di tutte le grandezze della terra, se le tengono tutte sotto i piedi, e si elevano giganti sopra di esse nella aspirazione alle grandezze celesti!

Valerio Piniano.—La sposa e la madre.—La promessa sul sepolcro di S. Lorenzo.

All'uomo buono Iddio darà una sposa buona, fu scritto. Tanti giovani del patriziato romano aspiravano alla mano della bella e ricca Melania; quello scelto da Valerio Publicola era tale da meritarsi certamente questa eletta benedizione divina: una buona sposa; Iddio per lui fece di più; vedendo ch'egli avrebbe saputo apprezzare il suo dono, gli diede una Santa. Valerio Piniano apparteneva egli pure, come dice il suo nome, alla gente Valeria; suo padre era cugino in secondo grado del padre di Melania, discendente egli pure di Valerio Publicola e di Valerio Massimo, il prefetto di Roma nel 253. Per questo Publicola, nell'ansietà di voler impedire che il suo immenso patrimonio andasse a far grande altra gente, non seppe su chi meglio porre l'occhio che sul giovinetto suo parente, e ben presto si trovò d'accordo col cugino Valerio Severo nel progetto di unire Piniano a Melania; in questo modo la sorte dei due giovinetti fu, malgrado la loro volontà, fissata dai genitori.

Il ramo dei Valeri Severi pare fosse cristiano come quello dei Valeri Poplicoli. Negli sterri fatti in questi ultimi secoli sul monte Celio, che misero alla luce avanzi dell'antico palazzo dei Valeri, fu ritrovata una bellissima lucerna, quale i Romani avevano in costumanza di regalarsi in certe occasioni come strenna; essa è di bronzo, ha forma di nave, al cui timone siede Gesù e sul timone vi ha la scritta: Dominus Legem Dat Valerio Severo Eutropi Vivas (1) La lucerna esiste oggi nel Museo degli Uffizi a Firenze.. Probabilmente era quello il dono di un Valerio Severo, forse il padre stesso di Piniano, ad un Valerio Poplicola in ricordo del battesimo ricevuto. La madre di Piniano non si sa chi fosse; si può supporre che si riferisca a lei l'iscrizione trovata or non è molto nella basilica Vaticana, che acenna a nobilissima matrona romana, la quale ebbe quivi onorata sepoltura nel 384 dal marito, Valerio Severo. Ciò direbbe ch'ella pure fosse cristiana e che sia morta lasciando ancora bambino Piniano ed il fratello maggiore di lui, di nome Valerio Severo come il padre, il quale s'univa più tardi in matrimonio con Antonia Marcianilla, della stessa gente Antonia cui apparteneva Melania seniore, parente dunque anch' ella dell'avola della fanciulla Valeria, destinata a Piniano.

Questi, giovinetto diciasettenne, s'accostò alla sua sposa unicamente perchè così era decretato dalla volontà del padre, ma ben presto egli scorse e stimò assai le qualità di Melania e le si legò con intenso affetto, non per la fortuna vistosissima ch' ella gli portava, ma per le doti angeliche dell'anima sua. Questo solo fatto d'aver comprese e amate le qualità morali della sua sposa parla in favore di Piniano, chè certe virtù profondamente cristiane ed elevatissime sono troppo superiori alle anime volgari, perchè le possano intendere; infatti, come abbiamo detto, egli era degno di Melania. Ricco di bellissime doti di mente e di cuore, cristianamente educato, piissimo, mite, buono, egli non poteva a meno di venire stimato ed amato dalla sua giovane cugina, la quale al matrimonio con lui oppose viva resistenza unicamente perchè una vocazione più alta l'attraeva, ma quando s'accorse di non poter in nessun modo vincere l'imperiosa volontà dei genitori, mostrò quanta stima avesse dello sposo impostole, mettendo tutta la sua fiducia nell'aiuto di lui.

Con che cuore Melania abbia veduto levarsi il giorno delle nozze lo si può immaginare; nella sua candida veste, col capo nascosto sotto il flammeum ella non poteva a meno, avanzandosi all'altare, di pensare a quelle fanciulle, che portavano la simbolica veste ad un altro rito, ed il flammeum ricevevano dalle mani del Vescovo in segno del loro sposalizio col Re dei re. Trascinata violentemente al matrimonio, vi andò come una vittima al sacrificio, ma come una vittima santa, capace cioè di convertire in benedizioni anche le contraddizioni suscitate al servizio di Dio dalla volontà cattiva degli uomini; vi andò con uno sconsolato rimpianto nell'anima per la via migliore, ch'era costretta a lasciare, ma nello stesso tempo col proposito di compiere i suoi doveri verso il giovane, cui dava la mano forzatamente, e che tuttavia amava come amano i Santi, di quell'amore, che purifica e santifica le anime, sulle quali si versa; vi andò piangente, ma non senza una segreta speranza di ottenere dal suo sposo terreno ciò che le era stato negato dai genitori: la libertà cioè di seguire la voce dello Sposo celeste.

Unita a Piniano dal legame maritale, ella apparteneva ormai a lui; Piniano era pio, nobile, generoso, tale da interamente comprenderla; perchè non poteva ella ottenere da lui ciò che la vergine Cecilia aveva ottenuto dallo sposo pagano Valeriano? Ella risolse dunque di scoprire a lui il divisamento fatto fino dalla fanciullezza di vivere in castità: «Se ti piace, signor mio», gli disse, «di star meco in castità e meco convivere conforme alla legge di continenza, io ti riconosco per signore e padrone della mia vita; se ciò ti tornasse grave, eccoti le mie sostanze; puoi disporne fin d'ora a tuo grado, purchè mi lasci la libertà di piacere a Dio». Questa proposta rispondeva forse a qualche invito, che Piniano avesse già sentito nel cuore? La storia non dice altro se non che egli non se ne adontò, non vi oppose un rifiuto, solo ricordò alla sua sposa il motivo della loro unione, promettendole che quando questo fosse raggiunto, non solo lascierebbe libera lei, ma egli stesso abbraccierebbe il suo stato di vita: «Aspetta fino a che possiamo avere due eredi al nostro patrimonio, poi, colla volontà di Dio, lasceremo il mondo ambedue».

L'ultimo tentativo era stato fatto ed andato quasi a vuoto; Melania dovette cominciare la sua vita coniugale, vita di dolori e di lotte tra ciò ch'ora costretta a fare e la vocazione sempre viva nell'anima sua, la vocazione, alla quale ella serbava tutta la fedeltà, che le era possibile nella sua condizione, una fedeltà eroica, pagata a prezzo di lagrime.

Per le anime contrastate nelle aspirazioni più legittime e sante vi ha un grande pericolo; quello di inasprirsi nella lotta quotidiana e di perdere quella mite dolcezza, che Gesù ci raccomandò di imparare da Lui, e che a questa lotta dà il vero carattere di martirio, spogliandola della personale soddisfazione di far valere la propria ragione. Melania mostrò che era veramente animata dallo spirito di Dio, passando illesa attraverso questo pericolo; la dolcezza era sua virtù specialissima, era l'espressione esterna della sua pietà interiore, era il nettare, ch'ella aveva succhiato nella sua interna unione con Dio, nelle sue contemplazioni delle cose celesti, nel suo studio continuo del Vangelo. Rispettossissima coi genitori, che avevano conculcato in lei la più sacra delle libertà, soavissima con tutti, parenti ed amici, benchè talvolta tanto differissero da lei, non mai si lasciava sfuggire dal labbro una parola imperiosa, o amara, o che suonasse rimprovero per coloro, che la facevano così acerbamente soffrire. Ma questa dolcezza non era la fiacchezza delle anime, che soccombono alle difficoltà; era la virtù delle anima forti, che prima di tutto sanno comandare a se stesse; essa si univa perciò mirabilmente alla fermezza, alla tenacia nel persistere nei propositi santi; dolcezza e fermezza: queste due virtù, che sembrano opposte tra loro, che le anime imperfette non sanno mai accordare e che si sposano invece nelle sante in un ammirabile connubio, formavano la caratteristica della fedeltà di Melania alla sua vocazione. Ell'era dolce, perchè innocente e pura; era ferma, perchè la sua volontà si univa e si perdeva nella volontà divina.

La giovane ceppia era rimasta nel palazzo dei Valeri sul Celio, e Melania doveva sotto la severa sorveglianza paterna fare il suo tirocinio di nobile senatrice romana, figurando la prima tra le altre. Questo significava essere costretta a prendere tutto l'esteriore di vanità di quelle vanissime patrizie e consumar le giornate nell' abbigliarsi, farsi acconciare i capelli dalle schiave, farsi portar dagli schiavi nella ricchissima basterna dorata attraverso le vie di Roma, frequentare le riunioni mondane, per poi sedere ad una mensa, che i cuochi numerosi avevano imbandita con tutte le ghiotte leccornie in uso allora nei pranzi luculliani dei patrizi. Era troppo per un cuore da penitente; per un'anima chiamata alla vita degli Angeli! E delle crudeli imposizioni sofferte nel giorno, la povera Melania si rifaceva la notte, che passava prostrata al suolo nella cappella del suo palazzo, piangendo ai piedi del Tabernacolo quelle ore così mal consumate della giornata, riempiendo colle dolci effusioni con Dio il vuoto terribile fattole nel cuore dalle vanità della terra. Presto ella non fu più padrona nemmeno del segreto della sua camera, chè suo padre la faceva sorvegliare anche colà da eunuchi e schiave, perchè non vi soddisfacesse allo spirito di penitenza, che l'animava, e ch'egli non stimava degno di una matrona romana, per cui la poveretta, per seguire quella via, nella quale la spronava la volontà divina, e nella quale non voleva indietreggiare, ma avanzare sempre, era costretta a ricorrere alle astuzie e a comperare coll'oro il silenzio delle sue schiave.

Uno degli usi più in voga nel patriziato romano era il bagno; in ogni palazzo v'erano bagni sontuosissimi, forniti di quanto il lusso e la mollezza d'allora avevano potuto inventare per tramutare in delizia una usanza d'igiene e di pulizia; il bagno era per le dame romane un piacere di più, con cui accarezzavano quel loro corpo, già tanto accarezzato in tutti i modi; Melania non sarebbe stata agli occhi dei suoi degna di portare il titolo di senatrice romana, se anch'ella non avesse gustate tali voluttuose delizie, e le veniva perciò fatto un obbligo di ricercarle. Ma quell'amante delle austerità evangeliche non poteva rassegnarsi ad infiacchire lo spirito, abbandonandosi alle delicate mollezze delle seguaci del mondo; appena posto il piede nella stufa, ove il dolce tepore dato dai tubi d'acqua calda già procurava un senso di piacere, ella si detergeva il viso nell'acqua e ve lo immergeva bene così che vedendola si potesse credere ch'ella avesse fatto il bagno, poi distribuiva denaro alle donzelle che la accompagnavano, affinchè non riferissero la cosa al padre, e gli lasciassero credere ch'ella aveva eseguiti i suoi comandi. La storia non dice che nessuna di quelle sue schiave l'abbia mai tradita; forse le poverette stupivano in cuor loro che quella, che poteva godere di tante delizie, facesse così grande fatica per allontanarle da sè, ma mettendo insieme ciò che a loro pareva stranezza colla bontà, colla quale venivano trattate da lei, colla soave virtù, che in lei rifulgeva, avranno finito per comprendere la loro padrona più che non la comprendessero le raffinate ed orgogliose matrone, che l'avvicinavano ogni giorno, più che non la comprendesse suo padre stesso; così l'ammirazione e l'amore avranno cominciato in quei cuori rozzi, ma semplici, il lavoro, che doveva poi rendere facile l'apostolato, ch'ella era destinata a compiere tra loro.

Sotto quelle vesti finissime di lino d'Egitto e di seta, che le dame romane ritenevano ancora troppo ruvide per le loro delicatissime membra, quell'assetata di penitenza indossava, all'insaputa dei suoi, una tunica di cilicio. Ahi! che un giorno il santo segreto venne scoperto da una zia, la quale credette bene rimproverarne la hipote, ammonendola di non portare inconsideratamente tali vesti. Questa fu profondamente afflitta d'essere stata colta in un tal fallo, e temette di non poter più in avvenire avere nemmeno quello sfogo al fuoco, onde ardeva il suo cuore, per cui non stette quieta, finchè con lagrime e sospiri non ebbe supplicato la zia che le tenesse il segreto e sopratutto non facesse motto al padre di quanto aveva scoperto.

Era impossibile che Publicola non s'accorgesse che, se riusciva ad ottenere da sua figlia un'obbedienza esterna, non poteva soffocare in lei lo spirito di raccoglimento e di penitenza, massimo inciampo al suo desiderio di far primeggiare la famiglia, e s'appigliò allora al mezzo, che è sempre il primo a presentarsi alla mente di coloro, che vogliono contrastare una vocazione. Non riflettendo che la vocazione viene da Dio, e che Dio può sempre parlare ad un'anima dove e come gli piace, credono poter ottenere il loro scopo isolando quest'anima da tutti coloro, ch'essi stimano aver sopra di lei un'azione di religioso fervore. Riescono a far soffrire maggiormente la povera anima oppressa nello slancio che le è naturale e che le diviene necessario come l'aria al polmone, ma s'illudono se credono di soffocare la voce di Dio, che si ride dei loro sforzi; e quand'anche riuscissero a distrarre un'anima da questa voce, sarebbe una ben disgraziata vittoria, che tornerebbe tutta a loro danno. Publicola impedì a Melania di avvicinare persone di grande fervore e santità, ed ecco una nuova prova aggiunta per la poverina a tante altre; la terribile prova dell'isolamento. Il IV secolo ha un gruppo di donne eminenti per ingegno, coltura, fortezza e nobiltà di carattere, e santità; ma noi vediamo queste donne avvicinarsi tra loro, comprendersi, amarsi, sostenersi, agire in comune e giovarsi di una direzione così illuminata, alta e forte come quella di San Gerolamo. Esse avevano rinunciato agli agi, agli onori, alle dolcezze della famiglia, a tutti gli allettamenti della vita terrena, ma chi può dire di quante intime gioie fosse ancora fonte per loro l'amicizia cristiana che le legava, l'intendersi reciprocamente, il trovare l'una nell' altra una confidente delle proprie lotte, una virtù superiore da ammirare ed imitare, il sentirsi poi tutte circondate dalle sollecitudini di un padre come Gerolamo, il camminare sulla via del Cielo sostenute da una mano forte e sicura come quella del santo solitario, il ricevere da lui, che così bene lo sapeva ammanire, il nutrimento spirituale? Solo chi li conosce per esperienza sa quanto teneri e dolci siano quei purissimi legami stretti nel Cuore di Dio, alimentati alla fiamma dell'amor suo! Chi volge le spalle alla terra ed ai suoi piaceri e coraggiosamente si mette per la via ardua della perfezione evangelica spesso tra i macigni e le spine s'imbatte in questi fiori non tocchi mai da contatto meno che puro, le cui caste fragranze rianimano il coraggio e raddoppiano le forze; sono doni, che Iddio lascia cadere sui passi de' suoi cari, per addolcir loro l'esilio e render loro più facile la via alla patria. Melania doveva veder questi fiori da lungi, indovinarne la fragranza e venirne barbaramente privata; non potevano avvicinarsi a lei coloro, che battevano la sua stessa via, che avevano le sue aspirazioni, che, come lei, amavano Dio, sospiravano Dio! Ella doveva avanzar sola, in mezzo alle spine, che da ogni parte l'attorniavano e la pungevano ad ogni passo. Iddio solo voleva essere suo sostegno e sua forza, Iddio, che la faceva passare per le più dure pene dell'anima, prima d'accettare ch'ella gli offrisse l'olocausto del suo corpo colla penitenza.


***

Intanto i voti di tutta la famiglia si compivano: la giovane sposa diveniva madre di una bambina. Chi può dire con quali sentimenti ella si stringesse tra le braccia quella creaturina, che le acque battesimali avevano fatta sorella degli Angeli? Quel cuore, che non avrebbe voluto conoscere altro amore da quello di Dio, palpitava ora per le emozioni dell'amore di madre; il più forte e più santo amore terreno si univa a quella fiamma d'amore soprannaturale, di cui esso ardeva; in questa fiamma l'amor della madre non si consumava e non perdeva nulla della sua natura, ma si sublimava e diveniva celestiale. Attraverso al tenero corpicciuolo lo sguardo della Santa cercava l'anima, quell'anima innocente e bella, che nessun alito della terra aveva ancora sfiorato; è per quest'anima che quella madre, così angelicamente pura ella stessa, formava i voti più ardenti; per quest'anima che invocava tutti i beni celesti ed eterni quella, che così profondamente sentiva il nulla dei beni caduchi della terra. Ed un immenso bene volle intanto assicurarle, quel bene, che era stato negato a lei e di cui ella tanto più conosceva il pregio, quanto più per esso aveva sospirato e pianto. Seguendo l'uso di tanti genitori dell'epoca, d'accordo col piissimo suo sposo, ella offerse subito la sua figliuoletta a Dio, perchè si degnasse accettarla tra le vergini spose di Gesù, e come tale gliela consacrò. Così da quel primo frutto del suo seno ella cominciava quel suo apostolato della verginità, che doveva esercitare poi più tardi in modo meravigliosamente largo attorno a sè.

Poi, tenendosi tra le braccia quel suo tenero tesoro, sul quale si chinava ormai con rispetto, perchè consacrato a Dio, sperò che fosse venuto anche per lei il tempo d'essere libera di seguire la propria via, e, presentandolo a Piniano, gli chiese il compimento della sua promessa. Ma egli le rispose che desiderava aver prima un figliuolo maschio, al quale trasmettere il nome e le eredità della famiglia.

E per un altro periodo indefinito Melania dovette accettare la sua catena e rimanere in quella terribile lotta tra l'impulso divino e la forza della condizione che le veniva fatta. Così vivo era sempre in lei questo divino impulso, che dubitò talora se dovesse appigliarsi al partito della fuga. Un tal passo avrebbe forse rivelato ai suoi di quale forza fosse la vocazione, che essi volevano soffocare; esso era tuttavia pieno di responsabilità per le sue conseguenze, tanto più che un sacro legame la univa ormai a Piniano. Umile e prudente, ella non volle dunque appigliarvisi senza aver prima consultato uomini di grande santità, i quali ne la dissuasero, facendole osservare qual bene ella poteva fare a Piniano, col tirare forse un giorno lui pure dall'amore alla gloria mondana, al quale pareva inchinato, e le ripeterono quelle parole dell'Apostolo: «Non sai, o donna, se non puoi forse salvare il marito?». Non dunque il personale interesse, nè la voce della carne e del sangue erano in gioco, ma il bene di un'anima e di un'anima, che le era tanto cara, nella quale ella scorgeva tanti germi di santità; un tale argomento non poteva a meno di commuovere la giovane santa, che depose ogni idea di fuga, aspettando da Dio solo l'aiuto per seguire la sua chiamata.

Nè Iddio poteva tardare a consolare infine quella, che da tanto tempo lottava e soffriva per Lui. Egli cominciò dal guadagnare alla sua causa il pio compagno, che le aveva dato: Piniano. Per la seconda volta Melania portava nel suo seno una creaturina ottenuta dalle ferventi preghiere e per l'intercessione dei Santi, quando giunse la vigilia della festa di san Lorenzo. Il Levita martire fu sempre carissimo ai Romani, che lo tennero in grande venerazione, e nel V secolo lo invocavano come loro patrono subito dopo Pietro e Paolo, tanto che il poeta Prudenzio, appunto tra il 404 e il 405, pubblicava un inno di san Lorenzo, chiamandolo padre del popolo romano, «che si stringe al seno e nutre con paterno amore», e celebrando la vestale Claudia, che aveva disertato l'altare della dea per correre alla tomba di Lorenzo. La Chiesa celebrava con grande solennità la vigilia della festa del Martire, e tutta la notte i fedeli si prostravano sulla tomba di Lui nella basilica in Campo Verano e il popolo vi accorreva in folla. Qual meraviglia che la pia Melania, così accesa d'amore per Dio e per i suoi Santi, lasciasse andare l'anima sua alla corrente di questo universale entusiasmo e desiderasse ardentemente di passare la notte come gli altri fedeli pregando accanto alle spoglie del Martire? Più che mai in quella vita di forzata mondanità ella sentiva il bisogno d'invocare l'aiuto di Dio per l'intercessione de'suoi Santi. Ma anche in questo i suoi la contrariarono, allegando il pretesto di temere per la sua delicata salute nello stato in cui si trovava. Ella obbedì, e, invece di andare a Campo Verano, passò la notte ginocchioni nell'oratorio del suo palazzo pregando e piangendo. Il giorno dopo, alla mattina di buon ora si recò con sua madre sulla tomba del Santo, che supplicò con lagrime a venirle in aiuto, ed ottenerle la vita di solitudine con Dio, che tanto bramava. Al ritorno fu presa da gravi doglie e prematuramente le nacque il figlioletto aspettato. Erano dunque colmi i voti di Publicola e di Piniano; l'erede sospirato era venuto, ogni cuore dovette essere in allegrezza; le vaste aule, gli atri, i giardini, ogni angolo del magnifico palazzo dovettero risuonare di voci di gioia; il futuro padrone di tanti splendori era nato! Ahimè! a tanta gioia fece presto seguito il lutto; Iddio aveva decretato che la casa dei Valeri non dovesse avere altri discendenti, ed è inutile lottare contro il volere di Dio. Il piccolo erede tanto desiderato ed aspettato, ricevuto quel giorno stesso il battesimo, se ne volava il giorno seguente ad accrescere il coro degli Angeli in Paradiso.

La costernazione era sottentrata alla gioia in quel palazzo, che pareva dover albergare solo la felicità, e presto essa raggiunse il più alto grado, perchè Melania stessa s'era in poco tempo aggravata e correva pericolo della vita. Allora si vide di quale amore Piniano amasse la creatura angelica postagli allato dalla Provvidenza; egli, fuor di sè dal dolore e non sperando più che nell'aiuto di Dio, corse a Campo Verano, ove ancora pochi giorni prima aveva pregato la sua sposa, e con sospiri e gemiti supplicò il santo Martire ad ottenergli la guarigione di lei; nè s'accontentò di prostrarsi davanti all'altare come gli altri fedeli, ma fece quello, che non si faceva allora se non nei bisogni più urgenti e nelle angustie mortali. Era uso sul cadere del IV secolo che il sepolcro dei martiri fosse tenuto sequestrato da ogni estraneo contatto per mezzo di cancelli, ma nella parte posteriore dell'altare vi era un'apertura o piccola finestra (fenestrella confessionis), che corrispondeva al cubiculum o cellula sotterranea, ove giacevano le sacre spoglie. Così era nella basilica vaticana per il sepolcro di San Pietro, così in quella ostiense per il sepolcro di San Paolo e così doveva essere nella basilica di San Lorenzo. In una grande necessità i fedeli potevano penetrare al di là dei cancelli, e, spingendo il capo attraverso la finestrella pregare proprio sul sepolcro del martire, quasi a forzare l'intervento di lui presso la divina clemenza per ottenere la grazia.

Così fece Piniano; egli pose il capo sotto l'altare, dirottamente piangendo e supplicando il Martire a liberarlo dalla sua angustia, giungendo persino ad offrirgli la propria vita in cambio di quella di Melania. Prima ancora che si togliesse di là, il Santo caro ai Romani gli faceva sapere che sarebbe stato esaudito a prezzo non del sacrificio della vita, ma di un altro di maggior gloria di Dio, e gliene faceva dare la notizia da quella stessa, per la quale egli pregava. Melania, anche in mezzo agli atroci dolori e nelle strette della morte dimentica di sè e sollecita solo d'essere strumento fedele per il compimento dei disegni divini, saputo ch'egli pregava per lei sulla tomba di San Lorenzo, gli inviava questo messaggio: «Prometti a Dio che vivremo ambedue in castità e vedrai la possanza di Cristo». Era l'ultimo colpo, che per mezzo della sua fedele ancella Iddio dava a quell'anima, voluta da Lui in una via più perfetta. E Piniano questa volta s'arrese; la sua costernazione si mutò in letizia; letizia per la sicurezza che il vaticinio di Melania si compirebbe, letizia anche dell'anima, che si mette infine risolutamente nella via voluta da Dio; egli diede la promessa richiesta da lui, e, da sposo, ritornò a Melania fratello. La trovava infatti guarita e piena di gioia, non tanto per la sanità ricuperata quanto perchè Iddio aveva finalmente infranto la sua catena, e più ancora perchè l'anima di Piniano era definitivamente conquistata a Lui. Così dei contrasti alla sua vocazione questa fedele serva del Signore s'era servita per attirare ad essa quello stesso, che gli uomini avevano destinato a tenerne lontana anche lei. Benchè dopo più lungo tempo e con contrasti maggiori, ella trionfava come un giorno aveva trionfato Cecilia, e come questa aveva presentato a Dio quale conquista delle sue lotte il giovane Valeriano, ella gli presentava Piniano. Iddio fa tornare ogni cosa a vantaggio di coloro che lo amano; a contrapposto di questa sentenza, si potrebbe dire che nelle mani di coloro che amano Dio, ogni cosa serve a procurare la maggior gloria di Lui.

I! primo discepolo di Melania.—Un nuovo angioletto in Cielo.—Una nuova vergine sulla terra.

Melania non era più sola; era cessata per lei la prova di quell'isolamento, che può essere tanto grande attorno ad un'anima anche in mezzo ad una folla, quando questa folla non l'intende, e, battendo una via ben diversa dalla sua, ama trastullarsi con ciò, cui essa non sa più annettere maggior valore di quello che può dare un adulto al castello di carte di un fanciullo, o il possessore di una cava di brillanti al vezzo di margheritine, che fa il tesoro d'una bimba. Le bellissime anime, che risplendevano allora nella Chiesa di Roma, non potevano avvicinarsi a lei, ma nel suo stesso palazzo, accanto a lei, in colui, che era destinato ad essere il compagno della sua vita naturale e terrena, Iddio le aveva suscitato il compagno, il discepolo, il seguace della sua vita spirituale, della sua santità. Ammirabili sono i sacrifici dei Santi per Dio, ma più ammirabile ancora è ciò che Iddio fa per loro; per quanto l'uomo doni, Iddio lo supera sempre in generosità; in un momento solo, per vie talvolta meravigliose e degne di Lui, Egli ripaga a cento doppi le più ardue prove, sostenute per Lui; in questa gara di generosità tra Dio e l'uomo, che deve rapire gli Angeli d'ammirazione, il più generoso dei Santi non può certo a meno di dichiararsi vinto e di confessarsi col cuore riboccante d'amorosa riconoscenza, sopraffatto dai magnifici doni del suo Signore.

Melania viveva ormai con Piniano in castità, come fratello e sorella, che insieme s'esercitino ed a vicenda s'animino ad amar Dio e a crescere in virtù davanti a Lui; la cosa non era straordinaria in quell'epoca; vedremo S. Paolino da Nola vivere così colla sposa Terasia; Avita con Aproniano dopo la conversione di questi; più tardi la vergine Pulcheria con Marciano, da lei chiamato a sedere sul trono d'Oriente. L'amore e il desiderio di castità perfetta, che conquistavano talora gli animi fino al talamo nuziale, la fede viva, la semplicità del cuore, la serietà e santità dei costumi in coloro che professavano questa fede facevano praticabile un genere di vita, che le persecuzioni appena attraversate dalla Chiesa e le leggi sociali vigenti rendevano talora necessario agli amanti del consiglio evangelico.

Un nuovo legame ben diverso dall'antico univa dunque ormai i due discendenti dei Valeri; quello che stringe tra loro le anime, quando insieme aspirano a Dio, e non cercano più che Lui solo; ma questo vincolo tutto spirituale era così tenero e forte, che mai era stata così perfetta la fusione di quelle due anime, le quali non avevano più se non gli stessi desideri di perfezione evangelica, le stesse aspirazioni a spogliarsi d'ogni cosa per Iddio.

Sventuratamente se la morte del figlio e la malattia di Melania avevano vinto il cuore di Piniano, non era così di Publicola; egli voleva che la sua famiglia continuasse sempre nella vita di sfarzo e vi obbligava ancora i due sposi, tuttavia Melania dopo la morte del suo bambino aveva, colla scusa del suo dolore, smesse le vesti di seta. Presto un'altra morte veniva a dire a Publicola l'impotenza dell'uomo per fare da sè la propria felicità, e a trafiggere il cuore materno di Melania, facendo giubilare l'anima sua di cristiana; la sua bambina, primo frutto del suo matrimonio, se ne volava pure tra le schiere angeliche a ricevere la corona delle vergini, non guadagnatasi da sè, ma procuratale dall'affetto illuminato della madre sua. L'amor di Dio eleva tutti i sentimenti umani, ma non li soffoca, e quando ad un cuore, tutto penetrato di quel divino amore, vengono strappati i cari oggetti delle sue più pure affezioni, esso cerca il cielo collo sguardo sereno di rassegnazione, ma ciò non gli impedisce di sanguinare tanto più, quanto più sono intime le fibre, che gli vennero recise. La Santa, che anelava solo ad abbandonare per Iddio i suoi immensi beni, che avrebbe voluto, per essere tutta di Lui, rinunciare anche alle gioie della maternità, e solo cedendo alla violenza era venuta a conoscerle, sentiva ora che nel cuore di una madre vi ha qualche cosa di rotto per sempre, quando la morte le ha strappato i suoi figli; guardando al Cielo, ove tra gli Angeli tripudiavano le sue due creature, ella trovava ancora sorrisi; per la terra, non aveva che lagrime. Parenti ed amici la circondavano per consolare la sua tristezza, ma forse i rimedi offerti erano peggiori del male; erano senza dubbio quei rimedi, coi quali gli uomini in generale cercano di riattaccarsi alla terra, quando da un'apparizione della morte accanto a loro ricevettero tal scossa, da sentirsene quasi strappati. Riattaccare alla terra un'anima come quella di Melania, che non l'aveva amata mai, era un'impresa impossibile; le consolazioni della terra non erano che disgusto per un'anima tale; unica consolazione poteva essere l'elevarsi sulla vita di quaggiù, prendendovi parte il meno possibile ed avvicinarsi così sempre più al Cielo, al quale aveva già dato i frutti del suo seno. Ogni volta che il dolore di una morte apparirà nella vita di questa nostra Santa, ella ci lascierà vedere semplicemente il sanguinare del suo cuore, ma insieme ci mostrerà ove solo ella trovò conforto. Anche ora ella confessò ai suoi genitori l'immensità del suo dolore: «In nessun modo mi posso consolare», disse loro; ed aggiunse che cosa soltanto poteva asciugar le sue lagrime, che essi cioè le permettessero «di calpestare le sollecitudini del secolo». Era la brama, che aveva sempre divorato il cuor suo, era la vocazione, che sempre l'aveva attirata, e ch'ella non aveva mai cessato di esporre in ogni occasione ai suoi. E forse questa volta davanti a quella madre senza figli, a quella giovane donna da loro inutilmente sacrificata, essi non sarebbero stati lontani dal confessare negli eventi la mano di Dio e dal cedere… Ma il mondo è un terribile padrone; chi appena gli concede qualche cosa di sè, s'accorge un giorno d'essere ormai a propria insaputa divenuto suo schiavo; quando vorrebbe muoversi secondo gli detterebbe il proprio cuore, non lo può più fare; il mondo è là, grande spauracchio, ad imporgli il proprio volere, ad impedirgli ogni atto libero. Fu ciò che avvenne ai genitori di Melania: davanti all'unica figiia, implorante la libertà di ritirarsi dal tumulto del secolo e di cercare Dio nella solitudine, essi non sono più padroni di risponderle ascoltando la voce della ragione e del cuore; questa voce è soffocata da quella dei numerosi amici mondani, ch'essi credevano dominare colla propria opulenza, dai quali invece sono dominati. Unico argomento, che sanno opporre alla preghiera della povera addolorata è questo: «E come potremmo sopportare i vituperi dei mondani?». L'argomento dell'umano rispetto, vizio delle anime deboli e schiave.

A questo rispetto umano Melania deve essere sacrificata ancora una volta, ma ora non è più sola a rattristarsi; accanto a lei ha il suo mite compagno, Piniano, che innamorato ormai come lei del sublime ideale di perfezione evangelica, s'addolora con lei degli ostacoli posti ai loro voti. Non passava giorno in cui i due santi sposi non si confidassero la loro tristezza, studiando insieme i modi per riuscire a prendere il giogo soave del Signore malgrado l' opposizione dei parenti. Un mezzo solo si presentava: la fuga; insieme avrebbero potuto lasciare quel palazzo, ove le delizie e l'orgoglio della vita mondana venivano loro imposti come un pesante fardello, e recarsi in qualche luogo nascosto, forse al di là dei mari in Terra Santa, ove già era la loro avola. Melania. Ma questo progetto non era esente da dolore; si trattava di abbandonare un padre ed una madre, e abbandonarli di soppiatto senza ricevere un loro saluto, una benedizione, abbandonarli nelle lagrime incerti della sorte dei figli fuggiti. Accanto alla forza virile vi era nel cuor di Melania una vena abbondantissima di tenerezza e di dolcezza, e davanti a queste risoluzione, che dovevano far soffrire animi a lei cari, noi la vediamo sempre incerta; una lotta vi è allora nel suo cuore tra il dovere, il bisogno di seguire la chiamata divina e l'amore e il dovere figliale; per quanto i suoi genitori abbiano verso di lei e di Piniano il grave torto di sacrificarli alla propria ambizione, ella non sa dimenticare altri benefici ricevuti; l'amante di Dio s'accorge allora d'essere figlia, ed in questo sentimento figliale prova uno strazio, che forse è la parte più dolorosa di questa lotta per la propria vocazione.

Un giorno sull'imbrunire ella stava col fratello suo, Piniano, tristemente parlando dei loro progetti, quando ad un tratto giunse loro una fragranza di Paradiso, di cui sulle prime non poterono capire la provenienza. Ma ben presto l'intesero, chè la tristezza si mutò nei loro cuori in una santa letizia, accompagnata da una soave confidenza che Iddio stesso sarebbe venuto in loro aiuto contro le insidie loro tese dal nemico. Il buon Padre celeste aveva voluto consolare quei suoi fedeli; egli non voleva che tante prove andassero oltre: aveva contato i patimenti e gli sforzi dei suoi figli, aveva veduto il loro buon volere; da parte loro non esigeva di più: ora prendeva in mano Egli stesso la loro causa.


***

Mentre nella casa dei Valeri vi erano tanti motivi di tristezza e di lagrime, due avvenimenti nella parentela vi portavano un riflesso di gioia e giungevano fino a cambiar queste lagrime in sorrisi. Leta, la sorella minore di Albina, s'era unita in matrimonio con Tossozio, il giovane figlio di santa Paola, e, dopo qualche tempo di un'aspettazione fatta di fervide preghiere, dava finalmente alla luce una bambina, alla quale imponeva il nome della sua santa suocera: Paola. La piccola Paola era stata consacrata a Dio prima ancora di venir concepita nel seno di sua madre; Leta, afflitta di non aver figliuoli, aveva creduto non poter meglio ottenere questa grazia che promettendo che la sua creatura avrebbe servito Dio solo, e, se fosse stata una fanciulla, avrebbe seguito la via di sua cugina Asella, di sua zia Eustochio. Su quella culla passava un alito di santità, come passò su poche altre. Per lei tripudiavano in Betlemme santa Paola e santa Eustochio; su di essa si chinava con amore di cugina e di madre la veneranda Marcella; alla educazione della neonata dal fondo del deserto pensava san Gerolamo, che scriveva a Leta una bellissima lettera, nella quale, segnalando i pericoli, che correva in Roma una giovine vergine, le consigliava di mandare la bambina, appena fosse slattata, a Betlemme, per esservi educata tra le vergini di Paola, offrendosi, con una tenerezza che commuove nel l'austero monaco, a farsi a lei maestro e balio.

Il consiglio di Girolamo non doveva venir messo in pratica; nell'anno seguente (404) moriva a Betlemme la santa suocera di Leta, e, benchè la storia non lo dica, si può supporre esser ella stessa morta presto, perchè presto ella cessa di esser menzionata nelle lettere tra gli amici di Terra Santa e quelli di Roma, e questi probabilmente furono i motivi, per cui la piccola Paola non fu mandata a Betlemme. Ella resterà dunque un giorno qualche tempo in Roma esposta senza la guardia della madre a tutti quei pericoli, per cui tremava san Gerolamo; questo soggiorno la farà piegare infatti al fasto mondano, ma da questo verrà poi ritratta con sollecitudine materna (1) Il Thiery e il Lagrange suppongono che Paola sia stata subito mandata a Gerusalemme secondo il desiderio di S. Gerolamo: il Card. Rampolla dimostra la supposizione errata. Nota XIII. da un'altra santa donna: quella, che ora guardava a quella piccola culla con una gioia dolorosa, ricordando un'altra culla, sulla quale pochi mesi prima ella s'era chinata per baciarvi coll'ardente amore della madre, colla venerazione della credente, coll'estasi della Santa un'altra neonata pure sposa di Cristo, che ella poteva elevare sulle braccia e presentare a Dio, dicendo: è mia! è carne della mia carne, sangue del mio sangue; appartiene al cielo, ma è tesoro mio; donato da me!; quella culla piena di speranze per una santa madre, accanto alla quale troppo presto s'era aperta una tomba! Di quale amore Melania, la cugina della piccola Paola, doveva amare queste tenere creature oblate dai loro genitori a Dio, prima ancora che sapessero balbettarne il nome; angeli in doppio modo per la loro innocenza e per la loro consacrazione, i cui stessi vagiti dovevano essere preghiera ed attirare benedizioni sulla terra!

All'epoca nostra, in cui, coll'essersi fatto sempre più individualistico il concetto della vita, viene di molto diminuita la potestà dei genitori sui figli e rallentato il sacro vincolo che li unisce, in cui d'altra parte il sopravvento della vita materiale sulla spirituale attutisce spesso anche nei buoni il senso delle cose divine, e rende genitori anche cristiani più solleciti per i figli dei beni della terra che di quelli del Cielo, ci riesce difficile intendere questa consacrazione dei neonati a Dio, e capirne tutta la bellezza. Ma se ci trasportiamo al secolo di cui parliamo, se ci lasciamo penetrare un poco della viva fede di quei santi genitori, che guardavano molto più al Cielo che alla terra, e ritenevano perciò fortuna inestimabilmente maggiore per una loro figlia andare sposa al Re del Cielo, che al più potente sovrano del mondo, se d'altra parte pensiamo alla potestà assoluta che le leggi civili davano loro sui figli anche adulti, come abbiamo veduto nel caso di Melania; se pensiamo che la Chiesa tuttavia limitava tale potestà, così che i voti pronunciati dai genitori legavano soltanto essi e non i loro figli, e non avevano valore se non venivano da questi liberamente ratificati; se consideriamo tutto questo, non possiamo a meno di commuoverci a veder tanti genitori presentare a Dio in olocausto la propria prole innocente, ed offrirla, dolce pegno di pace e d'amore, per formare quella parte dell'umanità, in cui Dio pone le sue maggiori delizie, il giardino riservato per fiorire ed olezzare solo davanti a Lui! Non possiamo a meno di sentire nel nostro cuore qualche cosa di ciò, che deve aver commosso quei cuori di padri e di cristiani con una doppia tenerezza, unita a profondo rispetto per quelle loro creature, deposito ormai doppiamente sacro, che dovevano toccare colla venerazione, con cui avrebbero toccato i vasi sacri destinati all'altare!

E se tanto possiamo sentir noi, che molti secoli e più ancora molti mutamenti nel modo di pensare e nei costumi separano da quella pia usanza, che non doveva sentir Melania, la cui anima era tutta imbevuta di quella fede viva del suo secolo, ed in mezzo a tanta luce era luminosissima; ella, che quelle emozioni aveva provate, che, guardando al Cielo, vi trovava tra le Vergini la sua bambina, con quanto amore doveva porgere una mano maternamente protettrice a quelle, la cui fronte vedeva abbellita di quella corona, che le rendeva sorelle della figlia sua!

Intanto però la piccola Paola riposava sulle braccia di Leta, e Melania doveva volgere i pensieri a ben diverse cure.

Uno strano corteo.—Un asilo di pace e un solitario poeta.—Il trionfo d'Onorio a Roma.—L'intervento della mano di Dio.

In uno degli ultimi giorni di marzo del 402 il popolo di Napoli assisteva al suo porto ad uno imponente spettacolo. Ivi si era in quel giorno data convegno quanto di più splendido poteva avere la ricca Roma patrizia; oro e argento e gemme lucevano per tutto me erano tempestate le lunghe tuniche, le cinture, i veli delle matrone; brillavano loro sulle braccia, sulle mani, in mezzo al biondo naturale od artefatto dei capelli, architettati in mille guise sul capo stanco, scintillavano sulle bianche vesti dei senatori e dei patrizi, tutte rabescate d'aurei ricami, erano incastonate fino nei cocchi e nelle bardature dei magnifici cavalli, che ad ogni movimento del collo, delle zampe, di tutto il corpo fremente di moto sembravano guizzar lampi; in mezzo a tutte queste ricchezze s'aggiravano schiavi pure in splendide vesti, s' affaccendavano pronti ai menomi cenni dei padroni, abbassavano lesti le cortine quando un raggio di sole tentava offendere le dame mollemente sdraiate sui cuscini, s'adoperavano attorno ai cavalli. Era il fior fiore dell'aristocrazia romana, che faceva là sfoggio di una magnificenza difficilmente immaginata; e fra tutti quei personaggi, uno se ne distingueva più sfarzosamente vestito degli altri, che tutti sorpassava in ricchezza di cocchi e di cavalli, e che pareva fare gli onori della doviziosa comitiva; il popolo lo osservava, ed il suo nome veniva susurrato con quel rispetto, che incute la ricchezza: Valerio Publicola!

Ma a chi era destinato quel magnifico corteo? Chi s'aspettava mai al porto? Lo spettacolo imponente dovette farsi strano, quando arrivò il naviglio da Cesarea, e ne scese e si presentò a ricevere gli omaggi di quella sfarzosa compagnia una donna macilenta per le penitenze, vestita di un ruvido saio, la quale per cavalcatura non volle se non un umile asinello, accomodandovisi però con tanta fiera scioltezza come le matrone nei loro cocchi, e tanto più strano poi fu che a quella donna si fece incontro per il primo proprio il più magnificamente abbigliato della compagnia, Valerio Publicola, e le si inchinò rispettosamente come il figlio alla propria madre.

Ell'era infatti sua madre, Antonia Melania. Questa donna, nel cui forte carattere si sente bollire l'antico sangue romano, tornava in patria dopo trent'anni di assenza. Ella aveva in Palestina assistiti i confessori della fede durante la persecuzione mossa loro da Valente, fautore dell'arianesimo; imprigionata poi ella stessa, non s'era lasciata intimidire, ma aveva fatto valere i diritti della sua nascita, mandando a dire al consolare di Palestina, dal quale era tenuta prigioniera, che guardasse bene con chi aveva a che fare: posseder ella ancora in Roma, malgrado la veste meschina presa per amor di Gesù Cristo, tanta potenza da farlo pentire del suo atto; così che il pover'uomo, saputo da lei il nome del padre e del marito, andò in persona a farle mille scuse e riverirla, e la pose subito in libertà, concedendole anche ogni facoltà di trattare coi santi confessori, vittime di Valente. Passata poi a Gerusalemme, vi aveva fondato un monastero di vergini, nel quale aveva trascorsi ventisette anni di vita ascetica; a Gerusalemme aveva conosciuto santa Paola e san Gerolamo. Tuttavia, malgrado la lontananza e tante cure, ella non aveva mai cessato di tenersi informata della vita de'suoi figli in Italia; saputo del santo divisamento dei nipoti di lasciare il mondo, aveva intrapreso il lungo viaggio per venire a confermarveli ed a convertire ad esso anche quel suo Publicola, che nel modo con cui era andato ad incontrarla non aveva mostrato, a dir vero, troppa inclinazione a lasciarsi persuadere.

Così, seguita dal corteo della nobile e magnifica parentela, la reduce dai deserti d'Oriente procedette per la sua via, ed il popolo dovette guardar curioso quella donna in tanto aperto contrasto con quanto la circondava, quella grande povertà, che pareva essersi ficcata là in mezzo per far arrossire tanta magnificenza; forse qualche matrona avrà abbozzato un sorriso di scherno o di sdegno, per esser obbligata a far la corte a tanta abbiezione, ma in quel corteo stesso un cuore batteva d'invidia: quello della giovane Melania, che certo doveva trovarsi nel seguito della sua avola, e, coperta delle magnifiche vesti, ambizione di Publicola, avrà guardato con secreto struggimento a quell'umile veste di salo.

Il corteo, invece di prendere la via di Roma, si diresse verso la Campania, dove Melania seniore voleva fermarsi qualche giorno da suo cugino, Paolino da Nola, una delle figure più simpatiche di quell'epoca, mite e dolce quant'era fiera e bollente la sua congiunta. Egli discendeva dalla gente Ponzia Paolina, ma sua madre era una nobile e ricca spagnuola sorella della madre di Antonia Melania. In sua gioventù avea studiato con amore la poesia ed era stato discepolo del poeta Ausonio, aveva esercitato il consolato e la magistratura, poi, ritiratosi in Aquitania, vi aveva sposato Terasia, dalla quale aveva avuto un figlio, Celso, rapitogli presto dalla morte. Tale immenso dolore finì di accendere anche in questa nobile anima la passione di tante altre del suo secolo. Egli e la sua sposa Terasia si spogliarono delle proprie ricchezze, e risolvettero di darsi interamente a Dio, vivendo nella solitudine ed in continenza. Ordinato sacerdote a vivo clamore di popolo a Barcellona, Paolino si ritirò poscia colla sua compagna a Nola, presso la tomba del suo san Felice, ove aveva ricevuti i primi impulsi della grazia, per cui dedicava a questo Santo un culto speciale, così pio, affettuoso, figliale da commuovere. Quivi viveva con Terasia una vita angelica, e che, malgrado le austerità della penitenza, ha tutta l'aria di un dolce idillio; anima soave e poetica, egli continuava a far risuonare la sua dolce lira, ma l'aveva ormai consacrata alle glorie della religione, alla difesa del cristianesimo contro il paganesimo, e soprattutto al suo san Felice, cui ogni anno, il 14 gennaio, giorno di sua festa, dedicava un carme; artista in tutto, non gli era bastante donare dei canti al suo Santo, volle destinargli un poema di volte e di mosaici, e cominciò ad erigergli un tempio, che divenne un monumento prezioso d'arte cristiana; padre dei poveri e dei pellegrini, fece della sua dimora, a un miglio dall'abitato, una benedizione per Nola; candido come un fanciullo, godeva, malgrado la sua dilezione per la solitudine, l'amicizia di uomini eminenti in Ispagna e in Italia, di santi Dottori come Gerolamo, Agostino, Ambrogio e con loro teneva una corrispondenza, in cui rivelava tutta la soavità del suo cuore.

L'impressione del primo arrivo a Nola doveva essere un senso di pace celeste; cinque santuari, o piccole basiliche, racchiudevano nel loro seno come splendido gioiello la tomba del martire san Felice; alberghi per i pellegrini, ospizio per i poveri, monasteri per uomini e per donne offrivano l'aspetto d'una città vivificata dalle sacre ceneri, che racchiudeva; accanto a tutto questo le opere intraprese da Paolino: il nuovo tempio, le colonne, i portici, le fontane; in mezzo a tutto questo, le opere intraprese da Paolino: il nuovo natore, il console, il magistrato, la cui giovinezza era fiorita tra l'opulenza e gli onori, fattosi semplice, umile, povero, perfetto seguace di Cristo. Fu presso questo solitario che Melania volle passare i primi giorni della sua venuta in Italia, quasi che quella figlia delle solitudini d'Oriente non si sentisse il coraggio di affrontare il tumulto di Roma, senza aver prima gustato delle solitudini d'Italia. Ella aveva veduto Paolino in mezzo agli onori ed alle felicità della terra; voleva vederlo ora tra le privazioni della penitenza, affatto trasformato dall'amore a Gesù Cristo. Forse anche ella sperava che potesse venire utilità spirituale ai suoi compagni, gonfi di vane glorie, dal veder vicino la felicità della vita semplice ed umile, dal trovarsi a contatto con una figura così raggiante di luce celeste come quella di Paolino. Di questa visita godettero certo due del suo seguito: Piniano e Melania. Melania in modo speciale, che finalmente respirava un poco nella sua aria, che contemplava nella loro pratica le virtù, suo sogno e sua aspirazione, che forse riusciva in quest' occasione a fare colla sua avola e coi santi suoi ospiti di quelle conversazioni paradisiache, atte a soddisfare infine l'anima sua, assetata di cose divine e costretta sempre ad intristire in mezzo alle sollecitudini umane.

Il soggiorno presso Paolino era dunque probabilmente stato per la madre di Publicola un primo passo nella missione, che s'era proposta di esercitare nella sua famiglia, e che continuò poi a Roma, dove conformò la nipote nei suoi propositi e non fece che predicare la vanità delle ricchezze. Invano Publicola aveva cercato allontanare da sua figlia ogni persona di grande pietà: Iddio doveva mandar nella sua casa dal fondo dell'Oriente la sua madre stessa a dare coll'esempio e colla parola torto a lui e ragione a quella dolce vittima della sua ambizione. Ma vanamente anche sua madre cercava di far presa sul cuore di lui; le ricchezze, ch'ella disprezzava, egli non sapeva lasciare di amarle. Quando cessavano gli argomenti soprannaturali, ella gli metteva innanzi quei naturali; gli faceva osservare il mondo romano traballare sotto il piede dei barbari, e con quella sua intuizione di donna avezza a spinger lo sguardo nell'avvenire e a chiederne la chiave agli avvenimenti contemporanei, gli prediceva il prossimo sfacelo di tante grandezze, il disperdersi di immense fortune, e lo ammoniva colle parole di Gesù a non attaccarsi a quei beni, che gli potevano venir rapiti, ma a farsi quelle ricchezze, che i ladri non possono rubare. Inutilmente; l'illusione della vita terrena troppo ancora ingannava Publicola, perchè l'anima sua si arrendesse.

Miglior ventura doveva avere Melania seniore coi due nipoti, Avita e Aproniano. Avita era figlia di una sua sorella, a quell'epoca probabilmente già defunta, perchè nessuno ne fa menzione, ed era sposata a Turcio Aproniano di famiglia senatoriale e consolare, ma pagano e addetto anzi al culto idolatrico; i due sposi abitavano non lungi dai Valeri, sul monte Esquilino, presso S. Martino ai monti, nel palazzo dei Turcii Asterii e Secondi. Le esortazioni della zia convertirono Turcio Aproniano al cristianesimo, e lui e sua moglie ad abbracciare vita continente; essi avevano due figli Asterio ed Eunomia, che consacrarono ancora bambini a Dio, l' uno nello stato sacerdotale, l' altra nella verginità. Eunomia la ritroveremo più tardi, chè, come Paola di Leta e di Tossozio, ella doveva divenire una delle figlie spirituali di sua cugina, Melania juniore.

Ma Roma era troppo tumultuosa per la solitaria di Gerusalemme; vi aveva appena posto il piede, che già ella bramava il ritorno in Oriente, i giorni le sembravano anni, il frastuono della grande città le faceva sospirare la quiete, il silenzio dei Luoghi Santi; il lusso, la corruzione, la mollezza che vi regnavano la disgustavano ogni giorno più. San Paolino, testimonio e confidente dello stato d'animo di lei, lo dipinse a vivi colori. Inoltre ella presentiva la prossima caduta dell' antica regina del mondo. La vedeva guasta e incancrenita nell' interno, vecchia, cadente, incapace di reggersi, capace solo di magnificare le grandezze passate, di pavoneggiarsene da rimbambita, inconscia della decrepitezza presente. La vedeva minacciata all'esterno dalle orde dei barbari, giovani, piene di vita e di vigore, bramose di arricchirsi di sue spoglie, pronte a cogliere l' occasione per correrle sopra. Quando approdava in Italia, esse, capitanate da Alarico, scese dalle Alpi, avevano corso con forze formidabili il bel paese fino all'Adda e minacciavano Roma; erano state vinte da Stilicone il 6 Aprile a Pollenzo e a Verona, e per questa volta avevano dovuto ripassare le Alpi; ma quella loro prima apparizione in Italia aveva riempito di spavento i Romani. La forte Melania li aveva visti correre paurosi a riparare le mura, mettere in salvo ciascuno i propri tesori, pensare alla fuga. In mezzo a un tal popolo vile, ella sentiva di non aver più nulla da fare; la sua missione era compiuta. Gerusalemme la chiamava a sè, ed ella partì da Roma la primavera del 403, un anno dopo la sua venuta. Il suo ultimo sguardo alla città natale fu pieno di sinistri presentimenti, le sue parole furono una predizione, che pur troppo divenne profezia: «È giunta l'ultima ora!» si dice aver ella esclamato davanti a quello spettacolo di corruzione, di viltà, di inettezza, di imprevidenza, che presentava allora Roma. Suo figlio Publicola la accompagnò fino in Sicilia, di dove ella salpò per l' Africa.


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Roma intanto si coronava di rose. Passato il panico, essa non pensava più che a mettersi in festa per le vittorie di Stilicone e supplicava l' imperatore Onorio di venire a celebrare il trionfo, come facevano un tempo i Cesari, quando le armi romane si sottomettevano il mondo. Onorio, che non aveva mai combattuto, accettava, ed un giorno mite e sereno il suo cocchio trionfale, in mezzo ai fragorosi applausi della moltitudine, entrava nell'alma città dal ponte Milvio e si dirigeva al Palatino attraverso a vie ornate di archi e di addobbi, gremite di folla, che si accalcava persino sui tetti. Da un secolo, dacchè nel 303 avevano trionfato Massimiano e Diocleziano, Roma non vedeva simili feste, e se ne inebbriava alla vigilia della sua caduta, quasi volesse perdere la coscienza del suo vero stato. Da quasi un secolo il Palatino era stato privo della corte imperiale; esso era deserto e spoglio; la venuta di Onorio lo rianimava; Roma s' illudeva di ridiventare l' antica Roma, e nel principio del 404, per il sesto consolato e i decennali dell' imperatore, s'abbandonava alla gioia in mezzo a spettacoli e feste sontuosissime. E Publicola e la sua famiglia quale parte prendevano a tante feste? Certo esse non erano di natura da far fruttificare il buon seme gettato da sua madre nel cuore del dovizoso romano, nè da disporlo a cedere ai desideri di sua figlia. Quand' anche tanti impulsi a togliere il cuore dalle vanità del secolo lo avessero un poco scosso, come mai non avrebbe sentito potente la tentazione di tutti quegli splendori, egli che, patrizio, senatore, straricco poteva farvi una delle prime figure? È dunque probabile che abbia preso parte ai festeggiamenti ed agli spettacoli; certo è che andò alla Corte, e accanto a lui vi comparì sua figlia Melania in abiti sontuosissimi. Lo splendore del suo abbigliamento, ma più ancora la sua avvenenza, la sua freschezza giovanile, che le solite arti delle matrone non avevano sciupata, e più di tutto la semplicità de' suoi modi e la bellezza dell'anima angelica riflessa sul volto le attirarono subito gli sguardi. Più di tutti la osservò e l' ammirò la principessa Serena, sorella d' adozione e suocera di Onorio, che non dimenticò così presto quest' incontro.

Erano dunque ancora sempre nuovi sacrifici e sempre più penosi per l' anima anclante al nascondimento, al silenzio, allo spogliamento delle ricchezze, ma dovevano essere gli ultimi; spesso avviene che i maggiori inebbriamenti d'ambizione precedano le maggiori cadute, come allora accadeva di Roma, e così pure che la maggior oppressione di un' anima preceda la sua liberazione. Con ogni sorta di mezzi Iddio aveva cercato di scuotere Publicola e renderlo pieghevole ai suoi voleri: colle preghiere di sua figlia, colla sventura, colle ammonizioni di sua madre. Egli aveva sempre resistito, e Iddio lo colpì con uno di quei castighi, che sono un'ultima grazia: gli tolse quella vita, di cui usava a mettere ostacoli al suo divino volere. Nel rigoglìo ancora dell' età, a trent' otto anni appena, in mezzo alle dovizie della sua casa, in mezzo agli splendori, che la presenza della corte imperiale a Roma gli dava occasione di maggiormente sfoggiare, Iddio lo colse con un male inesorabile, e lo buttò in un letto in faccia alla morte, che in un istante gli apprese il nulla di tutto quanto aveva amato. A tale ultima lezione, egli non resistette più; la luce dell' estrema ora gli illuminò la sua condotta verso la figlia; nel silenzio, che il mondo fece ad un tratto attorno al letto del morente, la coscienza del cristiano parlò, ed egli confessò d' aver errato, e, chiamati i figli a sè, ne chiese loro umilmente perdono. «Perdonatemi, miei figliuoli», disse a Melania e Piniano, «perchè per somma stoltezza peccai; chè temendo le lingue cattive posi ostacolo alla professione celeste. Ma ora il Signore mi chiama a sè, a voi rimane ampia potestà; compite il vostro santo desiderio, solo rendetemi propizio il Dio, Signore di tutte le cose».

La morte di Publicola avveniva nel marzo 404; sua madre era ancora in Africa; la triste notizia le fu communicata da sant' Agostino per incarico di san Paolino di Nola. La forte donna, secondo che testimoniò il Vescovo d' Ippona a Paolino, l' accolse con ammirevole rassegnazione, dolendosi sopratutto perchè suo figlio non avesse prima di morire detto addio al fasto senatorio, così da guadagnarsi la stessa corona della madre.

L' ostacolo, che si frapponeva fra Melania ed i voleri del suo Dio, era dunque ormai tolto; non solo, ma quell' anima già tanto provata poteva ora avere una gioia suprema: ella aveva veduto quella volontà paterna, che sempre aveva violentata la sua, mutarsi davanti alla morte, ed ora, entrando con Piniano nella via da tanti anni sospirata, poteva gustare la dolce gioia di abbracciarla col pieno assentimento del padre morente.

«Che valgono mai le corte e meschine vedute degli uomini contro i divini ordinamenti della Provvidenza?» osserva ben giustamente il Card. Rampolla.

«Si tentò di fare della prima tra le case patrizie di Roma la sede delle delizie e del fasto, un modelo di vivere mondano e glorioso, ma invece era stabilito negli alti consigli che una tal casa dovesse porgere luminoso esempio di vita evangelica, e levare la voce eloquente di protesta contro la crescente corruzione romana. Si volle ad ogni costo assicurare un erede al più ricco patrimonio della capitale dell' impero, ed era decretato lassù che, malgrado tutti gli sforzi, venisse meno l' erede, ed il colossale patrimonio fosse alimento dei poveri e sollievo delle umane miserie. Si tentò ancora di poter frustrare la vocazione di una giovinetta, destinata ad eseguire i disegni della Provvidenza; e questa giovinetta, guidata dalla divina Provvidenza, fu posta in grado contro tutte le contrarietà degli uomini, di eseguire nel modo più compiuto e perfetto le sue disposizioni».

I solitari della villa suburbana.—Il mutamento di vesti.—I digiuni.—Le opere di misericordia. —La madre degli schiavi.

Chi esce da Roma per la via Appia s'incontra al quinto miglio coi ruderi di una villa, che anche solo dalle rovine grandiose si giudica essere stata sontuosissima; essa doveva svolgersi in un' area di circa due miglia di circonferenza e le statue in vari tempi ivi trovate, molte delle quali ornano il Museo Vaticano, ci fanno pensare ad una decorazione artistica e ricca di nobilissimi edifici. La sua costruzione risale pare ai tempi di Adriano; primi proprietari ne furono i Quintili, i cui ultimi discendenti, due fratelli, Condino e Massimo, stimatissimi per il sapere e l' arte militare, legati tra loro da grande affetto, ricchissimi, forse cristiani, furono fatti trucidare o per la loro religione o per cupidigia dall'imperatore Commodo, che, confiscatine i beni, s' impadronì della villa. Più tardi sotto Costantino, che riparò a tante ingiustizie de' suoi predecessori, Valerio Massimo prefetto di Roma, erede naturale della gente Quintilia innestatasi fin dal secolo V in quella Valeria, potè riscattarla; i Valeri acquistavano così una nuova sontuosissima dimora, una di quelle nobili ville romane, che all'epoca imperiale erano divenute tale un assieme di grandezza da non potersi confrontare colle più celebri delle nostre moderne; vere piccole città coi loro pretori, ippodromi, passeggi coperti, atri, colonnati, triclini, biblioteche, sale da giuochi, vastissimi appartamenti d' estate e d' inverno per i padroni e per gli ospiti, bagni, peschiere, profusione di statue e di marmi e poi parchi grandiosi, giardini ricchi di fiori e delle piante più rare, frutteti, oliveti, vigneti. Non era certo quello l' unico possedimento dei Valeri intorno a Roma; nell' agro romano, tra il sesto e settimo miglio della Ostiense sulla strada di Ardea vi ha un fondo detto ancor oggi Vallerano, corruzione di Valerianum, così denominato, secondo il Card. Rampolla, dal l' avere un tempo ivi posseduto i Valeri; un' iscrizione trovata nel 1737 a Mandela Sabina presso la villa d' Orazio fece conoscere il nome di una Valeria Massima, proprietaria di fondi in quei luoghi; un' altra, scoperta nel 1861 tra Albano e Frascati, parla pure di possedimenti della gente Valeria colà; ma la villa della via Appia doveva essere, tra queste intorno a Roma, il loro luogo di delizie.

Nella primavera del 404 in quelle magnifiche sale, sotto gli alberi dei parchi meravigliosi s' aggirava una giovane donna in una povera veste scura di lana, dalle lunghe maniche, che scendevano a coprir le mani, ed alla quale un fitto velo nascondeva il capo ed adombrava il volto, un soave volto sereno, che richiamava subito alla mente la sposa patrizia, la quale, nelle feste della Corte imperiale, aveva attirato gli sguardi di una principessa con quella sua avvenenza pura, semplice, un poco malinconica, di quella melanconia che è data dalla nostalgia del sublime. Ell' era infatti l' ultima discendente dei Valeri, l' ereditiera di tutta la loro fortuna: la giovane Melania.

Il primo suo atto, appena la morte del padre le ebbe data la libertà di seguire la voce di Dio, era stato di lasciare il palazzo di città, di volgere le spalle alla fastosa Roma e di ritirarsi nella solitudine della villa sulla via Appia. La solitudine è la cara amica degli amici di Dio. Le anime volgari e frivole hanno bisogno del frastuono, dei cicalecci, delle distrazioni, che impediscano loro di trovarsi troppo in presenza di se stesse; la loro superficialità le spinge a versare all' esterno tutto intero quel poco che possedono; la loro povertà le rende avide di intrattenersi di mille inezie, di tutto vedere, di tutto ascoltare, di tutto sapere; esse sono cicalone per sciocca vanità, curiose per insipienza; le anime profonde e meditative bramano il silenzio, che permette loro di raccogliersi in sè, di pensare, di studiare; le anime amanti di Dio sospirano di essere sole coll' Oggetto del loro amore, affine di prestare un orecchio più attento a quella voce divina, il cui soave susurro si perde nel frastuono del mondo, affine di intrattenersi cuore a cuore con Lui in quei colloqui, delle cui dolcezze non v'ha delizia al mondo, che possa dar l'idea; in certi istanti esse vorrebbero, se fosse possibile, perdere perfino il ricordo della vita terrena per unirsi a Dio, per tutte inabissarsi in Lui. Per anime tali non esiste solitudine, ossia terribile solitudine, che finisce ad essere vero maritirio, è per loro la folla leggera ed assordante, che le distrae dalla loro contemplazione; quella che gli spiriti mondani chiamano solitudine, esse la sanno invece animata da tale Presenza, che non è più in loro potere desiderarne un' altra. Per questo il loro atto naturale è ritirarsi; imitano Gesù, dice il biografo latino della nostra Melania, che «quando voleva pregare ascendeva sul monte degli Olivi»; ricordano anche che Gesù, quando volle dar la vista al cieco, lo ritirò in disparte, e si mettono in disparte per meglio ricevere i doni divini; udirono Iddio dire all' anima sua diletta: «La tirerò in solitudine e parlerò al cuore di lei», ed all'anima sposa sua: «Vieni, o figlia, e vedi e inchina il tuo orecchio e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, e il Re vorrà la tua bellezza», ed esse tutto dimenticano per contemplare il Re, che a loro s' avvicina, per interamente gustare l' ineffabile bacio suo.

E Melania lo gustava ora nella pace del silenzio tanto agognata sempre, mai fino allora goduta; le miti aure d'Aprile risvegliano la natura, tutto rinverdiva, tutto sorrideva intorno a lei; in quella tranquillità, in quella profonda calma ella sentiva anche il suo cuore, triste e soffocato fino allora in un' aria pesante ed irrespirabile, rinascere infine a nuova vita, e, mentre il suo sguardo si posava su quella bella creazione, l'anima sua ardente d'amore si slanciava al Creatore in un inno di ringraziamento e d' adora zione, in una dolcissima estasi. Non più visite vane ora, non più frivole conversazioni, non più sollecitudini di mondo, non più pensieri di terra; unico pen siero suo ormai: il pensiero di Dio; unica sollecitudine: piacere a Dio e studiare il modo di meglio servirlo; uniche conversazioni: quelle non più terrene o mondane, ma celesti colla piccola colonia, che la aveva seguita.

Essa si componeva di colui, che era suo fratello e suo compagno, Piniano, di sua madre Albina, che d' ora in poi le terrà dietro ovunque, ammiratrice delle sue virtù, trascinata dai suoi esempi, umilmente devota a lei; e dei suoi schiavi, non più schiavi ora, ma come lei servi del Signore.

Primo mutamento esterno dei due santi era stato quello delle vesti, nè era questo un fare i singolari, poichè era passato in uso nel IV secolo che coloro, i quali rinunciavano al mondo e facevano voto di perpetua continenza lo palesassero anche esternamente col deporre le vesti mondane per prenderne di più umili e rozze, quand'anche non vivessero in una communità, il che non era sempre possibile, allora che le communità sorgevano appena. Così sappiamo che fece Marcella quando, mortole il marito, si consacrò a Dio; così pure fecero Eustocchio e Blesilla, figlie di santa Paola, l' una vergine e l' altra vedova, così i santi coniugi Paolino e Terasia, e così pure fece Pammacchio, il quale non dubitò di affrontare i dileggi e gli sdegni degli orgogliosi senatori, portando il suo umile saio in senato accanto alle splendidi vesti loro. Questo mutamento di vesti era come un taglio netto colla vita dei mondani, come un muro divisorio, che si innalzava tra le abitudini di prima e quelle che si volevano abbracciare; era anche una pubblica lezione, che l' austera semplicità del cristianesimo dava al lusso raffinato e molle del paganesimo; per le vergini esso veniva fatto con grande solennità da mano del vescovo nel rito della velazione; alle vedove il nuovo abito poteva venire imposto da un semplice prete; per le coniugate, che col marito, o questi consenziente facevano voto di perpetua continenza, non vi era nulla di prescritto nella Chiesa e nessun rito speciale; esse assumevano privatamente o l'abito delle vedove, tendente al nero, ovvero il monacale.

Melania depose dunque per sempre i lini e le sete che per tanti anni avevano fatto il suo tormento, depose la lunga tunica delle donne romane, che, arrivando sino al tallone, succinta sotto il seno da magnifica cintura d'oro tempestata di gemme. con o senza mezze maniche, dava loro tanta maestà, e la sostituì con una tunicella vecchia e di vile stoffa, con lunghe maniche fino alle dita delle mani, che non costava più di cinque infime monete, tenuta ai lombi da una cintura di lana spoglia da ogni ornamento; depose pure il ricchissimo velo, che fino dai tempi più antichi di Roma, sotto varie denominazioni di flammeum prima, poi di ricinium, infine di maforte, formava parte principale del vestito delle sue concittidine, e, artisticamente puntato alla nuca, scendeva ben drappeggiato con grazia ed eleganza sulle spalle, avvolgendo la persona come in una nube finissima e vaporosa; i suoi serici, ampli maforti dovevano servire in avvenire agli altari e alle tombe dei martiri; ella si coperse il capo dell'oscuro, povero velo monacale, sotto il quale vanamente voleva nascondere la sua fresca bellezza giovanile (1) Il Goyau dice che nulla possiamo sapere della bellezza di Melania; non capisco come dica questo mentre il testo latino. (VIII) il testo greco (8) e Palladio ne parlano esplicitamente..

Piniano pure lasciò le ricche vesti del patrizio, ma egli non aveva l'eroismo della sua consorte, e non ebbe il coraggio di abbattere di un colpo le raffinate abitudini della sua casta, e di passar subito dalle splendide vesti, cui era uso, a quelle più vili; prese una via di mezzo, e si fece delle vesti cilicie, ossia di un certo panno finissimo, che assai avvicinavasi alla seta, tessuto (2) Di queste stoffe non si trova nessun cenno nella letteratura antica; P'ipotesi di ciò che potessero essere vien fatta dal Card. Rampolla nella sua Nota XIV. probabilmente coi peli più scelti e setosi delle capre asiatiche di Cilicia. Questo spiacque a Melania, che amava il fratel suo di supremo amore, e che tuttavia, vedendolo ancora nel fiore della giovinezza, chè egli aveva solo ventiquattr'anni ed ella ventuno, e, sapendo da quali splendori egli uscisse, non osava riprenderlo apertamente, mentre pure un timore la pungeva che il fascino della vita terrena non fosse interamente spento per quello, che lo avea sprezzato nel momento in cui gli altri più lo gustano. Un giorno l'ebbe a sè da sola a solo, e con soave delicatezza lo interrogò, se non gli si svegliasse in cuore mai concupiscenza di lei come di propria moglie. Tale sua sollecitudine fece sorridere di santa letizia Piniano: «Beata te,—le rispose egli,—che così sai amare; quanto a me tienti sicura nel Signore, che dal giorno in cui demmo la nostra parola a Dio, io non guardai più a te se non come alla tua santa madre Albina». Ella gli baciò con venerazione il petto e la mano, e rese gloria a Dio che così fermo fosse il proposito di lui. Ma non s'accontentò di questo per quegli, di cui tanto desiderava la perfezione; alcuni giorni dopo fece un passo più avanti: «Mio signore,—gli disse,—porgimi ascolto come a tua madree tua sorella spirituale; deponi quelle vesti preziose di cilicia ed usane di più vili». A questa richiesta il giovane si conturbò alquanto, ma, non volendo veder triste lei, che lo ammoniva secondo Iddio e per la eterna salute di ambedue, acconsentì volentieri; smise gli abiti di finissimo panno e prese le povere vesti usate dagli artigiani indigeni di lingua siriaca dei sobborghi di Antiochia, uomini, che il Grisostomo lodava per i costumi semplici, modesti, frugali, dai quali era bandito il lusso, piaga di Antiochia come di Roma. Ma la sua santa stimolatrice nelle vie celesti non era ancora paga, più tardi l'indusse a prendere vesti ancor più grossolane, inferiori al valore di un soldo e da lei lavorate, del natìo colore della lana. In questo modo il superbo fasto di Roma era confuso e debellato.

Chi non ammira la fresca purezza di queste scene, che ci mostrano al vivo ciò che l'amore divino può fare in cuori umani per purificare in modo angelico i loro affetti ed elevarli ad una celestiale dilezione che non mira più se non alla maggior perfezione dell'anima amata? Ai nostri giorni, nella soffocazione data dall'aria ammorbata di sensualismo pagano, si provò il bisogno di sorgere più alto e riconquistare quelle pure bellezze cristiane, ed uomini d'ingegno vollero farcele ammirare in eroi ed eroine da romanzo. Ma dimenticarono che certi fiori non sbocciano freschi ed olezzanti se non in cima all'albero della cristiana perfezione; un poco più giù degenerano e si corrompono; essi hanno bisogno d'esser circondati e custoditi dalle spine di non communi virtù, sopratutto quella così aurea, e così dimenticata dai santi e le sante da romanzo, colla cristiana semplicità. Le Ceclie e le Melanie non anticiparono certo nel loro pensiero nessuna poetica Beatrice; esse non pensarono a vivere nè sulle tele, nè nei versi di alcuno; nè ad inspirare ad alcuno opere caduche di quaggiù, per quanto frutto d'ingegno; ne avrebbero anzi rifuggito; non sapevano nemmeno che fossero ideali, platonici amori, ma tutte divampanti d'amore a Dio, assorte in Lui e nel desiderio della Patria celeste, per i fratelli posti loro allato da Dio e che solo in Dio amavano, desideravano e procuravano in ogni modo la più alta gloria imperitura.

E per conquistarla Melania e Piniano, da lei inspirato e sostenuto, vollero passare ad imitare i più ferventi dei loro tempi, cominciando da ciò che formò come la caratteristica della pietà di questo secolo: l' austerissima penitenza. Qui tuttavia furono costretti sulle prime a rallentare un poco di quelle loro sante foghe.

È generale alle anime, che lungamente hanno agognato un servizio più perfetto di Dio, ed infine si vedono libere di renderglielo, il farlo subito con tale slancio da oltrepassare le forze fisiche naturali. Così avvenne ai due santi patrizi in questi loro inizi di vita ascetica; pieni il cuore dei grandi esempi degli asceti d' allora, gli abitatori dei deserti, essi vollero intraprendere subito un digiuno, che s' assomigliasse il più possibile a quello da loro usato, ma dovettero avvedersi presto, che la loro complessione, avvezza alla delicatezza, non poteva sopportare tanto ad un tratto, e che era loro forza cominciare dal poco. Così fecero, tenendo però sempre d' occhio le più grandi austerità, che erano il punto a cui tendevano, e che giungevano a tanto da far stupire.

Assai severi nel V secolo erano già i digiuni im posti dalla Chiesa, sia per la qualità dei cibi che per l' astinenza da ogni altro cibo e bevanda fuori dell' unico pasto, che veniva fatto dopo nona, corrispondente alle tre pomeridiane, o nelle ore vespertine; questo digiuno durava però un sol giorno, e ne era sempre eccettuata la domenica.

Gli asceti, animati da straordinario spirito di penitenza, non solo limitarono la qualità e quantità di nutrimento a ciò che era appena bastevole alla vita, ma cominciarono a protrarre queste austerità da uno a più giorni, e giunsero a continuarle fino a cinque consecutivi; di qui venne il digiuno settimanale e della mezza settimana praticato prima in Egitto, non però da tutti i monaci, ma da quelli, che ne avevano le forze e lo facevano di propria elezione; nei monasteri di Scete era in uso il digiuno settimanale non prendendosi cibo che solo il sabato, giorno come la domenica escluso in Oriente dalle austerità. Dall' Egitto l' uso passò in Palestina; a Gerusalemme vi erano gli ebdomadarii della Quaresima, i quali, in questo tempo, preso cibo dopo la Messa della domenica, attendevano senza più nutrirsi fino a dopo aver comunicato nella Messa del sabato seguente; e gli apotactites, che seguivano questa pratica tutto l'anno. Anche in altre parti d' Oriente erano in uso queste austerità che passarono poi in Occidente.

A Roma infatti la vergine Asella faceva il digiuno della mezza settimana ed in Quaresima quello della settimana intera, e da alcune parole rivolte da sant'Ambrogio a sua sorella Marcellina pare che ella pure lo praticasse. I padri della Chiesa se ammiravano, non incoraggiavano però tali severe privazioni; Sant'Ambrogio le disapprovava in sua sorella ed a San Gerolamo pure spiacevano, massime se praticate in tenera età. Molti del nostro tempo, credo, non solo si uniscono ai Padri in questa disapprovazione, ma sono addirittura tentati di gridare al suicidio; eppure i fatti starebbero contro di loro: l'abate Elia della Tebaide, mangiando una sol volta la settimana, giunse a decrepita età; di Asella sappiamo da San Gerolamo che a cinquant' anni non aveva ancora sofferto mai dei digiuni cominciati a dieci anni; parecchi asceti vissero dai venti ai trent' anni dopo aver cominciato un tale tenore di vita, così che quei santi penitenti, forti di corpo come di anima, potrebbero essere invidiati dalla maggior parte dei figli del nostro secolo, invecchiati ed uccisi innanzi tempo dalle molli delicatezze d' oggi.

Quanto al genere dei cibi non in tutti i monasteri v' era ugual disciplina; è certo però che vigeva come massima generale dover gli asceti esser paghi dei cibi più vili ed il nutrimento essere così parco da non produrre mai sazietà. Esclusi perciò sempre il vino, le carni, i pesci, i latticini, alcuni degli asceti si contentavano di puro pane, altri aggiungevano erbaggi, frutta, condimento d'olio. Da ciò apparisce che anche in un medesimo monastero v' era differenza nel vitto e nei digiuni. Nei giorni in cui non si digiunava, tutti i monaci avevano il pranzo e la cena, e il cuoco e la cucina, di cui si fa spesso menzione, dimostrano che si servivano anche cibi cotti. Prevaleva nondimeno in quegli ammirabili cenobiti tale spirito di penitenza da rinunziare in parte anche a quel poverissimo vitto, abbracciando spontaneamente mortificazioni maggiori, alle quali non erano tenuti. Altri si appagavano di un solo cibo, altri si astenevano dalla mensa comune restandosene nelle loro cellette, dove non veniva loro fornito che poco pane e sale.

Melania nel primo impeto di fervore volle imitare le astinenze di Asella e si diede al digiuno di cinque giorni. Ma, come dicemmo, dovette ben presto accorgersi di aver fatto troppo e che bisognava andare graduatamente; allora cominciò dal digiuno ordinario continuato per tutto l' anno, che consisteva nell' unica commestione vespertina, nella quale si nutriva di legumi, erbaggi conditi con poco olio, e per bevanda prendeva pochi sorsi di vinomele; vino puro non ne aveva gustato mai in vita sua, perchè, pure in mezzo a tante mollezze, il vino pretto non era permesso alle fanciulle dei senatori romani. Dal digiuno di un giorno, ella passò a quello di due, prendendo cibo ogni quarantott'ore ed astenendosi anche dall'olio. Più tardi la vedremo praticare il digiuno dei tre, poi dei cinque, giorni, ed arrivare alla mèta de' suoi desiderî, sorpassando tutti in astinenza.

Intanto però il freno, che era stata costretta ad imporre al suo ardore, la faceva soffrire, e, per rifarsi di aver dovuto rallentare la corsa da una parte, volle prenderla dall' altra.

—Non è possibile,—disse ella a Piniano,—che noi, usi a tante mollezze, sosteniamo subito una tale astinenza, nè che mortifichiamo così subito i nostri corpi; ebbene cominciamo dall' esercitare le opere di misericordia.

Così dall' azione individuale di personale perfezionamento, essi passarono a quella esterna di sollievo dei mali della società in cui vivevano.


***

In tempi di grande egoismo e di grande corruzione, grande è pure sempre la generale miseria; così era nel secolo V; una delle piaghe peggiori che lo dilaniassero era l' insaziabile avarizia dei ricchi e degli uomini al potere, per cui le usure coi poveri, le inumanità coi deboli erano divenute così familiari da non turbare menomamente le coscienze, e degeneravano in vere crudeltà; i debitori impotenti, per evitare il carcere, si vedevano obbligati a vendere i figli, se pure non vi erano già stati forzati dalla fame; altri, per soddisfare alle inesorabili esigenze del fisco, buttavano ai lupanari le proprie figliuole; i cadaveri stessi venivano sequestrati dagli insaziabili usurai a titolo di pegno.

I giovani eroi della cristiana carità non dovettero dunque essere imbarazzati a trovare gli infelici, cui soccorrere; essi si misero attorno a visitare e curare gli infermi, a distribuire elemosine ai poveri; le loro generosità arrivavano in modo speciale come un balsamo nelle prigioni, delle quali aprivano le porte, pagando i debiti a tanti poveri infelici.

Ma la piaga forse più lamentevole, frutto della civiltà pagana, i santi patrizi non avevano dovuto cercarla troppo lungi: essi avevano avuto tutto l' agio di contemplarsela accanto nei loro stessi palazzi. Era la schiavitù.

Nel concetto pagano lo schiavo non era un uomo come gli altri, ma una cosa, un mero corpo senza anima e quindi incapace di personalità, incapace di qualsiasi diritto: Servile caput nullum jus habet. Dall' idea vengono i fatti della vita pratica. Ritenuto lo schiavo una cosa, egli non poteva essere trattato che come una cosa; dalle leggi infatti prima di tutto egli non veniva considerato nulla; era esclusiva proprietà del suo padrone, attaccato ai beni immobili di lui come un altro bene immobile, alienabile come quelli; gli alberi del giardino che coltivava, gli animali affidati alle sue cure, gli strumenti dei quali si serviva nel suo lavoro erano davanti alla legge precisamente quanto lui; egli stesso veniva considerato un istrumento di lucro, dotato di voce umana, secondo il detto di Varrone: Instrumento genus vocale; incapace di diritto, non poteva, per conseguenza necessaria, avere aspirazioni umane, nemmeno quella della famiglia. Egli non poteva dunque aver altri bisogni da quelli, che gli erano riconosciuti dal padrone, nella cui balìa si trovava, ed il padrone in generale non gli riconosceva che quelli, per i quali poteva meglio servire ai suoi interessi; quest' essere, che non era un uomo nè nel suo concetto, nè nella parola della legge, veniva in generale trattato da lui come uno de' suoi animali e spesso peggio, chè i cavalli dei patrizi in magnifiche scuderie mangiavano avena ed erano coperti da gualdrappe dorate, mentre i servi sulla porta di casa, intirizziti dal freddo, spesso non avevano di che coprisi, nè di che mangiare a sufficienza. Lo scudiscio adoperato coi cavalli era poi lieve castigo per lo schiavo; ad ogni menomo sbaglio erano sferzate, catene, prigioni domestiche, quando l' ira del padrone non giungesse fino ad infliggergli la morte.

Toccava al cristianesimo il far abolire la schiavitù; è questa una delle sue glorie più fulgide, conosciuta da chiunque abbia anche per poco studiata la storia. Non è a credere però che questa abolizione sia avvenuta anche nel fatto così rapidamente; le trasformazioni sociali non si ottengono che con lento lavoric e con graduata preparazione della società stessa, la quale altrimenti sarebbe messa in tale scompiglio, che questo diventerebbe un male peggiore di quelli che si deplorano.

Le famiglie stesse cristiane non avrebbero infatti potuto disfarsi così ad un tratto degli schiavi, chè questi rappresentavano per ogni famiglia tutti i mestieri; erano gli agricoltori nei campi, i fabbri nell' officina, i camerieri negli appartamenti, i cuochi e gli sguatteri in cucina; erano i cocchieri, erano i segretari, talvolta anche i medici; licenziare tutta questa gente equivaleva per le famiglie a dover inventare lì per lì ed attuare tutto un altro sistema per far lavorare i propri campi, tenere in ordine le proprie case e provvedere ai varî bisogni della vita. Era anche poi inoltre disfarsi di una parte considerevole delle proprie ricchezze, chè lo schiavo formava realmente parte del patrimonio del padrone. Ed il guaio non sarebbe stato soltanto per la classe patrizia, ma per la classe stessa dei servi. Che avrebbero fatto tutti questi poveretti, non usi alla libertà, privi di tutti i mezzi per esercitarla rettamente, quando l' avessero ricevuta così senza preparazione alcuna? Sarebbero passati da miseria in miseria, ed avrebbero finito ad andare essi stessi in cerca di un nuovo padrone peggiore certo di quello, che li aveva licenziati. Il cristianesimo cominciò non dal fatto, ma dall'idea. «Non vi ha più nè greco nè barbaro, nè schiavo nè padrone», aveva detto San Paolo. Abolì la schiavitù nell' idea, prima di tutto ponendo come certezza la unità della schiatta umana; non vi ha più una stirpe di nati servi ed un' altra di nati padroni; tutti gli uomini vengono da un uomo solo, fatto dalle mani stesse di Dio. Quest' idea sarebbe bastata da sè per elevare ad un tratto il concetto della dignità di ogni essere umano. La abolì nel nome di Gesù Cristo, che per redimerci volle essere trattato peggio di uno schiavo, e, sottoponendosi ad abbiezioni e dolori, circondò di un' aureola d' onore la sventura, per ciu i più tapini, i più perseguitati, i più disprezzati nel cristianesimo diventavano oggetto di onore, di affetto, e, per le anime più ferventi, perfino d' invidia, perchè fatti più simili al loro Capo e Signore, al loro Dio umanato.

Ecco così il paria della società, lo schiavo, nullo nel concetto pagano e davanti alla legge pagana, diventare ad un tratto nell' idea cristiana un uomo come gli altri, capace di diritto e per la vita futura e per la vita presente, capace dunque anche di doveri, capace di ricevere come gli altri l' applicazione dei meriti infiniti dell' Uomo Dio.

Il patrizio cristiano sapeva che il precetto dell' amore gli era stato dato e verso l' uomo libero e verso lo schiavo, sapeva che il suo schiavo non era tale che quanto a rapporti sociali, ma che in realtà era libero della libertà di tutti i figli di Dio, quella di arrivare ai suoi eterni destini; che in realtà era fratello a lui, che davanti a Dio poteva essere più grande e più nobile di lui, che forse un giorno poteva più di lui brillare nella gloria celeste. Tutto questo era una vera rivoluzione nel mondo delle idee, e anche qui dalle idee dovevano venire i fatti. Prima di tutto nelle pratiche religiose, in cui gli schiavi erano pareggiati ai patrizi, partecipando come questi e accanto a questi agli stessi Sacramenti, agli stessi divini uffici, alla stessa Mensa celeste e financo all' ascendere nei gradi della gerarchia ecclesiastica; poi nei rapporti domestici, divenuti per lo schiavo assai più dolci. Dacchè il patrizio aveva veduto in lui un fratello, non poteva più trattarlo barbaramente, e, sapendo di dovere di lui rispondere un giorno a Dio, doveva verso lui divenire umano e mite; per cui passare ad una casa di cristiani era per i poveri schiavi una vera fortuna anche dal lato materiale, e se non vi fu subito tra famiglie cristiane e famiglie pagane grande diversità quanto a liberazione degli schiavi, vi fu quanto a modo di trattarli. Infine, quando la Chiesa ebbe la pace, anche la legislazione civile degli impera tori cristiani cominciò ad occuparsi della misera con dizione degli schiavi, e Costantino proibì per esempio che, alienandoli coi propri beni, i padroni smembrassero le famiglie; le pubbliche loro manumissioni poi, delle quali nelle grandi solennità la Chiesa stessa facevasi attrice, assumevano un carattere sacro come di opere delle più benefiche ed accette a Dio.

Ma se il cristianesimo in via generale accetta la costituzione sociale come la trova, accomodandosi ad essa in ciò che non tocca l'essenza de' suoi dogmi e delle sue leggi, e non imponendo alla comune degli uomini eroismi incomportabili alle loro forze, esso ha però quell' ammirabile, sublime facoltà di formare nel suo seno gli eroi, i quali, oltrepassando i limiti dello stretto dovere, abbracciano volonterosi rinuncie non imposte a nessuno, e, avendo inteso più degli altri il monito del divino Maestro: «Siate perfetti come il Padre vostro, che è nei cieli», si studiano di mettere in atto fino all' apice il sublime ideale di perfezione racchiuso nel Vangelo. Essi formano come l' avanguardia dell' esercito cristiano, sono come i pionieri, che mostrano la via e preparano il terreno più degli altri a quelle transformazioni sociali, che veramente riescono benefiche per l' umanità. Nel caso nostro gli eroi eran coloro, che, non paghi di trattare gli schiavi come era doveroso per cristiani, affrontavano tutti gli immensi danni materiali che loro venivano dal liberarli tutti o in gran parte, e addestravano poi queste turbe ignoranti a bene usare della libertà, se ne occupavano paternamente, e le iniziavano alla vita ed alla perfezione cristiana.

Abbiamo veduto come dall' antica civiltà pagana e dal lavorìo per tre secoli segreto della nuova civiltà cristiana, fosse uscita quella società del Vsecolo, vero miscuglio di vizi pagani, di virtù cristiane e di cristiani eroismi. Anche la condizione degli schiavi si risentiva di questo stato sociale. Da una parte essa era ancora lagrimevole come nei tempi passati. Vezio Pretestato presso Macrobio descrive i padroni, che, mentre mangiano a lautissima mensa, non consentono ai servi che assistono di muovere pure le labbra, fosse anche per parlare, e al menomo rumore danno subito di piglio allo scudiscio, e fanno pagar caramente un colpo di tosse, uno sternuto, un singhiozzo. Anzi la crescente corruzione sociale, l' aumentarsi di miseria, le invasioni barbariche avevano allargato la piaga, e proprio a quest' epoca il foro romano offriva quel triste spettacolo, che per tutta la vita doveva rimaner impresso a Melania: torme di esseri umani, mezzo intirizziti dal freddo, inebetiti dalla fame, si stavano là distesi su stuoie affrettando coi desideri, cogli sguardi, colle suppliche il momento in cui un padrone li comperasse, contenti d'arrischiare di morire sotto la sferza disumana di lui piuttosto di andare incontro ad una certa morte d' inedia.

Nelle famiglie cristiane invece gli schiavi stavano bene; un esempio della mitezza e della bontà, a cui il cristianesimo aveva ridotti i patrizi romani, lo abbiamo in Valerio Publicola stesso, padre di Melania, che cercava di operare giustamente fino coi barbari. Melania e Piniano poi dovevano essere anche in questo, come in tutto il resto, tra i cristiani eroici. Nel ritirarsi a vita ascetica nella villa del sobborgo, essi non s' erano sentiti il cuore di abbandonare col palazzo di Roma gli schiavi loro domestici e li avevano condotti seco, non più però come schiavi, ma come fratelli e sorelle; erano trenta uomini con Piniano e settanta ancelle con Melania, e i due patrizi, con esempio inaudito nella storia del patriziato, sedevano a mensa con loro. Presso gli antichi romani una volta all'anno in una certa festa campestre istituita ad onore di Cerere, i padroni alla fine del raccolto, ammettevano alla loro mensa i servi, che avevano lavorato nei campi; ma questa festa era un' eccezione, e nel IV secolo il solo ricordo di essa faceva inorridire i patrizi. Melania tuttavia non poteva accontentarsi di avere colpito nel vivo l' orgoglio romano, sprezzatore dello schiavo; nell' anima sua v' era l' ardore dell' apostolo, e in quei suoi servi sollevati dall' abbiezione, ella vedeva anime da dare a Dio; per molti anni ella aveva contemplato con tristezza il loro abbrutimento morale, minore probabilmente in quelli che circondavano lei che in altri, ma pur sempre grande, ed aveva anelato a restituir quegli infelici alla loro dignità di esseri ragionevoli; a spronarla a questo, lo zelo si univa in lei ad un concetto altissimo dei doveri, che incombono ai capi di famiglia, doveri, che Sant'Agostino aveva delineato benissimo, dicendo che i padroni devono essere padri e nella loro casa condurre tutti paternamente a Dio, guidando anche i servi nella coltura morale e religiosa. Piena di questa idea del Vescovo d' Ippona, ella si fece madre ai suoi servi; li trasse dall' abbrutimento, fece loro sentire la dolcezza della paternità cristiana; allietò i loro sguardi torbidi e chini verso terra colla luce del vero e coi fulgori dei più alti ideali; fece tripudiar l'anima loro colle speranze immortali; e colla soavità delle ammonizioni materne, colla forza degli esempi li condusse alle cime delle virtù cristiane, traendosene dietro moltissimi nella via della perfezione evangelica. Tali sollecitudini per gli schiavi condotti seco dal palazzo di Roma nella villa del sobborgo non era che unprimo saggio di quanto ella avrebbe fatto per l' avvenire. Più tardi la vedremo allargare l'opera sua benefica a tutti gli schiavi delle sue immense proprietà, che emanciperà tutti; in un anno solo diede la libertà a ottomila; più tardi ella fonderà in Africa due monasteri, dove raccoglierà in buon numero quelli tra questi suoi beneficati, che vorranno darsi a vita più perfetta. Quand' anche nessun' altra gloria avesse avuto quest'eroina, le si addirebbe quella di madre e apostola degli schiavi, fulgidissima gloria per lei e per quella religione cristiana, che dava a lei il genio delle opere necessarie al suo tempo e la forza di compierle, che, come in questa sua eroica figlia aveva abbattuto il fasto e la mollezza romana, abbatteva pure con lei l' egoistica tirannia esercitata da una parte dell' umanità sopra l' altra infelice.

L' ospitalità nella villa della Via Appia.—Una causa illustre.—La dottrina di Melania.—Il patrimonio dei Valeri.

Un' altra opera di misericordia esercitata dai cristiani ferventi in un'epoca, in cui tornava difficile il viaggiare, era: alloggiare i pellegrini.

Abbiamo veduto che Paolino da Nola aveva accanto alla tomba di San Felice elevato un ospizio per i pellegrini, così Pammacchio, rimasto vedovo, aveva per lo stesso scopo aperto uno stupendo xenodochium ad Ostia. Un'opera di tale importanza per il suo tempo non poteva lasciar fredda Melania.—Ad esempio del beato Giobbe,—disse ella al suo santo compagno,— apriamo la nostra porta a tutti gli invalidi, a tutti i pellegrini;—e quella loro vastissima villa, che, oltre ai padroni, ospitava già trenta uomini e sessanta ancelle, fu aperta a quanti avevano bisogno di alloggio, e, coll' alloggio, ricevevano splendida ospitalità, generoso trattamento ed una somma di denaro alla loro partenza. Con gioia particolare Melania accoglieva gli ecclesiastici: vescovi, monaci, preti erano da lei trattati con una magnificenza, che non avrebbe certo tradito la povertà ed il rigore, ch' ella usava con se stessa. Storico di questa ospitale generosità fu uno tra quei molti, che ne godettero: Palladio, Vescovo di Elenopoli, venuto dall' Oriente a Roma colla legazione, che doveva presso il Papa Innocenzo impetrar favore in una causa, che eccitava allora appassionatamente gli animi a Costantinopoli: quella del Grisostomo.

Era stata sollevata dall' ambizione di una donna: Eudossia, salita per le mene di uno schiavo da oscura condizione al trono imperiale come sposa di Arcadio; colla scusa di prestare aiuto al marito inetto, ella aveva tratto in sua mano il comando, facendone il peggior abuso; con lei la Corte orientale era divenuta un covo di intrighi, ove avevano sorte migliore i più spudorati, i più scaltri, i più immeritevoli. Le rapine e le crudeltà di lei, scrive Zosimo, erano tali che le persone oneste non potevano che bramarsi la morte come il minore dei mali. Contro questa donna, usa a veder solo ai suoi piedi vili adulatori ed intorno a sè cortigiani tremanti alla sua potenza, s' elevava francamente, intrepidamente un uomo: Giovanni Grisostomo, che dalla sua cattedra episcopale di Costantinopoli fulminava con zelo e coraggio sacerdotale i mali costumi. Eudossia non glielo poteva perdonare, e, spalleggiata da donne di vita perduta, da cittadini corrotti, da cattivo clero, non stette tranquilla finchè non l' ebbe tolto di mezzo. Nel 403 lo aveva, da un conciliabolo da lei stessa convocato, fatto deporre e condannare e condurre dai soldati a Preneste di Bitinia. Ma l'ira del popolo ed un terremoto, che le aveva fatto temere le punizioni di Dio, l' avevano indotta a richiamare in fretta il santo Vescovo, il quale, ingannato dalle false lagrime di lei, credendo alle sue proteste d' innocenza, s' era subito adoperato a restituirla all' amore del popolo. Egli non sapeva ancora che sia un cuore di donna quando è dominato dalla ambizione. Nel dicembre dello stesso anno, tra danze oscene e superstizioni idolatriche, veniva inaugurata nella pubblica piazza una statua d' argento dell' imperatrice. Il Vescovo fulmina quegli spettacoli profani. È il segnale di una nuova persecuzione; un nuovo concilio nel 404 depone il Grisostomo e gli impone di lasciar libera la sede episcopale: «Da Dio,—risponde egli dignitosamente,—ho ricevuto la Chiesa ed Ei solo me ne può allontanare».

Violazioni a mano armata della chiesa, tumulti di popolo riempiono nei mesi seguenti Costantinopoli di costernazione; infine Arcadio, sotto la oressione del clero ribelle e per i perfidi consigli della moglie, malgrado il Pontefice Innocenzo sostenga il perseguitato, segna il decreto d' esilio contro il Vescovo, e comanda che s' eseguisca subito.

Tale decreto fu lutto per la Chiesa di Costantinopoli; il Grisostomo, lieto della persecuzione a lui, addolorato del dolore del popolo, non pensa che a prevenire il pericolo di una battaglia civile attorno al tempio; detto addio tra pianti e gemiti ai vescovi ed al clero fedele, a lui attaccatissimi, per ingannare il popolo, che avrebbe assaliti i soldati se avesse veduto portarsi via l' amato pastore, fa condurre il suo cavallo davanti al gran portone della chiesa, mentre egli esce da un' altra porta e si dà segretamente in mano ai soldati. Era il 10 giugno 404; tre mesi dopo, il 6 ottobre, la sua persecutrice finiva miseramente la vita dando alla luce un bambino morto. Ma la persecuzione cominciata continuava anche nell' esiglio, ove il Grisostomo moriva il settembre del 407, e non risparmiava in patria il clero a lui fedele.

Tali i tristi fatti, che agitavano l' Oriente; le notizie ne erano portate a Roma da preti e Vescovi che dal 403 al 406 non cessavano di venire in legazione ad implorare aiuto dal Pontefice. Primo fu Eusebio, diacono della chiesa costantinopolitana, che si trovava già a Roma prima che il suo Vescovo fosse deposto e deportato. Dopo pochi giorni giunsero con lettera a Papa Innocenzo in favore del Grisostomo quattro Vescovi di diverse provincie: Pansofio della Pisidia, Pappo della Siria, Demetrio della Galazia seconda, ed Eugenio della Frigia. Alquanto più tardi, dopo l' espulsione del Grisostomo da Costantinopoli, venne a Roma Teotecmo, prete di quella città; poi Ciriaco, vescovo di Sinnada nella Frigia; quindi Eulizio, vescovo di Apamea di Bitinia. Trascorso un mese, verso gli inizi del 405, sopraggiunse Palladio, Vescovo di Elenopoli, fuggiasco egli stesso dalle persecuzioni e dalle minacce; poi Germano e Cassiano, il primo prete, l' altro il celebre autore delle Collazioni, diacono della Chiesa di Costantinopoli, uomini tutti di integerrima vita, tutti recanti lettere a favore del Grisostomo. Infine venne un prete Domiziano, economo della stessa Chiesa, ed un tal prete nisibemo di nome Vallagas, rappresentante dei monaci di Mosopotamia.

Tutti questi coi loro compagni di viaggio trovarono larga ospitalità nella villa della via Appia, presso Melania, che per circa due anni li mantenne, fornendoli principescamente di tutto; e fu uno di questi vescovi, Palladio d' Elenopoli, che ci lasciò ne' suoi scritti ricordo dell' ospitalità ricevuta e del santo tenore di vita, di cui fu testimonio nel tempo passato presso la nobilissima matrona, della quale ci descrive l' avvenenza congiunta a straordinaria virilità d'animo, i primi passi dopo la rinunzia al mondo, lo spogliarsi delle vesti preziose per farne dono alle chiese e tutte le austerità e generosità; egli è che ci dice praticare Melania già il digiuno dei due giorni quando nel 406 egli partì da Roma, ed Albina stessa studiarsi di seguire le orme della santa figliuola, largheggiando del suo patrimonio ai poveri.

L'ospitalità generosa data ai difensori del Grisostomo, mentre dimostra la liberalità della ricca discendente dei Valeri, prova pure un altro fatto, che ci rivela subito quale sarà la Santa in tutta la sua vita in mezzo alle contestazioni sia nell' ordine dottrinale che in quello morale, facili a sollevarsi all'epoca sua; in questa contesa ella s' era subito unita alla parte, che aveva il favore del Pontefice romano e l' aveva sostenuta con tutto il suo potere. Causa della contesa erano state questioni d' ordine morale, ma vi erano di mezzo i diritti di un Vescovo e la sua libertà di azione per il bene del popolo; non è solo il campione della morale, è più ancora il Vescovo perseguitato, che Melania sostiene, perchè questa donna dallo sguardo d' aquila per scoprire i mali del suo tempo, dal coraggio virile per porvi rimedio, è prima di tutto attaccatissima alla religione, da cui prende l' inspirazione nelle opere sue; prima d' essere l' austera riformatrice dei costumi, la liberalissima sovvenitrice ai miseri, l' educatrice degli schiavi, ella è l' amante di Dio e della dottrina da Lui recata in terra, e dalla sua Chiesa insegnata; è la cristiana gelosa scrutatrice e debellatrice di tutto quanto può intaccare quella cittadella del cattolicismo, ove ella si raccoglie a prendere le armi; nell' anima sua la carità grandissima segue la fede, e ne è la conseguenza, e la più perfetta ortodossia di questa fede ella ha a cuore più d' ogni altra cosa. Questo bisogna che ci teniamo bene presente nello studiare la sua vita, perchè questo forma come la caratteristica della sua santità e il filo conduttore delle sue azioni; è questo altissimo concetto di quanto si riferisce a Dio, questa passione della gloria sua, che la rende lieta soprattutto quando può ospitare sacerdoti, che la indurrà sempre a prostrarsi nel più umile atteggiamento ogni qual volta ella accoglierà Vescovi o uomini dati al servizio divino, e a far considerare prima di tutto la grandezza della divina Maestà, quando detterà regole per i suoi monasteri; l' amore alla purezza della fede sarà maggiore ancora della mitezza sua abituale, e le farà trovare all' occasione parole ferme e severe, che affermeranno la sua intransigenza; sarà maggiore anche dell' ardente desiderio di consolare i suoi simili con elemosine, ch' ella rifiuterà quando vengano da eretici; quest' amore la renderà l' aiuto umile, ma forte dei più grandi Vescovi e dottori contro le eresie, che pullulavano nel giardino della Chiesa; esso lo troveremo sempre come il primo palpito di quel suo nobilissimo cuore, che non palpitava se non per nobili ed alte cose.


***

In questa causa del Grisostomo, accanto a Melania si presenta un' altra soave figura di donna, che già abbiamo intravvista in uno dei capitoli precedenti: Serena, sorella e suocera all'imperatore Onorio.

Non solo dal Pontefice Innocenzo era Arcadio stato ammonito per l'iniquo procedere verso il suo Vescovo, ma anche dal fratello suo Onorio, che gli aveva consigliato per lettera di far celebrare piuttosto un regolare concilio a Tessalonica, perchè il Grisostomo vi fosse legalmente giudicato. A che attribuire quest'atto di Onorio? Come Arcadio subiva l'ascendente della donna malvagia, che aveva al fianco, così forse Onorio sentiva quello della pia principessa, sua stretta congiunta.

Nipote del grande Teodosio, il quale l'aveva adottata come figlia e fattala educare come sorella de' suoi figli Arcadio ed Onorio, Serena ancor giovanetta era talmente entrata nel cuore del grande imperatore, ch'ella sola di tutta la casa imperiale valeva colla sua mite parola a sedarne l'ira e rasserenarne l'accigliata fronte; i consigli di lei erano accetti a Teodosio, che le portava non solo affetto, ma riverenza, tanto che quando volle rimunerare in modo magnifico il valoroso generale Stilicone per i suoi servigi, non credette poterlo far meglio che dandogli in moglie la diletta figlia adottiva, e, morendo, fu a Stilicone e a Serena ch'egli affidò i due giovani suoi figli e la prosperità dell'impero. In quella altezza Serena non si lasciò inebbriare dalle pompe; sempre piissima, quando il suo sposo s'assentava per qualche impresa guerresca, ella passava quei tristi giorni in continue preghiere sdegnando ogni ornamento. Diede in isposa ad Onorio prima la sua figlia Maria, poi, morta questa, l'altra sua figlia, Termanzia; così sorella, tutrice, suocera dell'imperatore d'Occidente, ella faceva ancora sentire alla Corte il suo ascendente benefico.

In questa donna pia, colta, operosa, che le grandezze di una corte non avevano inebbriata, era naturale sorgesse una forte inclinazione verso quella matrona romana, che neli'esteriore semplice e modesto portava l'espressione dell'interna santità. Appena vide alla Corte Melania, ella non potè a meno di osservarla tra tutte le altre dame ed ammirarla; quando si sparse la voce che, morto il padre, quell'attraente creatura, cui tutto sorrideva quaggiù, aveva rinunciato ad ogni cosa per ritirarsi nella sua villa suburbana a menar vita ascetica, Serena era passata dallo stupore ad un altro genere di ammirazione ancor più grande della prima.

«Qui è la destra dell'Altissimo», aveva ella esclamato colla frase di Giobbe, e nel suo cuore era sorto il desiderio di avere a sè quell'evangelica eroina, di parlarle, di congratularsi con lei, di aver forse da lei conforti e consolazioni celesti in quelle difficoltà, che non mancano mai a chi sta più in alto. Una causa comune, un lavoro comune ora era vincolo tra loro; i Vescovi ospitati da Melania si recavano spesso alla Corte presso Serena e ripetutamente ella espresse loro il suo desiderio. Ma se non fosse sorto più tardi un incidente a lei favorevole, malgrado la mediazione dei Vescovi, non sarebbe mai venuta a capo di esso. Melania, in quel suo fervore di ritiratezza e di abbassamento di sè, lungi dal rallegrarsi dell'ammirazione della principessa, se ne doleva, e nella sua avversione d'ogni gloria mondana, temeva come una disgrazia gli elogi che avrebbe potuti ricevere da Serena; perciò, per quanti messaggi di Vescovi ed anche di senatrici questa le inviasse, ella dolcemente e con qualche scusa sempre declinava l'invito.

***

Invece s'avanzava ogni giorno più nel compiere intero il suo programma di spogliamento dei beni della terra, il quale non doveva limitarsi a dare ai poveri le proprie ricche rendite, ma doveva giungere fino a profondere per loro tutto lo stesso patrimonio, secondo il detto di Gesù: «Va, vendi quello che hai, dallo ai poveri e seguimi». Già abbiamo accennato quanto esso fosse ingente. Oltre al palazzo del Celio, così magnifico che quando lo volle vendere Melania non trovò in Roma chi glielo potesse comperare al giusto valore, compresa la stessa imperatrice Serena, oltre a quella villa suburbana, che poteva dar ricetto a più di un centinaio di persone, i Valeri, lo abbiamo veduto, possedevano vastissimi latifondi nell'Italia cispadana e transpadana, nelle Puglie, nella Campania, in Sicilia, nella Gallia, in Ispagna, in Bretagna, nell'Africa proconsolare, nella Numidia, nella Tripolitania e altrove. Uno di tali possedimenti situato in riva al mare, probabilmente in Sicilia sullo stretto in faccia a Reggio, era coltivato da quattrocento servi agricoltori e contava nei suoi confini sessantadue case coloniche; un altro simile latifondo dei possedimenti africani, che Melania donò più tardi alla Chiesa di Tagaste, era ricco di molti operai in metallo, orafi, argentieri, lavoratori in bronzo e vi avevano chiesa e cattedra due Vescovi, l'uno di parte cattolica, l'altro donatista. Questi fondi erano poi corredati di numerosissimi schiavi, i quali facevano parte della ricchezza d'un patrizio; il Grisostomo calcolava dai 100 ai 2000 in media gli schiavi dei più ricchi proprietari del suo tempo. Gli ottomila schiavi, che Melania affrancò in un anno, venivano a rappresentare, calcolando il prezzo medio così della compera come della emancipazione dai 500 ai 600 franchi ciascuno, la somma di quattro o cinque milioni di franchi. Per venire poi a una determinazione concreta del patrimonio di Melania, diremo che ella sola, senza quello di cui poteva disporre il suo consorte, aveva una rendita annua di centoventimila libbre d'oro, non compresi i prodotti in natura, il che, calcolando al minimo la libbra d'oro, corrisponderebbe approssimativamente a 116.640.000 franchi. E una somma favolosa, ed alcuni critici, sconcertati dal dover ammettere una tale ricchezza, vollero contestarla (1) V. Goyau. Sainte Mélanie p. 14 Rampolla N. XVIII.; senza entrare nelle loro dispute, noi ricorderemo quanto si trova in Olimpiodoro che cioè, nel secondo decennio del secolo V, quando le case patrizie romane avevano già subìte grandi perdite per l'invasione dei Goti, il reddito annuo, di cui potevano disporre molti nobili romani, non compresi i prodotti in natura, che calcolavansi alla terza parte del reddito, era di circa quattromila libbre d'oro, equivalenti per lo meno a fr. 3.888.000. Del resto queste immense fortune si capiscono quando si pensi allo stato sociale di allora, per cui vi erano nell'umanità tre grandi divisioni: i pochi patrizi gaudenti e ricchi, il popolo affamato e sofferente, gli schiavi, che sembravano non far parte del genere umano; in un tale ordinamento sociale i patrizi potevano di generazione in generazione accumulare tesori, soprattutto nei vari paesi dove andavano ad esercitare le alte cariche, che erano sempre nelle loro mani; quanto agli altri abbiamo già veduto quali e quante fossero le loro miserie. La questione sociale non era allora sollevata da nessuno e non esisteva di nome, ma esisteva di fatto, poichè la maggior parte dell'umanità era costretta coi suoi stenti e le sue lagrime a pagare i godimenti di pochi; ed esistevano anche di fatto coloro che la scioglievano senza declamazioni ed unicamente attuando fino all'eroismo l'ideale evangelico; erano questi i generosi discendenti dei Valeri, degli Scipioni, degli Emili, dei Claudi, dei Furi, nelle cui mani cadevano gli ingenti patrimoni ammassati dai loro avi, i quali, mossi da impulso divino, se ne spogliavano interamente, e, facendosi poveri essi stessi, rendevano tutte quelle ricchezze proprietà dei deboli, dei sofferenti, dei bisognosi, restandone essi unicamente gli amministratori e i distributori. Essi furono dei Santi davanti a Dio, e davanti alla società furono i più pratici sociologi, i salvatori; le generosità rese possibili da quelle loro totali rinuncie erano una pioggia benefica, che ristorava la terra ed acquetava gli angosciosi sospiri, che da ogni parte se ne elevavano al cielo.

Vita di nascondimento, di umiltà, di penitenza, in povere vesti e con povero vitto, infaticabile apostolato caritativo per lenire le piaghe incancrenite della società, zelo per la religione ed i suoi ministri, studio assiduo delle sacre Scritture, e con tutto questo un continuo raccoglimento in Dio, una continua preghiera, un salmodiare dolcissimo le sue lodi, ecco lo spettacolo offerto da quella famiglia della villa di via Appia. «Era una famiglia non mai vista sulla terra», dice il cardinal Rampolla, «quale solo il cristianesimo poteva foggiare, che offriva il continuo sacrificio delle labbra e del cuore al Creatore dell'universo, al Redentore del genere umano, che con la vita umile e semplice redimeva davanti alla giustizia divina le colpe della patria non mai sazia di orgoglio e di voluttà, che cogli esempi luminosi di opere ammirevoli e sante predicava all'intorno più alto di qualunque voce».

Prima di togliere gli occhi da questo quadro diamo uno sguardo al contrasto offerto poco lungi dalla città di Roma. Ivi gli orgogliosi patrizi scialaquavano in vesti preziose, cavalli, giuochi, cacce e banchetti; quando inauguravano i consolati o le preture, profondevano somme favolose; Simmaco, nobile non ricchissimo, per la pretura del figliuolo spese due mila libbre d'oro pari a fr. 1.944.000; Massimo, pure per la pretura del figlio, ne spese quattro mila, ossia 3.888.000 franchi; ivi le dame avevano tal ricchezza di vesti da giungere a cambiarsi una tunica al giorno, le giovinette strascicavano per terra gonne broccate d'oro; alle lacere orecchie delle patrizie pendevano gemme fiammanti, di cui una sola costituiva un patrimonio, e di esse venivano tempestate le vesti, le cinture, i calzari. Le matrone ne andavano pazze, e raggiungeva la demenza il loro studio d'imbellettarsi, di dipingersi di cerusa il viso, di tingersi le ciglia e le chiome; alla loro mollezza non bastavano alti e soffici letti di piume; mentre la loro occupazione principale era ricevere e rendere visite per mordersi e lacerarsi a vicenda. Ivi sciami di parassiti assediavano le case dei nobili e dei ricchi, turbe di schiavi erano trattate come bestie o peggio; stuoli di cantanti, di pantomini, di istrioni popolavano i palazzi dei nobili, per ravvivare ed allettare i sensi intorpiditi nella mollezza e nell'ozio, e rallegrare quegli interminabili banchetti, chiamati voragini dagli scrittori contemporanei. Ivi gli ufficiali stessi dell'esercito, depravati, non soffrivano più il peso degli elmi e delle corazze, ma in abiti di seta e d'oro abbandonavansi alle crapule e sfidavansi non più colle armi, ma a chi sapesse bere più vino, fino a che tutti stramazzavano a terra ubbriachi. In quella Babilonia le persone colte e studiose erano in fastidio, le amanti della vita modesta ed umile erano tenute per pazze e vili. Opporre alle sue turpitudini l'umile ed operosa ritiratezza di Melania e di Piniano, esigeva un coraggio da eroi; è naturale che questo coraggio attirasse su coloro che lo esercitavano quel disprezzo e quella persecuzione, che i genitori di Melania avevano un giorno preveduto e temuto.

Nuovi ostacoli esterni.—La visita a Serena.— Tentazioni.

E vennero infatti. Disprezzo e persecuzione, che per poco non resero vani tutti i progetti dei due santi sposi e quella libertà nel bene che s'erano con tanti sforzi conquistata. Sembrerebbe a prima vista dovessero riuscire incresciose le persone, le quali agognano ai beni della terra, perchè per arrivare a possederli o per conservarli non possono a meno talora di provvedere a sè anche a scapito d'altri; invece avviene il contrario; il mondo ha sempre avuto in dispetto coloro che se ne spogliano e che mostrano di disprezzarli. Questa non è particolarità del IV secolo, ma è cosa comune a tutti i secoli; coloro che seguono non solo il precetto, ma il consiglio evangelico e non vogliono dalla terra nemmeno quelle dolcezze, che se ne potrebbero lecitamente prendere, sembrano pazzi a quelli, che a malincuore e a gran fatica lasciano le dolcezze illecite, e per lo meno le lecite vogliono gustare in tutta la loro estensione e satollarsene e bearsene. Queste anime tutte terra restano come offese dai voli delle anime celesti, veggono in essi un rimprovero alla loro accidia; il loro naturalismo ha quasi paura dell'impronta di soprannaturale che portano con sè certi atti eroici, e corre alla difesa, invocando la moderazione e il giusto mezzo anche nella virtù, «il quale giusto mezzo, osservava così argutamente Manzoni, parlando dei tempi di Federico Borromeo, «fissano proprio in quel punto dove essi sono arrivati e ci stanno comodi».

Della persecuzione sollevata ai due santi sposi dunque se molta colpa va data alla corruzione ed al lusso del secolo, moltissima è da ascriversi a questa nostra misera natura umana, invidiosa di tutte le altezze a cui non sa sollevarsi. Certo la Roma del IV secolo osteggiò tutti coloro, che con esempio nuovo lasciarono le loro ricchezze per darsi a vita ascetica. Lo vedemmo quando Melania seniore, mortole il marito, passò in Oriente; così santa Paola quando si ritirò a vita monastica in Betlemme sentì dirsi che aveva perduto il cervello, sua figlia Blesilla fu caricata di ingiurie per la sua conversione al ritiro; il tenor di vita povero e dimesso di Lea fu detto demenza. Tanto più poi dovevano sollevar sdegni Melania e Piniano giovanissimi ancora, padroni del patrimonio più vistoso dell'impero, di cui nemmeno una parte lasciavano a figliuoli, come tanti avevano fatto nel ritirarsi dal mondo, ma tutto dispendevano tra i poveri e per le chiese. Essi erano inoltre circondati da parenti, che a quel patrimonio guardavano con cupidigia, sperando divenirne gli eredi, e che dunque dalla loro risoluzione venivano delusi in sogni vagheggiati.

Primo tra questi parenti era Severo, il fratello maggiore di Piniano, il quale doveva rodersi non solo per cupidigia, ma anche per quell'ambizione del fasto di famiglia comune ai patrizi romani, di cui già vedemmo travagliato Publicola, ed alla quale senza dubbio sapeva amaro un tale sperpero di patrimonio fuori di essa, come senza dubbio doveva saper amaro all'orgoglio del patrizio l'abbiezione in cui viveva il fratello suo, Piniano. Severo infatti cercò subito di porre ogni genere di ostacoli al fratello e alla cognata, e non sdegnò neppure per raggiungere il suo intento di cer care l'aiuto degli schiavi, che lavoravano nei loro possedimenti e di incitarli a sollevarsi contro gli antichi padroni, rifiutandosi di passare ad altro proprietario che non fosse Severo stesso. Date le condizioni degli schiavi, come le abbiamo descritte, si può capire come egli avesse buon gioco nel cercar di sobillare quelli della cognata. Questi sotto la famiglia dei Valeri si trovavano bene e vedevano tanti loro fratelli trattati peggio delle bestie in altre famiglie: ma essi erano vincolati alla terra che lavoravano e sarebbero stati venduti con quella. E, in quali mani sarebbero capitati? Non sarebbero caduti nelle tristi condizioni di quelli, che ora compassionavano? Ecco una sorgente di timori e di ansie, delle quali Severo poteva benissimo approfittare per tentare di tirare a sè quei beni, cui agognava. Non era egli della gente Valeria? Non potevano dunque gli schiavi essere sicuri di trovare sotto di lui un trattamento uguale che sotto gli altri della stessa gente? E poichè Melania e Piniano volevano disfarsi dei loro beni, non aveva diritto egli, loro prossimo parente, di entrarne in possesso? Dichiarassero dunque gli schiavi che non sarebbero passati ad altri padroni che a lui. Dietro a loro egli sperava gli sarebbe venuta la terra. Gli schiavi, mossi dal proprio interesse così pressante, si sollevarono infatti, creando un serio imbarazzo ai loro padroni.

Nè era il solo, che Severo loro procurasse. Unitosi ad altri senatori loro congiunti, tentò pure ogni mezzo legale per opporsi ai loro divisamenti, ed anche questo certo non era difficile. I santi sposi erano senatori, e questa dignità, se era fonte di onori e di privilegi, lo era pure di oneri e legava le mani a chi ne era rivestito; i senatori, obbligati a sostenere certe contribuzioni, a divertire il popolo con sontuosi spettacoli, non potevano alienare le loro proprietà, che erano iscritte nei registri del Senato; essi erano inoltre ancora giovanissimi e minorenni; Publicola li aveva, è vero, in certo modo emancipati, dicendo: «Ciò che volete fare, fatelo», ma secondo la legge romana essi dovevano ugualmente avere un curatore fiduciario per l'amministrazione del loro patrimonio, e questo, dietro ogni probabilità, aveva ad essere Severo, come fratello maggiore di Piniano. Non sarebbe loro restato altro scampo che quello di chiedere la venia dell'età, la quale però non li avrebbe ancora resi padroni di vender i loro beni immobili senza un decreto del giudice. Ma anche questo favore come poteva esser loro accordato? Presso quella gente, che si tiene per assennata, perchè non vede due palmi più su della terra, non passavano essi per fanatici, per dementi, per dilapidatori, per prodighi? E due bambini, parlando dei quali la gente prudente crollava il capo con compassione, due bambini, che, restati padroni di un immenso patrimonio, facevano pazzie sopra pazzie e si accingevano a disperderlo al vento come niente fosse, otterrebbero di restar padroni di sè prima del tempo voluto dalla legge? I senatori non potevano a meno di sogghignar con ischerno ad una tale idea. Era il caso di creare una legge apposta per dar ai poveri fanciulli un curatore, se già la legge non fosse esistita. Severo non aveva mestieri di troppa fatica per attirar dalla sua la maggior parte del Senato ed i più potenti in Roma; e nella legge e nelle condizioni dei giovani parenti trovava abbastanza per potere a buon diritto avocare a sè l'amministrazione del loro patrimonio. Se gli sposi Valeri volevano ridursi alla povertà, questo tornasse almeno a vantaggio suo; egli avrebbe sostenuta la gloria della famiglia!

Tutto si oscurava di nuovo dunque attorno a quei due poveretti, pazzi della pazzia della Croce, prudenti di quella prudenza, che preferisce a beni che passano, beni che non hanno fine. Non era bastato che un padre sul letto di morte avesse implorato il loro perdono per gli ostacoli loro creati un giorno, confessando d'aver peccato per stoltezza, non era bastato che avesse detto loro: «Il mio patrimonio ora è vostro, voi avete piena potestà, fatene ciò che volete"»; tutta la parentela insorgeva contro di loro armata della legge romana; e non solo la parentela, ma gli stessi loro schiavi; tutto il mondo romano dunque, in alto ed in basso.

Come un giorno là nel palazzo di Roma, essi furono presi ora da tristezza per la difficoltà che trovavano a scuotere dalle spalle la soma di così sterminate ricchezze. Melania molti anni di poi lo raccontava ai suoi monaci e narrava loro come una notte si fossero addormentati oppressi da tale tristezza. E mentre dormivano parve ad ambedue che avessero a passare per un fesso angustissimo di parete, e tale accoramento ne provavano da venir quasi meno. Ma quando a vivo stento ebbero attraversato quell'angusto pertugio, si trovarono in grande ricreamento ed in gaudio indicibile. Con tale conforto Iddio sosteneva ciò che la Santa umilmente chiamava la loro pusillanimità, ed infondeva nei loro animi fiducia nel riposo, che doveva succedere a tanto travaglio.

In tali frangenti Melania si sovvenne della bontà, che Serena le aveva sempre dimostrata e del desiderio che aveva espresso di vederla; ella sperò di poter forse avere in lei una protettrice e sacrificò alla sua ardente brama di immolare le proprie ricchezze a Gesù Cristo la ritrosia ispiratale dalla sua umiltà. «Se cominciano a sollevarsi gli schiavi della nostra proprietà suburbana, che sono direttamente sotto di noi—ragionò ella a Piniano—che faranno quelli sparsi nelle diverse provincie di Spagna, d'Italia, della Puglia, della Campania, di Sicilia, dell'Africa, della Mauritania, di Numidia, della Britannia e delle altre regioni? Mi pare che ci convenga ora vedere la piissima regina Augusta. Io spero infatti, che, come ella riconosce a suo re e signore il Signore nostro Gesù Cristo, così ci darà quella potestà, che è conforme alla volontà di Dio e al desiderio nostro».

—E buono il tuo consiglio,—le rispose Piniano, —perchè la mano di Dio, nella quale sta il cuore dei re, è potente a dirigere per il bene ogni nostro atto.—

I Vescovi, che erano ospitati dalla santa matrona, le ottennero ben facilmente un abboccamento con Serena, e Melania si accinse a tornare ancora una voita a quella Corte, nella quale aveva creduto di non metter più piede. Ella volle andarvi tuttavia nella sua umile veste di penitente, e pare che questa sua risoluzione fosse oggetto di commento, perchè molti le espressero la propria opinione che dovesse per lo meno adattarsi al cerimoniale di corte, il quale esigeva che le matrone si presentassero alla regina a capo scoperto. La Santa rimase ferma nel suo proposito, dicendo che avrebbe preferito perdere tutte le sue sostanze piuttosto di deporre quell'abito preso per il nome di Cristo, e di togliersi dal capo il velo, poichè sapeva non convenirsi alle donne il pregare non velate. Ogni atto della sua vita infatti, osserva il suo biografo, quella piissima considerava preghiera: per questo non si toglieva mai il velo: preghiera era dunque per lei lo studio, preghiera il soccorrere ai miseri, preghiera il conversare, preghiera anche quella visita a corte, nella quale tante altre avrebbero trovato un pascolo alla vanità. Questo ci dà un'idea di quanto in ogni suo atto l'intenzione dovesse essere pura da tutte quelle miserie, che tante volte s'attaccano agli atti umani anche più santi. Iddio era tanto l'oggetto d'ogni suo pensiero, ella riferiva talmente tutto a Lui, che non v'era differenza per lei tra il pregarlo prostrata in orazione o cantando salmi, come faceva così spesso e così bene, ed il servirlo in ogni altro modo Egli volesse da lei; ogni suo atto era sempre incenso bruciato al suo Signore.

Così umilmente vestita e velata, accompagnata da Piniano e dai Vescovi suoi ospiti, ella si recò al Palatino, non tuttavia a mani vuote, chè per quel fine intuito delle convenienze e del piacere altrui, che i Santi conservano in mezzo alle privazioni, di cui si pascono, ella, fedele in questo agli usi dei patrizi, aveva raccolto una quantità di oggetti preziosi: vasi di cristallo, gioielli, anelli, vesti seriche, affine di regalarne Serena, gli eunuchi e i maggiordomi.

Appena annunziati, i santi sposi furono fatti entrare. La regina andò loro incontro fino all'entrata del portico e, veduta Melania in quella povera veste, l'abbracciò commossa, poi, tenendola per mano, venne di nuovo al suo trono d'oro, se la fece sedere accanto e di nuovo l'abbracciò e la baciò sulle ciglia, segno presso i Romani del massimo affetto, e, chiamati a sè tutti quelli del palazzo, li invitò a vedere colei, che quattro mesi prima avevano ammirata gloriosa della gloria del secolo, che ora s'inoltrava nella sapienza di Cristo e per amore di Lui aveva calpestato tutte le delizie. Ogni altra si sarebbe sentita punta d'orgoglio a tali onori, ma l'ancella di Dio quanto più veniva dalla regina esaltata tanto più s'umiliava nel suo cuore, ripetendo a se stessa l'oracolo profetico: Tutta la gloria dell'uomo come fiore di fieno. Quando anche coloro che l'accompagnavano furono seduti, ella cominciò ad umilmente esporre alla regina l'oggetto della sua venuta e le narrò del desiderio lungamente nutrito di rinunciare alle sue sostanze per amore dei poveri di Cristo, delle opposizioni mossele dal padre, del mutamento di questi sul letto di morte, della piena potestà da lui infine ottenuta di fare ciò che ella e Piniano desideravano, dei nuovi ostacoli mossi loro da Severo, che tentava di trarre a sè il patrimonio, di tutti i cavilli legali sollevati dagli altri loro parenti, che sedevano in Senato, ciascuno dei quali voleva farsi ricco delle loro ricchezze, essendo queste grandi assai. Ad una tale narrazione la regina s'indignò contro coloro, che ardivano tentare di mettere le mani sopra un patrimonio a Dio consacrato. «Se lo desiderate,—disse ella ai suoi visitatori, — li farò condannare: così che non ardiscano più molestarvi». Ma i due Santi erano troppo miti per acconsentire alla condanna di chicchessia; essi lo dissero alla regina: «No, signora, perchè noi abbiamo precetto di non nuocere a chi ci nuoce e di non rendere male per male. Crediamo che la protezione vostra ci aiuterà ad impiegare secondo Dio quei nostri poveri beni, senza che sia necessario far del male ai nostri nemici, che oltre a tutto sono parenti». La regina si conformò ai loro pii e miti sentimenti e mandò a dire a suo fratello, l'imperatore Onorio, che desse ordine in ciascuna provincia ai presidi ed amministratori della pubblica cosa di vendere sotto la propria responsabilità le proprietà di Melania e Piniano e di rimetterne il prezzo a loro. I supplicanti non avevano ancora preso congedo, che già l'imperatore, a grande meraviglia degli astanti per tanta accondiscendenza, mandava loro gli ordini da lui stesso firmati.

Volle allora Melania presentare a Serena i suoi doni preziosi, e la supplicò di accettarli in benedizione. Ma, —lo creda la vostra pietà,—disse ella,—colui che toccasse la menoma inezia della roba vostra, all'infuori dei poveri e dei santi cui l'avete donata, sarebbe ai miei occhi come chi ruba sull'altare ed accumula così su di sè fuoco eterno, perchè prende cose a Dio consacrate». Per far poi maggior onore ai suoi ospiti, ordinò agli eunuchi che li accompagnassero fino alla loro casa, proibendo tuttavia anche a questi di accettare qualsiasi cosa si fosse di quanto possedevano, nè oro, nè vesti e nemmeno un soldo, minacciando castighi a chi disobbedisse. Ma di minacce non abbisognavano quei buoni servi; pieni di timor di Dio, anche essi per amor di Cristo si facevano custodi a quei beati, e con somma letizia li accompagnarono fino alla loro dimora.

Nè minor letizia era nel cuore di Melania e di Piniano, che ringraziavano Iddio e la regina. Essi vollero subito porre in atto i loro santi progetti e si accinsero alla vendita del palazzo di Roma, ma esso era così splendido che non trovarono chi lo potesse comperare; la stessa regina Serena, alla quale si rivolsero, per mezzo dei vescovi loro ospiti, confessò che non era in grado di sborsare un prezzo uguale al valore. Poichè tornava loro impossibile mutare quella splendida magione in denaro da profondere sulle miserie umane, essi vollero che almeno servisse loro a soddisfare quel sentimento, che dopo l' amor di Dio e l' amor dei fratelli sofferenti è così vivo nelle anime nobili: la riconoscenza; al loro cuore riusciva penoso il non aver potuto in nessun modo mostrare a Serena tutta la gratitudine che nutrivano per lei e la fecero supplicare dai vescovi, loro mediatori sempre presso la regina, che accettasse almeno in dono le statue, i vasi, i candelabri e tutte le suppellettili marmoree del palazzo del Celio, ed ella, che per un delicatissimo impulso della sua pietà, s'era poco prima fatta scrupolo di toccare anche a un' inezia della loro roba, si arrese stavolta per un altro delicato sentimento, affine cioè di non contristare più oltre i due santi donatori. Così le ricche statue del palazzo celimontano passarono ad ornare il Palatino, che gli imperatori avevano di molto spogliato portando la loro sede a Costantinopoli; il palazzo del Celio non rimase tuttavia interamente denudato; esso fu ancora per qualche anno a disposizione di Melania; più tardi le orde di Alarico vi appiccarono il fuoco e così mezzo distrutto ed incendiato dovette essere dalla pia matrona venduto per vilissimo prezzo.

Ma se fu impossibile trovare compratori per il palazzo di Roma, non fu facile neppure alienare il resto delle proprietà dei Valeri; per quanti nobili e ricchi si presentassero per acquistarle, non sempre potevano sborsare in una volta sola il prezzo convenevole, e spesso dovettero implorare il favore di rilasciare delle obbligazioni invece di moneta contante in oro od argento.

Intanto nelle mani di Melania cominciavano a venire grosse somme, ch'ella s'affrettava subito ad impiegare dove maggiore n' era il bisogno; presto non vi fu necessità non solo sul territorio romano, ma anche nelle più lontane provincie, che sfuggisse alla carità sua; in Oriente ed in Occidente non vi fu isola o città, ch' ella non beneficasse; il suo biografo latino attesta di averlo saputo da molti seniori in un suo viaggio a Costantinopoli. Ella e Piniano comperavano monasteri e talora anche isole, che donavano a monaci e a vergini; altri monasteri dotavano; altre somme spedivano per mezzo di uomini fidati nei vari paesi, alle varie Chiese, a consolazione di monaci e di poveri. Le vesti di seta donarono tutte per sacri arredi e le suppellettili d' argento spezzarono per costruire altari ed oggetti da chiesa. Le loro proprietà intorno a Roma, nella Campania, nel resto d' Italia si venivano così a poco a poco alienando, ma Melania non era donna d'aver udito invano un grido di lamento dagli schiavi, che fino allora le avevano lavorate; la madre degli schiavi non poteva abbandonar questi nell'angoscia; a tutti quelli che la desideravano accordò la libertà; e si può supporre, benchè la biografia non lo dica esplicitamente, che la pietosa soccorritrice a tanti derelitti non avrà lasciati privi d' assistenza nemmeno questi servi affrancati. A tutti gli altri, che ritennero partito più sicuro preferire alla libertà con tutti i suoi rischi la servitù in una famiglia come quella dei Valeri, ella accordò di passare al servizio di Severo, e li regalò inoltre di tre soldi d'oro ciascuno. Questo era il modo, con cui li castigava per essersi sollevati contro di lei.


***

Non è a credere che nell' esercizio di sì eroica carità la santa matrona non avesse a vincere che ostacoli esterni e nessuno mai ne trovasse in se stessa. Ci è troppo facile in generale il dipingerci i Santi come esseri a parte, così presi del loro ideale da non accorgersi affatto d'appartenere alla natura umana; in questo modo essi restano là come belle statue, che non palpitano però della vita nostra, e nelle quali noi non troviamo niente da imitare, perchè non abbiamo con loro niente di comune. Il lato più bello dei Santi, quello che attira loro non solo la nostra ammirazione, ma altresì il nostro cuore e la nostra fiducia, e li fa nostri veri amici, è appunto questa comunanza di natura, di afflizioni, di moti d'animo con noi, per cui conobbero le tentazioni stesse che ci travagliano, le conobbero anzi in misura maggiore, perchè il nemico del genere umano pone tutti i suoi sforzi a scuotere quegli atleti e a stornarli dalla lora via gloriosa.

Melania, giovanetta ancora, aveva sentito in un modo straordinario il nulla delle grandezze terrene, che aveva calpestate, vagheggiando un'ideale di povertà assoluta; ma doveva venire anche per lei il giorno, in cui quell'aureo piedestallo, sul quale la grazia di Dio l' aveva elevata, e dal quale la sua figura sorridente pare troneggiare sulle miserie nostre, aveva ad essere violentemente scosso. Ella stessa narrava più tardi la storia di queste terribili prove, ed il suo biografo la raccolse dalle labbra di lei.

Un soggetto di tentazione fu quella magnifica villa, che possedeva molto probabilmente in Sicilia in faccia a Reggio, della quale già dicemmo che era coltivata da quattrocento servi agricoltori divisi in sessantadue case coloniche. Essa doveva vincere tutte le altre sue ville non solo in magnificenza, ma anche per incantevole posizione; da un lato bagnata dal mare, si estendeva dall'altro su monti, che non possono essere che i Nettuni con foreste verdeggianti d' ogni sorta d'alberi, popolate da cacciagione di cinghiali, di cervi, di daini; possedeva un bagno con peschiera per nuoto, superiore ad ogni immaginabile splendore, dal quale i bagnanti godevano da un lato la vista del mare colle navi numerose, che tragittavano vicino a riva per lo stretto, dall'altra riposavano l'occhio sul verde delle foreste, che cingevano come corona la magnifica proprietà, ed assistevano al disperato fuggire delle belve, all'accorrere dei cacciatori, a tutto lo spettacolo vivace della caccia. Tante bellezze naturali ed artificiali e le magnifiche statue preziose che per ogni dove erano sparse nella villa e l'immensa rendita che si ritraeva da quella proprietà danzavano davanti alla fantasia dell' eroica donna, nel momento in cui ella tutto voleva calpestare per amore di Dio, e tentavano d'allettare l'anima sua e di avvincerla con quel fascino, che le delizie di quaggiù hanno così potente sulla maggior parte dell'umanità.

La tentazione ammaliatrice ella respinse con questo pensiero: «Tutte queste cose sono nulla paragonate a quelle promesse ai servi di Dio; perchè queste cose possono venir distrutte dai barbari o consumate dal fuoco o rovinate dal tempo; quelle invece sono delizie eterne».

In un'altra tentazione l'opera diabolica fu più aperta. Ella e Piniano avevano fatto distribuire a monaci poveri una somma di quarantacinque mila monete d'oro. Quando rientrarono in casa, ella vide per illusione diabolica le pareti rifulgere d'oro e fiammeggiarne, mentre un pensiero travagliava il suo spirito: «Che è poi questo regno del cielo, che possa essere paragonato a tutto ciò?» La tentazione dovette essere gagliarda, poichè ella penava a resistervi, tanto che se ne spaventò, e ricorse subito alla grande arma dei Santi: si prostrò in orazione, ed in essa ritrovò la serenità che cercava, mentre al tentatore rispondeva: «Le ricchezze che io voglio comperare con questi beni corruttibili sono quelle, di cui dice la Scrittura che «nè occhio vide, nè orecchio udì, nè entrò in cuor dell'uomo quali cose ha Dio preparato per coloro che lo amano».

Eccola dunque vincitrice anche qui; gli argomenti a cui ella s'appiglia per sconfiggere il nemico ci fanno penetrare ancora meglio nell'animo di lei, nel quale non vi ha nulla di piccolo e gretto; non meschine paure, nè scrupoli, nè ristrettezza di mente la fanno allontanare dai beni, coi quali Iddio volle allietare la nostra vita, ma grandezza d'animo, ma larghezza straordinaria di idee, le quali si sono ormai orientate da una parte, dove i beni promessi vincono senza confronto quelli ch'ella calpesta, mentre potrebbe onestamente goderne; il nemico sa questo, e per tentarla cerca di diminuire agli occhi suoi il valore delle ricchezze celesti, a cui aspira; per un momento davanti all'anima sua quel suo soprannaturale ideale s'oscura, ed ella si conturba, freme, sente tutto l'allettamento di ciò che possiede, poichè una nebbia le toglie la vista di ciò che spera; ma ecco la luce si fa di nuovo, di nuovo accanto alla breve, imperfetta vita presente, le appare la vita che non ha termine ed è affatto beata, e l'eroina s'alza di nuovo gigante, respinge con un gesto le pagliuzze, colle quali si vuole allettarla, ed inneggia ai beni, che mente d' uomo non può concepire.

Accanto alle tentazioni d'avirizia, quelle di vana gloria e d'orgoglio. «A dir vero», diceva ella con incantevole semplicità ai figli spirituali, che la circondavano nell' ultimo periodo di sua vita, e dalle sue labbra aspettavano ansiosi gli insegnamenti, «a dir vero di nessun bene sono a me stessa consapevole». Era l' umiltà dell'ancella del Signore, che dopo aver lavorato tutta la giornata, trovava di essere la «serva inutile»; l'umiltà profondamente sentita e che semplicemente si esprime, che non toglie la conoscenza delle proprie opere, ma le mostra in quella luce sfolgorante della Verità, nella quale l' anima vede il nulla dell' uomo e di quanto viene da lui, vede le grazie straordinarie da Dio ricevute ed i difetti propri, che resero meno perfetta forse l' opera di quelle grazie, e quindi è condotta ad esclamare con pieno sentimento di ciò che dice: «Nessun bene è in me, nessun bene è da me; io sono la serva inutile!» Tuttavia, malgrado questa profonda umiltà, la tentazione veniva appunto dalle opere straordinarie compiute; questo genere di tentazione l'accompagnò tutta la vita, si capisce; poichè, discorrendone, ella parla del digiuno della settimana, che non praticava ancora nei primordi della sua vita ascetica; questo rigoroso digiuno, il cilicio sostituito alle vesti di seta, la povertà abbracciata erano pretesti come ella li chiamava, al nemico per insinuarle pensieri di vanagloria; ella se ne difendeva, opponendo al quadro delle austerità sue quello delle privazioni e dei patimenti di tanta altra parte dell'umanità; pensava a coloro, che, non solo digiunavano la settimana, ma anche quaranta giorni, a coloro, che, non solo non prendevano olio, ma nemmeno acqua; pensava a tanti precipitati nella squallida indigenza o dalle colpe dei propri genitori o dallo sfavore dei potenti; a tanti privati non pur della roba, ma anche della libertà, agli schiavi, non vestiti di cilicio, ma ammucchiati nel foro nudi e intirizziti dal freddo; contemplava il quadro di queste miserie e di tutti questi patimenti, ch'ella tanto bene conosceva, e, tornando a sè e tornando all'ideale, che era la stella che guidava il suo cammino, trovava che non era poi gran che ciò ch'ella aveva impreso a soffrire per guadagnarsi dei beni eterni ed incorruttibili e per mostrare il proprio amore a quel Dio, che l' aveva redenta; ella cercava poi in Dio il suo scampo, volgendosi a Lui colle parole del salmista: «Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e come sono vani» —«Beato l'uomo, cui tu avrai istruito, o Signore, e cui avrai tu insegnata la tua legge».

Alle tentazioni interne s'univano per tormentarla le osservazioni ed i suggerimenti di tali pure pii, e che vivevano in sembianza di santi; costoro nel veder lei e Piniano affrettarsi a spogliarsi di tutto, mentre dicevano d' approvare la povertà abbracciata per amore di Cristo, credevano dover consigliare insieme la moderazione, la misura: erano quei tali amanti di quel giusto mezzo, che è il tormento delle anime più elevate ed il comodo giaciglio ove s'adagiano le più pigre: Melania ne' suoi ultimi tempi dolcemente si lagnava coi suoi figli di questi suoi santi persecutori, e diceva che essi le erano stati maggior travaglio ancora delle tentazioni; ella scopriva nei loro suggerimenti un laccio più sottile del demonio, forse perchè l'animo suo dolce ed umile si sarà sentito più d' una volta attratto a preferire al proprio il loro modo di vedere. Ma anche a questo pericolo ella sfuggiva con un ragionamento fornitole esso pure da quel suo continuo confronto tra beni perituri e beni imperituri; ella pensava agli sforzi di coloro, che militano per i principi terreni, i quali talvolta affrontano anche la morte pur di conquistare dignità e gloria sempre maggiori; quella gloria di quaggiù, che non è se non fior di fieno; avrebbe dunque potuto sforzarsi troppo e troppo sacrificare ella, che aspirava alla gloria del Cielo?

Così, passando come una trionfatrice tra le interne tentazioni e gli ostacoli esterni, la giovane patrizia in poco tempo dalla morte del padre s'è rapidamente avanzata nella sua santa via, delineando già con mano sicura quei caratteri, che in tutta la sua vita risplenderanno in lei, modello di anima interiore data alla orazione e alla penitenza e modello in pari tempo di vita attiva; amante del ritiro e del nascondimento e pronta a togliersene quando lo voglia la gloria di Dio, ammirabile nelle sue relazioni collo sposo, che avvicina sempre più a Dio, rimanendogli tuttavia sottomessa così da non deliberar mai nulla senza di lui, ammirabile nella direzione della sua casa, ove tutto procede con serenità ed armonia, ove ognuno compie lieto il suo ufficio e lieto serve a Dio, sostenuto nella via di perfezione da quella, che a tutti ne è esempio, ove ogni miseria trova un sollievo, ogni pellegrino un tetto ospitale; ammirabile nell'intelligenza e nell'adempimento delle funzioni sociali, che spettano anche alla donna, tanto da essere a tutta l' altezza dei suoi tempi, e ai varî mali portare rimedio efficace.

Poichè Melania ci appare in un modo speciale donna del tempo suo; nella sua santità non vi ha nulla, che non sia affatto consentaneo ai costumi ed allo spirito del suo tempo: tutte le pratiche sue sono già quelle di moltissime altre persone date come lei a Dio; nulla ella porta di nuovo nella vita ascetica del suo secolo, nulla che appaia strano e stonato nella cornice, nella quale la studiamo; ma queste pratiche, che ha comuni con tanti altri, vengono da lei esercitate nel più alto grado e portate alla più alta perfezione. Mentre ella del tempo suo accetta il bene e lo fa proprio, ne vede anche con occhio perspicace il male, e si applica a sanarlo; nè si limita ad un aspetto solo del male, ma lo abbraccia in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue manifestazioni di miserie materiali, di piaghe morali, di errori religiosi.

Così allo spirito traviato del suo tempo ella oppone uno spirito contrario, nel quale rifulgono le sue virtù: fortezza nel servizio di Dio, attaccamento all'integrità della fede e della morale, amore alla castità verginale, spogliamento di se stessa al punto da non voler per sè che la povertà, l'abbiezione, il nascondimento, mentre distribuisce le sue immense ricchezze ai miseri; virtù rese amabili dalla dolcezza inesauribile, e da una dote, che le era forse naturale, e appare come un contributo della sua indole al lavorìo di santificazione, che la corrispondenza alla grazia divina aveva fatto in lei: voglio dire una delicatezza tutta femminile, la quale penetra in tutte le sue azioni, si unisce a tutte le perfezioni della sua santità, tutto ammorbidendo in lei, prestando una soavità incantevole alla sua forza virile ed un'attrattiva particolare ad ogni suo atto.

Tali virtù si mostrarono come in germe, come incipienti in questi primi quattro anni di sua vita ascetica; spettava agli anni avvenire lo svolgerle come un magnifico quadro davanti agli sguardi meravigliati dell' osservatore. Si capisce come una tal donna dovesse divenire una potenza per il bene, e come la sua mano così dolce e così forte fosse destinata ad indirizzare al Cielo migliaia e migliaia di anime.

Visita a San Paolino di Nola.—La morte di Stilicone e di Serena.—Fuga in Sicilia.—Il complotto di Pompeiano.—Assedio e caduta di Roma.— Incendio di Reggio.—Morte di Rufino.

In questi esercizi di pietà, di penitenza, di carità i nostri santi sposi passarono quattro anni alternando il loro soggiorno tra la villa del sobborgo, la Campania, la Sicilia. Nel 406 li troviamo ospiti di un loro carissimo parente, innamorato come loro del sublime ideale di perfezione cristiana: San Paolino da Nola. Melania, come abbiamo veduto, era stata a Nola pochi anni prima dal santo cugino della sua avola, ma ella apparteneva allora al seguito sfarzoso di questa, e, confusa tra le matrone, i senatori, i patrizi, sotto gli occhi severi del padre, certo avrà potuto prendere ben poca parte alla vita ascetica dei suoi santi ospiti. Con Paolino ella aveva avuto fin da bambina relazioni ogni anno, chè ogni anno egli si recava a Roma in pellegrinaggio alla tomba degli Apostoli, ed abitava allora presso i cugini, e Paolino accarezzava l'angelica fanciulla, «la pargola benedetta», come la chiamava, mentre il suo sguardo, uso a capire la santità, penetrava forse in quell' anima, e ne scopriva la bellezza, e ne intuiva i patimenti; ma allora il padre mondano circondava sempre così la figlia da impedirle di espandersi. Ora l'anima di lei era ridivenuta libera, ora ella andava a Nola come compagna di ideali e di vita a Paolino e a Terasia, ora ella poteva effondere nel loro tutto il suo cuore riboccante d' amore divino; ora a Nola ella viveva della vita di quei pii solitari, ritemprava cogli esercizi della loro la sua virtù e li edificava cogli esempi propri. Non era ella sola ospite di Paolino e di Terasia; con lei e con Piniano erano pure Albina, Turcio Aproniano, il convertito da Melania seniore, Avita ed i loro figli Eunomia ed Asterio, infine Emilio, vescovo di Benevento, inviato in quello stesso anno dal Pontefice Innocenzo come legato all'imperatore Arcadio per la causa del Grisostomo. In quel primo mese del 406 la pace sorrideva all'Italia, perchè l' anno prima Stilicone aveva sconfitto Radagasio presso Fiesole e liberata così Roma dal terrore di una invasione di Goti; la solitudine presso a Nola, dove si ripercuotevano gli echi degli avvenimenti italiani, godeva pure di quella pace, ed in mezzo ad essa quel gruppo di santi congiunti, uniti tra loro più che dal vincolo di parentela da quello tanto più forte e più puro della carità e dilezione cristiana, dimenticava la terra per non pensare che a cose celesti. Che vi ha di più atto a rendere felice la povera vita di quaggiù dell'avere davanti allo sguardo il più alto ideale di perfezione e le più sublimi speranze, e attorno a sè altre anime innamorate dello stesso ideale, animate dalle stesse aspirazioni? Nulla di più delizioso dei colloqui tra tali anime, che, dimentiche delle miserie della terra, non conoscono più se non un linguaggio celeste, che trovano nelle parole l'una dell'altra il conforto e l' appoggio a salire ancora più alto, che gioiscono della bellezza dell' anima sorella e non le desiderano che bellezza maggiore; nulla di più dolce del loro umiliarsi davanti a Dio, del loro sacrificarsi insieme per servirlo, nulla che più di queste società di anime sante renda sulla terra una immagine della società degli spiriti beati in Cielo. Un riflesso della felicità santa goduta in quel tempo di loro riunione dai solitari raccolti intorno alla tomba di san Felice l'abbiamo nei carmi di san Paolino. Egli riguarda come un regalo del suo san Felice la compagnia di quei suoi ospiti, che, ricchi e nobili nel secolo, avevano per amor di Cristo abbracciato la povertà, quella povertà ch' egli pure amava tanto, alla quale scioglieva un cantico celebrandola per sè più preziosa del mondo intero, collo stesso entusiasmo con cui un giorno in Assisi il Poverello per antonomasia la canterà sua sposa (1) O veneranda mihi et toto pretiosor orbe Pauperies Christi!. Uniti tutti in un solo pensiero ed in un solo affetto, i suoi ospiti appaiono al solitario poeta come le nove corde di una mistica lira, armonizzanti nel dar lode a Dio. Egli s'indugia poi a dipingerli ad uno ad uno; Albina ed Avita accanto alla sua Terasia; Turcio Aproniano, decoro della gente Turcia; Piniano, suo diletto e primo tra i figli, che paragona per il suo nome al pino sempre verdeggiante, sempre ritto ed amante delle eccelse alture, beato nei calori dell' estate e sotto la neve, odorifero, fecondo di frutti; Piniano, alle cui gesta di vincitor di se stesso e di salvatore di migliaia di uomini dai ceppi del servaggio come console del Re divino, sembrava aver preluso quel suo antenato, Valerio Publicola, che aveva liberato Roma dalla tirannide e redento il popolo dalla schiavitù. Infine Melania ed Eunomia, due fiori gemelli; Melania sui ventitre anni, più avanti nella vita e nelle vie di Dio, vien paragonata dal santo poeta a quella illustre Appia, il cui nome San Paolo poneva in mezzo a quelli di due uomini apostolici: Filemone ed Aristippo; ella pareva chinarsi e donar del suo profumo ad Eunomia, fiore appena allora sbocciato, che le cresceva accanto quale sorella minore, o meglio figlia, che veniva da lei iniziata nella via delle consacrate a Cristo e la amava tanto da non saper staccarsele dal fianco. Ma l'immagine dei fiori non è ancora sufficiente al poeta; quelle due congiunte, dotate di celesti prerogative sono per lui come due vivi monili, che s' adornano delle gemme preziose di sempre nuove virtù (1) Quae simul astrictae divinis dotibus ambae Virtutum varias ut viva monilia gemmas Mentibus excultis specioso pectore gestant..

Per merito di tali ospiti la basilica eretta da Paolino a San Felice echeggiava continuamente in quei giorni di sacri cantici; Melania, dotata di bellissima voce, peritissima nel canto liturgico, che allora si usava anche nella salmodia privata e che certo ella aveva appreso a Roma, vi veniva formando Eunomia; le schiere di vergini e di giovanetti, che Paolino aveva raccolto in due comunità monastiche attorno alla tomba del Santo e la nobile comitiva dei patrizi romani, tutti nello stesso ruvido saio, seguivano le due cugine a quella beata dimora; sul triplice ingresso la croce rosseggiante del sangue di Cristo, coronata da un serto di fiori, li ammoniva che per quella croce si muore al mondo e si rapisce la corona: tolle crucem qui vis auferre coronam. Dischiuse le porte, la basilica spiegava davanti ai loro occhi tutta la sua magnificenza; la triplice abside rifulgeva d' oro e di mosaici, la tremula luce dei ceri variopinti alimentati da papiro imbalsamato, e delle lampade d' argento e di cristallo, che pendevano dal soffitto dorato, si rifrangeva nei lucidi marmi e sulle pietre preziose; voci dolcissime facevano presto echeggiare quelle sacre volte delle semplici melodie, di cui risuonavano le basiliche romane; il solitario poeta raccoglievasi come in dolce estasi, e fisava il simbolico mosaico dell' abside, che egli aveva ideato, dal quale Cristo in figura di Agnello sembrava ascoltare dilettandosi quei cantici, compiacendosi soprattutto delle due voci celesti che li dominavano; quella di Melania e della sua discepola Eunomia (1) Eunomiam hinc Melani doctam sub principe voce Formantem modulis psalmorum vasa modestis Auscultat gaudens dilecto Christus in agno..

Quale meraviglia che Paolino desiderasse di tenere a lungo presso di sè tali ospiti? Egli li avrebbe voluti per sempre con sè (sempiternos hospites); oltre ad essergli santi amici ed a spandere intorno la viva luce del buon esempio, Piniano e Melania erano anche a Nola, come in ogni luogo, due fonti abbondantissime di beneficenza, e il santo cantore supplicava Cristo che tali fontane scaturissero con perenne ubertà dal seno di Felice, e per nessun caso le loro vene si disseccassero.

La felicità così intera non è però di questa terra; Iddio ne accorda alcune stille ai suoi diletti amici come un' anticipazione della beatitudine celeste, ma essi sanno che la felicità sarà loro retaggio nella patria, non quaggiù, ove è loro contrassegno la croce; anche le dolcezze della più santa amicizia non devono essere impedimento a compiere la volontà di Dio. Pare che Melania pure desiderasse prolungare il suo soggiorno a Nola; tuttavia, forse per le cure che esigeva l'alienazione del suo patrimonio, o per non so quale altra ragione, dovette dopo poco tempo tornare a Roma. Negli ultimi mesi del 408 ell' era di nuovo nella sua villa nel sobborgo. Terminata dunque la dolce comunanza cogli amici, terminata pure la soave vita tranquilla, come era terminato quel breve periodo di pace per l' Italia.

Un fatto, che rivela quali dovessero essere gli intrighi di corte e come barbari ancora i costumi, aveva attirato nuovi guai sull'Italia, e certo aveva profondamente addolorata Melania, tanto sensibile all'amicizia e dalla riconoscenza. Nell'Agosto di quell'anno, Stilicone, il tutore e suocero d'Onorio, il vincitore di Pollenzo, di Verona, di Firenze, il cui nome soltanto valeva a tener lontani i barbari, era caduto vittima dell' ambizione di Olimpio, dell'odio dei ministri orientali, della stoltezza del suo sovrano. Accusato al debole imperatore come complice d'Alarico, strappato fellonescamente dall'altare della chiesa di Ravenna, presso il quale s'era rifugiato, egli, per evitare una guerra civile, frena i parenti ed i seguaci accorsi a difenderlo e si dà in mano ad Eracliano, dal quale è trucidato. In Roma venivano abbattute le statue del generale ed era portato per le vie il teschio sanguinante del figlio di lui, Eucherio, pure ucciso, mentre nel palazzo imperiale del Palatino la desolata vedova, la madre orbata del figlio, Serena, doveva stringersi tra le braccia la figliuola Termanzia, in quell' anno stesso andata sposa ad Onorio, ed ora rinviata da lui alla madre colla vergogna del ripudio. Era una terribile caduta da un' eccelsa altezza; una di quelle cadute, delle quali è piena quell'epoca di rivolgimenti, e che alle anime come quella di Melania dovevano far profondamente meditare il nulla della gloria terrena. Ma questa volta, ringraziando Iddio, che a lei l'aveva fatta disprezzare e calpestare, ella non poteva a meno di rattristarsi sulla sorte infelice della donna regale, dalla quale aveva avuto un giorno così generosa protezione. Nè dovevano finir lì i motivi di lutto; perchè Serena stessa era destinata a cader vittima dell'odio dei Romani. Alarico, appena saputo spento l' unico eroe dell'impero, che gli tenesse testa, mosse alla conquista dell' eterna città, e poichè la corte d'Onorio con fanciullesca caparbietà rifiutò l'offerta di pace ch' egli ancora le faceva, passò il Po presso Cremona, lasciando dietro a sè incendio e strage, fu in breve tempo per la via Flaminia sotto le mura di Roma, e le fece subito circondare dai densi stuoli de' suoi cavalieri, i quali, dice il Gregorovius, abbeveravano nell' Arno e nel Tevere i propri cavalli e procedendo più sotto le mura, gettando grida selvagge, percuotevano colle lance le porte d'Aureliano.

All'avanzarsi dell'orde barbariche lo sbigottimento ed il terrore s' erano impadroniti dei Romani, molti dei quali cercavano rifugio in Grecia, in Sardegna, in Africa; ma insieme al terrore entrò nelle loro vene un sospetto: che la vedova di Stilicone avesse ella per vendetta chiamato Alarico, accordandosi segretamente con lui; incapaci di affrontare il nemico colle armi, quegli imbelli credettero vincerlo trucidando una donna e portando sulle mura fortificate la testa recisa di Serena, affinchè il barbaro, perduta la speranza di entrare per tradimento di lei, togliesse l'assedio. Illusione da dementi! Alarico stringeva ancor più l'assedio, e a chi voleva impaurirlo col descrivergli il popolo di Roma numerosissimo e destro nelle armi rispondeva sprezzante: «Ebbene! Il falciatore sega le erbe del prato tanto più facilmente quanto più sono fitte!»


***

Al barbaro spettacolo però Melania non dovette assistere; all'appressarsi delle orde di Alarico, temendo più ancora dei danni materiali, gli oltraggi, che da quella rozza soldatesca potevano venire alle vergini, che aveva seco, ella aveva lasciato con tutta la sua famiglia la villa del sobborgo per rifugiarsi in Sicilia. Colla sua comitiva era questa volta anche l'amico ed antico compagno della sua avola, Rufino d'Aquileia, celebre per la sua intrinseca amicizia con San Gerolamo, terminata poi nelle aspre contese sull'origenismo. Egli era strettamente legato anche con tutti gli altri parenti ed amici della seniore Melania: san Paolino da Nola lo stimava e aveva relazioni continue con lui, che chiamava «santo, pio, dotto». Anche Avito ed Aproniano, nella cui conversione Rufino aveva avuto gran parte, lo amavano e stimavano. Egli era infatti uomo di austeri e santi costumi, erudito, anzi dotto; nella persecuzione di Valente era stato anche confessore della fede nicena, ed aveva sostenuto la prigionia e l'esilio.

Ora vecchio e quasi cieco, egli trovava riposo all' animo suo stanco da tante lotte presso la dolce nipote della focosa compagna di sua vita ascetica, a lui forse anche troppo somigliante d'indole e di tendenze, e da lui trascinata nelle erronee dottrine dell'origenismo. Di tutta la vita di Rufino, la cui gloria non fu senza ombre, la parte più bella è forse questo placido tramonto accanto a Melania, la quale, così salda sempre ed intransigente nella purezza della fede cattolica, circondava di cure quella vecchiaia cadente, e col contatto della sua soave santità preparava quell'anima bella, malgrado gli errori cui s'era lasciata trascinare nel calore delle lotte, a passare dalle asprezze delle dispute umane alla calma solenne del giudizio di Dio.

Rufino aveva con sè due suoi ammanuensi, che lo aiutavano ne' suoi lavori letterari, e pare che per ottemperare a un desiderio di Paolino, che avrebbe voluto rivedere l'amico, i viaggiatori nel recarsi in Sicilia abbiano sostato qualche giorno a Nola. Ad ogni modo nei primi mesi del 409 già erano nella splendida villa di Sicilia, dove Rufino dettava la versione latina delle omelie origeniane sui Numeri, e veniva da Piniano stimolato ad intraprendere altri lavori, segnatamente sul Deuteronomio.

Intanto a Roma gli avvenimenti volgevano sempre al peggio; la città eterna sulla fine del 408 era stata più e più stretta d'assedio da Alarico, che, impadronitosi del Tevere, la affamava; i Romani sulle prime avevano resistito, sperando forse in un soccorso da Ravenna; ma questo non veniva; il grano cominciava a mancare, ed il prefetto ordinava che la misura giornaliera per la confezione del pane fosse diminuita della metà; poi non somministrò che la terza parte e ne segui la fame al punto che Olimpiodoro narra essere giunti i cittadini a mangiar la carne dei loro simili. Un triste presentimento che Roma non poteva venir salvata incombeva sulle anime, ed un furore di paganesimo prese la città; alcuni uomini venuti dalla Toscana risuscitavano gli antichi misteri degli auguri ed il Prefetto Pompeiano, pagano fanatico, ne approfittò per cercar d'indurre il Senato a rinnovare i già aboliti sacrifici agli dei pagani (1) Zosimo.; promettendo a tal patto la liberazione della città. Intanto i due messi inviati da Roma ad Alarico per trattare della pace riportavano le richieste di costui… cinque mila libbre d'oro, trentamila libbre d'argento, tremila pelli colorate di porpora, quattromila tessuti di seta e tremila libbre di pepe. L'erario era vuoto; come appagare il barbaro? Si convenne che i senatori forniti di ricco censo contribuissero con adeguate imposizioni a quel riscatto (2) Idem.. Ora, nel registro del Senato, tra i senatori più doviziosi figuravano due in quel momento assenti, due, le cui immense ricchezze erano state dai proprietari ormai offerte e consacrate a Dio, i due eredi della gente Valeria: Melania e Piniano. Pompeiano fece osservare al Senato essere assurdo che un così ingente patrimonio venisse speso per Iddio; dover esso piuttosto esser impiegato ad accrescere le forze della repubblica e del Senato, e segretamente deliberò di pubblicare una sentenza in proposito. Ecco dunque un nuovo pericolo minacciare le sostanze destinate ai poveri di Gesù Cristo. Chi le salverà questa volta? I due generosi proprietari sono lungi da Roma e non sanno nulla del complotto. Serena loro protettrice non è più. Roma nell'angustia dell'assedio non vede e non cerca più che la maniera di sfuggire al barbaro; quel patrimonio dovuto abbandonare dall'ambizioso Pubblicola, salvato dalla rapacità di Severo, finirà dunque ad esser divorato dal fisco? Nessun occhio umano vigila più su di esso, ma Dio, Dio, a cui fu consacrato, non se lo lascierà rapire. Il giorno stesso in cui la sentenza di Pompeiano doveva venir pubblicata, la plebe affamata insorge contro il prefetto, ed a furia di sassate lo uccide in mezzo alla città. La sua sentenza resta lettera morta, e dalla lontana Sicilia Melania e Piniano vengono a sapere del pericolo corso, quando ormai esso è scongiurato; dolendosi della disgraziata fine dello sciagurato pagano, essi ringraziano Iddio, la cui mano divina li ha questa volta direttamente protetti.

L'anno seguente, 409, le notizie da Roma si fecero più tranquillanti; i Romani avevano fuse le statue degli dei per dare oro ad Alarico, il quale aveva concesso una tregua ritirandosi in Toscana; affine di evitare a Roma nuovi guai, il Papa stesso si recava con un' ambasciata dall'imperatore Onorio per concludere la pace tra lui e il re dei Goti, trattative che però restavano vane per l' ostinazione del partito della corte. Alarico aveva detto che una forza invisibile lo spingeva verso l'eterna città, eppure pareva che una segreta ripugnanza lo facesse esitare a piegarne decisamente il capo regale; egli continuava le trattative con Onorio, mostrandosi pronto anche ad abbassare le condizioni; tornò a mettere assedio a Roma e lo tolse, ponendovi sul trono Atalo, un fantoccio di re, oggi incoronato, domani spodestato da lui a seconda che voleva spaventare Onorio.

Intanto insieme a queste notizie ora tristi ora migliori, una lieta ne giungeva in Sicilia da Nola: Paolino ne era stato eletto Vescovo; in quegli amici, che sapevano così bene amare, la gioia dovette essere ben viva a questa nuova; l'onore che da una tale elezione veniva all'amico, il campo più vasto aperto allo zelo di lui, il bene di tante anime affidate alle cure di un tal Vescovo dovevano essere tema prediletto di discorso in quei momenti in cui gli abitanti della villa di Messina si riunivano a ricrearsi alquanto dopo le lunghe ore d'orazione e di studio. Un'aura se non di speranza per lo meno di tregua alle angosce passava sull' Italia, e colla letizia di quella recente elezione andava a ricreare i fuggiaschi in Sicilia.


***

Era inutile, la caduta dell'alma città stava scritta in Cielo; il momento fatale era giunto per Roma; nulla più poteva salvarla. Alarico, stanco dell'ostinazione, dei cavilli, dei pretesti della Corte d'Onorio, ardente di rabbia anche per l'uccisione a tradimento di molti dei suoi Goti, tolse il campo da Ravenna e a grandi giornate, con numerosissimo esercito di Goti, di Unni, di Alani le fu sopra; la forza di un tale esercito, la stanchezza e la viltà dei Romani, l'astuzia e il tradimento dovevano aver ragione anche di quelle torri e di quelle porte massicce, che parevano rendere inespugnabile la regina del mondo. Il 24 agosto 410 il barbaro vi entrava per la porta Salaria, e dava libertà ai suoi di saccheggiare la città per tre giorni; termine breve, che non fece che rendere più feroci i soldati; fuoco e sangue furono allora in tutta Roma; palazzi magnifici vennero atterrati, tra gli altri quello di Sallustio presso la porta Salaria; il quartiere dei nobili, il Celio, fu il teatro delle maggiori rovine, e dal fuoco e dall'ascia dei barbari fu distrutto pure quel palazzo dei Valeri, alle cui magnificenze invano Melania aveva cercato un compratore.

Anche il palazzo di Marcella sull' Aventino venne assalito, ed a stento la santa vedova potè, presentandosi ella stessa ai barbari, salvare dal loro furore le vergini, che aveva seco; ella, maltrattata e percossa, morì pochi giorni dopo; Pammacchio pure moriva in mezzo a quella devastazione.

Un fremito di dolore correva il mondo ad una tale caduta, che da lungo tempo minacciava sull' orizzonte, ma che pareva impossibile; da Betlem l'ardente solitario, Gerolamo, erompeva in pianto inconsolabile: «Il lume splendidissimo della terra s'è spento; il cape del romano impero è stato svelto dal tronco; nella ca duta di Roma il mondo tutto è perito… Io sono diventato muto e tremante; lo scoramento mi opprime così che ho perduto l'operosità nel bene… Chi dovrebbe credere che la madre dei popoli è divenuta tomba a tanti buoni, che tutte le rive d'Oriente, d' Egitto, dell'Africa si riempirebbero di Romani, che ora sono come schiavi e schiave, che Betlemme deve ogni giorno ricevere ospiti, che dalla nobiltà e dalla ricchezza sono subitamente mutati in mendicanti?»

La devastazione di quella città, dai monumenti, dal palazzi, dal fasto, diveniva nella storia una delle pagine più eloquenti sul nulla della grandezza umana; i boriosi romani, privati di tutto dai barbari, precipitati dall' alterigia del loro lusso nell' indigenza compassionevole, seppero per lo meno leggere e capire per i primi quella pagina terribile, e chiamarono beata la saggezza di coloro, che non avevano aspettato d'essere forzatamente spogliati, ma avevano messe in sicuro le loro ricchezze, donandole a Dio; così gli antichi detrattori di Melania e Piniano, coloro che un giorno li avevano chiamati pazzi e bambini cominciarono a magnificarli, perchè avevano saputo strappare in tempo le loro sostanze dalla bocca del leone e più vantaggiosamente impiegarle; una parola sola correva allora tra quei patrizi e quei senatori: Felici i due, che sottrassero in tempo le loro sostanze dalle mani dei barbari!

Dalla villa di Sicilia infatti, Melania aveva continuato a vendere delle sue terre ed impiegarne il denaro per i poveri; ora i gemiti di Roma riempivano di cordoglio anche i pii solitari, tanto più quando da Roma i barbari si gettaron a scorazzare per tutta Italia, e a Nola posero le mani sul Santo Vescovo, Paolino, e si spinsero poi fino a Reggio Giulia, che incendiarono. Dall' opposta riva Melania ed i suoi compagni contemplavano col cuore oppresso le fiamme devastatrici. La loro lugubre luce fu uno degli ultimi spettacoli terreni, che colpisse gli occhi di Rufino; ottuagenario e quasi cieco, egli si addormentò poco tempo dopo nel Signore circondato dalle cure amorevoli della santa famiglia, che lo ospitava.

Dopo la morte di lui, Melania, non sentendosi più sicura nemmeno in Sicilia, deliberò collo sposo di passare in Africa.

Una burrasca provvidenziale—L'approdo in Africa e le accoglienze di un illustre amico—Tagaste— Il dono più prezioso alla casa di Dio.

Nel Dicembre di quello stesso anno, 410, Melania con tutta la sua famiglia faceva vela per altri lidi. La Sicilia aveva ospitato per due anni la santa compagnia, ed erano stati quelli due anni relativamente tranquilli, nei quali solo l'eco dei disastri della capitale del mondo veniva a turbare ogni tanto la pace dei solitari nella magnifica villa; due anni di studio, probabilmente diretto e certo illuminato da Rufino, uno degli ingegni più settili dell'epoca, due anni in cui quei due santi doviziosi avevano continuato ad alienare i beni della terra per collocare i loro tesori in seno a Dio. In Italia ed in Sicilia ormai tutto era venduto, eccetto il palazzo di Roma, la cui magnificenza i barbari s'erano incaricati di distruggere; era naturale che Melania ponesse ora l'occhio sull'Africa, ove ancora le rimanevano amplissimi possedimenti, e che inoltre in quel momento di scompiglio per l'Italia era dai Romani considerata quale luogo di scampo, così che molti fuggiaschi dalle invasioni barbariche si gettavano su Cartagine. Prima però di lasciar l'Italia definitivamente ella e Piniano desiderarono dare un ultimo saluto al più grande amico che vi avessero: Paolino da Nola. Tanti erano i loro motivi per congratularsi e dolersi con lui! congratularsi della sua elezione alla sede vescovile, dolersi perchè il suo cuore di Vescovo era stato contristato dallo scorazzare dei barbari nella sua diocesi; dolersi per le rovine, che i barbari avevano accumulate nella bella Nola, e nello stesso tempo ammirare la virtù del santo Vescovo, la sua caritatevole sollecitudine per i figli infelici, pari solo a quel suo disprezzo dei beni della terra e a quel suo amore alle tribolazioni, che a lui, spogliato e maltrattato, inspiravano quella preghiera riportata da Sant'Agostino: «Signore, non è per l'oro e per l'argento che io m'addoloro; imperocchè tu sai dove sono posti tutti i miei tesori (1) Domine, non excrucer propter aurum et argentum, ubi enim sint omnia mea, tu scis (St. Agost. De civitate Dei 1, 10)..

Sciogliendo le vele da Messina essi dunque non si diressero verso Cartagine, ma verso Napoli, per proseguire di là a Nola. Ma spesso i disegni di Dio sono ben diversi da quelli degli uomini. I viaggiatori erano appena usciti dallo stretto che un terribile fortunale, suscitato forse dal forte vento di scirocco, l'Eurus dei latini, s'abbatte sulla nave, e talmente la sferza e la percuote che i marinai stessi cominciano ad entrare in serio pensiero. All' esterno la fiera procella, che non vuol cedere, all' interno per la quantità di persone imbarcate, lo sgomento invade a poco a poco gli animi; i marinai, che invano si sforzano di far procedere la nave, sono presi dallo spavento generale e credono irreparabile la rovina; un grido s'alza da tutte le parti, quel grido di animi credenti, ma non ancora amanti abbastanza per considerare in Dio più il Padre che il Padrone inesorabile: «E' l'ira di Dio! è l'ira di Dio!» In mezzo al terrore generale una persona sola conserva inalterata la sua tranquilla serenità: Melania. Sempre intimamente unita a Dio, ella s' abbandona fidente a quella bontà misericordiosa, che si cela sotto apparenti rigori; nell'avvenimento, in cui tutti vedono solo la collera di un Dio irato, ella scorge un segno che il suo progetto di riveder Paolino non è forse interamente secondo il divino beneplacito; per quanto questo progetto fosse stato prima da lei accarezzato, lo depone subito e non ha più altra brama che di conoscere e secondare il volere divino. Ella s' abbandona interamente ai suggerimenti dell'amore, che non possono mostrarle che amorosi i disegni di Colui, che ama, e le danno sopra ogni altro il desiderio di secondarli. Quella turba di uomini, cui la vita dura e l'abitudine dei pericoli non aveva impedito in quell'ora d' angoscia d' esser resi come fanciulli dal terrore, vede avanzarsi calma, come ispirata, questa debole, giovane donna, che tutti rassicura, dice che forse Iddio non vuole si vada là dove si era diretti ed ordina di lasciar la nave in balia dei venti; e quegli uomini ubbidiscono; forse è l' angoscia disperata dell' ora che li rende così docilmente sommessi; forse è la serena maestà, che su quella fronte di donna rifulge di un raggio divino. La nave è abbandonata ai venti, che, fedeli ministri del loro Signore, la guideranno ove a Lui piacerà.

Essa approda infatti rapidamente ad un'isola, probabilmente delle Folie, forse Lipari, e l'amoroso disegno della divina Provvidenza nel far mutar via alla doviziosa e caritatevole patrizia romana appare subito manifesto.

Gli abitanti di quell'isola erano in quei giorni immersi nell'angoscia e nel lutto; una torma di barbari predoni li aveva circondati; aveva rapito uomini, donne, fanciulli. ed ora chiedeva una grossa somma per il riscatto, minacciando in caso di rifiuto l'eccidio delle vittime e l'incendio dell' isola stessa. Altro scampo non rimaneva a quei poveretti che rifugiarsi nelle braccia della Provvidenza, e parve loro un pegno della protezione divina la notizia divulgatasi subito che alla loro isola era approdato il naviglio di Valeria Melania. Chi ormai poteva ignorare quel nome diventato sinonimo di consolazione per gli afflitti, di sollievo per gli oppressi? Non pareva Melania essere sempre, ovunque andasse, strumento dell' amorosa Provvidenza in sollievo dei suoi figli infelici? Chi sa quante volte quel nome era occorso alla mente degli angosciati isolani, che si saranno sentiti struggere per non trovare il modo di giungere alla donna caritatevole! Ed ecco che Iddio la mandava loro! Il Vescovo stesso circondato dai maggiorenti della città le si fece subito incontro, ed espostale la terribile condizione dell'isola la supplicò colle più calde istanze di venir loro in aiuto sborsando il prezzo del riscatto. Il cuore di Melania non poteva non commuoversi; le angustie dei poveri perseguitati divennero sue angustie; ella sborsò subito il riscatto richesto in due mila e cinquecento soldi d'oro e altri cinquecento ne diede a quei miseri per i loro bisogni; in tutto circa L. 30 mila. Ma non bastava; quei poveretti soffrivano la fame, ed ella dalle sue provvigioni prese il meglio per sfamarli.

Gli abitanti di Lipari erano nell'esultanza, pieni di riconoscenza per la loro benefattrice; eppure essi non potevano abbandonarsi totalmente al loro contento; coloro che erano sfuggiti alle mani dei predoni nel tornare alle loro case, che avevano creduto non rivedere mai più, abbracciando i loro congiunti, dai quali erano stati ormai pianti come perduti, non potevano non ripensare con dolore ad una, che lasciavano dietro a loro nei ceppi della schiavitù, ed alla quale le loro grida di gioia dovevano giungere come un'ironia ai propri dolori. Era questa una nobile matrona, catturata non si sa dove. Melania, saputo di questa misera rimasta senza aiuto, non volle che ella sfuggisse alla sua carità, e sborsò altri cinquecento soldi d' oro per il riscatto della poveretta, che certo non aveva osato sperare tanta ventura per sè, e che libera e lieta fece ritorno ai domestici lari.

Coloro, che nella procella avevano creduto vedere la collera di Dio, avranno ora dovuto con Melania ammirare e ringraziare quella misericordiosa bontà, che lungi dallo scagliar l'ira sua, aveva voluto usar loro l'ineffabile grazia di renderli propri strumenti nel sollevar gli infelici.

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Da Lipari i santi viggiatori, lieti ormai dell' impresa compiuta, veleggiarono verso occidente, e, dirigendosi direttamente sull' Africa, sbarcarono a Cartagine. In Africa pure Melania era conosciutissima e per le immense possessioni, che ivi teneva e per le sue larghissime beneficenze, e l' uomo più grande dell' Africa salutò il suo arrivo. Era Sant' Agostino, legatissimo come abbiamo veduto colla famiglia sì paterna che materna della Santa, intimo amico anche di San Paolino; all' affetto egli univa ora l'ammirazione, tanto che nessun elogio potrebbe uguagliare le espressioni dedicate dal santo Dottore ai tre viaggiatori; egli li chiama «santi carissimi, santi di preeminente santità, pieni di misericordia; giunge a dirli luminari della Chiesa, ardenti e splendidissimi in mezzo a un mondo tortuoso e perverso (1) Sancti nobisque carissimi, Ep. CXXV ad Alipio—Servi Dei munere sanctitatis praeminentes, Ep. CXXVI ad Albinam—Sancti Dei et pleni visceribus misericordia, Ep. CXXVI ad Albinam—Lumina Ecclesia; Ep. CXXV ad Alypium, in hac generatione tortuosa ac perversa tam ardenter accensa de summo lumine lumina, suscepta humilitate sublimia, et contempta claritate clariora. Ep. CXXXV ad Albinam Pinianum et Melaniam..

Saputo del loro arrivo a Cartagine, Agostino avrebbe desiderato muover loro subito incontro, e non ci volle meno del suo alto dovere episcopale per rattenerlo. Egli era appena ritornato infatti ad Ippona dopo esserne stato assente qualche tempo per preparare la Conferenza coi Donatisti, indetta dall'imperatore Onorio col rescritto dell' ottobre 410 nell'intento di richiamarli all' unità della Chiesa; aveva trovato il suo popolo adirato per tale assenza, di cui avevano approfittato i suoi avversari per mormorare e denigrarlo, tanto ch' egli aveva creduto dover raddolcire tali asprezze dirigendo al clero e al popolo una lettera amorevole, nella quale si scusava di averli lasciati, non per «colpevole talento di proprio comodo, ma per il servizio della Chiesa». In tale condizione egli non poteva partir da Ippona una seconda volta, ma a quei desideratissimi ospiti dell' Africa scrisse subito, esprimendo loro il proprio dolore di non potersi muovere, non tanto in causa del rigido inverno nocevole alla sua salute, quanto per il maggior scandalo che avrebbe arrecato al suo gregge; quando essi prendessero male quel suo contegno, diceva loro, e volessero castigarnelo non potrebbero infliggergli pena più grande di quella ch'egli stesso provava in quell' impossibilità di andarli a vedere subito, e conchiudeva colla promessa di visitarli in qualsiasi punto dell'Africa appena lo potesse.

Nè Agostino era il solo ad apprezzare qual dono facesse il Cielo all'Africa con tali ospiti. Alipio, vescovo di Tagaste, l'amico intimo del Vescovo d' Ippona, il compagno de' suoi errori e della sua conversione ed Aurelio, Primate di Cartagine, entrarono pure in relazione con loro. Dei tre il più avventurato fu Alipio, perchè la sua Tagaste era la città destinata ad essere scelta per residenza dai santi romani. Cartagine, città piena di lusso e di corruzione, divenuta poi in quei tempi rifugio delle famiglie romane, che venivano a portare in Africa tutto il contributo di fasto, di molle superbia e di lascivia, ultimo, triste primato rimasto e sopravvissuto alla capitale del mondo, non poteva che far fuggire Melania; nè Ippona, colonia romana popolosa e chiassosa, era tale da soddisfare i gusti di quell' umile donna, che desiderava solo ritiro e solitudine; ma la piccola Tagaste, situata in un angolo dei più apparatati della provincia di Numidia, era proprio luogo adatto per chi non desiderava che nascondersi; la presenza di Alipio poi accresceva l'attrattiva di quella cittadina modesta; oltre ad essere l' amico di Agostino e di Paolino di Nola, pregio non piccolo agli occhi di Melania, oltre ad essere di santi costumi e pieno di virtù, Alipio era pure assai versato nella santa Scrittura. Abbiamo veduto come lo studio dei Sacri Libri facesse parte dell' educazione d' una giovane cristiana a quei tempi; abbiamo veduto le eminenti cristiane di allora come Paola e Marcella appassionarsi a questo studio al punto che la loro insaziabilità di sapere e di chiedere spiegazioni diveniva pungolo vivissimo a San Gerolamo; Melania non era da meno di loro; il trovarsi vicina a un uomo come Alipio era dunque per lei una ventura. Ella pose suo soggiorno a Tagaste, dove Sant'Agostino le diresse la sua lettera, e la chiesa di Tagaste ebbe presto ad andar lieta di possederla.

Appena installati in Africa i due santi coniugi cominciarono a vendere le loro immense proprietà di Numidia e Mauritania ponendo anche queste loro ricchezze, parte per il riscatto degli schiavi, parte per le chiese, parte per sostentamento di santi uomini a Dio consacrati, parte in elemosine ai conventi. Vedevano questo i Vescovi africani loro amici e non soltanto approvavano, ma ammiravano tanta generosità; solo parve loro che potesse esercitarsi in un modo più perfetto, o per lo meno più utile ai beneficati; fecero osservare infatti ai generosi donatori, che i monasteri soccorsi avrebbero in poco tempo consumati i doni loro fatti e che sarebbe opera più duratura dare ad ogni monastero la casa ed una piccola rendita; alle osservazioni di Aurelio, di Agostino, di Alipio, si aggiunsero quelle di un tal Giovio, probabilmente prete o monaco di gran merito della Chiesa di Tagaste e che doveva godere autorità presso Melania. L'umiltà della santa e del suo sposo ed il loro spirito d'obbedienza fecero loro accettare subito e metere in pratica il consiglio.

Delle loro larghezze il beneficio maggiore l'ebbe però la chiesa di Tagaste; che, da essere assai povera, fu arricchita così da destare invidia a Vescovi di città molto più importanti; veli d' oro e tempestati di ge ame, dischi d' argento e d' oro, ornamenti d' ogni sorta le furono profusi in quantità dai ricchi patrizi, che inoltre la dotarono di quella magnifica proprietà di Numidia, la maggiore che avessero, così estesa da racchiudere due sedi episcopali.


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Come a Roma e poi a Nola e poi in Sicilia e fino nell' isola ove li aveva buttati il naufragio, così anche in Africa quei discendenti della più ricca casa patrizia romana, sprezzati un giorno dai loro parenti come due prodighi e folli bambini, erano dunque quali li aveva detti San Paolino: due fonti celesti, che a guisa di ricche fiumane spandevano in ogni luogo i loro benefici. E qui in Africa, la madre e l' apostola degli schiavi, pose la corona all' opera grandiosa cominciata per loro. Ella aveva già spezzati i ceppi di migliaia di loro, si era assisa alla loro mensa, si era fatta loro maestra nelle vie cristiane e tanto era riuscita nella sua santa missione che si vedeva ora circondata da moltissimi di quegli infelici, i quali, lungi dall'agognare ai beni della terra, che avevano veduti disprezzare dalla loro nobile salvatrice, non desideravano se non camminare per quelle vie di perfezione, che la parola di lei e più il suo esempio avevano loro fatto conoscere come le più preziose. Quando si pensi da quale abbrutimento morale uscissero quei poveretti, che ora aspiravano alla perfezione evangelica, non si può a meno di meravigliare di un tal frutto; la meraviglia però cessa se si consideri che colei che l' otteneva lavorava sulla terra, ma collo sguardo sempre al Cielo. Per questi figli delle sue sollecitudini ella pensò di fondare e dotare due monasteri e ve li raccolse; cento e trenta vergini nell' uno e ottanta uomini nell' altro. Erano duecento dieci individui, che sarebbero stati destinati a servir lei, e ch' ella donava al servizio di Dio, che, secondo l' uso dei tempi, avrebbero dovuto strisciarsi ai piedi suoi o di altro padrone, e ai quali invece ella insegnava a prostrarsi davanti a Dio; la cui voce avrebbe dovuto mormorare avvilienti adulazioni ai potenti della terra, e si scioglieva invece ora nel cantare le lodi divine; erano trecentodieci individui sollevati dal più abbietto degli stati: quello di schiavi dell' uomo, al più alto: quello di sacri alla Divinità; in questo modo i Santi del cristianesimo intesero sempre e operarono l' elevazione del genere umano. «Tanti monaci di quest'origine», aveva già scritto un giorno sant'Agostino, «divennero grandi per la loro virtù e degni d'essere proposti a modello».

Più ancora del denaro sparso a profusione, più del l' oro e dell' argento e delle stoffe preziose di cui ella s' era spogliata, avevano valore queste gemme vive, delle quali Melania aveva ornato il tempio, que ste trecento dieci anime redente e poste quali faci a consumarsi ed ardere nella casa del Signore.

L'istitutrice di vergini—La studiosa, la contemplativa, la penitente—L'apostola.

Era disciplina della Chiesa romana che le vergini, anche quelle che rimanevano nelle domestiche pareti, salmodiassero l'ufficio divino. San Gerolamo voleva che a questo s' avezzasse la vergine Paola fino dall'infanzia, e le stesse prescrizioni dava ad Eustocchio e a Demetriade, spronandole a levarsi anche la notte quali guerriere di Cristo (1) San Gerol. Epistole. In Africa si seguivano le medesime discipline che a Roma; le vergini nei monasteri avevano un oratorio interno, ove si riunivano a pregare e salmeggiare in determinate ore (2) Sant'Agost. Ep. CCXI ad Sanctis moniales, n. 7. De civitate Dei, XXII, 8.; Melania doveva conoscere perfettamente questi usi, che introdusse poi anche nei monasteri fondati più tardi in Oriente, e cominciò subito ad addestrarvi le sue figlie raccolte nell'Africa.

Quel monastero da lei popolato di anime aspiranti alla perfezione doveva essere per lei un lungo di delizie. Ella aveva infatti per quelle vergini le maggiori sollecitudini, affine di formarle alle più elette virtù del loro stato. Così alto era nella sua mente il concetto della donna consacrata a Dio, che voleva allontanato da lei qualunque cosa sapesse di leggerezza od anche semplicemente di distrazione da quei pensieri santi, che devono essere occupazione continua di un' anima legata ormai più al cielo che alla terra. Alle sue vergini ella non permetteva una parola oziosa, nè quel facile riso, che è segno di un' anima dissipatasi nella esteriorità delle cose terrene. Non certo ch' ella fosse amica della tetraggine, ella, che in mezzo alle tribolazioni ed alle contrarietà, aveva sempre conservato il suo dolce sorriso; ma vi ha un sorriso di cielo ed un riso di terra, vi ha una letizia santa, riflesso quaggiù della letizia celeste, ed è letizia calma, serena, dolce, sempre uguale; vi ha una gioia rumorosa, chiassosa, turbolenta, espressione della stoltezza umana, che rifugge da ogni pensiero alto e solenne e vuol stordirsi in facili piaceri sempre bugiardi, quand' anche non siano sozzi; vi ha un riso d' angeli resi beati dalla contemplazione della Divinità ed un riso d' uomini ebbri e dissipanti il meglio di sè nei vili tripudi di un' ora. È questo il riso che anche lo Spirito Santo condannò, ponendolo sulle labbra dello stolto; era questo riso che Melania non voleva deformasse labbra destinate ad aprirsi unicamente per cantare le glorie di Dio. E perchè la parola ed il riso sono a più fedele espressione dell' anima e dell' intimo pensiero, ella voleva che la santa letizia, che doveva rifulgere in volto alle sue vergini, partisse dall' intimo dell' anima loro, fosse rivelazione di menti e di cuori purissimi, non offuscati dall' ombra più leggera; per questo non si fermava all' esterno, ma scrutava anche l' interno delle sue figlie e non permetteva ad un pensiero meno che illibato di fermarsi anche un istante in quegli animi, nei quali, come nei vasi consacrati al servizio di Dio tutto doveva essere oro purissimo. Quei fiori, ch'ella aveva posti sull'altare, dovevano ricevere solo rugiade celesti e solo verso il cielo avevano a far salire il loro profumo.

Ma questa apparente severità, che Melania attingeva nel suo alto concetto della vocazione verginale e religiosa, veniva temperata e resa soave dall' immensa carità, che la legava a quelle sue schiave divenute ora sue sorelle e figlie. Nulla richiedeva da loro, ch' ella non praticasse già in modo assai più perfetto; questa inspiratrice e formatrice di vergini poteva servire d' esempio a tutte. I sogni celesti della sua generosa giovinezza divenivano ogni giorno più una relatà; le sue immense ricchezze alienate ormai quasi interamente e divenute patrimonio delle chiese e dei poveri, le miserie d' ogni genere soccorse ed alleviate, gli schiavi liberati e riscattati in sì gran numero che il suo biografo rinuncia a volerne fare il calcolo, i conventi dotati e fondati le formavano già una ricca corona di meriti, ed ella cominciava a lasciare alquanto l' ufficio di Marta per addentrarsi sempre più nelle dolci contemplazioni di Maria. Ella s' univa alle sue vergini nel salmodiare l' ufficio divino, il quale, come vedremo più tardi, non aveva allora una regola uniforme in tutti i particolari e molto dipendeva dagli istitutori; Melania aveva stabilito ella stessa il numero dei salmi da recitarsi nelle varie ore; ma insieme che dallo zelo per la gloria divina s' era lasciata guidare dallo spirito di discrezione verso le sue sorelle, così che esso era molto limitato. Finite l' escercizio in comune, ella continuava poi a salmeggiare in privato, prendendosi anche quella parte, che non aveva voluto imporre alle altre. Di notte s' alzava la prima e svegliava le sue sorelle eccitandole al servizio di Dio: «Siccome Abele—diceva loro—offriva le primizie de 'suoi frutti, offriamo anche noi le nostre lodi di buon' ora a Dio; vigiliamo in ogni tempo, perchè non sappiamo in qual'ora venga lo Sposo, se a metà della notte, o a mattina o al canto del gallo, e quando Egli viene non deve trovarci dormenti nè di corpo nè di spirito».


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Ella infatti vigilava sempre, e quando non pregava s' immergeva nello studio profondo dei sacri libri; quattro volte all' anno passava tutto il Vecchio e il Nuovo testamento, nè v' era interprete greco o latino che non conoscesse, e le cui opere subito non si procurasse, studiandole avidamente come un'affamata di quel cibo spirituale.

Questo studio, di cui troviamo le traccie sempre nel suo linguaggio continuamente inspirato a ricordi biblici, alternava col lavoro manuale che consisteva nel copiare su membrane antichi codici; una delle sue vergini le dettava ed ella scriveva in bellissimi caratteri, nè v' era piccolo sbaglio sfuggito all' imperizia della lettrice, ch'ella subito non sapesse rilevare e correggere. Ogni giorno aveva il suo compito stabilito. e per quanto il suo corpo fosse affaticato, esso non doveva venir ristorato nè col cibo nè col riposo prima che il lavoro quotidiano fosse compiuto. Questo lavoro indefesso mostra come le contemplazioni mistiche lungi dal diminuire in lei l'energia divenissero invece una fonte, nella quale ella acquistava una meravigliosa padronanza di sè. Benchè la vita di Maria l'attraesse in particolar modo, ella non lasciava mai di unirvi sapientemente quella di Marta; l'amore di Dio s'armonizzava sempre in lei colla sollecitudine per i suoi fratelli infelici; l'uno amore pareva correr dietro all'altro e unirsi e fondersi con esso per salire al cielo in soavissimo profumo.

Per gli sventurati ella aveva usato ormai dei vantaggi della sua ragguardevole condizione, del suo ingegno, dei lumi spirituali ricevuti in abbondanza; anche il lavoro manuale doveva essere consacrato a loro sollievo; i codici da lei copiati venivano venduti, e col ricavo ella comperava vesti e calzari per i poveri e per i monaci. Ancora nel secolo X circolavano in Europa codici scritti da quelle mani patrizie, fatte così operose dall'amore di Dio e nelle biblioteche venivano ricopiati con cura dagli ammanuensi, che in quei nitidi e bei caratteri oltre al loro ovvio significato dovevano leggere un'ammirabile storia di amore (1) Nel 1847 si vendeva a Gand una preziosa collezione di codici provenienti dalla Biblioteca dell'abazia di Stavelot; tra questi v'era una del see. X contenente la versione latina dal greco di 8 libri di S. Gregorio Nazianzeno fatta sopra un altro codice di Sta Melania di Roma secondo l'annotazione in lettere capitali rosse appostavi dallo stesso amanuense: Usque huc contuli de codice Saneta Melaniae, Romae; V. C. Rampolla, Introductio, LXIII. Spesso poi, quei poveretti, nutriti così dal frutto del suo lavoro, si vedevano la patrizia umilmente inginocchiata davanti a lavar loro i piedi, atto in cui l'amante di Gesù voleva anche esternamente unirsi all'umiltà di Lui.

Giornate così ben riempite erano chiuse colla lettura delle vite dei Santi e dei martiri, quasi che questa eroina del cristianesimo volesse, prima di abbandonarsi al sonno, riempirsi la fantasia delle gesta degli eroi, che l'avevano preceduta, perchè esse le aleggiassero davanti anche mentre dormiva e le rendessero il cuor vigilante anche allora, spronandola a virtù sempre maggiore. Quel sonno poi non era che una sosta di due brevi ore, dopo le quali ella sorgeva a pregare e ad invitare alla preghiera le sue vergini. Due brevi ore di riposo, e qual riposo! durante il quale le stracche membra non s'adagiavano se non sopra un tappeto di cilicio, come di cilicio erano le vesti che le coprivano di giorno.

Uno dei caratteri dell'amore è il desiderio di patire; non ama bene chi non sa patire per colui che ama. Gesù, l'infinito Amore, non seppe come meglio dimostrare l'amore suo agli uomini che facendosi per loro Uomo di dolori, e i Santi, che più bevettero a quella sorgente, che è il divino Cuore, più provarono il prepotente bisogno di rendere al loro Signore patimenti per patimenti, ed a quella parola «t'amo!», ch'era il sospiro naturale dell'anima loro, aggiungere quasi come prova e testimonianza quell'altra: «patisco per Te!». Fu questo bisogno, che ad una delle Sante più amanti, a Teresa, sotto tanti aspetti così simile alla nostra Melania, strappò quel grido: «o patire o morire!» (1) I critici moderni contestano questa espressione di S. ta Teresa e dicono che la traduzione esatta delle sue parole volterebbe la frase così: O morire, o patire, (Joly, S.te Thérèse.) Il senso resterebbe alquanto alterato è vero, poichè non darebbe come primo desiderio quello di patire; l'aspirazione rimane però sempre quella di anime che sono come forestiere sulla terra: o unirsi a Dio nella perfetta carità della Patria, o approfittare dell' esiglio per avere la gioia di dare a Dio ciò che nella Patria non è più possibile: le testimonianze dell'amore col patimento. Aspirazioni in tutti i modi consoni all' anima di Teresa e all' anima di Melania.; sintesi sublime di quanto sul pregio di questa vita mortale pensano gli innamorati di Dio. E Melania, questa innamorata fin dall' infanzia del suo Dio, pareva anticipare coi fatti l' espressione della vergine d'Avila e trovare che il pregio maggiore e la gloria della vita di quaggiù sta nel poterla offrire come un olocausto di patimenti a Dio. Al lavoro indefesso ed alla preghiera ella aggiungeva la penitenza più aspra; pareva che anche il suo corpo partecipasse dell' aspirazione di tutto l' essere suo verso il cielo, e volesse chiedere alla terra il meno che poteva.

Pochissime, come abbiamo veduto, erano le ore concesse al sonno, ed anche il cibo andava sempre diminuendo; ora ella era giunta a fare il digiuno di tre giorni, e la commestione, che prendeva così raramente, consisteva in poveri legumi, che non condiva nemmeno più coll' olio, qualche volta in estate non era che di soli dieci fichi; la bevanda era qualche goccia di vinomele. Quando si pensi che il corpo sottomesso a tali rigori era stato avvezzo a tutte le delicatezze di una grande casa patrizia, che quelle membra coperte ora di aspro cilicio erano così tenere che un giorno il contatto col ricamo d' oro della finissima veste di lino aveva bastato per renderne livida e contusa per qualche tempo la carne, i progressi così rapidi e grandi nella via della penitenza paiono inesplicabili; la spiegazione ne è data in un modo molto ingenuo e vero dal biografo latino della Santa; «la beata riceveva virtù di far tutto ciò da Colui che disse: «Chiedete e riceverete»; ella chiedeva, e dall' alto riceveva la forza».

A tali rigori così lontani dalle delicatezze nostre, noi siamo quasi tentati d' inorridire, ma v' era accanto a Melania qualcuno che non sapeva non affliggersene, benchè non osasse interromperli. Era la sua buona madre Albina, che l' aveva seguita nel sobborgo di Roma, a Nola, in Sicilia, in Africa, e coll' umile amore di una discepola le aveva tenuto dietro in quel suo cammino ascendente verso le più alte cime di perfezione. Ella sapeva in quali delicatezze fosse stata allevata la sua unica figlia e non poteva a meno talora di fare un confronto tra la vita di un tempo e l'austerissima che ora s'imponeva, mentre il suo cuore di madre, giubilante pure per la corona di meriti di lei, sentiva talora il legame di carne, che a lei l'univa, e non sapeva interdirsi di fremere tutto nel contemplarla così abbracciata sempre a volontari patimenti. Allora ella si introduceva nella celletta, ove la Santa compiva in silenzio il suo quotidiano lavoro; ma sapeva che nemmeno per lei quel lavoro e quel silenzio verrebbero interrotti, e, dopo aver teneramente ammirata quella sua diletta senza proferir una parola, in un riserbo pieno di venerazione, si ritirava per aspettare fosse trascorso il tempo, che supponeva necessario al compimento del lavoro prescritto. Tornava poi ed abbracciava quella sua santa figliuola, e sfogava tutta la pena e la gioia, che insieme la tormentavano, paragonando se stessa alla madre dei Maccabei. «Quella beatissima—diceva—assistendo nello spazio di un giorno ai tormenti dei suoi figli si ebbe il gaudio sempiterno; ma ben più afflitta di lei son io, che vedo te, figlia mia, allevata come io sola so, darti a tutti i tormenti, nè mai concedere riposo al tuo corpo e sostenere immenso maritiro!» Poi dalle afflizioni della terra sollevando lo sguardo alla gloria celeste ed ascoltando solo l'inspirazione della fede, prorompeva in un inno di riconoscenza: «Oh! quante grazie renderò al mio Dio, che a me indegna diede una tal figlia!».

Si dice che un abisso di iniquità chiami un altro abisso; ugual cosa si può asserire dell'amore; il cuore amante non dice mai basta; chi ama assai Iddio vorrebbe amarlo ancor più; chi ha gustato la sua intimità vorrebbe gustarla maggiormente ancora. Così avveniva anche di Melania; le mistiche effusioni della vita di Maria, seduta in contemplazione ai piedi del suo Signore, l'attiravano sempre più, ed ella desiderava maggior solitudine e maggior penitenza, maggior segregazione da ogni cosa terrena per stringersi ogni giorno più negli abbracci col suo Dio.

Quale fosse il suo modo di contemplazione e d' orazione il biografo non ce lo dice e non ne resta traccia nei documenti contemporanei, che più degli stati d' animo descrivono minutamente i fatti esterni; probabilmente le parole della Sacra Scrittura, studiata e posseduta a fondo, dovevano fornirle soggetti inesauribili di meditazioni e di contemplazioni altissime; questo però è certo che la follìa della croce l'aveva presa, e questa follìa ha anch' essa i suoi eccessi: generosi, sublimi eccessi, che fanno il contrappeso di tanti altri, vergogna del genere umano. Melania divisò di chiudersi totalmente nel segreto della sua cella, nè più vedere nessuno, e, per riposarvi il suo corpo, sognò un' angusta cassa di legno, nella quale non potesse nè muoversi, nè stendersi. L' una cosa e l' altra le furono proibite. L' amore come un segreto movente può dare impulsi a slanci anche meno considerati, ma vi ha una virtù nel cristianesimo, che è una forza moderatrice e regolatrice: l' obbedienza; essa è distintivo dei Santi; essa è il segno infallibile per conoscere se i mistici slanci dell' anima sono o no di buona fonte. Gli uomini di Dio, che vegliavano sulla santità di Melania le proibirono le eccessive penitenze e le proibirono pure l' intera solitudine in considerazione del bene immenso, che dalla conversazione di lei veniva alle anime; ed ella umilmente chinò il capo ed obbedì, e destinò allora ore particolari, in cui prestava tutta se stessa ai numerosi, che accorrevano a lei, ed altre, che interamente dedicava ai colloqui con Dio.


***

Quando era in mezzo ai suoi fratelli la contemplativa diveniva infatti un apostolo. Quella, che soccorreva con tanto amore a tutti i bisogni temporali, che non poteva vedere miserie anche fisiche senza commuoversi, tanto più si prendeva a cuore i bisogni spirituali, e non si dava pace finchè a schiere non conduceva le anime a Dio; nelle sue lunghe orazioni, nelle sue penitenze, nel suo amore, ella aveva imparato il segreto di penetrare nei cuori e conquiderli alla retta fede ed alla virtù. Moltissimi gentili ella aveva già convertiti e continuava a convertire al cristianesimo, a molti eretici aveva aperto gli occhi sui loro errori; in Africa un' altra classe di ciechi ancora doveva ricevere la luce da lei: i Samaritani. Già prima che la Palestina cadesse sotto il giogo romano, Giudei e Samaritani s'erano sparsi in Oriente ed Occidente, passando talora tutti sotto il nome comune di Giudei; dopo la caduta di Gerusalemme, la dispersione fu universale e coi Giudei anche i Samaritani andarono ad accrescere le colonie esistenti.

Nel secolo IV v' erano di queste colonie a Roma, in Sicilia, in Ispagna, a Minorca e finalmente in Africa (1) La presenza dei Samaritani in Africa è assai controversa; il Card. Rampolla la sostiene contro il Tillemont (S. ta Melania giuniore, Nota XXVIII). La biografia latina e il testo greco su Santa Melania la affermano, dando in mano al Card. Rampolla un argomento di più e gettando una luce su questo punto storico. Tuttavia il Diekamp. credette ancora di doverlo contestare nella Teologische Revue, 22 Maggio 1906., a Cartagine, ad Ippona e forse anche altrove; fu tra questi Samaritani che Melania operò tante conversioni che anche qui il suo biografo confessa di non saper darcene il numero. Ma non le bastava di attirare alla luce coloro, che sedevano nelle tenebre; quelli, che già avevano la luce ella si traeva poi dietro fino a quell'ideale, che aveva formato il sogno de 'suoi giovani anni: la verginità. Sembrava ch' ella volesse rifarsi del dolore provato nel venir privata di quel tesoro col chiamare a parteciparvi quante più anime poteva; col far risplendere in tutto il suo fulgore questo astro sopra la corruzione del mondo d' allora; presso gli adolescenti e i giovani ell' era veramente apostolo non solo di purezza, ma anche di castità verginale; coi più dolci modi, soccorrendo anche di denaro chi ne abbisognasse, li ritraeva dagli inutili spassi del secolo e parlava loro un linguaggio celeste: «Breve è il nostro tempo —diceva—e perchè corrompiamo i nostri corpi, che sono tempio di Dio? Perchè contaminiamo con immondizie la castità, nella quale abita Gesù Cristo?». Ed esaltava la bellezza della verginità, argomentando che bene eccelsa deve essere questa virtù se Gesù stesso volle nascere da una Vergine. Molti infatti alle parole sue s'arrendevano e salivano più in alto della comune virtù. Probabilmente tra le giovani persone, ch'ella ritraeva così dalle gioie della terra, v' era una da lei più delle altre amata; l'adolescente cugina Paola, figlia di Leta, che gli avvenimenti avevano per sua ventura balzata da Roma all'Africa, ove in Melania doveva trovare la protettrice della vocazione, cui l'aveva destinata la pietà materna. Più tardi la ritroveremo in Oriente accanto ad Eustocchio, ma l'aver ella ricevuto il primo avviamento alla vita verginale da Melania, siccome attesta il biografo, fa supporre questo suo soggiorno in Africa, ove era fuggita forse col padre Tossozio al sopravvenire dei barbari e rimasta fino alla morte di questi. Tossozio, come un giorno Publicola, amava la vita mondana, che i patrizi romani avevano trasportata da Roma all'Africa; ed il candido fiore, ch' egli aveva seco, avrebbe certo sofferto di quell'aria viziata se a proteggernelo non si fosse stesa su lui la mano pura e forte della sua santa congiunta. Altri ed altri invece venivano da Melania esortati a profondere tra i poveri parte dei loro beni; ed essi acconsentivano e deponevano nelle mani di lei le loro offerte costituendola propria tesoriera, così che olte che delle ricchezze proprie ella veniva ad essere dispensatrice delle ricchezze altrui. Dalla schiera di questi cooperatori della sua carità erano però esclusi gli eretici, dai quali ella non accettava denaro. Ed è degno di nota che il biografo qui non accenni ai gentili, ma unicamente agli eretici; erano costoro, che, dopo aver conosciuto la verità, commettevano il delitto di alterarla e si ostinavano nell'errore, che venivano dalla Santa allontanati come la peste dalle proprie opere buone, così da non voler da loro nemmeno una cooperazione puramente materiale. Esterne manifestazioni queste della profonda detestazione per l' errore che nutriva quella, la quale col buon Pastore correva dietro alle anime tra i rovi e le spine, ma non si piegava ad attenuare con falsa carità il delittuoso attentato di inquinare la purezza della fede. Ed era questa donna, che coll'errore non scendeva mai benchè menomamente a patti, questa donna, che in fatto di fede noi chiameremmo oggi intransigente, quella che si traeva dietro convertite a migliaia le anime! Grande lezione questa per il secolo nostro, che a scusa delle sue troppo frequenti concessioni all' errore vuol portare lo zelo per attirare gli increduli. Melania sapeva che il segreto per convertire le anime non sta in concessioni vergognose, ma nell' unione a Colui, che solo è padrone dei cuori e li può volgere a suo talento!

Un uso strano del secolo IV.—Pelagio.—I resti di santo Stefano.

La fede viva, la fervente pietà unite alla natura turbolenta e calda di quelle generazioni, in parte uscite appena dal paganesimo e tutte ardore per la religione abbracciata, avevano introdotto nel IV secolo un uso, che appare strano davvero all' epoca nostra. Quando il popolo vedeva un personaggio così esimio per santità di costumi, per coltura, per censo, per chiarezza di natali, da poter arrecar lustro e vantaggio alla Chiesa che lo possedesse, quel poveretto era preso, circondato dagli altri fedeli, trascinato all' altare e, volesse o no, veniva costretto a ricevere gli ordini sacri; la storia delle consacrazioni sacerdotali di quell' epoca è piena di questi fatti. In questo modo aveva ricevuto il sacerdozio Paolino da Nola; il giorno di Natale del 393, mentre assisteva ai divini uffizi, era stato stretto da ogni parte e quasi strangolato dal popolo, che lo voleva prete ad ogni costo, e, malgrado la sua resistenza, era stato sullo stesso luogo consacrato sacerdote dal vescovo Lampio. Sant'Agostino aveva pure subìto le stesse violenze; dopo la sua conversione recatosi ad Ippona per far del bene ad un suo conoscente, entra confuso col popolo nel tempio, mentre il vescovo Valerio stava parlando del bisogno di quella Chiesa d'avere un prete; il popolo, che aveva riconosciuto il grande convertito, ben lontano in quell'istante dall'immaginare ciò che gli stava per accadere, lo attornia, lo stringe, lo trascina all'altare, e, non badando a largime e proteste, forza il Vescovo ad ordinarlo; così la Chiesa d'Ippona aveva acquistato il prete, che le abbisognava.

La consacrazione di Paoliniano, fratello di san Gerolamo fu fatta presso a poco nello stesso modo coll'intervento niente meno che di Sant'Epifanio, il che mostra che questo uso non doveva presentar nulla di irregolare a quei tempi, se perfino un Epifanio se ne serviva. È sant'Epifanio stesso che racconta tale consacrazione, il giovane Paoliniano che più volte aveva rifiutato di ricevere gli Ordini sacri e vi si era sottratto colla fuga, recatosi per certi negozi ad Eleuteropoli presso Epifanio, mentre tutti erano in chiesa per la liturgia, fu per ordine di questi stesso circondato da moltissimi diaconi, che gli turarono la bocca e lo presentarono al Vescovo, il quale gli conferì subito il diaconato e poi il presbiterato, ma con immensa difficoltà e mentre al consacrando veniva sempre tenuta turata a viva forza la bocca (1) Epist. Epiphanii ad Johannem hierosolymitanum, n. 1, Epist. LXXXII ad Theophilum, n. 8.. Lo stesso si voleva fare a Roma con Pammacchio, l'illustre genero di santa Paola; ma questi riuscì a sfuggire a tale violenza, probabilmente ritirandosi nel suo xenodochium nel porto romano.

Tali metodi vengono spiegati non solo dai costumi del tempo, ma anche dalle condizioni speciali della Chiesa d'allora; da una parte parecchie chiese, come abbiamo veduto di Ippona, scarseggiavano di preti, dall'altra i personaggi più virtuosi e più cospicui, quelli in cui più grandi s'erano manifestati lo zelo, la pietà, la generosità, la carità e nei quali maggiore era la coltura, avevano un concetto così alto del sacerdozio cristiano che la loro umiltà profonda li faceva tremare all'idea d'abbracciare stato tanto sublime, ed era questo forse l'unico motivo per cui ne rifuggivano e cercavano ogni modo per sottrarvisi. Ma il popolo, che li conosceva e stimava la loro virtù, spesse volte incoraggiato anche dai propri Pastori, voleva a tutta forza aver ragione di un'umiltà, che lo privava del tesoro di buoni sacerdoti a guida e sostegno nella sua vita travagliata. Il metodo non era dei più civili, ma il sentimento che io inspirava, il fine cui mirava erano santi, e l'esito di tali ordinazioni forzate dice chiaramente che gli ordini sacri venivano in generale imposti a persone degne di riceverli quanto uomo può esserne degno, le quali nella vita sacerdotale, solo per basso sentimento di sè temuta e sfuggita, trovavano poi la santificazione propria e l'altrui.

Da tali violenze non doveva andar salvo nemmeno il santo compagno e fratello di Melania, Piniano; esse dovevano anzi dar luogo ad un incidente spiacevole del soggiorno dei santi sposi in Africa. Le loro virtù erano note a tutta l'Africa ed in Ippona il popolo partecipava all'ammirazione del suo Vescovo per il patrizio romano, fattosi povero ed umile per amor di Gesù Cristo; il popolo di Ippona anzi nutriva una segreta invidia per quello di Tagaste, che tanti vantaggi ritraeva dalla presenza di quei suoi illustri ospiti, e studiava il modo di costringere Piniano a mutare dimora col farlo divenir prete nella propria Chiesa. L'occasione si presentò in una visita fatta dai due patrizi ad Agostino; essi avevano à proprio compagno anche il vescovo Alipio, forse obbediente ad un desiderio di Albina, che credeva così di guarantire Piniano contro qualsiasi sorpresa da parte degli Ipponesi. Nè quegli, cui era noto il desiderio del popolo d'Ippona di averlo prete, si sentiva affatto sicuro; infatti prima di entrare in chiesa volle da Agostino, presente un testimonio, probabilmente Alipio, formale promessa che nè a forza, nè per via di insinuazioni egli sarebbe indotto a ricevere gli ordini. Agostino promise, certo lungi dall'immaginare che il suo popolo stesse per metterlo in un serio imbarazzo. Il Vescovo d'Ippona ed i suoi ospiti entrarono in chiesa gremita da una folla di persone di tutte le classi sociali, accorsa a contemplare i due romani tanto venerati; Agostino ed Alipio presero posto nell'abside, alla quale si accedeva per alcuni gradini; Melania e Piniano si fermarono poco lungi. La santa Oblazione non era giunta ancora all'offertorio, in cui si congedavano i catecumeni, che un mormorio cominciò a correre per quella folla, e il mormorio divenne presto clamore, che risuonò come scroscio d'uragano sotto le volte del tempio. Agostino, che conosceva gl'Ipponesi, dovette capir subito di che si trattava, e, conscio della promessa data, non potè a meno di turbarsi assai; risoluto tuttavia a rimaner fermo, si alzò, e, fattosi innanzi, dichiarò alla folla tumultuante non poter egli ordinare a forza Piniano per la promessa già datagli, che se poi i presenti si ostinassero a porre in non cale quella promessa credendo di meglio riuscire nelle loro mire col tumulto, sapessero che in questo modo avrebbero prete Piniano, ma non riterrebbero vescovo Agostino. Una dichiarazione così energica uscita dalle labbra di un padre e pastore come Agostino fece ammutolire ad un tratto tutta quella moltitudine; fu un istante di tregua. Ma gli animi erano troppo eccitati, il desiderio di aver Piniano era troppo veemente. La tempesta si scatenò subito più violenta ancora di prima; erano grida, erano suppliche; si voleva in tutti i modi forzar la mano ad Agostino malgrado la promessa data; alcuni dei più ragguardevoli ed assennati cittadini si avvicinarono a lui supplicandolo di rimettere la calma, ma egli teneva fermo e rispose che ordinar forzatamente prete Piniano sarebbe stato spingerlo a lasciar subito la loro città; del resto nè voleva egli mancare alla sua promessa, nè avrebbe permesso ad altro vescovo di ordinar Piniano nella chiesa d'Ippona. La resistenza del vescovo pose in furore il popolo, che si affollò fremente attorno ai gradini dell'abside levando grida sempre più clamorose, scagliando ingiurie e vituperi contro Alipio, ritenuto causa di quella resistenza, accusato brutalmente di voler sfruttare il patrizio romano per la propria Chiesa.

La situazione era difficilissima; il furore popolare faceva tremare i più impavidi; Agostino non sapeva più che farsi. Addolorato per l'ostinazione ed il contegno irriverente del suo popolo, egli pensava di lasciare la basilica in segno di disgusto, ma lo ratteneva il timore che la sua assenza accrescesse audacia alla folla, la quale, acciecata dall'ira, sdegnata d'essere delusa nelle sue speranze, poteva giungere anche al punto di metter le mani sopra il vescovo di Tagaste; egli se ne stava così irresoluto, stretto nell'angoscia di quella terribile situazione, quando un monaco di nome Barnaba gli venne a dire aver Piniano pensato di giurar davanti al popolo che partirebbe subito dall'Africa se venisse ordinato prete forzatamente, desiderar poi Piniano stesso di conferir con lui, Agostino. Questi lancia uno sguardo a quella folla esasperata, tumultuante, che non s'era quietata neanche alle parole del suo Vescovo e teme che un tale giuramento abbia solo l'effetto di maggiormente infiammarla d'ira. E forse i crescenti clamori diedero lo stesso timore a Piniano, perchè mentre Agostino si moveva verso di lui, egli gli inviò un altro monaco, Timasio, a dirgli che sarebbe disposto anche a giurare di stabilirsi ad Ippona purchè non lo ordinassero sacerdote, e la stessa cosa gli confermò appena potè parlargli; Agostino, contento forse da una parte, preoccupato dall'altra, non rispose e sollecitamente s'avvicinò ad Alipio per avere il suo consiglio, ma questi non volle entrar affatto nella faccenda, forse per timore di mancare verso Albina. «In questo nessuno mi consulti»—rispose egli all'amico suo.

Il Vescovo di Ippona accennò allora a quei suoi bollenti figliuoli che facessero silenzio, e la folla si acquetò a poco a poco in un'aspettativa ansiosa; quando essa potè comprendere qual fosse la proposta di Piniano un mormorìo la corse; non era più il clamore dell'ira, era un commentare, un consultarsi a vicenda, un deliberare; finalmente essa chiese che per lo meno Piniano desse una promessa; che cioè quando si risolvesse a ricevere gli ordini non li riceverebbe che nella Chiesa d'Ippona; ottenuta tale promessa si dichiarò paga, purchè fosse confermata con giuramento; Piniano cominciò a redigerne i termini, ma in questo si mostrò ad Agostino assai perplesso; voleva mettere delle restrizioni come il caso di necessità, di ostile invasione, e Melania desiderava si aggiungesse di infezione dell'aria, ma Agostino non vedeva bene tali restrizioni temendo nuovi furori da parte del popolo; tuttavia lasciò si tentasse la prova di leggere il giuramento così redatto. Quella folla prima tanto clamorosa ascoltava ora nel più profondo silenzio, ma al punto in cui era fatta l'eccezione del caso di necessità, il tumulto, appena sedato, si sollevò di nuovo terribile, talchè il patrizio romano fu costretto a togliere subito dallo scritto quelle parole; quando, accompagnato da sant'Agostino, egli ne diede l'annuncio al popolo, questi rispose: Deo gratias; era infine appagato e richiese ormai soltanto che anche i Vescovi presenti apponessero le loro firme. Agostino, licenziati i catacumeni, stava per mettere la propria, quando Melania lo rattenne, così che egli lasciò la firma a metà, ma il popolo ormai soddisfatto e forse anche stanco di far rumore non insistette.

Dopo una giornata così tempestosa Alipio, Piniano e Melania lasciarono subito la turbolenta Ippona per far ritorno alla tranquillità di Tagaste; gli Ipponesi se ne rammaricarono, quasi fosse violato il giuramento, e non si calmarono se non quando seppero che Piniano s'era allontanato per speciale necessità con animo però di ritornare. A Tagaste li attendeva Albina, che dell'accaduto si dolse assai e se ne querelò alquanto con Agostino; Alipio aggiunse i propri ai lamenti di Albina; queste lettere andarono perdute, ma rimangono le risposte del santo Dottore; addoloratissimo di quei rimproveri al suo popolo, che indirettamente ricadevano anche sopra di lui ed il suo clero, egli cerca di scagionar se stesso e gli altri dimostrando che, non cupidigia di avvantaggiarsi delle ricchezze di Piniano aveva spinto gli Ipponesi a desiderarlo così vivamente nella loro città, ma l'onore che sarebbe venuto alla loro Chiesa dal noverare nel proprio chiericato un uomo di tali meriti. Erano dolci querele tra santi, che terminarono collo stringere vieppiù i legami di loro amicizia.

Pareva tuttavia ad Albina che un giuramento estorto con tanta violenza non dovesse aver valore, e, prima ancora di lei, Alipio aveva esposto un tal dubbio a sant'Agostino. Ma questi rispose ad ambedue senza esitare un istante esser cosa chiarissima che il giuramento di Piniano aveva pieno valore. Egli riduceva però l'obbligo di lui al semplice proposito di abitare in Ippona come gli altri cittadini, libero d'allontanarsene ogni volta gli occorresse, quando fosse coll'animo di ritornarvi. La storia non dice dove Piniano poi abitasse; secondo ogni probabilità egli avrà fissata la sua residenza ad Ippona passando tuttavia vario tempo anche a Tagaste, ove doveva recarsi per la legittima ragione di visitare la sua famiglia colà rimasta.


***

L'incidente d'Ippona era stato disgustoso certo, ma abbastanza comune a quei tempi; la violenza fatta a Piniano, il dolore provato da Albina, il piccolo screzio che ne successe con Agostino non poterono a meno di ferire il cuore di Melania, ma tutti questi inconvenienti, che, compreso il tumulto degli Ipponesi, provenivano da zelo per la Chiesa e da stima per Piniano, certo non dovevano addolorarla come la defezione dalla vera fede di persone statele in qualche modo care. Tra coloro che appartenevano al circolo d'amici, che si stringevano intorno alla famiglia di lei, vi era uno, il cui nome era destinato a divenire più tardi tristemente celebre nella Chiesa: era Pelagio, monaco di origine britannica, che possedeva una certa coltura proveniente dall'Oriente, versatissimo nel greco idioma, ragionatore, ma più pratico che teorico, natura fredda, volontà pertinace. Egli godeva fama di pio e virtuoso; era stato a Roma nei primordi del V secolo, legato in amicizia con Rufino d'Aquileia e con Paolino da Nola e stimatissimo da entrambi come servo da Dio diletto. Stimato pure da sant'Agostino, nel 411 si recò a visitarlo a Cartagine, mentre il Vescovo di Ippona vi era occupato per la causa dei Donatisti.

Presto però cominciarono a sorgere dubbi sulla ortodossia della dottrina di lui; l'anno seguente alla sua visita in Africa Celestio, discepolo suo, veniva condannato dal sinodo di Cartagine, ed anche il maestro cominciò allora a deporre la maschera e a rendere manifeste idee eretiche, con dolore certo non piccolo de' suoi antichi amici.

Questo dolore doveva essere compensato da una grande gioia, che fece esultare le chiese cristiane nel 415. Dall'Oriente veniva la notizia e si spandeva subito destando ovunque vivo entusiasmo che un prete di Gerusalemme, di nome Luciano, aveva avuto una visione, nella quale Gamaliele gli aveva rivelato ove si trovassero le reliquie di Santo Stefano, il primo martire del cristianesimo, che, incontrata fuori delle porte di Gerusalemme la morte gloriosa descritta da San Luca, aveva avuto sepoltura in luogo remoto e rimasto a lungo occulto, probabilmente a cagione della fiera persecuzione scatenatasi tosto contro i cristiani. Ora per la rivelazione del prete Luciano quei sacri resti erano stati trovati a Caphargamala, villaggio a sette ore di cammino a settentrione di Gerusalemme, e provvisoriamente deposti nella chiesa di Sion; mentre questo miracoloso ritrovamento riceveva anche la sanzione della Chiesa. Sant'Agostino ne veniva a conoscenza probabilmente per una lettera di Avito (1) Della relazione di Luciano sullo scoprimento delle reliquie esistono vari testi. I più antichi conosciuti divulgati in Occidente sono due versioni latine identiche fra loro nella sostanza, ma non nei particolari; delle due la più accreditata è quella di Avito, e Sant'Agostino l'ebbe certo per le mani ed è ad essa che allude nel Sermone CCCXVIII. Su questa questione critica il Cardinale Rampolla ha una nota molto interessante (Nota XLV)., prete spagnuolo, il quale, trovandosi a Gerusalemme, chiese direttamente a Luciano la relazione del discoprimento delle reliquie, e, tradottala in latino, la mandò alle chiese d'Occidente; la notizia si propagò subito anche in Africa, alcune reliquie vi furono trasportate; in ogni luogo sorgevano memorie al Santo, il suo culto cresceva a dismisura, prodigiose guarigioni si operavano per la intercessione del glorioso protomartire ed il popolo ne leggeva avidamente la relazione (2) Sant'Agostino: De civitate Dei.. Nel divino uffizio si introdusse la narrazione della invenzione delle reliquie, e, secondo l'uso particolare allora alla sola Chiesa d'Africa, il giorno di Santo Stefano si leggeva la sua passione. Come avrebbe potuto il cuore di Melania così sensibile a quanto toccava il culto di Dio e de'suoi Santi non venir trascinato dalla comune esultanza e dall'entusiamo generale? Ella divenne divotissima del Santo protomartire e nella liturgia de'suoi monasteri introdusse pure la lezione dell'invenzione delle reliquie e quella della passione del Santo nella festa di lui.

Per lo spazio di diciasett'anni Melania edificò l'Africa; ella vi era ormai madre di due famiglie religiose; s'era legata tanto alla chiesa d'Africa che aveva preso molto della sua liturgia, vi godeva l'amicizia dei personaggi più eminenti per dottrina e santità; si sarebbe detto che lì ormai ella si fosse posata per sempre. Ma altri luoghi attiravano il suo cuore; quei luoghi, che sulla terra furono sempre mèta di deside io dei cristiani più ferventi: i luoghi, che il Redentore santificò colla sua vita e colla sua morte.

Lo scopo principale del suo soggiorno in Africa era raggiunto ormai; tutti i suoi immensi possedimenti vi erano venduti; ell'era finalmente riuscita a passare per quel difficile pertugio, che aveva veduto in sogno nei primordi della sua nuova vita; quell'immenso peso delle ricchezze, che tanto aveva gravato sopra di lei, era gittato; ella poteva ormai volare leggera colà dove nella povertà era vissuto Quegli, per amore del quale ella aveva voluto farsi povera; Quegli, che mise in tale onore la povertà da renderla alle anime sante la cosa più appettibile e desiderabile così che nel mondo si produsse un fatto, non mai udito prima, nè mai avveratosi neanche nei secoli seguenti fuori del cristianesimo: che cioè non furono più i poveri ad invidiare i ricchi e ad agognare alle loro ricchezze, ma i ricchi invece invidiarono i poveri come i più simili al loro Signore e non si dettero pace, finchè non si furono ridotti tra i poverelli. Tutta la storia di Melania e di Piniano è un'estrinsicazione sublime di questo spirito del cristianesimo, che, col mettere in onore ciò che dal mondo è tenuto a vile, calmò le ansie del cuore umano, e non solo sciolse in anticipazione tutte le questioni sociali, ma ne rese impossibile la formazione, dove esso veramente informi il modo di pensare e di vivere.

Viaggio a Gerusalemme—Due incontri ad Alessandria —Amicizie di Melania in Terra Santa— L'eresia pelagiana—Geronzio—Malattia di Melania.

La partenza di Melania e della sua famiglia dall'Africa può far sorgere una questione. Come mai potè allontanarsi così Piniano, che s'era legato con giuramento a rimanere ad Ippona? Il suo giuramento dunque non era valido, oppure fu egli spergiuro? Nè l'uno nè l'altra di queste due supposizioni può ammettersi. Non la prima, perchè Agostino asseriva con troppa sicurezza in risposta ad Albina che il giuramento di Piniano era validissimo; non la seconda, perchè la esclude la santità di quei personaggi, ed anche perchè un tale spergiuro avrebbe rotto le cordiali relazioni tra Agostino ed i patrizi romani, mentre esse durarono sempre uguali, anche dopo che questi furono stabiliti a Gerusalemme. Come si spiega dunque? Certo che la questione presenta qualche difficoltà; non è però insolubile. Probabilmente quando i santi romani partirono dall'Africa non era loro intenzione lasciarla per sempre, ma solo per qualche tempo affine di visitare i santi luoghi, ai quali li attraeva la loro pietà, e a questo non s'opponeva il giuramento di Piniano. Ma quei luoghi avevano un fascino particolare per le anime amanti e difficilmente chi poneva il piede su quella terra calcata un giorno dall'Uomo Dio si sentiva poi la forza di staccarsene; essa possedeva degli incanti che vi legavano i suoi visitatori per sempre. Questo sapevano benissimo coloro, che vedevano partire i pellegrini per Terra santa; questo avevano presentito i parenti di santa Paola, quando ella aveva lasciato Roma per l'Oriente e non potevano a meno di presentire ora coloro, che vedevano partire Melania e Piniano. E partenza senza ritorno fu infatti la loro dall'Africa. Il Cardinale Rampolla suppone che gli Ipponesi stessi abbiano resa la sua parola a Piniano; il loro fine principale nel voler avere il patrizio romano ad Ippona era di vederlo consacrato prete nella loro Chiesa, ma la resistenza che nei sette anni del suo soggiorno in Africa egli aveva sempre opposto a lasciarsi ordinare doveva aver fatto perdere loro ogni speranza; inoltre se ai loro desideri più alti si mescolava anche qualche cosa di terreno, la lusinga cioè di poter attirare alla loro città buona parte di quelle immense ricchezze, che vedevano profuse nella chiesa di Tagaste, anche questa attrattiva doveva essere sparita ora che i due santi sposi s'erano spogliati di tutto. Tanto valeva dunque permettere loro di seguire la voce interna, che li attirava altrove, molto più che la partenza dall'Africa poneva fine anche a tutte le possibili gelosie fra Tagaste ed Ippona.

I viaggiatori lasciarono dunque senza incontrare opposizioni Tagaste per Cartagine e da Cartagine passarono ad Alessandria. Quivi si ripetè un fatto, che troviamo di frequente nella vita di Melania; ella da una parte, che vorrebbe celarsi a tutti gli sguardi e rimanere ignorata e confusa colla folla; dall'altra i personaggi più illustri, che la onorano delle migliori accoglienze; ad Alessandria un luminare della Chiesa, il primo dell'orbe cattolico dopo il romano Pontefice, volle averla ospite nella sua casa. Era questi S. Cirillo, che da cinque anni reggeva quel patriarcato, dove aveva passato anche la sua infanzia e la sua giovinezza come nipote del patriarca Teofilo suo predecessore; egli, senza dubbio, aveva conosciuto Melania seniore, che nel 372, 373 aveva visitato i monasteri d'Egitto e riempito di sè quelle contrade colle eroiche sue gesta per i santi confessori della fede sotto la persecuzione di Valente; colla nostra Melania non aveva conoscenza personale, ma le munifiche elemosine di lei erano giunte anche alla Chiesa d'Alessandria. Fu dunque alla discendente di una gran donna, magnanima e santa donna ella stessa, benefattrice insigne del suo patriarcato, che Cirillo fece onore offrendole magnifica ospitalità nel suo episcopio.

Tali omaggi erano resi da uno dei più alti dignitari della Chiesa; accanto ad essi Iddio preparava alla virtù di Melania e dei suoi compagni la testimonianza di un Santo della penitenza e della ritiratezza; si sarebbe detto che alla vigilia della loro entrata in Gerusalemme, ove la loro vita doveva farsi di più in più celeste Iddio volesse mostrar la propria compiacenza per quei suoi eroici servi facendo che ad esaltarli concorressero gli splendori, di cui la santità rifulge nei più alti gradi della gerarchia colle abbiezioni in cui s'inabissa nella vita de'suoi penitenti.

Ogni tanto dai deserti d'Egitto si recava ad Alessandria un uomo di Dio, Nestorio, che aveva il dono di risanare gli infermi e quello della profezia; egli si trovava in quella città appunto nello stesso tempo dei santi patrizi romani, i quali, avidi come erano, di trattare con persone intime di Dio, si mescolarono un giorno nella folla, che traeva sempre numerosissima a Nestorio recandogli ammalati da risanare; la folla li separò gli uni dagli altri, così che primo a giungere davanti al Santo fu Piniano, che contemplava con riverenza i tratti dell'uomo di Dio, il quale fissando su lui i suoi sguardi spirituali, lo scrutò fino in fondo all'anima e, a sua grande sorpresa, gli accennò di scostarsi dagli altri e di mettersi da parte. Poco tempo dopo, confusa anch'ella nella calca, veniva Melania, ed'infine, ancora a qualche distanza, Albina, e sì l'una che l'altra, ravvisate subito da Nestorio, furono da lui invitate a mettersi da un lato con Piniano. Appena la turba se ne fu andata il santo solitario si avvicinò ai tre, parlò loro delle grandi tribolazioni, che avevano dovuto sostenere per Dio, e prese ad ammaestrarli come padre anche per l'avvenire, eccitandoli a rimaner fermi in quella via beata di povertà, additando loro quel gaudio infinito che è al termine delle tribolazioni di quaggiù, e rammentando coll'Apostolo che «i patimenti del tempo presente non hanno a che fare colla gloria futura che ci sarà data».

Così consolati e confortati più ancora assai di quanto avessero sperato, essi se ne ritornarono presso Cirillo, nè si sa quanto tempo rimanessero suoi ospiti. Certo i legami più intimi dovettero formarsi tra quelle anime elette, legami che continuarono fino agli ultimi anni; in loro non solo era comune la pietà, ma anche il vivo amore alla dottrina ortodossa, e vedremo come più tardi nella difesa della fede Melania s'accostasse a Cirillo e mostrasse d'aver bevuto alle sue fonti.

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Per quanto Alessandria li avesse amorevolmente ospitati, per quanto vi avessero trovato conforti spirituali ed anime sorelle nell'amore di Dio, i pellegrini tuttavia non erano lì al termine delle loro brame. Ecco che essi lasciano dunque anche la superba città egiziana e si dirigono alla terra oggetto dei loro voti e dei loro sospiri: Gerusalemme. La città testimonio delle scene pietose e sublimi della Redenzione, la città, sulla quale aveva pianto l'Uomo-Dio, che l'aveva visto nel trionfo degli «osanna» e nell'umiliazione del «crucifige» la città così grande per Colui, che vi era vissuto, così colpevole per il suo deicidio, presentava in quel tempo vive le tracce della terribile punizione avuta per il suo peccato e vivo il testimonio della tenera divozione dei fedeli per le sue memorie. Giustizia e amore sono le due parole ch'essa, allora soprattutto, portava scritte in fronte; terribile giustizia, che l'aveva coperta di ruine al tempo di Tito, ed aveva dato a suoi dintorni un aspetto desolato, ineffabile amore, che sgorga dal sangue di Gesù, di cui quella terra s'è imbevuta; amore, che fin dai primi secoli attrasse a sè il cuore dei fedeli, e li condusse a coprire quel sacro suolo di templi e di monasteri.

Magnifica era la basilica, che la liberalità di Costantino e la pietà di Sant'Elena avevano eretta sul santo Sepolcro, e che racchiudeva nelle sue mura anche il luogo dove era stata piantata la Croce e quello dove era stata ritrovata. La chiesa della Croce di uno splendore meraviglioso era all'estremità orientale della basilica; in capo ad essa un atrio circondato da portici sorgeva nello spazio occupato dal giardino, che divideva il Golgota dal Sepolcro. Quest'atrio conduceva alla chiesa del Sepolcro chiamata anche Anastasia o della Risurrezione, meno vasta di quella della Croce, ma non inferiore in bellezza. Anche sul monte degli Olivi, precisamente nel luogo dal quale Gesù era asceso al Cielo, sant'Elena aveva eretto una chiesa; ed una grande basilica era stata innalzata da Costantino sulla Spelonca, dove, secondo la tradizione, Gesù soleva ritirarsi sovente cogli Apostoli. Intorno a questi santuari tenuti dai cristiani in grande venerazione s'erano moltiplicati monasteri e cellette, nei quali monaci e solitari passavano la vita nella contemplazione dei misteri della Redenzione, e dai quali venivano a salmeggiare nelle basiliche; un monastero di cinquanta vergini aveva quivi fondato anche la seniore Melania.

Con quali sentimenti la nostra Santa e i suoi compagni di viaggio avranno contemplati quei monumenti, testimoni dell'infinito amore di un Dio per la sua creatura e della corrispondenza della creatura all'amore del suo Dio? Melania, che fin da fanciulla aveva portata nel cuore, suo amore sovrano, la Croce del Salvatore, colla sua povertà e la sua abbiezione, con quali lagrime si sarà inginocchiata a baciare lo strumento di nostra salute? Con quale tenera divozione sarà penetrata nel sepolcro dove l'Autor della vita volle che il suo Corpo rimanesse tre giorni nell'immobilità della morte? Come avrà baciata quella pietra, sulla quale quel sacratissimo Corpo era stato posato? Ella non ebbe come santa Paola un Gerolamo, che registrasse i suoi sospiri ed i trasporti della sua fervente pietà, ma noi che siamo venuti studiando quel suo cuore infiammato d'amor di Dio, quel suo cuore così santo e così delicato possiamo immaginare quali dovettero essere gli slanci dell'amor suo e la sua devota tenerezza. I luoghi dove il Salvatore era morto ed era stato sepolto attrassero per i primi la sua pietà; più tardi la vedremo salire l'Oliveto e stabilir la sua dimora presso la chiesa dell'Ascensione; più tardi ella solleverà le pupille al cielo, al quale ascese il suo Signore portandovi l'Umanità glorificata, e dove ai suoi Santi Egli prepara i posti e le corone; per ora ella tiene ancora gli sguardi interamente fisi al Getsemani, al Calvario, al Sepolcro; il suo spirito è affatto occupato dalle scene della Passione, confortate dalla divina Risurrezione; è presso al Sepolcro, accanto alla chiesa dell'Anastasia ch'ella colla madre Albina stabilisce la sua dimora nell'alloggio dei pellegrini, mentre Piniano, secondo il costume di quei tempi, albergava altrove insieme agli uomini.

Sotto i raggi luminosi della Croce e del Sepolcro di Cristo non poteva che accendersi vieppiù la fiamma, di cui ardeva quel cuore da Serafino, e che accrecersi quell'avida brama di povertà e di umiliazione, che l'aveva sempre riemptio. Là, dove Gesù è vissuto povero ed umiliato sembra naturale al cuore cristiano il rifuggire da ogni ricchezza terrena e l'allontanare da sè ogni splendore. Il fasto dell'uomo non può a meno di arrossire e di cercar d'annichilirsi davanti alla povertà del Dio umanato. Per questo sentimento santa Paola aveva rifiutato a Gerusalemme l'ospitalità offertale dal Proconsole romano, per lo stesso sentimento un giorno Goffredo di Buglione ricuserà di portare una corona d'oro, dove il suo Salvatore l'aveva avuta di spine… Ma qual fasto potevano più allontanar da sè quei santi patrizi, che tutto lo splendore dell'illustre famiglia romana avevano ormai da tempo deposto, che avevano disperso tra i poveri il più cospicuo patrimonio dell'impero? Essi possedevano ancora poco oro, ultimo avanzo di quella colossale fortuna, ed anche questo furono solleciti a dare ai poveri della santa città. Ma non bastava lo spogliarsi di tutto; ciò poteva ancora attirar loro qualche applauso, e l'umiliazione della povertà arrischiava di soffrire dagli elogi per l'atto generoso; nessuno doveva sapere da che parte proveniva quell'oro, ed essi lo consegnarono segretamente ai diaconi preposti alla cura dei poveri, dietro alla mano dei quali nascosero la propria.

Gesù, che sulla terra non ebbe pietra dove posare il capo, non poteva ormai disconoscerli da'suoi più stretti seguaci. Da uno dei più alti gradini della scala sociale essi erano volontariamente scesi giù fino all'ultimo per meglio abbracciarsi al loro divino Maestro, e nella terra, testimonio delle umiliazioni di Lui, poveri tra i poveri, pensavano di farsi iscrivere nel ruolo ufficiale dei bisognosi sovvenuti dalla Chiesa di Gerusalemme. Ma dall'abbracciare quest'ultima umiliazione si astennero, forse per la delicatezza di non voler esser d'aggravio altrui, privando altri indigenti di quei soccorsi (1) Il Goyau ammette che i due Santi siano giunti a farsi iscrivere tra i poveri; ma i due testi latino e greco non parlano che del pensiero di far ciò, ed il Card. Rampolla esclude che l'abbiano in realtà fatto. (V. Introduzione § II p. XXXVII.; così dopo aver rinunciato alla parte dei ricchi, rinunciarono anche a quella dei poveri, abbandonandosi interamente a Dio, rimuneratore di coloro, che tutto lasciano per amor suo.

Melania intanto continuava a Gerusalemme la vita penitente e laboriosa, che già era sua delizia in Africa. Ora ella faceva il digiuno della settimana prendendo solo il Sabato e la Domenica il suo povero cibo; l'essere poi qui meno conosciuta che in Africa le dava agio maggiore a quella segregazione totale dalle creature, che formava la sua gioia, perchè la metteva in comunicazione più intima col Creatore. Dalla sua cella ella non usciva che la sera, quando i custodi chiudevano le porte della basilica, dalla quale s'erano ormai ritirati i monaci e le vergini dopo terminate le loro salmodie; in quell'ora in cui più non rimaneva chi vegliasse in preghiera presso le sacre reliquie della nostra Redenzione, ella, vigile sentinella del suo Dio, andava a prostrarsi accanto alle porte della chiesa; rimaneva colà tutta notte, unica voce umana, che continuasse la preghiora e l'adorazione quando tutte le altre erano cessate e solo verso mattino, al sopravvenire di nuove schiere di salmeggianti le lodi divine si ritirava per accordare un poco di riposo alla natura.


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Nella contemplativa tuttavia troviamo sempre anche la studiosa e l'apostola; da quella solitudine, nella quale ogni ora, dice il biografo, era riempita in modo a Dio piacevole, Melania non usciva che per ricevere Vescovi e santi Dottori, i quali la intrattenessero sull'interpretazione delle Sacre Scritture, che anche a Gerusalemme ella continuava a studiare ed a copiare; così ogni giorno s'accresceva quel tesoro di sana dottrina, che era come la miniera inesauribile, ove ella andava a prendere le sublimità della sua contemplazione e l'eroicità delle sue virtù. Per i suoi istitutori aveva tale riverenza quale poteva venirle suggerita dalla fede, che i suoi studî sacri rafforzavano e ravvivavano sempre più; in quei santi uomini ella vedeva solo i rappresentanti di Dio; come a tali moveva loro incontro, e, modestamente salutandoli, si prostrava loro ai piedi chiedendo la benedizione, poi passava a quei gravi trattenimenti, che escludevano ogni altro discorso meno santo, e che erano l'unico oggetto di quei colloquî.

Tra i Dottori, che così s'intrattenevano con lei troviamo quello, che quanto ad interpretazione delle Sacre Scritture era il più celebre di quell'età: san Gerolamo, l'antico maestro di santa Marcella e delle vergini dell'Aventino, il padre e l'amico di santa Paola e di sant'Eustochio. Paola era morta fino dal 404, ma Eustochio aveva raccolto l'eredità della madre sua, e con tutta la sapienza di un'anima, che alla dolcezza del cuore verginale accoppiava la forza attinta agli insegnamenti ed agli esempi della virile Paola, dirigeva i monasteri da quella fondati a Betlemme. Accanto a lei si estolleva un giovane fiore: la figlia di Leta, quella Paolina, che era parente comune di Eustochio e di Melania, sulla cui culla Melania s'era chinata con amore, sulla cui giovinezza ella aveva vegliato. Paolina rivide Melania colla gioia di una figlia che riabbraccia la madre, e le più dolci relazioni s'annodarono tra le vergini di Betlemme e la solitaria di Gerusalemme. Anche in Terra Santa Melania trovava quelle sante amicizie, le quali, lungi dal rompere la solitudine di un'anima dedicata a Dio, la riempiono di colloqui, che sono ancora adorazione e lode all'Amico dei cuori raccolti in Lui, colloqui quali potrebbero susurrarsi tra gli Angeli sempre in adorazione alla divina Presenza. Gerolamo, il rude penitente, l'atleta delle battaglie più terribili per la fede, consolava la sua vecchiaia nella contemplazione di quella soave unione di anime, e, scrivendo a Sant'Agostino, metteva insieme i nomi d Eustochio, di Paolina, di Melania e di Albina.

Così la dolce nipote di quella impetuosa Melania, che con Rufino aveva tanto avversato Gerolamo, dopo avere a Rufino, come all'amico di sua famiglia, chiusi gli occhi, abbelliva ora gli ultimi giorni a Gerolamo, soave anello di congiunzione tra i due antichi avversari, mite riparatrice di altrui torti, che ad Eustochio doveva far dimenticare ciò che i monasteri di Paola avevano sofferto nelle antiche contese, ed a Gerolamo doveva far morir sulle labbra quelle sue allusioni al significato greco del nome Melania, fatto quando non dubitava di dire che la nerezza indicata da quel nome era simbolo delle tenebre, che avvolgevano la seniore Melania. Il Goyau suppone che tra Melania la giovane e Gerolamo non sarà mai stata fatta parola di Rufino; che per intendersi tra vivi essi avranno lasciato quel morto in riposo. Io amo tenermi presente che l'una e l'altro erano Santi, ed amo immaginare che dalle labbra di Melania Gerolamo abbia udito con calma pronunciare quel nome, al quale tanto doveva commuoversi il suo cuore ardente, e che Melania, tenace ne' suoi affetti, ma affezionata soprattutto alla purezza della dottrina cattolica, non abbia esitato ad ascoltare dalla bocca del santo Dottore le sue teorie sull'origenismo ed il lamento per l'amico in causa di quelle dottrine divenutogli avversario.

A rendere più intime e più forti queste sante amicizie venne anche il lavoro comune per la causa di Dio contro una nuova eresia: la Pelagiana, di cui già le prime avvisaglie si erano fatte sentire durante il soggiorno di Melania in Africa. Pelagio si trovava ora in Palestina, dove spargeva i suoi errori, i quali, sotto pretesto di rivendicare la libertà umana, negavano le conseguenze del peccato originale nell'anima e la necessità della grazia.

Mentre Gerolamo ed Eustochio si univano ad Agostino per combattere tale eresia, che il Pap Zosimo condannava nel 418, Melania, Albina e Piniano, approfittando probabilmente dell'antica conscenza con Pelagio, si adoperavano presso di lui per ritarlo dalla via, in cui si era messo; Melania soprattutto poneva ogni zelo in quest'opera, che, salvando un'anima, avrebbe abbattuta la dottrina eretica nel suo capo, e sarebbe così divenuta la salute di molte altre. E un momento parve che tanti sforzi dovessero essere coronati da una conversione: Pelagio si indusse a ritrarre i due punti culminanti della sua eresia, a dichiarare cioè essere la grazia di Cristo necessaria, non pure ad ogni momento ma ad ogni istante, e con le medesime sacramentali parole doversi battezzare non altrimenti gli adulti che gli infanti. Ma è proprio carattere degli eretici l'essere subdoli e versipelli; mai nulla di sincero in questi uomini, che sfuggono da ogni lato, che hanno mille arti, mille infingimenti, che sanno trasformarsi sotto tutti gli aspetti, hanno pronti tranelli d'ogni specie, e, quando sembrano sottomettersi ed abbandonare l'errore, sgusciano meglio di mano e si attaccano ad esso con maggior tenacia. Melania, Piniano ed Albina mandarono le dichiarazioni di Pelagio a quegli, che più di tutti poteva essere giudice competente in materia; dandogli occasione di scrivere quei due preziosi libri De gratia Christi et de peccato originali, che egli dedicò ai suoi amici di Gerusalemme, ai quali rispose molto bene volmente, strappando però in pari tempo la maschera all'eretico. Egli riconosceva infatti che le dichiarazioni di Pelagio, prese come ovviamente avrebbero potuto intendersi, erano conformi alla verità cattolica. Ma al dottore d'Ippona questo non bastava; egli confrontava tali dichiarazioni cogli scritti precedenti del monaco britanno, e coglieva l'eretico proprio nell'ultima cittadella de'suoi inganni, dimostrando che ciò che in sè sarebbe stato ortodosso non lo era più nel senso che, giusta i suoi scritti precedenti, Pelagio vi attribuiva. Il pertinace eresiarca aveva dunque volta a proprio danno anche l'insigne grazia, che gli era stata da Dio concessa nell'amicizia e nel consiglic di una santa come Melania; la superbia sua aveva cozzato colla misericordia divina, e, ripiombando su lui, aveva finito di colpirlo d'irrimediabile cecità; è la storia lamentevole di tutti gli eretici. Ma Dio, che fa tutto volgere al bene di coloro che lo amano, salvava dal tranello dell'eresiarca i santi cristiani, che s'erano adoperati a convertirlo, e concedeva all'opera loro, che non aveva conseguito il frutto desiderato, di conseguirne un altro pure preziosissimo, provocando quegli ammirabili scritti di sant'Agostino, che dovevano rimanere per tutte le età future un codice sicuro della dottrina cattolica sulla grazia, per cui si può dire doversi a due sante donne gli scritti dei più grandi dottori di questo secolo: Paola aveva ispirato Gerolamo e Melania ora inspirava Agostino. «Vi sono persone, aveva scritto Gerolamo, che credono, o Paola ed Eustochio, doversi prender gioco di me, vedendo i vostri nomi in testa alle mie opere. Non sanno esse forse che, mentre Barak tremava, Debora salvava Israele, che Giuditta ed Ester liberarono pure Israele dal supremo pericolo? Passo sotto silenzio Anna ed Elisabetta e le altre sante donne del Vangelo, umili stelle paragonate al grande astro, Maria. Parlerò ora delle donne illustri presso i Gentili? Sarebbero necessari volumi per dire quante donne ammirabili furono nella Grecia e a Roma. Non aggiungerò che una parola: Nostro Signore non comparve egli prima di tutto alle donne dopo la sua Risurrezione? Sì, e gli uomini poterono arrossire allora di non aver cercato ciò che le donne avevano trovato».

I nomi di Paola, di Eustochio, di Melania in testa alle opere di Gerolamo ed Agostino sono l'omaggio migliore all'elevatezza di mente e di sensi nelle sante patrizie, e sono testimonio dell'altezza a cui il cristianesimo elevò la donna e della stima in cui la tenne subito la Chiesa.


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Lo zelo nell'adoperarsi a convertire l'eretico non faceva dimenticare alla donna apostolo il perfezionamento dei buoni; ella avviava allora infatti alla vita monastica un giovane gerosolomitano, il quale fin da fanciullo era sempre stato con lei come appartenesse alla sua famiglia. Geronzio, che un giorno diverrà lo storico della sua benefattrice, era già nel 404 presso di lei; accompagnato a Roma probabilmente dai Vescovi o dai sacerdoti, che Melania dopo la morte del padre ospitava sovente presso di sè, egli l'aveva seguìta in Sicilia ed in Africa addestrandosi sotto la direzione di lei alla vita ascetica; ora poteva contare dai venti ai trent'anni, e Melania e Piniano pensarono a fargli fare professione monastica, facendogliene vestire l'abito. Secondo i costumi d'allora, questo era atto del tutto privato, che ciascuno poteva compiere da sè senza intervento di veruna autorità e senza formalità di rito. I due santi sposi condussero seco il giovane loro protetto nella chiesa del santo Sepolcro recando anche l'abito monacale, deposero questo sulla pietra del Sepolcro del Redentore, e, pregato alquanto per il nuovo oblato, glielo fecero vestire. Melania supplicava sopratutto Iddio, perchè volesse largire al giovane una fede retta. Era suggerita questa preghiera unicamente dallo zelo, che la Santa nutriva in cuore per la purezza della fede? O era sentimento profetico, che quel suo figlio spirituale dopo la morte di lei sarebbe caduto nell'errore, e vi si sarebbe tenacemente ostinato? In mezzo alla gioia di quella consacrazione, il lontano avvenire proiettava forse su di essa qualche cosa della sua ombra, offuscandone la luce radiosa allo sguardo della Santa? In tutti i casi ciò non sarebbe durato che un istante; il giovane monacando, che, educato da una Santa, sotto gli occhi di lei ritirava da quella pietra l'abito sacro, e se ne vestiva per la prima volta, era allora adorno di ogni virtù; la sua protettrice si compiaceva in lui e, più tardi, quando fu ordinato prete, poneva in lui ogni fiducia, affidandogli i più delicati incarichi, fino a lasciargli al momento della morte la cura dei monasteri da lei fondati. Come mai l'avvenire doveva essere così diverso dal principio, tanto da far apparire inesaudita la preghiera stessa di Melania? Misteri dell'anima umana e delle opposizioni ch'ella mette talora alla grazia di Dio!

Contemplazione, penitenza, studio, apostolato; la vita di Melania, come s'era iniziata a Rome e in Africa così si continuava a Gerusalemme; tanto infaticabile ardore nel divino servizio finì per nuocere alla salute della Santa, che ammalò. Si vide allora quanto anche in Gerusalemme la sua altissima virtù fosse ormai conosciuta e stimata; accorrevano all'inferma servi di Dio e vergini; la trovavano distesa sopra piccoli cilici, unico giacglio che le permettessero la sua estrema povertà e la sua sete di penitenza. Una ricca vergine le offrì con grande venerazione un guanciale e con preghiera ed istanze glielo fece accettare; ma solo per compiacenza altrui e non per propria comodità la Santa acconsentì durante quella malattia a posarvi il capo addolorato; la vittima per i peccati del suo tempo non scordava la sua missione nemmeno nell'oppressione del male!

Vendita dei beni di Spagna—Viaggio in Egitto.

L'invasione dei barbari, avvenuta proprio mentre i Valeri stavano alienando le loro proprietà, aveva loro impedito di vendere i beni che possedevano nella Spagna, devastata dagli Svevi, dagli Alani, dai Vandali. Ataulfo, re dei Visigoti, che aveva condotta in moglie Galla Placidia, sorella dell'Imperatore Onorio, stretti alcuni accordi con questi, aveva tentato di riconquistare i regni spagnuoli all'impero occidentale, ma non v'era riuscito, perchè troppo presto ucciso a tradimento da un servo, Singerico, in mano del quale era caduta la vedova Placidia, che ne venne crudelmente seviziata. Morto dopo breve tempo anche Singerico, il successore di lui Valia, rinviò ad Onorio la sorella, e nel 418 concluse con lui la pace, facendo ritornare un po' di ordine e di sicurezza in Spagna. Melania pensò allora subito di approfittare di questo momento di tranquillità per vendere anche i possedimenti spagnuoli, e diede questo incarico ad un suo servo dei più fidati, già reso da lei libero, il quale così bene se ne sbrigò da tornarle presto a Gerusalemme con una considerevole quantità di oro.

Conosciamo ormai quella innamorata della provertà evangelica e sappiamo che a quest'oro non avrebbe toccato che per donarlo altrui; ma questa volta ella non prodigò la sua liberalità solo a Gerusalemme, ed accontentò pittosto le aspirazioni dell'anima sua, che se nella sua accesa carità abbracciava tutti i miserelli, certo inchinava in modo particolare a coloro, che come lei erano saliti a vita più perfetta, e per amore del Salvatore avevano scelto a loro retaggio l'asprezza della penitenza esercitata lungi dal rumore mondano. I suoi sguardi si portarono perciò alle solitudini di Egitto, dalle quali erano partiti i primi esempi di vita ascetica, e che erano popolate da quei santi anacoreti, presso i quali andavano ad inspirarsi le anime più ferventi. In quel breve soggiorno da lei fatto ad Alessandria ella non s'era internata nei deserti, che si stendevano dietro la ricchissima metropoli; eppure quell'aura di santità, che da essi spirava sopra il mondo d'allora non poteva a meno di attirarle il cuore, ed i suoi desideri dovevano essersi accesi ancor più dai racconti che Eustochio certo le aveva fatto del viaggio di sua madre, santa Paola, tra i santi d'Egitto. Questa volta dunque ella non nasconderà la sua mano benefattrice, ma porterà ella stessa l'elemosina a coloro, dai quali non s'aspettava di ricevere elogi vani, bensì esempi di santa vita ed ammaestramenti preziosi agli occhi della sua profonda umiltà. Disse addio perciò ad Albina, pregandola che le facesse intanto costruire sulla vetta dell'Oliveto una cella di rozze tavole, ove al ritorno potesse maggiormente raccogliersi in preghiera; poi, accompagnata dal suo fedele fratello Piniano, prostratasi ancora una volta sul Sepolcro del Redentore, s'avviò per il suo pellegrinaggio presso coloro, che del Redentore seguivano più perfettamente le tracce.

Il biografo non ci descrive l'itinerario del viaggio ch'ella e Piniano compierono in Egitto; il modo del suo racconto ci permette di supporre ch'essi non siano andati ad Alessandria per mare, ma che abbiano attraversata la Palestina ed i deserti della penisola arabica entrando in Egitto dalla penisola del Sian. Il viaggio era faticoso e pieno di pericoli, ma sul cammino dei viaggiatori si succedevano luoghi e paesi, che dovevano parlare un linguaggio dei più attraenti a Melania, così preparata dal suo profondo studio delle Sacre Scritture a gustare i ricordi biblici. In Egitto poi ai amonumenti della meravigliosa storia del popolo di Dio succedevano quelli di un'altra storia meravigliosa di civiltà umana, della quale narravano le sfingi accoccolate in mezzo alle sabbie e gli obelischi e le piramidi slanciantisi al cielo; la colta donna romana abituata a riflettere ed a meditare, e soprattutto a farsi d'ogni cosa umana gradino per salire all'alto, non poteva certo passare indifferente attraverso a quella superba terra egiziana, che aveva ospitati e veduti tramontare gli splendori di quattro delle più famose civiltà del mondo antico: quella dei Faraoni, quella dei Tolomei, quella dei Macedoni col grande Alessandro, e quella di Roma. L'alterno avvicendarsi delle sorti umane doveva apparire una volta di più a quella intelligenza, che fino dai suoi primi anni ne era stata colpita, mentre quel cuore assetato di grandezze imperiture, era impaziente di andare a scoprire sulle rive del Nilo, nei recessi della catena arabica le spelonche, ove i seguaci d'una filosofia ben diversa dalle antiche, ma destinata a sostituirsi a tutte e a non mai perire, si stavano conquistando una corona più fulgida di quella degli imperatori, una gloria senza tramonto.

Chi osservi una carta d'Egitto vede due catene di montagne correre parallele sulle due rive del Nilo fin quasi al punto dove comincia il delta del fiume; qui dividersi ed una catena volgersi ad oriente fino al Sinai ed al mar Rosso, l'altra ad occidente verso il deserto di Libia; era nelle solitudini che si trovavano in mezzo a quelle catene selvagge, nelle valli deserte, nelle spelonche, tra le rocce che si nascondeva la vita silenziosa e penitente di migliaia di anacoreti e di cenobiti. Il nostro secolo guarda con disprezzo a quei deserti, e butta in faccia ai loro santi abitatori il rimprovero di inutilità. Ciò dinota poca fede, ma insieme poca intelligenza nello studio della storia. Non so quale autore abbia detto che i miopi non devono leggere la storia; ora, è una vera miopìa intellettuale il pretendere che tutte le epoche debbano seguire la stessa via e il giudicarle tutte collo stesso criterio. Varie sono le virtù del cristianesimo, e tra queste vi ha pure la penitenza, per quanto la si voglia oggi escludere; ma come gli individui, benchè debbano esercitar tutte le virtù cristiane, non sono chiamati ad arrivar tutti in tutte alla stessa perfezione, e chi più risplende in una e chi nell'altra, così anche le varie epoche storiche hanno varie vocazioni. Sorto appena il cristianesimo, l'umanità doveva rendergli il tributo della sua fede ferma ed incondizionata e glielo rese fino al sangue, ma dopo aver fatto al cospetto del cielo e della terra questo atto solenne e cruento di fede, essa doveva far atto di rinuncia alle delizie di quaggiù, troppo fino allora amate; doveva dimostrare che le speranze eterne della sua religione erano tali da farle calpestare ogni piacere temporale; doveva purificarsi dalle sue sozzure e, attraverso una via di purgazione, andare ad abbracciarsi al suo Dio crocifisso. Siamo al mattino della vita spirituale dell'umanità, e, così in questa come in quella degli individui, l'azione esterna per essere davvero azione santa e benedetta e non risolversi in un agitarsi superbo e vano, doveva essere preceduta da quella di purificazione, di ricerca di Dio, di unione a Lui; ecco che lo spirito di Dio in quest' epoca invece di mescolare i suoi Santi alle numerose popolazioni, fa che volgano ad esse le spalle, e li conduce nella solitudine dei deserti, che si popolano d'angeli in carne umana, votati ad espiare, ad implorare perdono, ad attirare benedizioni divine.

Quest'opera di espiazione e di preghiera, benchè si svolgesse lungi dal consorzio umano, non mancava tuttavia di agire sulla società con una potente attrattiva. Quei popolatori dei deserti, che al mondo avevano volto le spalle, vedevano gli occhi del mondo fisarsi su loro; vedevano sorgere ovunque imitatori delle loro virtù; quei giganti della vita spirituale, che parevano toccare ormai più al cielo che alla terra, predicavano col loro esempio il distacco da piaceri e da ricchezze, che asserviscono l'uomo; quei sepolti nel silenzio di un deserto divenivano, senza averlo potuto prevedere e solo per aver seguito la chiamata di Dio, maestri ed istitutori a popoli affaticati e cadenti nella corruzione, ed a popoli barbari, che stavano per correre su quelli aggravando le piaghe d'un corpo incancrenito con quelle aperte dalla forza brutale; dalle solitudini del deserto un soffio di spiritualità veniva e passava sul mondo, elevando insieme potenti e deboli, vincitori e vinti e spingendoli a confondersi nell'amplesso dell'amore cristiano. Quelle generazioni in ginocchio e colle mani sempre levate al cielo tra le asprezze della penitenza preparavano coi gemiti della preghiera altre future generazioni di monaci dotti, che un giorno faranno meravigliare l'Europa colla loro sapienza, altre generazioni guerriere, che un giorno ancor più lontano correranno in Oriente per redimere il sepolcro di Cristo e salveranno la civiltà cristiana dalla barbarie ottomana, altre generazioni di umili frati, che la loro povertà non celeranno più in un deserto, ma mescoleranno a quella del popolo per alleviarne le sofferenze; altre generazioni di apostoli, che nelle città popolose, nelle scuole, nelle officine, negli ospedali si prodigheranno per curare le piaghe di una società non meno cadente di quella del secolo IV.

Le epoche cristiane si succederanno così l'una all'altra, e ciascuna sotto il soffio inspiratore di Dio darà i propri fiori e i propri frutti, fino a che Egli le chiami tutte intorno a sè per la eterna ricompensa; allora vedremo che agli occhi di Lui non fu meno bella delle altre quell'epoca, che rispose alla sua chiamata offrendosi in olocausto di penitenza, porgendo la mano all'umanità per attirarla dal fango della terra, attraverso i rigori di austerità eccezionali, fino alla contemplazione del cielo, perchè là sempre essa tenesse poi fise le pupille, anche quando il divino Padrone le avrebbe un giorno comandato un altro genere di attività fra i triboli e le spine di quaggiù.

***

In mezzo a quelle popolazioni di penitenti, Melania andava coll'umiltà d'una discepola, che desidera trovare maestri e col sorriso dell'Angelo, che si rallegra di portare dalla parte di Dio qualche sollievo a coloro, la cui vita si consuma per Lui; ma il riuscire a far accettare questo sollievo era la parte più difficile della sua missione, e per questo s'impegnavano tra benefattrice e beneficati lotte certo nuove sulle sponde di quel Nilo, che aveva veduto ben altre contese e tradimenti e sangue per la conquista di un lembo di porpora.

Una di queste lotte ci è minutamente descritta, e colla freschezza di un fioretto di san Francesco, dal biografo latino. I due pellegrini erano entrati nella cella di un sant'uomo di nome Efestione, e poichè si furono inginocchiati accanto a lui ed ebbero fatta con lui alquanta orazione, Melania chiese al pio solitario che volesse degnarsi d'accettare per suo uso un poco d'oro, ch'essi gli offrivano. Il solitario indietreggiò subitamente e rifiutò, dicendo non essergli affatto necessario il denaro, nè valsero preghiere ad indurlo a prenderlo. Melania tuttavia non si diede per vinta, e per riuscire nel suo santo intento si valse questa volta d'una piccola astuzia femminile; chiese ad Efestione di offrire a Dio per loro la preghiera, che sempre i solitari usavano fare per i loro visitatori; ed il sant'uomo si prostrò in orazione. Mentre egli era tutto assorto in Dio, Melania si guardava attorno per vedere se trovasse qualche ripostiglio ove poter nascondere il suo oro. Ahimè! in quella cella squallida non v'erano ripostigli; una stuoia per dormire e in un angolo una piccola sporta con qualche pane ed un vasetto con poco sale; ecco tutte le masserizie. Melania adocchiò il vasetto, e vi nascose lesta il suo oro seppellendolo in mezzo al sale, poi, finita appena l'orazione dell'anacoreta, temendo egli non venisse forse a sospettare dello stratagemma, lo salutò, e con Piniano uscì in fretta, e si allontanò quasi fuggendo.

Se n'erano già andati quando Efestione, ripensando al colloquio avuto con lei e specialmente alle sue istanze perchè accettasse denaro, sospettò di qualche cosa, e, visitando la sua cella, trovò le monete nel vasetto del sale. Egli rincorse i due fuggitivi, ma non riuscì a raggiungerli, finchè, arrivato sulla sponda d'uno dei rami del Nilo, li vide, che già avevano tragittato il fiume. «Vi supplico, gridò loro dietro, perchè lasciarmi nel deserto ciò che non mi è necessario? Chè se voglio possedere qualche cosa mi esporrò al pericolo dei ladri».

E Melania a lui dall'altra riva: «Se ti piace, ebbene dà quel denaro ai poveri; a me basta che il Signore si sia degnato di esaudire il mio desiderio».

Ed egli: «Ma dove andrò, dove troverò dei poveri, che al deserto non vengono mai? Tenetelo dunque voi, e degnatevi voi di darlo ad altri».

A nessun patto Melania e Piniano volevano ripigliarsi il denaro una volta donato, nè poteva il povero Efestione tragittare il fiume per andare a renderlo; egli finì per gittarlo, ed esso cadde nei gorghi dell'acqua.

Ah! oro, oro della terra, che formi l'insaziabile brama della maggior parte dei mortali, che rendi loro gravosi i giorni ed insonni le notti, che sei causa tra loro di discordie e talora di sangue, che li acciechi, li avvilisci, li trascini all'ingiustizia, all'inganno, al sorpruso, al delitto, quanto è bello questo apparire ogni tanto di uomini, che non solo sfuggono ai lacci delle tue attrattive ingannevoli, ma non vogliono neppure l'uso retto di te e ti gettano nell'onde del fiume piuttosto d'aver la tortura di possederti! L'imbarazzo del povero Efestione, che pare sentirsi scottar le mani al tuo contatto, il sorriso di Melania contenta di aver messo il Nilo fra te e lei, quelle onde del fiume che ti accolgono e ti travolgono sono una vendetta dell'umanità sulla tua tirannia; sono tutto un poema di spiriti liberi, che si ribellano totalmente al tuo impero affatto materiale, sono, non certo esempi da imitarsi, ma prediche solenni, ma solenni ammonimenti di distacco da te a tutta un'umanità di te stoltamente cupida.

Attraversato il Nilo i due beati viaggiatori fecero il giro di tutto l'Egitto; e vennero pure ad Alessandria, ove poco tempo prima avevano ricevuto così magnifica ospitalità dal Patriarca Cirillo; la biografia non dice se anche questa volta siano stati accolti da lui; può essere che in quel momento egli non si trovasse neppure nella sua sede patriarcale, poichè non viene nem meno nominato; d'altra parte non pare probabile che Piniano e Melania, che stavano compiendo un pellegrinaggio, si fermassero molto ad Alessandria. Essi vi visitarono uomini di grande merito ed ammirabili per la loro vita; poi s'internarono di nuovo nei deserti e percorsero le valli formate dalla catena della Libia; qui, a quasi uguale distanza da Alessandria e da Memfi, vennero alla montagna chiamata Nitria abitata da moltissimi cenobiti riuniti tutti sotto una regola ed in una vita comune sempre però della maggior austerità, nella quale le giornate si passavano nel silenzio divise tra la preghiera, il lavoro manuale e lo studio dei salmi. Dal deserto di Nitria andarono in quello di Celle popolato invece da anacoreti, le cui celle erano date da caverne e da grotte scavate nella pietra, e che passavano i giorni nell'intera solitudine, ritrovandosi tra loro solo alla Domenica quando scendevano ad ascoltare la Messa nella chiesa di Nitria. Presso questi santi uomini Melania rimase alcuni giorni col suo compagno, avida di apprendere alla loro scuola, ed essi tanto a Nitria come a Celle la ricevevano con grandi atti d'onore e gradivano la sua presenza, cl è in lei scoprivano sensi ben più che di donna; sensi, direi col biografo, affatto virili, se non fossero stati di creatura celeste, che, non appartenendo più alla terra, per ciò stesso si sollevava sulle debolezze e le miserie sì dell'uomo che della donna ed acquistava tale larghezza di vedute e così robusta tempra di carattere da volare come aquila alle più eccelse cime.

Ma lo scopo del viaggio dei due santi sposi era ormai raggiunto; le meraviglie del deserto s'erano rivelate al loro sguardo, i concerti di voci, che dalle grotte inaccessibili e dal seno dei monti s'innalzavano al cielo a cantare le glorie divine, avevano accarezzati i loro orecchi e commossi i loro cuori; essi dovevano ritornare ai luoghi, che le vestigia della dimora di Dio tra gli uomini rendono sacri e santi fra tutti e dove per di più una madre li aspettava ansiosa. Partirono dall'Egitto all'appressarsi dell'inverno, e le intemperie sopravvenute resero più gravoso un viaggio tutt'altro che facile e comodo a quei tempi; ma i due santi viaggiatori avevano in cuore quell'ardore, che fa trovare lieve ogni disagio e dolce ogni fatica, perchè quanto più il corpo ne viene affranto ed abbattuto, tanto più l'anima si sente libera di volare in quelle pure ed alte regioni, dove essa è la sovrana padrona, dove si bea in contemplazioni celesti, dove gode anticipate delizie paradisiache.

La solitaria dell'Oliveto—Morte di Albina—Un nuovo monastero.

Melania tornava a Gerusalemme col cuore inondato da quella gioia, che ai santi viene procurata dallo spettacolo della santità altrui, colla mente ricca di nuovi lumi, degli esempi veduti, degli ammaestramenti ascoltati, coll'anima infiammata da desideri ancor più ardenti di perfezione. Ella portava con sè il ricordo di usi monastici, che introdurrà poi nei suoi monasteri ed alcuni regalucci avuti da santi uomini nel deserto: una cintura di cuoio, un cucullo, sorta di piccolo cappuccio di rozza lana o di cilicio, che copriva la testa, discendendo appena sulla estremità degli omeri: esso non serviva per nessuna esigenza corporale ma solo per la sua significazione morale, perchè, essendo tale indumento usato dai bambini, indicava quella semplicità ed innocenza propria dei pargoli, che deve essere dote di chi professa vita monastica; infine un levitongo, specie di lunga camicia di tela senza maniche in uso presso i monaci della Tebaide.

Questi regalucci venivano spesso scambiati tra quei cristiani tanto austeri nella vita e tanto semplici nei costumi e nei sentimenti: Marcella ne inviava in Palestina a Paola e a Gerolamo, Paolino da Nola ne mandava all'amico suo, Severo; essi erano un attestato col quale si dimostravano reciprocamente la mutua dilezione e quel purissimo affetto di figli di Dio, da cui si sentivano legati davanti a Lui; erano i fiori, di cui abbellivano la loro vita severa, e che sbocciavano naturali da quell'infantile semplicità dei loro cuori, che li rendeva davvero come pargoli. Melania teneva preziosi quei ricordi della santità, che aveva ammirata e che voleva imitare.

Durante la sua assenza la buona Albina, soddisfacendo al desiderio di lei, le aveva fabbricata una piccola cella sul monte degli Olivi; subito dopo la solennità d'Epifania ella andò a rinchiudervisi; là sul monte, dal quale Gesù salì al Cielo, già staccata dalla terra quanto umana creatura può esserlo, affatto segregata, ella si immerse nell'intera contemplazione delle cose celesti fino al giorno di Pasqua. In tutto questo tempo non volle ricevere nè vedere nessuno, eccetto, in alcuni giorni stabiliti, sua madre, il fratello suo Piniano e la giovane vergine Paola ora doppiamente orfana, perchè nel 418 aveva perduto la zia, santa Eustochio, e nel 419 il direttore spirituale di tutta la sua famiglia: san Gerolamo; Melania sola le restava ormai, che continuava ad esserle maestra nelle vie di Dio. Vestita interamente di cilicio secondo i metodi appresi in Egitto, la Santa metteva in pratica la vita anacoretica ammirata nel deserto, e si estasiava nei colloqui intimi col suo Signore, mentre su quell'altare sublime del monte dell'Ascensione offriva la sua carne innocente in olocausto; il digiuno della settimana era da lei rotto il Sabato e la Domenica coll'uso di erbaggi e di pochi legumi crudi o messi in molle nell'acqua, secondo la pratica dei più severi asceti; in Quaresima quel povero pasto era ancora ridotto a solo un poco di pane d'orzo e porro, il vilissimo tra gli erbaggi, infuso nell'acqua tiepida senza condimento di olio. Finalmente nelle solennità Pasquali, tempo di letizia, ella rompeva il digiuno settimanale e si cibava tutti i giorni, senza però mai condire nulla coll'olio, finchè venne da Albina indotta ad usarne nei primi tre giorni della settimana pasquale (1) Il Goyau, seguendo forse il testo greco barberiniano dice che, senza il veto d'Albina, Melania avrebbe probabilmente digiunato anche il giorno di Pasqua; il Card. Rampolla dimostra come sia assurdo l'ammettere che Melania non rispettasse la letizia della solennità pasquale contro l'osservanza generale della Chiesa; Albina non fece che convincerla a condire con olio. Nota XXXI.. Suo letto era cenere e cilicio, nel quale talora a Pasqua, quand'ella usciva dalla sua reclusione, venivano trovati grossi vermi.

Da quattordici anni circa la Palestina ammirava le virtù di lei, quando nel 431 la pia Albina lasciava la terra per volare in seno a Dio. Ella era stata insieme ammiratrice, discepola, ausiliaria di quella sua unica figlia, e la Santa, che, abbracciando ora tra le lagrime le fredde spoglie di lei, pregava Iddio per il riposo dell'anima di sua madre, non poteva non ricordare con tenerezza l'umile generosità con cui ella s'era messa nella via del sacrificio e quel toccante alternarsi in lei di sollecitudine materna rabbrividente all'austerità di eccezionali penitenze col desiderio e collo sforzo di compiacere alla sua figliuola, d'aiutarla a salire quell'asprissimo monte, sui cui gioghi pietrosi pareva volare.

Quando una persona che avemmo carissima, che divise con noi gioie e dolori, alla quale ci lega inoltre il dolce e stretto vincolo della gratitudine, tanto più grande se è figliale, ci si stacca dal fianco per andare alla Patria, allora il cuore addolorato prova vivo, irresistibile il bisogno di fisare lo sguardo su questa beata Patria, alla quale tutti siamo diretti, ove in seno a Dio ci riuniremo tutti; si direbbe che al punto in cui oltrepassano la soglia dal tempo all'eternità i nostri cari tengano nella loro la mano nostra, per cui la loro entrata nella casa del Padre segna un nostro passo verso di essa; i più chini alla terra non possono esimersi allora dal sollevare almeno un istante le pupille in alto, mentre i più innamorati del Cielo vi guardano con maggior intensità ancora di prima. Anche Melania, sempre in tutta la sua vita pensosa del cielo, alla morte di sua madre parve sentire più grande il bisogno di contemplarlo, e per seppellire i resti di lei non scelse Gerusalemme nè il Calvario, luoghi ove Gesù s'addossò i dolori e gli obbrobri, amari frutti della terra, ma li fece portare al monte glorioso tra tutti gli altri, l'Oliveto, ove riusciva tanto più facile il pensare che morire con Gesù vuol dire salire al Cielo con Lui. Lassù quella cerimonia funebre era un cantico di trionfo unito al doloroso canto della morte, era una domanda irresistibile di partecipazione per l'umile ancella ai trionfi del Duce, ch'ella aveva seguito e servito fedelmente in mezzo alle fatiche ed ai patimenti della lotta. Nè Melania volle più scendere di là; presso alla tomba di sua madre, chiusa in una oscura celletta, quella stessa forse che l'amore materno le aveva fatto preparare dodici anni prima, ella rimase nella preghiera, nella penitenza, nelle lagrime, mostrando come sappiano amare e piangere i loro cari coloro che amano Iddio. Per quasi un anno ella versò le sue lagrime e le sue preghiere davanti al Signore e nel segreto della sua cella offerse opere di espiazione. Ma il dolore cristiano non può concentrarsi in sè; esso si effonde all'esterno non in gemiti e lamenti vani, bensì in opere di amore e di redenzione; le lagrime versate ai piedi di Dio sono una pioggia benefica, che feconda il campo degli eletti; il frutto della Passione di Gesù fu la salute dell'umanità; il frutto della passione di coloro che a Lui si stringono deve essere ancora la salute delle anime. Uscendo dal suo ritiro, Melania offriva a Dio per l'anima di sua madre un nuovo serto di gigli; col denaro pare largito da pia persona, faceva costruire sul monte Oliveto presso la chiesa della Spelonca un monastero, e, aiutata dal suo fratello, Piniano, vi radunava circa novanta vergini, candidi fiori riservati unicamente alle delizie di Dio ed a ricreare i suoi Angeli. Melania non volle infatti che nessuno sguardo umano potesse più sfiorarli poi che erano stati posti sull'altare, e a tutto provvide, perchè non avessero mai ad uscire da quell'orto chiuso, dove li aveva radunati; fece scavare nel monastero stesso una cisterna perchè avessero l'acqua, e si offerse ad essere serva delle ancelle di Dio ed a procurare loro tutto il necessario per la vita: «Io, disse loro, in tutto siccome fantesca vi servirò, e niente lascierò mancarvi delle cose necessarie; guardate soltanto a non abboccarvi con uomini».


***

E mantenne la parola. Sarebbe stato naturale, che ella, fondatrice del monastero, fosse altresì eletta a dirigerlo, ma troppo profondamente umile per accettare un tale incarico, fece eleggere un'altra priora, donna di buono spirito e severissima; per sè riservò solo la parte di consolatrice, di istitutrice; ella fu alle vergini che aveva radunate madre, maestra, sorella di una così mite indulgenza da far meraviglia ed ammirazione, quando si pensi alla rigidezza usata verso se stessa. Molto più severa di lei era la priora del nuovo monastero, ma quando avveniva che questa imponesse alle sue soggette qualche privazione troppo dura, una mano pietosa quasi di angelo che si celasse faceva loro trovare o sotto il letto o in un angolo riposto ciò che loro abbisognava; le ammalate e le infermicce erano fatte segno a sollecitudini speciali della mite Melania; ed un giorno il monastero dell'Oliveto s'ebbe che era quasi un'eccezione nei monasteri dell'epoca; un bagno cioè, costrutto col denaro, che Melania stessa aveva chiesto per lettere ad un patrizio di Costantinopoli di nome Lauso, uomo pio e collocato molto in alto a Corte.

Tanta sollecitudine non poteva a meno di guadagnarsi gli animi, che volentieri ricevevano il cibo degli ammaestramenti spirituali da quella dolce mano, dalla quale si sentivano così soavemente sorretti. E pregio della biografia scoperta dal Cardinal Rampolla l'averci conservato un saggio di questi ammaestramenti. La nostra Santa, finora studiata nei suoi sforzi di perfezionamento proprio, ci si rivela nella luce di istitutrice, di fondatrice, di maestra altrui. Le dottrine ascetiche, che l'abbiamo veduta faticosamente ed assiduamente cercare nei libri dei Padri, ci si mostrano come divenute ormai roba sua, di cui ella usa senza incertezze, e che applica con mano sicura; la sua rigidezza con se stessa si trasforma in carità e discrezione per le sue allieve; il suo amore a Dio ed il suo zelo per le anime ispirano l'ammirevole sapienza del dettato, la sua profonda umiltà dà un'incantevole semplicità di linee a quel suo magnifico edificio di perfezione, nel quale ogni virtù ha il posto che le conviene. Prima d'ogni altra cosa questa maestra di vita spirituale trasporta le sue figlie davanti a quella sublime Maestà divina, che nei lunghi anni di meditazione e di ritiro l'anima sua d'asceta non aveva cessato di contemplare e, tenendole in quella Presenza, la cui grandezza trascende tutti i nostri pensieri e non cape nelle limitate intelligenze nostre, additava loro quale riverenza ed attenzione dovessero porre nel tributarle l'omaggio di adorazione e di lode. «Se ai principi terreni tanto s'affaticano i sudditi a rendere onore, diceva ella, con quale interno tremore, con quale esterno atteggiamento di pietà dobbiamo noi presentarci al Re celeste? Egli è Colui, che di nessuno ha bisogno e che sta sopra ad ogni lode, Colui, cui nè gli Angeli, nè gli Arcangeli, nè qualsivoglia celeste Intelligenza può dar gloria degna; quanto meno noi, serve inutili, piccole e misere! Mentre dunque i cori degli Angeli invisibili cantano le grandezze di Lui, dobbiamo noi pure inneggiarlo con tremebonda riverenza pensando che dall'eccelsa sede della Maestà sua, circondato dagli Angeli suoi, Egli contempla il nostro coro».

Da tali altezze ella scendeva alla pratica delle virtù, ponendo come centro di esse quelle due virtù regali, attorno alle quali si svolge tutta la vita cristiana: la carità e l'umiltà; dall'ammirazione, dall'adorazione, dall'annichilimento di sè davanti alla eccelsa divina grandezza bisogna passare all'amore, perchè tutto si faccia per amore, senza del quale, secondo il detto di san Paolo, non vi ha virtù che valga: «Vedete in qual modo dobbiate leggere ogni giorno la Scrittura ed osservare i precetti, perchè se una di voi esercitasse tutte le virtù: astinenza, digiuno, orazione, castità, vigilanza e non avesse carità, a nulla tutto questo le gioverebbe”. E additava alle sue discepole il demonio in atto di imitare le virtù dei servi di Dio. “Forse che il demonio non digiuna? esso che non ha corpo non mangia; forse non è vigilante, esso che non dorme mai? In tutto lo spirito delle tenebre può imitare i figli della luce, non nell'umiltà e nella carità. Coltivate dunque la carità verso Dio e tra voi; abbiate in abbominio la superbia, per la quale il diavolo s'è perduto, e fuggite la gloria di questo secolo che è come fiore di fieno».

Figlie ed ancelle dell'umiltà sono l'obbedienza e la pazienza, altre gemme che dovevano, secondo Melania, scintillare nel diadema delle spose del Re. «Senza obbedienza neppure le cose pubbliche del mondo, diceva ella, possono aver saldezza; giacchè coloro che nel mondo comandano si accondiscendono e ubbidiscono l'un l'altro; perfino chi porta il diadema non può nulla imprendere da sè; e nelle case dei secolari se avrai tolto il massimo dei beni, l'obbedienza, togliesti ogni ordine; e non essendovi ordine la pace pure vacilla”. Ella definiva poi l'obbedienza la prontezza nel fare ciò che non piace per piacere di colui che comanda e nel far violenza a se stessi per cagione di Colui, che disse: “Il regno dei cieli si acquista con la forza e lo rapiscono coloro, che usano violenza».

L'esposizione della dottrina ed i precetti non bastavano; Melania ricorreva all'apologo, che colla vivacità della narrazione rappresentava in pochi tratti scultorii il sommo grado di quella virtù, ch'ella inculcava alle sue figlie. «Un santo aveva un discepolo, al quale voleva insegnare l'obbedienza e la pazienza, e gli disse:—prenditi un flagello e va nel tal luogo e sferza la tale statua.—E quegli, obbediente al comando datogli, andò e fece come gli era stato ordinato. Venne poi di ritorno, e colui che lo aveva mandato lo interrogò:—Che disse o che ti rispose la statua?—E quegli:—Niente, signore.— Di nuovo l'altro lo mandò dicendo:—Va e percuoti ancora la statua.—E di nuovo se n'andò il discepolo e obbedì, e ritornò e di nuovo il suo maestro gli domandò:—Che vi ha figlio? che rispose la statua?—Ed egli disse:—Nulla, signore.—E quegli allora:—Impara, o figlio, che se vuoi andar salvo, devi amare il patire e il sostenere ingiurie, devi esser battuto e non opporre resistenza, precisamente come quella statua”.

L'ingegnoso racconto era in parte originale, in parte imitato da un altro apologo del celebre san Macario d'Egitto, primo fondatore dei monasteri di Scete; il concetto fondamentale è lo stesso; Melania adattando l'apologo alla dottrina, ch'ella voleva commendare alle sue vergini vi pose in luce sopratutto la perfetta calma con cui l'anima paziente ed obbediente sostiene le cose avverse; nell'apologo di san Macario appare maggiormente l'indifferenza dell'anima morta a tutto quanto di lode o di biasimo le possa venire dagli uomini: «Un frate va a Macario d'Egitto e gli domanda: —Abate, dimmi in che modo mi salverò.—Risponde il vecchio:—Va alle tombe, ed avventati contro i morti.—Il fratello va e scaglia sui morti ingiurie e pietre, poi ritorna a riferirne al vecchio, che gli domanda: —E a te non dissero nulla?—E quegli: —Nulla.—E il vecchio:—Ebbene ritorna domani e copri quei morti di lodi.—Ritorna il fratello e li loda chiamandoli: Apostoli, santi, giusti, poi viene al vecchio e dice: «Li lodai». E questi:—E nulla ti risposero?—Ed il fratello:—Nulla.—Al che conclude il vecchio:—Tu sai quante contumelie loro lanciasti, nè ti risposero nulla; e di quante lodi li copristi e nulla pure ti risposero. Nello stesso modo tu se vuoi essere salvo, devi così morire che più non t'importi nè delle ingiurie degli uomini, nè delle loro lodi precisamente come i morti; ecco come potrai essere salvo.—

Queste erano le dottrine ascetiche del monachismo, che Melania aveva bevute e rese proprie non solo nella sua visita ai monasteri d'Egitto, ma anche nella assidua lettura delle Vite dei Padri. Le virtù ch'esse inculcano vennero modernamente chain ate da alcuni con disprezzo virtù passive, eppure, da quando Gesù, percosso brutalmente sopra una guancia, offerse l'altra al suo persecutore, ed abbandonò senza resistenza nè protesta se stesso in mano ai propri crocifissori, queste virtù attraverso tutti i secoli cristiani furono riguardate come il midollo della cristiana perfezione; esse formano il succo della dottrina di quell'aureo libro, che fu frutto della pietà del Medio Evo: l'imitazione di Cristo, come pure di quella di tutti i Santi. Considerate del resto anche dal lato umano queste virtù passive esigono una forza sconosciuta alle convulse suscettibilità di un amor proprio impaziente e insofferente; una forza, la cui bellezza morale fu intravvista anche dall'antichità pagana, la quale, in cerca sempre di un ideale di perfezione, incapace sempre di abbracciarlo intero, tradusse malamente quest'ideale nelle durezze della dottrina stoica, che uccide l'uomo nell'uomo, soffocando in lui, colle debolezze della sua natura, anche gli affetti più nobili. La perfezione cristiana fa morir l'uomo a se stesso, ma nella parte più bassa del suo amor proprio disordinato, e lo rendè tanto più sensibile all'indirizzo datogli dal dito di Dio, tanto più pronto a compiere i voleri di Lui e a realmente sacrificarsi per il bene dei suoi fratelli. Ecco il vero valore per l'individuo e per la società delle spregiate virtù passive.

Istruite così le sue figlie sul lavoro di perfezione che avèvano a fare nell'anima loro, Melania parlava loro della virtù per amor della quale le aveva raccolte, quella che sopra tutte le altre doveva gettare il suo splendore e renderle angeli in terra. «Custodite la santificazione dell'anima e del corpo, diceva loro, senza la quale nessuno vedrà Iddio, e ricordava loro che tanto Iddio amò la verginità, alla quale esse s'erano votate, da volere operare la salute del mondo prendendo carne umana da una vergine. L'immacolato splendore di quei gigli, che nel giardino di Dio s'innalzavano ritti rivolgendo al cielo la candida corolla quasi dimentichi del suolo da cui nascevano e dal cielo soltanto aspettando sorrisi di sole e rugiade dissetanti, era circondato e protetto dalle spine della mortificazione e della penitenza; ma qui la sapiente maestra diveniva d'una discrezione ammirabile e mostrava tutta la sua profonda conoscenza del cuore umano. Ella sapeva che le pratiche esterne di penitenza invogliano spesso le anime principianti, le quali le abbracciano con ardore, trascurando talora l'esercizio delle altre virtù ed abusando delle proprie forze, ed ella, la rigorosissima penitente, diveniva moderatrice piuttosto che stimolatrice delle altre su questa via, e s'accomodava alla fragilità di ciascuna col lasciare le sue figlie libere nella elezione dei digiuni non volendo penitenze fatte per imposizione. «Iddio, diceva ella, conosce l'animo e la salute di ciascuna e se vi ha chi può e non fa è a Dio che ne deve rendere ragione, e non vi è nessuno che possa dire a Dio che soffre di stomaco o in altra parte del corpo quando non sia vero».

Ella ricordava poi la parola dell'Apostolo: «Iddio ama l'ilare donatore». Non penitenze dunque fatte per forza, non doni buttati a Dio quasi per necessità, ma tutto per amore. E perchè questa larghezza non fosse per avventura causa ad alcuna di rilassatezza, ella, mentre con una mano allontanava i rigori forzati, coll'altra additava il cielo, ineffabile premio di chi ha combattuto quaggiù, ove molto si riceve per poco travaglio sostenuto, ed eccitava le sue discepole a disprezzare le cose terrene per conseguire le celesti; esortazione di carattere affatto generale, ma che è come la chiave, che apre la porta a tutte le virtù, a tutti gli atti generosi. Uno dei pericoli che l'esercizio della penitenza trae con sè è la gonfiatura d'orgoglio, e Melania aveva trovato un finissimo ed assai grazioso paragone per togliere questo pericolo; additando la penitenza come la menoma delle virtù, senza in pari tempo escluderne la necessità, ella la rappresentava nel suo linguaggio figurato come i calzari della sposa ornata per il talamo; «come sarebbe sconveniente ad una sposa andare all'altare in neri calzari, ed ella deve ornarsi il piede come il resto del corpo, nello stesso modo non si può lasciare d'ornarsi della virtù di penitenza, ma essa è l'ornamento del piede, l'ultimo e meno importante».

Davanti a un tale paragone, davanti a tali insegnamenti usciti dalle labbra di una, che nell'esercizio della penitenza era giunta a superare i più rigorosi asceti di un'epoca rigidissima e che trattava se stessa con tali asprezze da farci rabbrividire, non possiamo a meno di sostare un istante per domandarci a qual punto dunque fossero giunte in lei le altre virtù, e quale fuoco d'amore dovesse infiammare l'anima di lei, che voleva tutto fosse fatto per amore; non possiamo a meno di chiedere quale doveva dunque essere l'intera veste nuziale di quella, che così splendidi portava i calzari.

Tale era l'insieme dei precetti, che Melania proponeva alle sue figlie spirituali, non mai tuttavia esponendoli come cosa propria, ma attribuendoli sempre colla sua amabile umiltà ai Padri o ai santi uomini, coi quali aveva nella sua vita trattato. A base di questo edifizio di perfezione ella poneva l'inconcussa e retta fede cattolica, che tanto le stava a cuore e che non finiva di raccomandare quale fondamento d'ogni virtù a coloro che amava e che dirigeva; a corona di esso ella disponeva con mano sicura le pratiche liturgiche, per cui da quel ricetto d'anime elette salivano giorno e notte lodi e preci all'Altissimo.

Disciplina della Chiesa e liturgia nel secolo IV.— La liturgia nel monastero di Melania.—Perle raccolte dal fango.

Non è possibile parlare delle osservanze liturgiche nel monastero di Melania senza dar prima uno sguardo alla disciplina ed alla liturgia della Chiesa nel secolo IV. Alcune regole ed alcune usanze vi differivano dalle nostre, altre non erano universalmente stabilite e determinate come lo furono nelle età posteriori e molto veniva lasciato alla iniziativa privata; la biografia della nostra Santa, quale fu trovata e pubblicata dal Cardinale Rampolla, conferma ed illustra parecchie di queste usanze, alle quali altri scrittori avevano accennato. Alcune differenze non si riferivano solo alla salmodia, ma alla stessa Santa Messa, che un solo sacerdote poteva, per esempio, celebrare più volte nello stesso giorno, larghezza da ascriversi forse alla penuria di sacerdoti, cui già accennammo altrove. Anche il prete di Melania, quel Geronzio, che aveva ricevuto da lei l'abito monacale e che la seguiva e l'aiutava in tutte le sue imprese, sovente, massime la domenica celebrava tre volte, una delle quali nel monastero delle vergini. Un'usanza antichissima, venuta e tramandata dai primi tempi del cristianesimo era che i fedeli, i quali facevano la Comunione nella Santa Messa, offerissero all'altare gli elementi della Consacrazione, ossia il pane ed il vino, sotto il nome di oblazione; nelle solenni messe papali si seguiva anzi un rito speciale per raccogliere dalle diverse classi di fedeli le oblazioni per il santo sacrifizio (1) V. Mabillon. Comment. in Ordini roman. VI, 4.. Ma coll'andare del tempo, moltiplicatosi il numero dei fedeli, diminuito anche in molti il fervore, la pia pratica era andata illanguidendo, ed appunto nel secolo IV sant'Agostino credeva doverne muovere rimprovero al suo popolo d'Ippona (2) S. August. Serm. CCXV De tempore.. «Deve arrossire, diceva egli, colui, che, potendo offrire l'oblazione, si comunica con quella offerta da altri». Melania, l'amica del santo Vescovo, che aveva passato quattordici anni non lungi da lui in Africa, non poteva certo andar soggetta alla vergogna da lui biasimata, nè sarebbe stato conforme ai sentimenti di lei il trascurare una pratica così teneramente bella come quella d'offrire gli elementi, che dovevano mutarsi nel Corpo e nel Sangue del suo Signore; ella se la tenne anzi cara e ne fu tenace custode fino agli ultimi giorni di sua vita. Anche nel modo della celebrazione della Santa Messa v'erano nel secolo V usi diversi dai nostri; non era allora ancora prescritto il dire una parte di essa, ossia il canone, segretamente. Antichissimo era l'uso di commemorare nel divin Sacrificio i fedeli viventi, i defunti nella fede e comunione della Chiesa ed i martiri; nelle Messe solenni questi nomi si leggevano ad alta voce dal diacono; talora anche nelle pubbliche adunanze il vescovo faceva la commemorazione dei viventi a suo piacimento; nelle Messe private la recita dei nomi, non ancora bene stabilita per legge, sembra fosse lasciata alla libertà e devozione del celebrante, che li diceva ad alta voce nel Canone. Ciò anzi diede causa ad un episodio della vita della nostra Santa, che mostra una volta di più quanto ella fosse attaccata alla purezza della fede, e come quella sua carità ardente fosse vera carità cristiana e non degenerasse mai in un sentimentalismo, che non s'accorda nè colla fede nè colla ragione. Avvenne che «nei santi luoghi di Cristo», come li chiama il biografo, per cui precisamente non si può dire se sull'Oliveto o in Gerusalemme, vivesse una nobile matrona in voce d'essere eretica, la quale però, simulando la fede che non aveva, si comunicava cogli altri. Ella morì senza essersi ritratta dall'errore. Geronzio, il prete e biografo di Melania, qui narra di se stesso: «In quell'ora tremenda del Santo Sacrifizio era mia consuetudine recitare il nome dei santi martiri affinchè pregassero per me Iddio, ed anche quello dei peccatori, che avevano conseguito misericordia, affinchè per me intercedessero; avvenne che, consacrando la santa oblazione, menzionai tra i dormienti quella matrona; la beatissima Melania allora s'alzò quasi irata: «Viva Iddio, padre», mi disse, «se tu nomini colei, non comunico alla tua oblazione». E poichè io le ebbi data parola che non l'avrei più menzionata, ella ripetè: «Una volta la nominasti, ed io non comunico!».

In tutta la biografia di Melania questa è l'unica volta in cui si accenni ad un moto brusco dell'animo suo; la dolcissima creatura, che non s'era mai rivoltata nelle persecuzioni a lei, non aveva potuto sopportare di sentir nominare un'eretica nella Santa Messa, e s'era subito accesa di sdegno!

La salmodia pure nei secoli IV e V differiva alquanto da oggi; la recita dell'ufficio divino, la preghiera che la Chiesa pone sulle labbra de'suoi sacerdoti, risale fino ai primi tempi, ed è bello pensare che attraverso ai secoli, in mezzo ai traviamenti ed alle aberrazioni di tanta parte d'umanità, dalla terra a determinate ore del giorno e della notte salirono pur sempre al trono di Dio cogli accenti inspirati dei salmi, voci di lode, di ringraziamento, di supplica. Considerato sotto questo aspetto il nostro povero pianeta non ci appare più come la valle di lagrime e di tante brutture, ma come un armonioso istrumento, che nel concerto armonico di tutte le cose create, in quel cantico universale, col quale i cieli narrano la gloria di Dio, ha delle note che gli sono proprie; le note un giorno divinamente inspirate al poeta sacro, che la Chiesa cristiana raccolse con amore dalle labbra della Chiesa ebraica ed insegnò ai suoi figli di generazione in generazione, i quali con amore le ripetono ed in esse trovano un accento per ogni loro aspirazione, per ogni loro dolore; quelle note, che narrano colle glorie di Dio, la storia dell'umanità colle sue angosce, le sue cadute, la sua speranza nel suo Salvatore, così che in esse è l'umanità intera che palpita, l'umanità che canta il suo cantico, formando quella decima corda della divina lode di cui parla sant'Anselmo, componendo coi nove cori degli Angeli il mistico salterio di dieci corde, del quale dice il profeta: Deus, canticum novum cantabo tibi, in psalterio dechacordo psallam tibi.

Le ore tra le quali è distribuita la recita di tutto l'ufficio divino erano quasi uguali nel secolo V come oggi: notturno, laudi, prima, terza, sesta, nona, vespero, col quale veniva chiuso l'ufficio diurno, chè compieta venne aggiunta più tardi; in quelle ore in tutti i monasteri ed anche in molte chiese pubbliche come in quella dell'Anastasi a Gerusalemme schiere di monaci e di vergini cantavano salmi, ora antifonati, ora responsori; i responsori non erano però allora, come furono dopo il secolo V e sono ancora oggi, quei versetti, che precedono i salmi del nostro uffizio; salmo responsorio veniva detto quello, che era cantato da un solo cantore, al quale rispondevano a certi tratti i fedeli riprendendo uno dei versetti o una parte di versetto; invece salmo antifonato era quello cantato alternativamente da due cori; d'origine siriaca era stato da san Giovanni Grisostomo introdotto a Costantinopoli e da sant'Ambrogio nella Chiesa di Milano, dalla quale si diffuse in Occidente.

Finito il canto dei salmi, chi presiedeva alla salmodia faceva leggere alcuni tratti tolti dalla Scrittura o dalla vita dei Padri, detti lezioni; riserbando per sè la lettura dell'ultima lezione.

Quanto poi alla disposizione della salmodia vi era molta diversità nei vari monasteri, essendo per essa lasciata la libertà più grande. Melania aveva stabilito il suo canone, la cui osservanza aveva molto a cuore, tanto che continuamente raccomandava alle sue figlie si ricordassero di non mutarne mai l'ordine; non sappiamo quanti salmi facesse cantare alle ore di terza, sesta, nona, ma il silenzio del biografo ci fa supporre che si fosse attenuta all'uso più comune tra i monaci. Ella aveva soppresso però l'ora di prima ed aveva portato qualche variante nella recita del notturno per riguardo alla complessione di fanciulle, più delicata di quella degli uomini; infatti i monaci di Oriente e particolarmente quelli d'Egitto avevano l'ufficio notturno di dodici salmi; a questo seguivano immediatamente le salmodie del mattino, che si terminavano avanti l'aurora, poi i monaci continuavano la loro veglia fino a giorno, affinchè il sorgere del sole li trovasse desti nello spirito di preghiera. Melania invece ne' suoi monasteri abbreviava l'ufficio della notte. Tre soli salmi responsori venivano cantati in comune seguiti da due lezioni, alle quali nella vigilia dei natalizi dei Martiri, Melania ne aggiungeva altre due, commemorando secondo l'uso della Chiesa africana la passione del Martire, di cui ricorreva la festa. Poi a tutte le vergini era concesso un breve riposo, affinchè potessero sorgere più fresche e più pronte

«Nell'ora che la sposa di Dio surge A mattinar lo sposo perchè l'ami».

Parad. Cant. X

E di nuovo il monastero risonava di sacri cantici, questa volta per un tempo assai più lungo, perchè l'ufficio mattutino si prolungava con quindici salmi antifonati, che, coi tre dell'ufficio notturno, davano i diciotto salmi cantati dai monaci d'Egitto; per cui Melania non aveva tolto nulla alla quantità delle preghiere, solo ne aveva mutato la disposizione per non stancare troppo delle giovani donne.

Ad eccitare queste ad essere pronte alle ore stabilite ella ricorreva secondo il suo solito a motivi tolti dalla Sacra Scrittura, poichè il Libro divino, che era stato il pane principale della sua bella intelligenza, l'inspiratore di tutte le sue azioni, la norma alla quale si conformava la sua angelica vita doveva essere anche il codice familiare ed inspiratore ne' suoi monasteri. Ed a terza ella richiamava alle sue vergini come quello dovesse essere tempo di preghiera, perchè in quell'ora lo Spirito Santo era sceso sugli Apostoli; a sesta mostrava Abramo, che accoglie suoi ospiti gli Angeli; nona diceva essere sacra, perchè in quell'ora i Santi Apostoli Pietro e Giovanni, salendo al tempio, avevano risanato lo zoppo; additava poi il profeta Daniele, uomo a Dio caro, che già fin dai più remoti tempi aveva dato l'ammaestramento piegando tre volte nel giorno le ginocchia alla preghiera; ma non Daniele soltanto, bensì Iddio stesso nel Testamento nuovo le aveva misticamente a ciò esortate, dicendo nella parabola a quali ore il padre di famiglia è uscito ad accordare lavoratori per la sua vigna e cioè a terza, sesta, nona e circa all'ora undecima. L'ora di vespero, oltre che lo scopo di ringraziare Iddio per la giornata passata in pace, portava con sè un dolcissimo ricordo: Gesù, che dopo la risurrezione, associatosi nel cammino a Cleofa e al suo compagno ed invitato a rimaner a cena con loro: «Signore, resta con noi, perchè si fa sera», alla frazione del pane s'era lasciato da loro riconoscere. Ed ecco nella notte la voce del reale Profeta invitarle a sorgere alacremente: «Del nome tuo mi ricordai nella notte, o Signore, e osservai la tua legge».—«Di mezza notte mi alzai a lodarti».

«La Chiesa», diceva la santa fondatrice, «non chiama in queste ore i secolari alla preghiera, ma noi dobbiamo sorgere a lodare Iddio, perchè se ci alziamo solo dopo aver dormito a sazietà, che merito ne abbiamo? In quest'opera dobbiamo farci forza, chè solo i violenti rapiscono il regno dei cieli. Se si affretta il contadino a portare le primizie de' suoi campi al padrone terreno, quanto più dobbiamo noi fare per il Padrone celeste?”. Soprattutto ella esortava alla diligenza nella preghiera i giorni di festa: “Se ogni giorno, diceva, la preghiera è buona cosa, tanto più lo è nel giorno della Risurrezione del Signore, perchè più facilmente nell'esultanza degli Angeli e dei Santi vengono esaudite le nostre orazioni».

Tante esortazioni fatte con una carità così inesauribile e così illuminata erano il buon seme, che cadeva in buon terreno; la Santa si rallegrava nello scorgere i frutti migliori maturare in quelle anime, ch'ella amava. Avveniva talora che, presa da compassione per veder stanche per le veglie ed il lavoro continuo quelle sue figlie, volesse accordar loro qualche riposo, ma esse, commosse della sua carità e discrezione, piene della dottrina di lei, animate dai suoi stessi esempi, erano meno di lei misericordiose verso se stesse. «Se tu, le dicevano, che sei nostra madre e signora, non cessi dal somministrarci quanto ci è necessario al corpo e all'anima, quanto più non dobbiamo noi osservare i precetti di Dio e i tuoi?».

Non sarebbe stato conveniente che figlie così degne della loro madre mancassero del modo di assistere il più sovente possibile ai divini misteri; la Santa, che ricordava gli oratori privati dei monasteri d'Africa, fabbricò anche per le sue vergini un oratorio, dove si radunavano per la salmodia e dove il prete Geronzio celebrava per loro due volte la settimana oltre le feste. Ella arricchì poi questo'oratorio con reliquie dei martiri, ponendovi quelle del profeta Zaccaria, di Santo Stefano protomartire, dei Quaranta martiri di Sebaste e di molti altri. Accanto ai resti di coloro, che per Dio avevano lasciato la vita, dovevano combattere con maggior coraggio quelle, che a Dio l'avevano interamente consacrata.


***

In quel nido di pace e di virtù il cuor della Santa certamente giubilava; giovinetta, ella l'aveva visto da lungi il campo ove i gigli fioriscono, ove aveva agognato d'esser ella stessa trapiantata; ora era dato a lei il coltivarlo, il farvi crescere i fiori più delicatamente belli, e l'anima sua assetata di verginale purezza si estasiava a quel profumo. Ma la donna apostolo dal cuore ardente di carità non poteva dimenticare che, se vi sono sulla terra case benedette, asili d'innocenza immacolata, vi hanno pure turpi case, ove si raduna il fango più lurido, nel quale s'avvolgono e s'abbrutiscono anime fatte anch'esse ad immagine di Dio, che pure erano destinate ad essere tempio dello Spirito Santo e ad aspirare ad una felicità immortale. E forse tra quelle anime ve ne sono, che non hanno cercato quel fango, che vi furono trascinate dalla malvagità umana, che ne hanno sentita tutta la nausea, ed ora, insieme lo aborriscono e lo subiscono, ma hanno smarrito in quel luridume il senso della purezza primitiva, e non sanno nemmeno più desiderarla! Povere perle, che potrebbero ancora rinfrangere il puro raggio solare, se una mano pietosa le togl'esse da quel lezzo, dal quale non sanno sollevarsi da sole! Melania a quelle tristi colombe dalle ali insozzate, legate prigioniere nel fango, faceva coll'ardore di sua carità rinascere il desiderio delle ali candide, degli alti voli nell'aria pura; nè era paga per loro di quell'onestà naturale, che un pagano potrebbe pure desiderare, e della quale troppi s'accontentano anche oggidì; ella portava alle infelici quella purezza, che il cristianesimo insegnò alla terra, e di essa le innamorava. Quelle anime, redente dal Sangue di un Uomo Dio, solo in quel Sangue divino potevano trovare un salutare lavacro, che ridonasse loro la bellezza perduta; ai piedi di Gesù ella conduceva le nuove Maddalene; ai piedi di Gesù, che solo può dire: «i tuoi peccati ti sono rimessi»; e «va in pace, non voler più peccare!» che solo può con una parola, distruggere un passato di abbominevole vergogna e donare un avvenire affatto nuovo, un avvenire di pace, di amore, perfino di santità; perchè quelle sue parole «non voler più peccare» a chi le raccoglie dalle labbra sue sono insieme precetto e forza a compierlo, danno l'orrore della colpa e infondono la letizia della castità; perchè quelle sue parole: «va in pace» non sono un ordine o un voto, ma un dono; perchè le sue parole onnipotenti creano nuovi cieli e schiudono nuovi orizzonti per l'anima, cui si rivolgono! E quando quelle parole divine avevano fatto rialzare la corolla ai fiori poco dianzi gualciti e guasti ed avevano loro donato nuovo splendore e nuove fragranze, la pia loro soccorritrice se li raccoglieva sul cuore e li trasportava nell'orto chiuso, ove non venisse più a sfiorarli l'alito di un mondo, che li aveva un giorno insozzati, ove avessero per l'avvenire ad estollersi solo davanti al Dio, che li aveva rigenerati, ove accanto ai gigli immacolati, ignari di corruzione, che scioglievano il lieto inno dell'innocenza incontaminata, cantassero quello più grave, ma non meno atto a commuovere del pentimento riconoscente.

Morte di Piniano.—Fondazione di un monastero d'uomini.

Non era ancora interamente trascorso un anno da quando Albina s'era addormentata nella pace del Signore, che già Piniano la seguiva negli splendori della Patria; l'ultimo atto che si racconti della vita di lui è l'aiuto prestato alla sua santa compagna nel raccogliere le novanta vergini del monastero dell'Oliveto; egli aveva ancora una volta stesa la mano a colei, dalla cui piccola mano di donna era stato avviato e sorretto in una via di altissima perfezione, poi se ne era andato giulivo a ricevere la corona così bene meritata, la corona che doveva, dopo che a Dio, all'eroismo ed al casto affetto della giovinetta patrizia, destinatagli un giorno in isposa da un'ambizione cieca nelle sue previsioni, delusa ne' suoi provvedimenti. Ed ella, che lo aveva accompagnato fin sulla soglia della Patria, ella doveva ancora rimanersene qui a sospirarla! Albina e Piniano se ne erano andati; i due esseri, ai quali l'univano i vincoli più intimi; quelli, cui ella aveva prestato soggezione di figlia e di sposa, sollecitudini e cure di madre spirituale; le due anime attirate dal suo esempio all'eroismo della virtù, formate da lei, da lei infiammate di amore superno, s'erano staccate dal suo fianco, erano andate a bere alla fonte di quell'Amore, ed ella, che vi aveva sempre sospirato, ella, che ne aveva acceso la brama nelle anime altrui, ella rimaneva ancora sulla terra! Se si pensa in qual modo i vincoli spirituali leghino tra loro le anime, così che una si fonde nell'altra e vivono di una stessa vita, condividendo dolori, sacrifici, aspirazioni, bruciando dello stesso incendio d'amore, la cui fiamma si lancia in alto fino a Dio, se si pensi di qual forza siano questi vincoli, che arrivano a far apparire deboli al confronto i legami naturali, ai quali si sono sovrapposti, si può capire quale strazio avvenga quando la morte separa anime così unite, e ne trasporta alcune nella Patria, lasciando le altre quaggiù; la ferita nelle povere anime rimaste è allora incommensurabile, l'amarezza dell'esiglio, reso ancor più squallido da quelle dipartite, eccede ogni descrizione; il sospiro alla Patria, desiderata sempre, ma dove ora hanno appena veduto entrare anime sorelle, diventa un fuoco che consuma. Lagrime di questo genere lasciarono le loro tracce in bellissime pagine scritte da Santi appunto di quest'epoca: Ambrogio che piange la sorella santa Marcellina; Agostino, che piange la madre sua e l'amico Alipio; Gerolamo, che piange santa Paola; in quelle pagine è il cuore umano reso più sensibile, più delicato dalla santità, dalla purezza degli affetti, isolato come tra cielo e terra dall'assoluto distacco dalle cose di quaggiù, che si mostra infranto ed immerso in un mare di dolore.

Ma se difficilmente si trovano dolori pari a quelli di questi cuori santi, difficilmente pure si trovano consolazioni pari a quelle che essi ricevono; non dalla terra, che ormai non sanno più guardare nè gustare può salire consolazione fino a loro, ma dal Cielo verso il quale questi cuori sono sempre aperti, essa piove su loro come soave rugiada; poichè non è un muro ciclopico, che li separa dalla Patria, ma un sottilis simo velo, attraverso cui i loro sguardi, sempre in tenti lassù, scorgono quasi un barlume della luce che avvolge le anime beate; un velo, attraverso il quale può giungere fino a loro qualche eco, sempre inebbriante per quanto lontana, dei concenti soavissimi, che lassù risuonano. Dalla sorgente d'acqua viva, che lassù sgorga perenne, un'onda abbondante cade su loro; è allora un mare di consolazione, che si mescola al mare di dolore; il martirio continua, ma l'anima ha imparato ad esultare in esso; il calice amaro è sempre alle labbra, ma Dio, amoroso coi suoi, vi fece cadere dentro stilla di tale liquore, che le labbra non sanno più staccarsene. Allora la povera anima ancora esule sente che il vincolo che le fu sì caro non è spezzato nè rallentato, ma si è solo trasformato; perdendo tutto in dolcezza sensibile, esso tutto acquistò in ardore di carità, e, trasportandosi dalla terra nel seno stesso di Dio, divenne perfetto di quella perfezione, che a quella Fonte divina si beve; allora l'anima, purificata anch'essa dal dolore, sublimando anch'essa l'amor suo quanto lo si può sublimar quaggiù collo spogliarlo d'ogni egoismo, arriva, obliosa di sè, a rallegrarsi della beatitudine dell' anima sorella e ad esultarne come ne godesse ella pure; «Ei non accosta più alle mie labbra l'orecchio» esclama Agostino dell'amico suo, «ma la sua bocca a Voi, mio Dio, sorgente di vita, e per sempre beato si disseta a bell' agio secondo l'immensità delle sue brame. E con tutto ciò non temo che là s'inebri tanto da dimenticar me, poichè beve di voi, mio Dio, che non mai mi dimenticate».

Per questo noi vediamo che i colpi della sventura hanno effetto vario sulle anime; le mondane se ne vogliono distrarre in piaceri rumorosi, in gioie di terra; le anime elette li accolgono con un moto di raccoglimento in se stesse, di ritiro nella solitudine; la terra diviene sempre più loro estranea e i suoi piaceri si fanno loro più fastidiosi; esse si inabissano nel seno di Dio, il soggiorno dei Santi, là ove trovano tutto quanto hanno perduto; il mondo, che non le conosce, le compatisce, le crede tristi, ma il mondo è sopratutto… ignorante e sciocco! Se fosse capace di sollevare solo un poco il velo in cui quelle anime s'avvolgono, vedrebbe tal lembo di cielo azzurro sorridere sul loro capo, tale soave balsamo lenire le loro piaghe, che non potrebbe a meno di stupire e di dolersi nello scorgere quale abisso corra tra il nettare, di cui si deliziano quelle anime sante, e la vile bevanda colla quale esso tenta d' addormentare l'aspro soffrire di coloro, che a lui s'affidano.

Come dopo la morte di sua madre, così dopo quella di Piniano, Melania si raccolse nella preghiera e nella penitenza. Abbiamo veduto come la pietà di Elena e di Costantino avesse fatto sorgere sull' Oliveto due magnifiche chiese: quella dell'Ascensione e quella della Spelonca. Accanto a quest' ultima Melania, prima ancora della morte di Piniano, aveva fatto edificare una chiesuola, che per essere affatto prossima al luogo dove Gesù aveva parlato agli Apostoli intorno alla fine del mondo, si chiamò apostoleo; quivi ella aveva trasportato il corpo di sua madre e quivi pose anche quello di Piniano, ed ella stessa venne ad abitare, probabilmente in qualche stanzuccia attigua alla chiesetta. Eccola dunque pia custode delle spoglie mortali dei suoi più cari congiunti; eccola consumarsi sulla loro tomba come face viva nella preghiera e nell'oblazione di sè. Preghiere e penitenze questi erano i pegni d' amore, che ogni giorno ella deponeva su quei sepolcri; erano i fiori, di cui li copriva a profusione; in quest' attitudine pietosa di ostia espiatrice sulla pietra sepolcrale de' suoi cari, ella appare come la personificazione dell' amore e del dolore cristiano. Felici coloro, che lasciano dietro a sè tali superstiti, che sono pianti da tali lagrime, le cui spoglie mortali non conoscono il pondo di un superbo mausoleo, ma il pio inginocchiarsi di una persona cara a Dio, di una santa!


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E questa Santa, che accompagnava anche oltre tomba le due anime a lei care, e fin là faceva loro sentire i benefici effetti della santità sua, credeva ella che alle sue lagrime rispondessero i loro sorrisi? che esse potessero ancora conoscere ciò ch'ella faceva sulla terra? Che sentimento aveva ella sulle comunicazioni che possono esistere tra le anime dei viventi e quelle dei trapassati? La domanda non è oziosa, chè davanti alla morte il nostro cuore ansioso si chiede subito se i defunti possano occuparsi ancora di noi, se nella beatitudine eterna essi conservino quei dolci nomi di madre, di sposa, di fratello, di amico, e cerca la risposta dell' ardua questione in cielo e sulla terra, nei libri dei Santi e dei teologi e nelle proprie fibre più intime, dove trova un sì, che vorrebbe gli venisse confermato; perchè neanche la felicità di coloro che ha amato lo renderebbe pago, se in questa licità essi lo dimenticassero.

Ai tempi della nostra Santa il mondo cristiano era pieno di racconti di apparizioni di Santi e di defunti ed era generale il sentimento di una inespicabile e misteriosa comunicazione delle anime separate dai corpi, soprattutto delle anime beate, coi viventi sulla terra; tale sentimento parla ancora da ogni pietra e da ogni pittura delle Catacombe fino dall'origine del Cristianesimo.

Questo quanto al campo pratico, ma quanto a quello teoretico, ove i dottori diffondevano la loro luce, poco s'era ancor detto di tale argomento. Sant'Agostino ne aveva scritto verso il 415 e di nuovo più tardi verso il 421, ma come di soggetto assai arduo, astruso e superiore alla forza della sua intelligenza, e, nonostante quelle belle parole riportate più sopra sulla morte di Alipio, aveva emesso una sentenza piuttosto timida e restrittiva, limitando sotto vari rispetti la conoscenza che delle cose terrene possono avere le anime nello stato di separazione dal corpo, ammettendo che essa non sia conoscenza naturale, nè diretta, sì bene conoscenza mediata, sia per mezzo di altre anime di defunti posteriormente, sia per mezzo degli angeli, sia mediante rivelazione fatta dallo stesso Iddio nella misura provvidenziale di ciò che convenga loro sapere degli eventi umani; quanto all'intervento dei Santi nelle cose umane, dice egli doversi questo alla virtù divina (1) St Agostino. De cura pro mortuis gerenda., non a naturale facoltà dei defunti. Origene era stato più largo ed aveva affermato che gli angeli e le anime partecipi dell'amicizia di Dio conoscono coloro che sono degni della benevolenza divina; e non solo si mostrano loro benevoli, ma aiutano altresì quelli che vogliono prestar culto al sommo Iddio «(2) Orig. Contra Celsum. VIII 64.. Eusebio, san Giovanni Grisostomo, san Basilio, san Gregorio Nazianzeno inclinano tutti allo stesso modo di sentire ed ammettono la corrispondenza e l'interessamento degli spiriti beati riguardo agli uomini dimoranti in terra; così i Padri della Chiesa occidentale. Sant' Ilario di Poitiers e sant' Ambrogio paragonano alla custodia che hanno gli angeli degli uomini quella che ne hanno i santi. San Gerolamo, consolando santa Paola per la morte della figlia Blesilla, rappresenta l'anima della defunta, che non solo prega per la genitrice e per lui Gerolamo, ma che rimprovera eziandio l'eccessivo cordoglio e le lagrime a cagione della sua dipartita. San Massimo, san Pier Crisologo, san Leone Magno ammettono pure, in modo però indiretto, lo scambievole commercio delle anime giuste coi viventi della terra; questa dottrina dunque era, quanto al concetto, comune alla Chiesa sì d'Occidente che d'Oriente; restava nondimeno alquanto indeterminata e vaga sia riguardo all'estensione sia riguardo al modo di considerarla. Melania per rispetto ad essa si pose nettamente dalla parte più larga; si scostò da sant'Agostino per avvicinarsi a san Gerolamo ed ai Padri orientali, e la vigilia della sua morte l' udremo esplicitamente esporre questa sua credenza che «coloro che si dipartono da questo mondo conoscono ogni cosa che qui si fa» Questa sua affermazione è la più esplicita e netta che si abbia nella tradizione ecclesiastica sino alla prima metà del V secolo.

Nei secoli posteriori san Gregorio Magno e san Giuliano di Toledo tenderanno ancora ad allargare la sentenza di sant'Agostino e ad essi terranno dietro i teologi del Medio Evo ed i tomisti, che col Suarez ammetteranno avere le anime beate fra le cose che accadono qua in terra speciale conoscenza di quelle, che erano state alle loro cure commesse, e per le quali si può ritenere aver esse anche dopo morte particolare interessamento e sollecitudine, ed il Suarez ammetterà che queste cose le anime sante possono come gli angeli conoscerle in certa guisa anche fuori del Verbo divino; investigando poi i dubbi di alcuni Padri segnatamente di sant'Agostino, riterrà che essi più dubitarono della facoltà naturale nei beati di conoscere i fatti degli uomini che della conoscenza che possono averne per vie soprannaturali. Intanto però dal tempo stesso di sant'Agostino una Santa, quella che, prostrandosi in preghiera su due tombe care, ci insegna come debbano essere le nostre lagrime, calma pure l'ansia dei nostri cuori, e senza esitazioni nè restrizioni ci asserisce che ella crede d' essere veduta, seguita, assistita da coloro per i quali prega; ella ci mostra l'atteggiamento che dobbiamo avere noi verso i nostri defunti, ma ci consola appieno additandoci anche quello che essi hanno verso di noi; è una voce confortatrice che viene a noi fino dal V secolo; e non voce vaga, incerta o afflevolita dal tempo, ma chiara, sicura, netta, confermata dalle sentenze di teologi posteriori; sorretta e circondata dalle opinioni sottintese, oppure più o meno chiaramente esposte dei dottori dell' età sua; voce di donna, perchè pare che quando si tratti di far cadere una stilla di balsamo sulle piaghe del cuore Iddio voglia sempre lasciare alla donna il primo posto; di tal donna tuttavia, che, oltre ad avere anima elettissima ed intimamente unita a Dio, era pure delle più colte de' suoi tempi nelle cose attinenti alla religione, perchè versatissima nelle Sacre Scritture e nelle dottrine dei Padri greci e latini; delle più attaccate alla purezza della dottrina cattolica, che anteponeva a tutto; di donna dunque, che certamente non parlava mai per un sentimento puramente personale, per quanto pio e delicato, la quale inoltre aveva famigliari le opinioni di sant'Agostino, non solo per averne letti gli scritti, ma per aver anche più volte con lui conversato; che dunque non poteva ignorare l' opinione restrittiva e incerta di lui in questo argomento. Eppure questa donna, che tanto venerava il santo Dottore ed era da lui tenuta in sì gran conto, in tale incertezza non lo seguì, ed ai suoi dubbi, a quella libertà d' opinamento ch' egli lasciava a tutti in tale materia rispondeva colla sicurezza attinta forse da quelle sue continue conversazioni in cielo: «Color che si dipartono da questo mondo conoscono ogni cosa che qui si fa». Se io sapessi dipingere, è in questo loro atteggiamento riguardo alla grande questione che vorrei rappresentare i due Santi personaggi; il Vescovo e Dottore della Chiesa dalla vasta intelligenza, dai profondi studi perplesso ed incerto, e davanti a lui la donna umile e sorridente che gli mostra con sicurezza ciò che a lei, più ancora della sua profonda coltura, insegnò Colui, che si compiace spesso di rivelare i suoi segreti ai più piccoli.

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Per lo spazio di tre o quattro anni la santa custode di due tombe rimase nell' apostoleo, dividendo il suo tempo tra la preghiera e le cure al monastero delle sue vergini poco lungi. Intanto però una spina e un desiderio le pungevano il cuore; ella vedeva quei due magnifici santuari dell'Ascensione e della Spelonca affatto negletti nel culto malgrado le grandi memorie per le quali erano sorti; mancavano infatti di clero proprio, e, dovendo dipendere da quello di Gerusalemme, venivano alquanto trascurati nè avevano la diurna e notturna salmodia, che echeggiava sotto le volte dell'Anastasi. Melania, dai progetti sempre vasti quando si trattava di gloria di Dio, pensava ad erigere presso i due santuari un monastero d' uomini, tanto più che ai desideri per lo splendore del culto s' univano in questo progetto anche i suggerimenti del suo cuore di figlia e di sposa, poichè ai monaci che avrebbe chiamato lassù, ella avrebbe affidato pure di suffragare nel vicino apostoleo i suoi cari defunti. Pareva tuttavia che questi suoi voti avessero a rimanere insoddisfatti; la sua povertà era estrema, ed uomini, che certo non possedevano la sua grande fede, ma che probabilmente avevano su lei qualche autorità, la dissuadevano dal principiare un edificio, che sarebbe poi stata costretta a lasciare incompiuto. La Santa obbediva, e senza dubbio non mai come in questa contingenza ella era stata sensibile ai rigori della povertà, abbracciata per amore di Dio. Ma non promise forse questo Iddio, pieno di generosità coi suoi, ch'Egli darà il centuplo di ciò cui fu rinunciato per Lui? E poteva Egli lasciare in una tale afflizione la sua serva, che per Lui non aveva contato i sacrifici? Poteva non compiacer quella, che in ogni cosa s' era studiata di compiacerlo? Un giorno un buon cristiano venne a deporre nelle mani di Melania una somma cospicua; era il regalo di Dio; la Santa tutta lieta fa venir subito Geronzio, e, consegnandogli la somma: «Chiama presto operai», gli dice, «raduna le pietre e fa subito dar principio al monastero degli uomini, affinchè mentre vivo tuttora in carne possa vedere la chiesa assiduamente officiata e le ossa del mio fratello e signore e della madre mia refrigerate dalle preghiere dei servi di Dio». Non era trascorso un anno e sull'Oliveto presso la chiesa dell'Ascensione era sorto il nuovo monastero d'uomini così grande e mirabilmente edificato che coloro che lo vedevano ne restavano meravigliati e dovevano confessare manifesta in quest' opera la mano della Provvidenza divina. Ben presto quella casa si riempì di santi monaci; le due chiese dell'Ascensione e della Spelonca videro lo splendore del culto divino e risuonarono dei sacri cantici e le tombe di Piniano e d'Albina s' ebbero nuove preghiere e copia di suffragi, mentre l'umile Melania giubilava in cuor suo e s'effondeva in ringraziamenti a quel Dio, che così apertamente l'aveva favorita, «il quale», dice il biografo. «era sempre con lei in ogni cosa sua».

Una lettera di Volusiano—Viaggio a Costantinopoli —La corte d' Oriente.

Non molto tempo tuttavia potè la santa matrona tranquillamente godere di quella vita di ritiro e di preghiera, in mezzo alle opere create come per incanto dalla sua carità; mentre più ne gustava la dolce pace, Iddio con un avvenimento imprevisto la toglieva di là per renderla altrove strumento di sue misericordie.

Sul cadere del 436 le giungevano da Costantinopoli lettere, che profondamente la commovevano.

Erano di Volusiano, antica conoscenza nostra, ma che abbiamo perduto di vista, come tutta quella numerosissima parentela, che la nostra Santa lasciò in Italia. Egli ci fa risalire col pensiero ai parenti della madre di Melania; gli Albini Ceoni, quella famiglia che per tanto tempo aveva offerto in Roma lo spettacolo di un contrasto grande anche in quell' epoca di contrasti; da una parte nella discendenza dei Claudi e dei Furi ed in quella di Albina Valeria e di Leta non solo la professione del cristianesimo, ma la sanitità più sfolgorante, dall'altra nei due uomini principali della famiglia: il vecchio pontefice Albino e Volusiano, l' ostinazione nel gentilesimo. Il contrasto non sfuggiva all'occhio di san Gerolamo, che s'era rallegrato al contemplare la figlia di Leta, la fanciulletta Paola, già consacrata vergine del Signore, balbettare l' alleluia di Cristo sulle ginocchia dell'avolo pagano, ed aveva preconizzato come candidato alla fede quegli, che era circondato da tali nipoti. Quanto ad Albino però la storia non ci dice più nulla di lui, e se il cuore ci invita a ritenere che le speranze di san Gerolamo sul vecchio pontefice non siano andate fallite, nulla di sicuro abbiamo in mano in proposito (1) Il Lagrange nella vita di Sta Paola narra come sicura la conversione di Albino, ma anch'egli non s'appoggia a nessun documento all'infuori delle parole di speranza di S. Gerolamo.; in ogni caso il figlio Volusiano non lo avrebbe seguito nella conversione; invano attorno a lui s' erano affaticati la madre sua, buoni amici e Sant'Agostino stesso; egli sentiva potentemente scorrere nelle sue vene il sangue della sacerdotessa d'Iside e del pontefice di Vesta, e, malgrado nulla avesse da opporre al cristianesimo, non sapeva staccarsi da quegli idoli, il cui culto tanti onori aveva fruttato alla sua famiglia, nè aveva mai saputo sottrarsi alla pressione degli amici pagani, che s'ostinavano a credere il paganesimo inseparabile dalla grandezza di quella povera Roma ormai scoronata; S. Agostino gli scriveva a questo proposito un giorno: «Io so che l' eccellenza tua soffre ostinatissime contraddizioni da coloro che credono o vogliono credere non convenire la dottrina cristiana alla cosa pubblica, perchè essi non vogliono che il vantaggio pubblico stia nella stabilità della virtù, bensi nell'immunità dai vizi». Ma bisogna dire che sul cuore di Volusiano le parole di Agostino non arrivassero ad aver peso maggiore di quelle contraddizioni alle quali s'opponevano, o forse anche qui il Signore negava agli sforzi del santo Vescovo quella conquista, che voleva concedere come un regalo ad una santa donna; il fatto è che Volusiano non s'era mai arreso, e sua madre era scesa nel sepolcro senza portarvi la gioia di quella conversione. Egli era tuttavia rimasto uomo probo, stimato ed amato da tutti, era salito alle più alte cariche dell'impero, aveva tenuto la prefettura di Roma, ed ora veniva alla Corte d' Oriente come inviato da quella d' Occidente per delicatissimo messaggio.

Dopo la morte di Onorio nel 423, l' impero d' Occidente era caduto nelle mani di Galla Placidia, sorella di lui, la vedova di Ataulfo, e di Costanzo, la quale lo reggeva per il figlio Valentiniano III, assunto al trono a soli 6 anni. Ora il giovinetto imperatore ne contava diciotto e Volusiano era incaricato a Costantinopoli di trattare gli sponsali di lui con Eudossia, figlia di Teodosio II e di Eudocia. In questo suo viaggio in Oriente il vecchio ambasciatore ricordò la nipote Melania, la cui giovinezza aveva colle sue grazie soavi allietate le due case dei Valeri e degli Albini Ceoni, ed ebbe grande desiderio di vederla, le scrisse perciò invitandola a venire ad incontrarlo a Contantinopoli. Un tale invito non poteva lasciare indifferente la santa donna; esso le era fatto da un parente strettissimamente legato alla madre sua e, per di più, ancora pagano ed ormai vecchio; non lontano dunque dal giorno in cui avrebbe dovuto rendere conto a Dio della sua ostinazione a respingerlo; questa ultima considerazione premeva sul cuor della nipote ben più ancora dell' affetto naturale, ed attirava potentemente Melania a Costantinopoli. Ma è legge dei Santi il non abbracciare all' impazzata nemmeno ciò che ha aspetto di bene; loro desiderio supremo è compiere il beneplacito divino, ed anche nel bene nulla vogliono all'infuori di esso, e Melania, questa forte e coraggiosa donna, non conosceva che un timore: quello, dice il suo biografo, di fare qualche cosa non perfettamente conforme al volere di Dio. La vedemmo sulla nave, che doveva portarla a Nola, pronta a mutar progetto appena la divina volontà si fu manifestata contraria; in altri momenti della sua vita potemmo indovinare in quel suo sguardo rivolto al Cielo il desiderio di conoscere il divino beneplacito; mai tuttavia come in quest'occasione ella ci rivela l'animo suo in proposito; questa volta nemmeno nella preghiera ella non conosce il divino volere; il timore di non compierlo perfettamente la tiene perplessa; ella prega di nuovo e fa pregare, chiede consigli, infine stabilisce di partire, ma quella perplessità non l'ha ancora abbandonata, e, lasciando Gerusalemme con Geronzio ed altri che l' accompagnano, si raccomanda ancora ai monaci affinchè preghino che quella sua deliberazione sia secondo il divino volere.


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E la sicurezza desiderata doveva venirle presto, ma per tal via, che certo ella stessa non avrebbe mai sospettata. Due erano i modi di viaggiare per coloro che a quest' epoca dovevano recarsi per via di terra in luogo lontano: o in carrozze private o col cursus publicus ossia le pubbliche vetture istituite da Augusto. L'uso di queste però era un vero privilegio riservato a magistrati, a personaggi illustri, a uomini politici o militari; i cittadini privati non potevano goderne senza un permesso speciale, che si rilasciava dal principe o direttamente, o per mezzo del magister officiorum, o del prefetto del Pretorio. Siccome poi nell'uso di tale pubblico servizio specialmente nel IV e nel V secolo solevano incorrere abusi, le leggi sopra di esso s' erano moltiplicate sopratutto nel codice Teodosiano, che ne sovrabbonda, communite poi di tali pene, che oggi per fermo ci sembrerebbero eccessive. Nelle varie stazioni vi erano uomini appositi detti curiali, incaricati di sorvegliare che nessuno facesse uso della vettura pubblica senza il permesso; essi dovevano farsi consegnare dai viaggiatori l'evectio o tractoria, ossia il diploma firmato dal principe o dal suo incaricato, che concedeva la facoltà di viaggiare con vetture dello Stato e portava il nome della persona a cui era fatta la concessione, la durata del suo viaggio, le stazioni che doveva toccare ed altre particolarità. I curiali dovevano leggere attentamente l'evectio prima di permettere la continuazione del viaggio, impedire che le bestie dello Stato venissero prestate per veicoli privati e non lasciar partire dalla stessa stazione nel medesimo giorno più di cinque animali, che Teodosio il grande portò a sei: questa limitazione però non valeva per coloro che avessero nella evectio espressamente menzionata la facoltà di viaggiare più celeremente che all' ordinario, oppure il cui diploma fosse direttamente firmato dal principe.

Melania questa volta viaggiava col cursus publicus e probabilmente la sua evectio portava la firma dell'imperatore stesso, Teodosio II; favore, che si comprende quando si pensi ch' ella apparteneva, come fanciulla e come sposa, ad altissima casa senatoria, che era chiamata a Costantinopoli dall' ambasciatore privato presso le due corti di Roma e di Bisanzio, che alla corte stessa di Bisanzio ell' era conosciuta e stimata e vi aveva l' amicizia di quel tale patrizio Lauso, che le aveva largito la somma per il bagno del suo monastero, e presso il quale la vedremo alloggiare. Ogni tanto nelle borgate o nei paesi la carrozza si fermava per il cambio delle mule, ed allora si svolgeva uno spettacolo, che mostrava in qual concetto fosse tenuta quell' umile solitaria, il cui più grande studio era di nascondersi sempre; dalle città, dagli eremi venivano a lei schiere di vergini e di monaci, che avevano avuto notizia del suo passaggio e volevano parlare almeno una volta a quella, di cui conoscevano per fama l'altissima virtù, ed alcuni narravano sommessamente agli altri di essere stati avvertiti da superna visione del passaggio della Santa. Tutti la attorniavano, si intrattenevano con lei e non sapevano staccarsene, e quando era giunto il momento della separazione scoppiavano in pianto dirotto come se fossero i suoi figli e le sue figlie spirituali; quelle donne e quegli uomini usi solo a conversazioni sante ed a sante amicizie avevano creduto trovarsi davanti ad una visione di Cielo, ed un linguaggio di Cielo era sceso nell'animo loro, ricreandolo tutto; essi si allontanavano portando nel cuore quella visione e l' eco di quella voce soave, che avrebbero voluto aver sempre con sè ad eccitamento nella loro santa via.

In questo modo la comitiva di Gerusalemme giunse a Tripoli, l' antica città fenicia, che era mansio, ossia luogo di fermata per i viaggiatori, i quali vi pernottavano e attendevano che i postiglioni avessero agio di mutare le mule; in questa città era in grande venerazione il martire san Leonzio, ed i cristiani che colà si fermavano andavano subito a venerarlo nella sua basilica. Così fece anche Melania; ella però non intendeva pernottare a Tripoli, chè la sua fretta di trovarsi presto a Costantinopoli le suggeriva di partire subito, ma al suo progetto si oppose inaspettatamente la durezza del curiale del luogo, Messala. Egli rifiutò di dare la evectio ai compagni di Melania, che ne erano sforniti, e rifiutò pure le mule necessarie per la comitiva alquanto numerosa. Si capisce che questo Messala era un funzionario alquanto pedante e forse pauroso di venir denunciato al preside della provincia, allora residente in Tripoli, se non faceva rigidamente osservare le severe leggi imperiali riguardo al cursus publicus. La paura però non gli lasciava riflettere che egli avrebbe potuto senza compromettersi esser più largo con Melania, perchè la evectio dava diritto di aver seco in viaggio qualche compagno, e quella di Melania, che era firmata dall' imperatore, permetteva altresì un numero di bestie maggiore di quello dalla legge stabilito; il curiale dunque non correva pericolo di sorta nell' accordare il diploma ai compagni di viaggio della Santa e nel fornire le bestie necessarie. Messala non volle assolutamente fare nè l'una nè l'altra cosa, e Melania ritornò alla basilica di san Leonzio, ove passò tutta la notte in preghiera. Il mattino seguente ella potè infine partire con tutti i suoi compagni. Non avevano percorso più di sei o sette miglia quando furono raggiunti dal curiale, che tutto trafelato ed ansante chiedeva del prete. Geronzio uscì di vettura e gli si fece incontro domandandogli che cosa volesse, mentre in cuor suo temeva che Messala, sempre timoroso del preside, mettesse un altro ostacolo al viaggio e volesse riprendere le mule già accordate; quegli invece chiese soltanto di venir condotto alla presenza di Melania, ed appena le fu davanti le si buttò ai piedi chiedendole perdono della durezza usatale: «Io ignorava chi tu fossi», le disse, «e per questo corsi ora, affinchè tu non sia indignata contro di me, nè sia irritato il Signore». «E sii tu benedetto, figlio mio», gli rispose dolcemente la Santa, «che, benchè tardi, ci lasciasti infine partire». Ma il curiale non era ancora contento, tolse di tasca alcuni denari ricevuti in mancia da Geronzio e glieli voleva rendere; questi sospettò che quella mancia fosse parsa meschina a Messala, e si offrì di aumentarla: al che l' altro protestò che non voleva accettare nè quello nè altro denaro. A queste proteste Geronzio, che non aveva uno spirito molto intuitivo, e che d'altronde, confessa ingenuamente egli stesso, non era uso a viaggi, ebbe un altro sospetto: che tutto l'affanno del povero uomo dipendesse dal timore di essere forse accusato in palazzo imperiale, dal quale era partito il diploma di Melania; cercò allora nella sua carità le parole più rassicuranti per consolarlo e gli disse di non temere, che mai non avrebbero parlato male di lui, che d' altronde il farlo non sarebbe stato un agire degno di servi di Dio, i quali viaggiavano solo per necessità. Messala a queste consolazioni venne a spiegare il suo contegno; narrò che tutta notte il martire Leonzio l'aveva rimproverato per il torto da lui usato a Melania; che il mattino egli e sua moglie erano corsi subito alla basilica colla speranza di trovarvi ancora i viaggiatori, ma che, essendo questi partiti, egli li aveva rincorsi, mentre sua moglie rimaneva a pregare, e di nuovo supplicò che gli perdonassero la sua ignoranza e che interponessero preci per lui. Finalmente, poichè Geronzio accettò la restituzione della mancia e Melania lo benedisse, se ne partì racconsolato e giubilante.

È facile immaginare quale meraviglia piena di ammirazione un tal fatto suscitasse in tutta la comitiva; quella sola, in cui favore era avvenuto l' intervento miracoloso di un Santo, e per chiedere il cui perdono un uomo aveva fatto sette miglia di corsa se ne rimaneva come il solito nella sua umile calma, e solo disse: «Confidate, perchè questo viaggio è secondo il volere di Dio»; nè di questa sua frase diede spiegazioni per quanto ne fosse richiesta; più tardi quando fu con Geronzio senza altri testimoni, gli confidò che, durante quella notte di preghiere, ella non aveva fatto che supplicare il santo Martire, affinchè si degnasse in qualche modo manifestarle se quel suo viaggio era secondo il divin beneplacito; ed ecco come il Santo l' aveva esaudita, rispondendole per mezzo di quello stesso curiale, che sulle prime era stato loro di ostacolo.

Sicura dunque ormai d' essere strumento de' divini disegni, con lena maggiore e colla letizia in cuore ella fece il resto del viaggio, e, senza altri incidenti, giunse a Costantinopoli. Ma nell' appressarsi alla grande metropoli bizantina un senso di profonda tristezza la prese; era un ritorno di quella tristezza, che aveva provata da fanciulla, quando doveva attorniarsi delle grandezze terrene, ora da tanti anni felicemente dimenticate nella nudità della sua cella a Gerusalemme; era quella sua anima celeste di solitaria penitente sempre pronta come una sensitiva a ritirarsi in se stessa, quando i beni e le delizie della terra le apparivano, che si trovava a disagio in quel passaggio brusco dall'aria calma, più prossima al cielo che alla terra nella quale respirava sempre, a quella greve di vapori terreni, agitata da terreni schiamazzi, nella quale stava per entrare.

Nelle sue afilizioni ella aveva sempre trovato consolazione presso i Santi, gli amici dell' anima sua, che le stendevano la mano dal Cielo come ad una compagna aspettata e destinata a mirabile corona; questa volta ella entrò nella basilica di Sant'Eufemia a Calcedone, e la gloriosa martire riempì il cuore di lei di paradisiaca consolazione, facendole gustare una soavissima fragranza. Così coll' anima sollevata oltre ogni cosa terrena e fidente in Gesù, che le aveva fatto lasciare le austere gioie della sua solitudine per mescolarla ancora una volta ai terreni splendori, ella entrò in Costantinopoli.


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Splendida era infatti la regina del Bosforo; Costantino vi aveva radunate tutte le ricchezze tolte a Roma e ad Atene, così che in poco tempo la nuova capitale aveva oscurato l'antica, come il palazzo imperiale, costruito sulla sponda del mare, superava di gran lunga in magnificenza quello del Palatino in Roma. E tutte le gelosie, le bassezze, gli odi, le trame, i tradimenti, piaga e vergogna delle corti, erano state conosciute, da quella Sirena d' Oriente, che dopo i giorni gloriosi di Costantino e di Teodosio il grande, aveva vedute le debolezze dell' imbecille Arcadio, gli intrighi di uno schiavo divenuto ciambellano ed aveva contato le lagrime fatte versare da una donna, la superba imperatrice Eudossia, ad un Vescovo come Giovanni Grisostomo. A quelle tristi vicissitudini era però successo un periodo di pace e di grandezza per merito di una fanciulla, che a quindici anni aveva preso nelle mani le redini del vastissimo impero, e con tal senno e con tale forza le aveva sapute reggere che non potè a meno di rendergliene il dovuto onore il Gibbon storico pro testante, mentre gli storici contemporanei le attribuirono ispirazioni dall' alto. Quella fanciulla, Elia Pulcheria, la figlia del debole Arcadio e dell' iniqua Eudossia, era una Santa che la Chiesa venera ora sugli altari, e Melania poteva rallegrarsi di trovare sui gradini del trono d'Oriente tal principessa, il cui cuore batteva in armonia col suo; come lei innamorata della purezza verginale, così che aveva voluto ornare del fulgore di questa gemma il solio e quella sua seria giovinezza intesa solo a governare il vasto impero ed a preparargli nel fratello Teodosio un sovrano degno di reggerlo; come lei avida delle austerità cristiane tanto da portare il cilicio sotto le vesti imperiali, come lei attaccatissima alla purezza del dogma cattolico, che in quei tempi di eresie e di scismi difendeva con tanto ardore da promuovere col suo zelo il concilio d' Efeso e quindi la condanna di Nestorio e più tardi anche quella di Eutiche nel concilio di Calcedonia. Per opera di Pulcheria il palazzo imperiale, covo fino ad allora di disordini e di vizi, aveva conosciute le virtù di un chiostro e gli studi di un atenco, ed al fianco di lei il giovane Teodosio era cresciuto modello di principe. Compimento della sua missione di sostenitrice dell'impero e di educatrice dell'imperatore era stato per Pulcheria il dare a questi una sposa, che assicurasse la imperiale dinastia. Ma forse intorno a sè la sollecita sorella non aveva trovato mai una giovane tale da rassicurarla sull' avvenire del fratello e dell' impero. Un giorno la fanciulla quale ella la sognava le capitò alla Corte a chiederle appoggio e protezione: era una povera diseredata dal padre, proscritta dai fratelli; ma quella proscritta andava fornita di tali doti d' ingegno e di coltura che Pulcheria, coltissima ella pure, ne fu colpita; ella era una greca. Atenaide, figlia di Leonzio, sofista di Atene, cresciuta accanto al padre in una vita di studio indefesso della filosofia, delle arti liberali, delle lettere greche e latine, tanto che il sofista la giudicò ricca ormai di tali tesori di sapere e di grazie da non abbisognar più di beni materiali; ond' egli la diseredò in favore dei due fratelli, che disumani la cacciarono poi da casa. Colta di eccezionale coltura, illibata nei costumi, buona, e per di più bellissima, ella fu giudicata da Pulcheria degna di divenire Augusta, e presentata perciò a Teodosio, che se ne invaghì subito. La giovinetta greca era però pagana; ma questo non spaventò Pulcheria, che aveva in quell'anima pura intravvista l'inclinazione ad abbracciare il cristianesimo, e che si dette ella stessa ad istruire nella religione la futura cognata.

Così la filosofessa pagana, mutando il nome di Atenaide in quello di Eudocia, era salita come principessa cristiana al trono d' Oriente accanto a Teodosio; ella aveva dato alla dinastia due figlie, di cui la prima. Eudossia, troviamo ora fidanzata a Valentiniano, imperatore d' Occidente. Profonda pietà, mitezza, coltura, austerità di costumi, queste virtù Melania trovava alla corte d' Oriente, suscitate e tenute vive da Pulcheria. il buon angelo della famiglia imperiale e dell' impero.

Appena arrivata però, ella non si recò al palazzo imperiale, ma si fermò prima ad un altro palazzo, che, se non raggiungeva la magnificenza del primo, poco ne stava al disotto; era una delle dodici case che Costantino, nel trasportare la sede dell' impero a Bisanzio, aveva fatto costruire per le famiglie senatorie del suo seguito; ora apparteneva a Lauso, che, ricchissimo ed amante delle arti, l' aveva in ogni modo abbellita e soprattutto ornata di capolavori dell'arte greca, tanto che il palazzo, che per la sua splendidezza ha una rinomanza nella storia della capitale d' Oriente ed è ricordato da molti scrittori di cose orientali, diveniva inoltre un museo, nel quale si ammiravano la famosa Venere Cnidia, in candido marmo di Prassetele, la Minerva Lindia in ismeraldo degli statuari Scilide e Dipena; la Giunone Samia di Lisippo, il Giove eburneo di Fidia. Cultore appassionato non solo d' arte, ma di ogni genere di studi, fino a pochi anni prima praepositus sacri cubiculi, ossia gran ciambellano dell' aula imperiale, perciò primo personaggio di corte, il patrizio Lauso era pure uomo religiosissimo, benefico, attaccato alla fede cattolica, in cui servizio disponeva di tutti i vantaggi della sua condizione e delle sue ricchezze; a lui infatti veniva dedicata un'opera contro Nestorio, e per incarico di lui Palladio scriveva le vite dei santi Padri nell'intento di renderne note le virtù ai fedeli e spronarli all' imitazione.

Questa profonda pietà era il suo punto di contatto con Melania, la quale, dovendo soggiornare a Costantinopoli, volentieri andò ad abitare dal ricco patrizio, che, da parte sua, l'accolse come poteva inspirargli la sua venerazione per una tale eroina delle virtù cristiane. Come poi fosse nata questa amicizia, così stretta ed intima che Melania, nella necessità di fare costruire un bagno al monastero delle vergini, non esitò a rivolgersi a lui, ed egli poi la volle ospite in casa sua senza averla mai veduta, questo non si sa; forse egli era discendente da famiglia senatoria romana, che aveva seguito Costantino a Bisanzio, e, pur lasciando Roma, s'era sempre tenuta in cordiale amicizia coll'altra famiglia senatoria dei Valeri: forse, il che è più probabile, l' intermediario di tale amicizia era stato quello stesso vescovo Palladio, così intimo di Lauso da scrivere per incarico di lui quella storia, che poi chiamò lausiaca, ed ospite di Melania a Roma, ove aveva ammirate le sue eroiche virtù; qual meraviglia che, tornato in patria, il Vescovo orientale abbia parlato con entusiasmo anche al suo mecenate della matrona romana, mentre con entusiasmo, come di essere straordinario, ne parlò poi nella storia lausiaca? Ecco dunque formarsi nell'animo del religiosissimo e benefico dignitario di corte una viva ammirazione per la giovane patrizia romana, che profondeva il suo vistosissimo patrimonio ai poveri; da tale ammirazione veniva naturale il desiderio di trattare con lei su quei temi spirituali, che producono subito l' intimità tra due anime, di qui anche il desiderio di collaborare in qualche modo alle grandi opere di lei col sostenerle ed aiutarle e quindi quella munificenza, per cui la memoria di Lauso restò sempre in benedizione nei monasteri della Santa.

In casa di un tal uomo, nella pia conversazione di lui, ella doveva sentire con minore intensità la privazione della sua cara solitudine; poco tempo tuttavia ebbe da fermarvisi, chè a Costantinopoli l' aspettava una notizia, che le rivelò subito perchè Iddio l' avesse tratta a quel viaggio. Suo zio Volusiano era gravemente ammalato.

Le vie di Dio—L'ultimo colpo a Nestorio—Gli assalti del nemico.

Poco lungi dalla dimora di Lauso sorgeva da una parte la magnifica reggia di Costantino, ove abitava la famiglia imperiale, dall' altra il foro costantiniano; la casa del patrizio era a metà via tra questi due monumenti; Volusiano, che, come legato dell' imperatore d' Occidente, era ospite della corte d' Oriente, non abitava tuttavia propriamente nel palazzo imperiale, ma in una delle case di pertinenza della corte, la casa d' Eudocia, posta da tutt' altra parte della città. Melania vi si recò subito accompagnata da Geronzio. Quando suo zio, circondato da tutto il fasto di un grande dignitario di Corte, vide davanti a sè quell'umile donna in vilissima veste, non potè a meno, malgrado il male che lo opprimeva, di correre col pensiero al tempo in cui nel palazzo del Celio l'unica figlia dei Valeri era tenuta come una piccola regina; quel confronto lo commosse vivamente, tanto che colle lagrime agli occhi egli sfogò l'animo suo con Geronzio: «Ah! se tu potessi sapere», gli disse, «con quale delicatezza costei era allevata nella sua casa, come la pupilla dell' occhio, come la rosa, come i gigli quando cominciano a fiorire! Ed ora a sì duro trattamento, a tanta povertà s'è data!»

Mentre Volusiano si commoveva per l'esterno mutamento della sua santa nipote, ed in quelle poche parole faceva capire tutta l'ampiezza del sacrificio ch' ella doveva aver compiuto per Iddio, questa non era sollecita che dell'anima di lui, e, vedendo il deperimento del corpo, capiva che l' ammalato doveva venir istruito senza perder tempo. Cominciò, prendendo occasione dalle parole stesse di lui, ad entrare a discorrergli di quei beni eterni, per i quali ella aveva volentieri lasciato tutti i temporali, e, cercando di eccitarne anche in lui il desiderio, venne a parlargli della fede in nostro Signor Gesù Cristo e della risurrezione. Le sue parole cadevano in un terreno già preparato ed erano destinate a far fruttificare quei semi, che vi erano già stati gettati da una mano così abile come quella di sant' Agostino; l'infermo, che amava ed ammirava quell' angelica figlia di sua sorella, volentieri si lasciava condurre dalla dolce mano di lei a quella mèta verso la quale non aveva cessato di spingerlo il Vescovo di Ippona: dai discorsi di lei però egli capì ch' ella per indurlo a ricevere il Battesimo aveva intenzione di ricorrere anche alla famiglia imperiale: ciò gli spiacque assai, ed il motivo del suo dispiacere mostra la tempra dell'uomo e la forza di convinzione della sua conversione: egli non voleva che questa conversione a Dio avesse nemmeno l' apparenza di un atto di deferenza ai sovrani; dichiarò a sua nipote che desiderava farsi purificare nel sacro lavacro delle acque battesimali; ma la supplicò che non lo privasse, interponendo in questo l'autorità imperiale. di quel dono della libertà, che fin dall' origine Iddio fece all'uomo, e non gli togliesse così il merito della sua libera elezione. Era il discepolo di sant'Agostino, che parlava, il discepolo del dottore, che tanto scrisse sulla grazia e sul libero arbitrio.

Melania rispettò dunque questo giusto desiderio, ma forse le pareva che l' infermo, malgrado le buone intenzioni, procrastinasse troppo a mettere in esecuzione il suo proposito, e, non potendo starsene tranquilla, fin che non vedesse quell' anima al sicuro, fece per mezzo di ragguardevoli personaggi, tutto sapere a Proclo, che reggeva allora la sede vescovile di Costantinopoli; questi si recò subito da Volusiano, il quale capì chi gli avesse procurato una tal visita; egli ne parve però assai soddisfatto, poichè mandò a dire a sua nipote: «Se in Roma vi fossero tre uomini come il Vescovo Proclo non vi si novererebbe più un gentile».

L' apostolato presso lo zio pagano, per quanto esigesse da lei sollecitudini e cure, non era il solo che Melania esercitasse a Costantinopoli; dal letto dell'infermo ella passava alla conversazione colle matrone e colle mogli dei senatori, che, avendo avuto sentore della sua alta santità, ricorrevano a lei per lumi e consiglio nelle questioni, che allora turbavano le menti e agitavano gli animi nella capitale d'Oriente. Si trattava dell' eresia di Nestorio. Questo monaco della Siria, che sotto il saio del penitente nascondeva un orgoglio indomabile e una smisurata ambizione di far parlare di sè, divenuto patriarca di Costantinopoli aveva negato che il Verbo di Dio si fosse fatto uomo prendendo carne nel seno di Maria Vergine, la quale perciò non si doveva nè si poteva chiamare Madre di Dio, ma sì madre di Cristo; alla sacrilega bestemmia tutta Costantinopoli s'era commossa; ma l'eresiarca dalla parola facile ed ardente sapeva ben mascherare il suo errore, per cui molti erano stati tratti in inganno e tra questi sulle prime perfino l' imperatore Teodosio, non però Pulcheria ed Eudocia, che gli erano sempre state contro; anzi Pulcheria nel 431 aveva ottenuto si radunasse il concilio Efesino, nel quale i Vescovi d'Oriente e d'Occidente sotto la presidenza di S. Cirillo rappresentante il Pontefice avevano fulminato l'eresia; Teodosio aveva aperto gli occhi e Nestorio, deposto dalla sua sede, era stato per ordine dell' imperatore confinato in Antiochia.

Così per mano di una donna, la pia Pulcheria, la eresia nestoriana aveva ricevuto un colpo, che si sarebbe detto mortale; essa tuttavia non era affatto spenta, ed ogni tanto tentava ancora di levare il capo: quando era stato eletto alla sede bizantina san Proclo il popolo tumultuante aveva chiesto il ritorno di Nestorio; verso la fine del 436 e precisamente all'epoca della venuta di Melania quest' eresia s' era ravvivata per opera di Teodoro di Mopsuestia e di alquanti vescovi di Armenia e di Persia, e l'agitazione veniva fomentata anche da famiglie patrizie e da personaggi addottrinati, tra cui alcuni aderenti all' eresia, alcuni vacillanti nel dogma cattolico. Melania con quella sua profonda coltura religiosa, con quel suo zelo vivissimo per la difesa della fede nella divinità di Cristo e nella divina maternità di Maria, colla soavità del dire, che attirava e avvinceva i cuori, col prestigio della sua nascita e della sua santità, divenne in breve a Costantinopoli l'apostolo, che compiva l' opera iniziata da Pulcheria e concretata ad Efeso dal forte braccio di Cirillo; forse in questo suo apostolato le valevano assai le relazioni avute col patriarca d' Alessandria, il campione della divina maternità di Maria, del quale ella, che non aveva mai perduto l' occasione di farsi istruire dai più gran servi di Dio, aveva bevuto le dottrine; per opera di lei le ultime nubi nestoriane si dissipavano, il sole della verità mostrava di nuovo limpidi i suoi raggi, e ad essi si rivolgevano in massa contenti e tranquilli gli esitanti ed anche coloro, che la nebbia dell'errore era riuscita a travolgere. In questa lotta contro una delle più terribili eresie, che abbiano funestata la Chiesa troviamo dunque nel centro un dotto Vescovo, che in rappresentanza del Sommo Pontefice, circondato da tutti i Vescovi cattolici dà il colpo maestro in testa al mostro e ai due capi due donne, come l'avanguardia e la retroguardia al servizio attivo e fedele del corpo principale dell' esercito.

Accanto ai trionfi dell' apostolato non dovevano mancare alla Santa i patimenti causati dagli sfoghi di rabbia del nemico infernale; questa volta apparve egli stesso a Melania, sotto forma di un orribile moretto, che aspramente le rimproverò di essere andata a Costantinopoli a parlare di Dio da mattina a sera e la minacciò che avrebbe indurito contro di lei i cuori di tutti della famiglia imperiale e di Lauso stesso per cui venisse cacciata dalla città, o, se a tanto non fosse riuscito, avrebbe almeno così tormentato il suo corpo da ridurla anche in fine di vita.

Al punto d' entrare nella splendida Costantinopoli, Melania era stata colta da tristezza; quest' apparizione invece non turbò in nulla la sua pace; le anime così intimamente unite come la sua al Signore degli abissi non conoscono certi spaventi, e si elevano maestose e impavide anche in faccia ai mostri infernali; un giorno la Santa, che con Melania ha tanti punti di contatto, Teresa, ci spiegherà con una semplice parola questa calma delle anime perfette: «A coloro che dicono sempre: demonio, demonio, io rispondo «Dio, Dio!» Con Dio esse sono sicure della vittoria finale, mentre per Lui sono liete di patire fin dove Egli permette che il nemico le tormenti. Melania, pronunciando il nome di Gesù, fece svanire l'orribile apparizione; poi, chiamato il prete Geronzio, gliela narrò e gli ordinò che pregasse assai. Ma non aveva ancora finito di parlare con lui, che la prese forte dolore all' anca ed in breve il suo corpo fu tutto in preda a tali spasimi che ella perdette la favella e rimase per tre ore come morta. Geronzio s'affrettò nella cappella del palazzo ad offrire per lei il santo Sacrificio. Infine i sensi le tornarono, le sue labbra poterono articolare alcune parole; era l'espressione del suo animo spoglio di sè, desideroso solo del volere di Dio: «Signore, si compia la tua volontà in me, serva tua». Per sei giorni ella rimase in quegli spasimi indicibili, che aumentavano nell' ora in cui aveva avuta l' apparizione.

Al settimo giorno arriva un messo da Volusiano, che le dice di affrettarsi a correre da suo zio, il quale la desidera, si trova agli estremi ed arrischia di morire senza Battesimo. Nell'inferma a morte si desta allora tutta l' anima della donna apostolo; tormentata dai dolori, che non le permettono di muovere un piede, e che poco prima le lasciavano solo gemere un atto di conformità al volere divino, ella dice ora risoluta ai suoi: «Portatemi a lui prima ch'egli mucia». Questi esitano a toccarla, le osservano che potrebbe morire per via. Sono le occasioni queste in cui la dolce Santa sa imporre altrui la volontà sua. Al timore che gli altri hanno della sua morte, ella oppone la certezza di questa morte se non si risolvono ad accontentarla: «Sia come si voglia, se non mi portate a lui, io muoio qui: portatemi dunque». Ad un volere così energico non è possibile resistere; l'inferma come morta, col piede irrigidito così da essere come un pezzo di legno vien collocata in una lettiga, e Geronzio la precede in tutta fretta al palazzo di Volusiano. Ma la lettiga non è ancora giunta al foro di Costantino che incontra un messo a cavallo; è inviato da Geronzio con una lieta nuova: Volusiano è battezzato.

Alla tristezza, all' ansia succede la gioia; un'altra gioia simile aveva guarita Melania nella malattia mortale avuta appena sposa nel palazzo di Roma; anche stavolta il suo corpo, tenuto sempre in tanta soggezione dello spirito, risente tutto il beneficio dei santi moti di quello; il demonio affatto vinto la lascia; ogni dolore scompare, ella muove il piede irrigidito, e, giunta al palazzo di Volusiano, sale da sè, senza aiuto, le scale fino all' appartamento di suo zio.

Egli era stato battezzato dal Vescovo Proclo, che aveva mandato a prendere appena al ritorno del messo inviato alla nipote, aveva saputo che ella giaceva ammalata. Melania trovava al letto di lui l' imperatrice Eudocia venuta a visitarlo e, fatto a lei omaggio, sedette accanto al morente neofito, ringraziando esultante Iddio dell'immenso beneficio spirituale a lui concesso e della salute resa a lei. Passò la notte presso il morente, aiutandolo ad elevarsi a Dio col fargli presente i benefici ricevuti nella sua vita stata prospera e gloriosa secondo il mondo, e che ora, per il Battesimo, si chiudeva colle speranze della felicità eterna. A quelle considerazioni egli, che tanto avrebbe potuto dire su coloro che avevano lavorato attorno all' anima sua, rispondeva con una sola parola. «Quest' ultimo dono di Dio è premio al travaglio tuo». Era la rivelazione del concetto in cui il morente teneva la nipote; la constatazione di quanto Dio faceva per la sua santa ancella.

Quella doveva essere l ultima notte per l'ambasciatore di Roma. Egli era entrato nell'ora estrema nella casa del Padre celeste, ma doveva godere in quel breve lasso di tempo di tutti i benefici accordati ai figli, compreso il massimo: quello di ricevere Gesù Cristo sotto le specie eucaristiche. Era consuetudine nella Chiesa di Roma che l' Eucaristia potesse venir portata ai morenti più volte nelle ventiquattro ore, ed anzi, piissima pratica inspirata ad una fede viva nella reale presenza di Cristo nel Santo Sacramento, consisteva nel procurare che il Cibo divino fosse ricevuto proprio nell' estremo istante della vita, perchè l' anima spirasse in quel sublime momento di divino contatto e d' intima unione con Cristo Salvatore, pegno di vita immortale e di futura risurrezione, e così le formole dormire, requiescere in Christo, in Domino venissero letteralmente applicate. La biografia non dice se Volusiano abbia avuto questa fortuna nel suo estremo anelito, permette però di supporlo poichè ci racconta che in quell' ultima notte per tre volte la sua santa nipote lo fece comunicare. Verso il sorgere del mattino seguente, giorno d' Epifania, le preghiere ferventi di lei accompagnavano il suo lieto transito in Cielo.

Ella pure era ricolma di letizia e la sua letizia si effondeva in riconoscenza. Celebrava con coloro che la circondavano le glorie della divina bontà, che aveva fatto venir Volusiano da Roma ed aveva tratto lei ed i suoi da Gerusalemme fino a Costantinopoli per la salvezza di un'anima tanto tempo vissuta nell' ignoranza. Avrebbe potuto aggiungere per premiare di tante fatiche e penitenze sostenute per Lui la sua serva ornando la sua corona di una gemma di più; la conversione dell' ostinato pagano.

La missione della Santa a Costantinopoli era finita; ella vi rimase finchè fu celebrato il quadragesimo di suo zio; quel suo soggiorno nella capitale d' Oriente l' aveva resa carissima alla Corte; l' Imperatore, Eudocia, Pulcheria si edificavano all' esempio delle sue virtù; essi volevano opporsi alla sua partenza e ritenerla ancora, ma ora che nessun motivo d' apostolato la tratteneva il desiderio sovrano della sua vita: quello della solitudine con Dio le faceva di nuovo sentire il suo impero; la celletta di Gerusalemme ed i luoghi Santi la chiamavano a sè. Ella non s' arrese alle preghiere degli Augusti; sì, piuttosto ottenne da Teodosio che l'Imperatrice stessa sarebbe andata di lì a non molto a visitare la sacra Terra del Salvatore.

Verso la fine di Febbraio ella lasciò Costantinopoli.

Ritorno a Gerusalemme—L' amore non è mai soddisfatto —La visita di Eudocia.

Il freddo di quell'anno era così intenso che, benchè Febbraio fosse già avanzato, i monti e le valli erano ancora carichi di neve, la cuale cadeva in tanta copia che i viaggiatori ne erano sempre operti e non potevano più scorgere che il bianco turbinìo, da cui restava loro nascosta la via. Come nel viaggio di andata così in questo del ritorno la nuova del loro passaggio li aveva preceduti, e, malgrado le intemperie, venivano loro incontro preti, monaci ed anche Vescovi, tra i quali quelli di Galizia e di Cappadocia, che asserivano non aver memoria di un inverno simile; parecchi offrivano a Melania l'ospitalità, invitandola a sostare presso di loro fino a che la crudezza di quella stagione si mitigasse alquanto; ma noi non conosceremmo più la fisonomia della nostra Santa se la vedessimo piegare davanti ai disagi ed ai patimenti; quella, che contemplammo triste in mezzo alle delizie di gran casa patrizia, che vedemmo assetata di penitenza al punto da dover venir moderata nelle crudeli invenzioni contro se stessa, non poteva che giubilare tra quei rigori, dei quali erano spaventati i suoi compagni. Ella era trasportata dalle ali del desiderio a Gerusalemme, la città santa, che aveva lasciato unicamente per il servizio di Dio, nella quale anelava di tornare per celebrarvi la Pasqua; si sentiva inoltre l' anima traboccante di viva riconoscenza a Colui, che s' era degnato di servirsi di lei per la conversione di Volusiano, e nello slancio di questa gratitudine fatta di umiltà ella trovava che tutto era poco ciò che poteva dare al suo Signore. Ai disagi del freddo e delle intemperie s' aggiungevano quelli del digiuno quaresimale ormai cominciato: i compagni della Santa pare li sentissero assai ed invitavano lei ad interrompere almeno al quarto giorno il suo rigoroso digiuno della settimana; era allora che il troppo pieno del cuore le veniva alle labbra, e ch'ella rivelava ciò che significasse per lei esser stata scelta a strumento della misericordia divina: «Non solo non debbo diminuire il mio digiuno», esclamava, «ma debbo piuttosto ac crescerlo, perchè il Signore si degnò di concedere tanto a questa indegna ancella sua». In queste poche parole vi ha tutto il giubilo della Santa per la conversione dello zio; vi ha tutta l' umiltà di un' anima, che riconosce come dono di Dio quanto ha potuto fare per Lui, vi ha tutta l'ansia amorosa di un cuore, che più ha dato e più vorrebbe dare. Queste parole sole pronunciate al ritorno di un viaggio intrapreso da debole donna nella speranza di far del bene ad un' anima, coronato da una conversione, che non aveva ottenuto un sant' Agostino, pagato coi tormenti del freddo, i pericoli delle vie ingombre dalle nevi, le stanchezze del cammino disagioso, le crudezze di eccezionali intemperie, queste parole sole basterebbero a caratterizzare l' anima della nostra Santa; anima fatta più che virilmente ardimentosa e forte da un ineffabile amore, che le toglieva la vista di tutto quanto non fosse la gloria del suo Dio, gli interessi di D'o.

Giunta ai piedi del monte Modico, sempre difficile a valicare ed ora ancor più perchè carico di neve, la comitiva si trovò in nuovo imbarazzo; gli animali che trascinavano le vetture non potevano salir l' erta ghiacciata; i viaggiatori scesero, ma volevano che almeno Melania si facesse portare, adducendole che il digiuno continuo doveva renderla debole e che era impossibile che ella, donna e logorata dalle astinenze sopportasse tale fatica. Anche questa volta ella non volle ascoltare i consigli della delicatezza, ed ascese l' erta cogli altri conversando amabilmente di cose celesti. Davanti a tale vigore conferito all' esile corpo dal fervor dello spirito i suoi compagni, che sentivano soccomber a tanto disagio le forze naturali della robusta tempra maschile, erano ricolmi d'ammirazione e riconoscendosi più fragili di lei, dall'esempio suo sentivano raddoppiata la propria lena ad avanzare in fretta.

Mancavano ancora quattro giorni al sopravvenir della Pasqua e il desiderio di Melania era compiuto; la santa città compariva ai suoi sguardi; ella poteva, come faceva ormai da tanti anni meditare la Passione e la morte del Signore nei luoghi stessi ove Egli patì per noi. Era questo, dice il biografo, un dono di Dio, che usa far sempre la volontà di coloro che lo temono.

Il ritorno della Santa poneva nell' esultanza le due famiglie di figliuole e figliuoli spirituali, che senza dubbio avevano seguita colle preghiere e le penitenze la madre lontana. Ella passò i giorni della Risurrezione del Signore in mezzo alle sue vergini, le cui virtù la rallegravano. Ma anche il monastero di uomini le era fonte di consolazioni; l' impronta data dalla madre s' era conservata intatta dappertutto, malgrado l' assenza di lei; ella trovava assai bene ufficiate le due chiese dell' Ascensione e della Spelonca ed i monaci pieni d' amor di Dio e di fervore. Tutto questo poneva in giubilo quell'anima, nella quale il giubilo si risolveva in desideri nuovi, in nuovi progetti; era come una sete di quando in quando calmata, non estinta mai; come un incendio, che, in ogni oggetto buttatovi entro per ispegnerlo, trovava un'esca a divampare in nuovi ardori, era quell' insaziabilità dell' amore, di cui do veva tanti secoli più tardi parlare così bene l' autore dell'imitazione. Al vedere il fervore dei monaci da lei chiamati sull' Oliveto, la Santa pensò di fondare per loro un martirio ossia una chiesetta, che contenesse le reliquie dei Martiri; in quel piccolo santuario, che doveva venir costrutto nel luogo ove tante volte avevano posato i piedi del Salvatore, ella vagheggiava che un giorno, quando ella pure dormisse il sonno della morte accanto al suo diletto Piniano e ad Albina, santi monaci offrissero quotidianamente il divino Sacrificio per loro tre. Quel suo sogno pio non appena formato divenne realtà; poco tempo dopo il suo ritorno a Gerusalemme, il martirio sorse ov'ella des derava, ed il biografo qui ripete l'osservazione appena fatta, e che trova modo di fare ancora più tardi in altre occasioni; queste cose avvenivano, perchè Iddio compiva tutto quanto la Santa desiderava. Ci avviciniamo al termine della vita dell eroina cristiana; i principi erano stati pieni della sua generosità, del suo abbandono d' ogni cosa per Iddio; era la figlia che non bramava se non di compiere i voleri del Padre celeste, e li compiva malgrado gli ostacoli, le opposizioni, le persecuzioni; la figlia, che non palpitava se non per gli interessi del Padre, che si consumava per Lui; al tramonto di quella splendida giornata sorta con così fulgida aurora, quella generosa pare raddoppiare attività quasi che voglia in quell' ultima ora, prima che sopravvenga il riposo dell' eterno sonno, accumulare dimostrazioni di amore al Padre suo; quel cuore figliale vuole affrettare e raddoppiare i suoi palpiti prima di cessar di battere. Ma anche il Padre celeste pare abbia fretta di mostrare a lei il suo compiacimento ed il suo amore. Egli si diletta di farsi servo della sua serva fedele, di cogliere ogni menomo desiderio di lei per compierlo, di spargere di favori e, mi si conceda la parola, di attenzioni amorose gli ultimi passi di quella, che aveva camminato sempre per Lui.


***

Non privo di attrattive per chi si occupa della psicologia dei Santi sarebbe lo studio del contegno tenuto verso i ricchi ed i potenti della terra dagli eroi della povertà. Dice l'Ozanam, parlando dei francescani, che il loro fondatore, il Poverello per antonomasia, voleva tuttavia che i suoi seguaci trattassero rispettosamente coi grandi, come quelli a cui Dio aveva dato una partecipazione maggiore della sua potenza. Santa Teresa, la restauratrice della più rigida povertà carmelitana, ebbe spesso a trattare con dame delle più ricche e nobili della Spagna; ell' era con loro semplice, caritatevole, disinvolta, scevra affatto da quel disprezzo, che sarebbe stato superbia della propria virtù, come dalla servilità degli accecati dagli splendori fuggevoli del mondo. La nostra Melania, innamorata della povertà come Francesco e Teresa, conculcatrice in effetto di maggiori ricchezze ancora delle loro, dovette pure, per la famiglia stessa da cui usciva, trovarsi a contatto di nobili e ricchi personaggi. La vedemmo davanti all' imperatrice Serena, nella casa del patrizio Lauso, alla corte d' Oriente; il suo contegno s' accosta in generale a quello che avrebbe avuto tanti secoli più tardi la vergine d' Avila; contegno fatto di umile libertà di modi congiunta a caritatevole e soave cortesia, a dignità. Quando poi le fu annunciato che l' imperatrice Eudocia era in viaggio per sciogliere la sua promessa di venire ai Luoghi Santi, allora troviamo in lei anche quei sentimenti di osservanza rispettosa, che il Poverello d'Assisi voleva nei suoi, e che mostrano come l' amore alla povertà non fosse in quei Santi nè effetto nè causa di altezzoso disprezzo e di dispetto per la dignità e superiorità altrui.

Melania stette qualche tempo in forse se muovere incontro all'imperatrice per renderle onore; ne la ritraeva unicamente la sua ritrosia ad andare senza evidente necessità d'una città in altra, il che le pareva sconveniente a donna in veste povera e consacratasi al servizio di Dio (1) I motivi dell'esitazione di Melania come vengono riportati dai due testi sono suscettibili di diverse interpretazioni: il testo greco dice che la Santa temeva le venisse rimprovero dal girare le città in vile vestimenta; il testo latino: disceptabat intra se ne non deceret hunc habitum, vel cultum vagari per civilates. Il Goyau credette interpretare che la Santa temesse di peccare contro l'etichetta presentandosi alla sovrana in veste da mendicante. Noi, pensando a tutta la vita di Melania, che non aveva esitato di andare in cotal veste e malgrado le opposizioni alla corte di Serena, che certo non temeva i disprezzi degli uomini, ma nello stesso tempo aveva in altissimo concetto la sua professione di consacrata a Dio, riteniamo piuttosto che da tale alto concetto le venisse la ripugnanza di vagare per le città colle insegne di tale consacrazione, e in questa supposizione ci confermano le parole del testo latino.; vinse tuttavia in lei il desiderio di far atto di rispettoso omaggio alla pia principessa, che ormai era giunta ad Antiochia; rivolta ai suoi ella spiegò intero il suo pensiero circa ai grandi della terra: «Noi cristiani», disse ella, «dovremmo non solo andare ad incontrare, ma recarci sulle spalle una regina tanto pia, e ringraziare e glorificare Iddio, che ai giorni nostri abbia posto sopra di noi una tale sovrana» E il concetto cristiano espresso da san Paolo che ogni autorità viene da Dio, per cui bisogna inchinarla con rispetto, a cui ella aggiungeva la venerazione esultante per quell' autorità, che faceva rifulgere nel suo alto posto esempi di pietà e di virtù. Mosse dunque incontro ad Eudocia e si fermò ad aspettarla a Sidone, nel martirio di Foca, precisamente al luogo dove la Cananea aveva supplicato Gesù di concederle di quelle bricciole, che si danno anche ai cani; in questo modo ella univa anche questo suo atto verso l' imperatrice, a qualche atto della vita del Salvatore secondo la sua abitudine di tutto riferire a Dio, qualunque cosa facesse.

Eudocia, la coltissima greca, convertita da Pulcheria al cristianesimo, veniva a Gerusalemme, non solo trattavi dalla pietà verso i luoghi santi, ma anche dal desiderio di rivedere quella, che questa pietà le aveva svegliato nel cuore, quella che nella sua anima ardente, suscettibile delle più vive impressioni, aveva suscitati nuovi entusiasmi e nuovi ideali di santità. Era una figlia, che veniva dalla sua madre spirituale, avida delle sue parole, de' suoi esempi, de' suoi consigli; era una discepola, che voleva vedere la sua maestra sul proprio campo d' azione ed ammirare i meriti di lei sul teatro ove maggiormente si spiegavano. L' incontro fu perciò pieno di esultanza d' ambe le parti, e, mentre la giovane, brillante imperatrice esprimeva alla Santa penitente, tutta la sua gioia del rivederla e del rimanere qualche tempo con lei, e le rivelava l'animo suo, chiamandola madre, quella di tutto glorificava il Signore, e di tanta confidenza e di tanto affetto dimostratole approfittava per spronare la regale discepola a maggior pietà verso Iddio, a maggior misericordia verso gli altri.

Eudocia era al colmo della letizia, e non si staccava mai dal fianco di colei, che le faceva dimenticare le delizie splendide della corte di Bisanzio e quelle intellettuali della coltura ellenica per quelle delizie divine che il cielo presta alla terra, e che solo le anime generose sanno trovare e gustare dietro le severe apparenze che le celano. La sua maestra ed amica le diceva di quelle parole, che possono suonar rigide ad orecchi usi alle blandizie, da cui sono sempre accarezzati i grandi, ma Eudocia, educata alla scuola austera di Pulcheria, era preparata ad udirle, e sulle labbra di Melania esse prendevano tale soavità che scendevano al cuore come un linguaggio armonioso, e gli aprivano nuovi orizzonti. La dotta Atenaide, che aveva passata la gioventù sognando le muse della sua Atene, la felice Eudocia sollevata all'altissima dignità di imperatrice d' Oriente, gustava forse accanto a Melania il primo istante di vero riposo nella sua vita; forse l'unico istante; quello che Iddio le concedeva, perchè si temprasse l' animo per le procelle non lontane; quello, al quale un giorno avrebbe dovuto guardare con rimpianto. Intanto ella voleva inebbriarsi interamente dell' olezzo delle virtù, che fiorivano nei giardini dell'amica sua, e visitò il monastero delle vergini trattandovi come sorelle le figlie della sua madre spirituale; passò pure in quello degli uomini, e, saputo del piccolo martirio, che Melania stava edificandovi, chiese che si accelerassero i lavori perchè la cerimonia della dedica e della deposizione delle reliquie potesse avvenire in sua presenza.

Ben volentieri Melania la compiacque, e l'imperatrice assistette alla cerimonia, nella quale doveva trovare tanto pascolo la sua fervente pietà; le reliquie erano ormai al loro posto; non si sa di quali martiri fossero, ma probabilmente v' erano tra esse quelle di Santo Stefano, a cui aveva tanta devozione Melania; l'imperatrice, uscita dall'oratorio, stava per entrare nel monastero, quando cadde e si slogò un piede, riportandone acuti dolori. Fu un generale turbamento di tutti gli astanti; Eudocia venne trasportata alla sua dimora presso l'Anastasi, e Melania, afflittissima, andò a prostrarsi colle sue vergini sulle reliquie dei martiri, implorando da Dio la guarigione della regina. Nè la grazia si fece lungamente attendere; ben presto un messo veniva a dire alla Santa che ogni dolore era cessato alla imperatrice, ed ella stessa ritornava nell'oratorio ringraziando Iddio, che l'aveva guarita per l' intercessione dei suoi martiri e della sua serva Melania.

Troppo presto per visitatrice e visitata venne il giorno in cui Eudocia dovette far ritorno alla Corte; la sua santa amica l' accompagnò fino a Cesarea dove esse si separarono piangendo, tanto grande era la dilezione, che univa ormai quelle due anime; Melania seguì colle sue preghiere la regina fino a Costantinopoli, e quando la seppe lietamente giunta alla Reggia, ne rese le più ferventi grazie a Dio.

Quel legame d'affetto tanto intimo tra la donna, che aveva calpestato ogni gloria mondana, e quella, che ne era al culmine, prova quanto amabile fosse l' austerità dell' una, quanto profonda la pietà dell' altra. Il Gregorovius che nel 1881 pubblicò un'erudita biografia di Atenaide, credette poter asserire che dopo la sua conversione al cristianesimo e sul trono accanto a Teodosio II, ella era rimasta greca e pagana nella coltura e nei sentimenti, e solo dopo la sua visita a Gerusalemme si sentì divenuta cristiana vera e fervente. Il Cardinale Rampolla in una sua eruditissima nota dimostra come nel dare questo giudizio il Gregorovius abbia colto poco nel segno. (Nota XXXV). Basta a noi il contemplare questa amicizia così tenera colla nostra Santa per decidere quale dei due storici abbia ragione; solo in un' anima profondamente cristiana poteva nascere tale amicizia per una donna, che non aveva più gusto per nessuna cosa terrena e non palpitava più se non per gli alti ideali del cristianesimo; quest' amicizia principiata probabilmente al letto del morente Volusiano, al quale Eudocia fece venire il vescovo Proclo per battezzarlo; continuata per un mese in mezzo al lusso della corte orientale, ove l'abito povero di Melania avrebbe dovuto incontrar lo scherno e il disprezzo di un' imperatrice dall' animo pagano; quest'amicizia alimentata anzi dall'ammirazione per virtù che erano la perfetta pratica dei precetti e dei consigli evangelici, rende difficile a Melania la sua partenza dalla capitale orientale, e piega l' imperatore a permettere che poco tempo dopo Eudocia segua a Gerusalemme la serva di Dio. Elettissimo vincolo, che non poteva formarsi tra due anime troppo estranee l' una all' altra, esso brilla come fulgida gemma sulla fronte di quella povera Eudocia, che doveva essere fatta segno un giorno alle più atroci accuse e spegnere la sua vita avventurosa in mezzo alle più strazianti sventure; esso fa apparire più attraente la virtù di Melania, che circondandosi pur sempre di terribili austerità, conservava tal fascino da attirare a sè anime poste in una via affatto diversa dalla sua e legarsele con un vincolo d' affetto indissolubile. Bisogna dire che quel volto emaciato dalle penitenze avesse tale celeste espressione da far dimenticare ciò che le privazioni più rigide hanno di spaventoso per la debolezza umana; bisogna dire che la bellezza dell' anima trasparisse così da tutti gli atteggiamenti di quel corpo, sul quale essa esercitava tanto impero, da fare affatto perder di vista la squallida povertà dell' abito; bisogna dire che il soave linguaggio giungesse ai cuori come un' eco di concenti paradisiaci inebbriandoli di desideri celesti, rendendoli avidi di celesti conversazioni ed innamorati della privazione, della povertà, dell' abbiezione, queste figlie di cielo, la cui luminosa aureola è fastidiosa come nera caligine agli occhi dei ciechi della terra!

Le meraviglie delle carezze divine—La dolcezza, l' umiltà, il desiderio del Cielo—Comunione quotidiana—Dall'esilio alla patria.

«Iddio compiva tutto quanto la Santa desiderava», si affanna a ripetere ogni momento il biografo giunto a questo punto della sua narrazione. Sì, Iddio si chinava alla sua serva con quelle carezze ch' Egli riserba a' suoi più intimi, e colle quali communica loro qualche cosa della sua onnipotenza; non solo gli avvenimenti prendevano quel corso che la Santa desiderava, ma i mali più ostinati e pericolosi cedevano al contatto di quelle sue mani misericordiose, che avevano profuso tesori per il sollievo delle miserie altrui, che s' erano stancate nella copia dei codici per guadagnare il pane dei poveri, che ora divenivano ministre delle grazie straordinarie di Dio. E a lei erano condotti gli infelici, che non speravano più nulla dai rimedi umani; ella, tesoriera non più solo di ricchezze terrene, ma di divine misericordie, parlava loro della bontà del supremo Donatore, ed in nome di essa li rimandava consolati. Il biografo dice innumerevoli i prodigi da lei così operati, e ne riporta alcuni. Una fanciulla di nobile famiglia aveva interamente perduto l' uso della favella; le labbra e i denti le si erano poi così serrati che non poteva più introdurre nulla nella bocca, per cui aveva già passati tre giorni senza assolutamente riuscire a prender cibo, benchè i medici, chiamati dai parenti, fossero accorsi numerosi, ed avessero usato di tutti i rimedi della loro arte.

Il caso pietoso fu narrato alla Santa, la quale, piena di fede in Dio, disse che avrebbe condotta l'infelice donzella sulla tomba dei Martiri, nella cui potente intercessione ella sperava. Ve la condusse infatti accompagnata dai parenti e da numerosi conoscenti e vicini; e si prostrò qualche tempo nella più fervente preghiera, poi, levatasi prese dell' olio santificato dalle reliquie dei Martiri e ne toccò le labbra dell' inferma, dicendole: «Nel nome del Signor nostro Gesù Cristo apri la bocca». Tutto intorno le stavano i presenti, alcuni forse alquanto increduli, altri ansiosi di narrarle che da tre giorni quelle labbra non si movevano; ella semplicemente disse loro: «Credete nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, perchè la malata aprirà subito la bocca». Ed infatti quando furono per la terza volta toccate dal santo olio, le labbra con inciarono a muoversi e i denti s' apersero; la Santa porse da mangiare alla fanciulla, che si nutrì, mentre, gli astanti lodavano e ringraziavano il Signore.

Un' altra grazia simile Melania ottenne ad altra donna colpita dallo stesso male.

Ad una povera madre era morto nel seno il bimbo, che stava per dare alla luce, ed ella s'era così aggravata che i medici la davano perduta. Coloro che la circondavano pensarono subito di ricorrere alla soave dispensatrice delle misericordie divine, ma non osa rono proporle che sì degnasse d' andare fino all' ammalata e solo le chiesero che pregasse per lei stando a casa. Non era questo suggerimento adatto alla carità di Melania; ella si mosse subito per recarsi dalla misera; prese anzi con sè alcune delle sue vergini facendo loro riflettere per via quanta riconoscenza dovessero al Signore, che, chiamandole ad una vita più perfetta, le aveva sottratte ai dolori, cui vanno incontro le altre donne (1) Questo fatto potrebbe parere contradditorio con quello della rigida clausura imposta dalla Santa alle sue vergini, nè la spiegazione, che si presenta alla mente, quella di un' eccezione alla regola fatta dalla Santa stessa per ammaestramento alle sue vergini è poi conciliabile col rigore che poneva sempre la Santa nel fare osservare dette regole. Presentammo la difficoltà al Cardinale Rampolla, il quale rispose che l'apparente contraddizione si può conciliare col fatto che la Santa non impose subito al monastero la rigidissima clausura, fin dal principio della fondazione, ma alquanto dopo. Difatto racconta il biografo che ad impedire che le sue vergini dal monte degli Olivi si recassero a Gerusalemme a prendere i bagni imposti da ragioni d'igiene, ella ottenne dal patrizio Lauso che a sue spese portasse l'acqua nel monastero, il qual fatto prova che fino allora la disciplica della clausura ammetteva certe latitudini. Ora può esser benissimo che il miracolo, del quale furono testimoni le vergini, sia avvenuto in quel frattempo.. Appena la morente la vide, con voce quasi spenta si raccomandò alle sue preghiere; la Santa commossa fino nel più intimo stette alquanto in orazione presso al letto di lei, poi, preso il suo cingolo di pelle, ne la cinse ed all'istante il bimbo morto uscì, e la madre fu liberata. Con quella fine delicatezza con cui ella compiva sempre le opere sue, Melania apprestò ella stessa cibi delicati alla povera donna; il merito del miracolo attribuì poi alla santità dell' uomo di Dio, che aveva a lei regalato quel cingolo in vista dei cui meriti senza dubbio, Iddio s'era degnato risanare l'inferma.

Così alla carità, per la quale aveva compìto il prodigio, sottentrava subito l' umiltà, che suggeriva alla Santa tutti i mezzi per ritirar se stessa nell' ombra, per far scomparire la personalità sua dall'azione, in cui aveva avuta tanta parte, attirando tutta l'attenzione degli astanti ai meriti di uomini santi e dei Martiri. Era quell' umiltà, che in altro capitolo abbiamo studiato nelle sue fonti e ne' suoi motivi, la quale qui si manifestava negli atti; era il desiderio dello spogliamento totale di sè, dell' annichilamento della personalità propria, perchè in tutto rifulga solo la gloria di Dio, era sentimento basso di se stessa, ed era amore, per cui quella, che si pensava e si diceva serva inutile desiderava essere tenuta tale anche dagli altri esser negletta, dimenticata, affinchè il concento di laudi andasse direttamente a Colui, ch' ella amava, ed ai Santi, nelle cui virtù risplende la gloria di Lui; era amore, quell' amore che gioisce del proprio niente, perchè è tutto Colui, per il quale arde. Avanzando ogni giorno in quest' amore, la Santa ogni giorno s' era più approfondita nell' umiltà; ed in questa abnegazione, in questo annichilamento della sua persona stava la sorgente di quell'altra virtù, che la rendeva cara a tutti: la dolce mansuetudine, che già l'aveva fatta un agnello coi persecutori dei suoi santi propositi giovanili, e che sempre s'era accresciuta in lei. Ella stessa diceva che non s' era mai coricata con amarezza in cuore contro chicchessia; contristata, ella per la prima andava con grandissima mansuetudine a chiedere indulgenza, confessando di conoscersi peccatrice e tale da non poter sostenere il confronto coll' ultima delle donne secolari; nelle dispute, sorte per colpa anche d' altri, sua massima sollecitudine era di riconciliarsi con chi le paresse adirato; ella poi adirata non era mai, e la sua pazienza mansueta valeva spesso a fare sbollire la collera altrui e a raddolcire gli animi più esacerbati. Così negli ultimi giorni di una vita passata tra vicende diverse, la troviamo quale l'abbiamo ammirata nella sua giovinezza; ella s'era avanzata negli esercizi della più aspra penitenza, aveva conosciuto le gioie della più rigorosa solitudine e dello studio assiduo e profondo, aveva spezzati i ceppi di migliaia di schiavi, aveva rialzato dal fango delle poveri infelici; fondatrice di monasteri, era stata direttrice di vergini e di monaci; nelle dispute teologiche dell' epoca aveva sostenuta l' integrità della fede contro le eresie pullulanti nel campo della Chiesa; a piene mani aveva sparso intorno a sè opere sante e meravigliose, di cui una sola sarebbe stata bastante a rendere grande una vita di donna, ed intanto compagne d' ogni opera sua, le erano state sempre quelle due virtù, che avevano infiorati i primi passi del suo eroico cammino, quelle virtù sorelle, che sono il fondamento e lo splendore della santità: l'umiltà cioè, che rende cari a Dio e lo forza ad aprire il tesoro delle sue grazie, e la dolcezza e la mansuetudine, che rendono cari agli uomini, ed attirano e vincono gli animi. E cielo e terra parevano infatti stringersi ogni giorno più con amore alla creatura angelica, la quale a tante meraviglie aveva posto la più fulgida corona con una meravigliosa imitazione di Colui, che ha detto: «Imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore».


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Nell' unione più intima col dolce Salvatore stava il segreto di una vita che stupisce chi la contempla; l'operaia assidua nel campo di Dio, mentre con una mano operava, coll'altra, secondo la poetica espressione di S. Bernardo, s'appoggiava al Diletto dell' anima sua, a Colui che era sua sapienza e sua forza, al quale ogni giorno si stringeva in quell'intimo amplesso che l'anima umana ha col suo Dio al banchetto eucaristico.

Il nostro secolo assiste ad un risveglio d' amore verso l' Eucarestia, incoraggiato e benedetto dal Vicario di Gesù Cristo, Pio X, che, concedendo inaudite larghezze, attira tutti i fedeli ad accostarsi, quotidianamente a Gesù. Ma l' uso della communione frequente ed anche quotidiana risale ai tempi apostolici; i cristiani dei primi secoli erano assidui alla santa Mensa, alla quale attingevano la forza per i combattimenti nell'era delle persecuzioni. Nel quarto secolo, data la pace alla Chiesa, moltiplicatosi enormemente il numero dei fedeli ed intiepiditosi il fervore della primitiva pietà, cominciò a variare la disciplina a seconda dei luoghi. In Oriente il rilassamento fu più notevole, mentre il primitivo fervore si manteneva più acceso in Occidente e sopratutto a Roma, che rimase il centro della pratica della Comunione quotidiana derivatale dall' istituzione direttamente ricevuta da ambedue i Principi degli Apostoli, Pietro e Paolo. Il testo latino della biografia di Melania lo dice esplicitamente, asserendo che la santa matrona «si comunicava quotidianamente, non tanto per la consuetudine comune ai Romani, che l' avevano ricevuta dal beato apostolo Pietro e poi dal beato Paolo, quanto per il conforto e la tutela dell' anima sua» (1°ree;)—Numquam haec (Melania) cibum corporalem accepit, nisi prius corpus Domini comunicasset, quod maxime propter tutelam animae percipiebat, quamquam et consuetudo Romanis sit per singulos dies communicare. Primitus enim Apostolorum beatissimus Petrus episcopatus gerens, deinde beatus Paulum ibidem consumatus hanc traditionem fecerunt.—Questo è l'unico esplicito documento che di tale tradizione l'antichità ci abbia tramandato. Il Card. Rampolla nella sua dotta Nota XXXVIII dimostra su quali solide basi esso è fondato..

Com'è antica la consuetudine della frequente partecipazione ai divini misteri così lo è pure la disciplina del digiuno avanti la Communione eucaristica, e se ne hanno documenti anche anteriori al IV secolo.

Melania, l'amante dell' Eucaristia, che non aveva mai mancato, malgrado la povertà cui s' era ridotta, di offrire secondo l' uso del suo tempo gli elementi della santa oblazione, non mancava neppure a questa consuetudine della sua Roma, più profittevole, più santa ancora dell' altra; tutti i giorni ella s' accostava all'altare; e nella mano destra coperta da un pannolino, sotto la quale teneva, secondo il rito dell'epoca, a guisa di trono la sinistra, riceveva con quale venerazione interna ed esterna è ad immaginare, il Corpo del Signore, indi partecipava al mistico Calice, rispondendo chiaramente Amen al sacerdote, che le annunciava esser realmente il Corpo e il Sangue di Cristo quello che le era porto. Poi nelle effusioni serafiche col suo Signore ella cercava, come dice il biografo, il profitto e la forza della sua bella anima, mentre nell' estasi del suo amore dimenticava la terra, inebbriandosi di desideri di Cielo. Così nel Cuore dell' Uomo Dio palpitante sul suo, ella, ricercatrice, non di sensibili dolcezze ma di sode virtù, beveva coll' eroismo della sua vita, la nostalgia della patria, sempre più intensa in lei. Colei che, giovinetta, aveva desiderato ardentemente spogliarsi delle sue immense ricchezze per meglio godere della intimità di Dio, ora bramava deporre anche la carne mortale per volare all' Oggetto del suo amore e tutta approfondirsi in Lui, e coll' Apostolo ripeteva: Cupio dissolvi et esse cum Christo. La corona era ormai pronta e dal Cielo rifulgeva di tutta la sua luce; colei, che per tutta l' eternità doveva andarne gloriosa, si struggeva ormai d' impazienza di possederla.

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Erano imminenti le feste natalizie di Nostro Si gnore Gesù Cristo dell'anno 439, Melania volle andare a celebrarle a Betlemme colla cugina, la vergine Paola; passata la santa vigilia in preghiere con lei e comunicatasi, quasi inspirata dall' alto si volse alla giovane parente e: «Prega per me, dolcissima mia —le disse—perchè d' ora in poi celebrerai senza me il Natale del Signore, chè fra poco sarà compiuto il mio viaggio quaggiù». L' inattesa rivelazione pose in lagrime la sua figliuola spirituale; quanto a lei tranquilla, quasi non avesse parlato di se stessa, se ne tornò a Gerusalemme e, noncurante della fatica della veglia e del viaggio, entrò nella Spelonca dove lungamente orò.

Il giorno seguente, commemorazione della morte di Santo Stefano, si comunicò nella chiesa a lui consacrata, poi tornò al monastero per celebrare la veglia del Santo colle sue vergini; secondo il solito ordine liturgico, ella lesse alla fine della salmodia gli atti della morte del Santo, poi le sorelle le chiesero che le benedicesse, affinchè Iddio la concedesse per lunghi anni ancora al loro affetto. Anche a queste sue figlie come poco prima a Paola, ella doveva annunciar prossima l'ora della separazione: «Iddio vi conservi sane e vi benedica»—rispose loro—«quanto a me non mi udirete più recitar la lezione; Iddio mi chiama ormai, ed io anelo ad entrare nell' eterno riposo».

Quella che così parlava era ancora sana ed entrata appena nel cinquantaseiesimo anno d'età; eppure le sue figlie non poterono a meno di sciogliersi in lagrime; esse sapevano che le parole di lei si sarebbero avverate, sapevano che la loro madre era animata da spirito profetico. E questa santa madre passava ora a dar loro gli ultimi ammonimenti. «Voi, dilertissime mie, vivete ed osservate la vostra regola con santo timore, poichè sta scritto:—Maledetto colui, che fa con negligenza l'opera di Dio.—Io non sarò più in carne con voi, ma Dio, che è eterno e tutte le cose riempie, vi è sempre presente, e conosce il cuore di ciascuna di voi. Vivete alla sua presenza, e custodite sino alla fine in carità e castità le anime vostre, poichè ben sapete che tutte avete a comparire davanti al suo tremendo tribunale, e ciascuna ne riporterà o il premio delle fatiche o il castigo delle colpe».

Aveva vegliato già tutta notte, ma non era ancora stanca di pregare e volle recarsi con Geronzio nella nuova capella presso al monastero degli uomini, dove con altre, si conservavano anche le reliquie di santo Stefano. Accanto a quei resti dei Santi, già vicina a diventar compagna dei Santi in Cielo, ella s'inginocchia e prende commiato da quelle ossa venerate e dalla terra con una preghiera in cui, effondendo tutta l' umiltà del suo cuore innamorato di Dio, rende inconsciamente la miglior testimonianza di sè: «Signore Iddio dei Santi Martiri, conoscitore di tutte le cose avanti la loro origine, tu sai la mia elezione fino da principio, che ti amai di tutto cuore e per il timore di te il mio osso s' attaccò alla mia carne (S. C. 1. 6); imperocchè a te, che mi formasti dal ventre di mia madre, l' anima mia e il corpo consacrai, e tu, tenendomi per la mano destra mi hai condotta col tuo consiglio (Sal. LXXII, 23, 24); ma essendo io di umanità vestita, spesse fiate ho peccato contro a te ed in parole ed in opera; contro a te, il solo puro e senza peccato. Accogli dunque la mia preghiera, che con queste mie lagrime ti offro per mezzo dei tuoi santi vincitori dell'arringo, e monda me tua ancella, affinchè, venendo io a te, siano spediti i passi dell'anima mia, e non mi rattengano i maligni demoni di quest'aria, sì bene a te venga senza macchia, dai tuoi santi angeli scortata, e sia fatta degna del tuo celeste talamo, dopo di aver udita la benedetta tua voce, onde a coloro nei quali trovi il tuo compiacimento sarai in quel punto per dire «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in retaggio il regno che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo» (Matt. XXV, 34). Poichè le misericordie ineffabili e la pienezza della pietà sono proprie di te, e tu salvi tutti coloro, che pongono in te fidanza». Poi ella si raccomandava all' intercessione dei suoi celesti amici: «Atleti del Signore, che per la confessione di Lui versaste il vostro sangue prezioso, movetevi a pietà dell' umile vostra serva, che le vostre sante reliquie sempre venerò; e come in ogni tempo mi ascoltaste, così pure al presente, voi, che franca avete la parola presso il clemente Iddio, intercedete affinchè Egli riceva in pace l' anima mia e sino alla fine custodisca i miei monasteri nel suo timore».

Che le parole di poco prima fossero state una profezia, che quella sua preghiera fosse una preparazione all' estremo viaggio apparve ben presto; ella stava ancora pregando che la colse il ribrezzo della febbre. Al monastero delle vergini intanto si cantava mattutino; ella tornatavi, mentre Geronzio, oppresso dalla angoscia, andava a cercare sollievo nel riposo, s' univa al salmodiare delle sue figlie; invano queste, accorgendosi ch' ella non poteva più reggersi, la pregarono di riposarsi; il suo amore, vincitore anche del male della morte, la sostenne fino al termine di mattutino. Questo candido cigno di Dio cantava così nel reclinar della vita la sua ultima canzone a Colui, per il quale solo era vissuto.

Ecco finalmente prostrata in un letto la forte amazzone del Signore; ella soffre fortissimi dolori di costa ed esorta il prete Geronzio a pregar per lei; ma nell' ardor della febbre e in mezzo ai dolori, il suo cuore di madre veglia ancora; ella vuole ancora le sue figlie attorno a sè; deve dir loro che le ha sempre amate tutte, che se con alcuna fu talora austera lo fu solo per quella spirituale dilezione, che non soffre difetti nell' anima amata; deve raccomandar loro ancora che tengano bene accesa la lampada per lo Sposo divino, che s' amino le une le altre, poichè la carità è la corona della perfezione, che stiano soggette al prete, alla cui custodia le lascia. E di nuovo assicura loro che le raccomanda a Dio, e dice loro che quelli, che si partono dalla terra vedono ciò che qui si fa, ch' ella le vedrà dunque ancora e, madre loro anche in seno al Signore, verrà a correggere quelle di loro che manchino.

Poi chiede d'esser trasportata accanto all'oratorio, ove sono le reliquie dei santi martiri.

Il male s'aggrava sempre più; in cinque giorni la Santa è ridotta quasi agli estremi; i medici le si affaccendano intorno per cercare nuovi mezzi di salvarla. Ella sorride alle loro inutili fatiche: «Quando i giorni sono al loro termine, Iddio chiama» dice loro. «Io udii una voce nel mio cuore, che mi disse: «per quanto facciano a nulla gioverà, poichè tu sei chiamata. A che dunque sforzarsi senza ragione? Non si può resistere a Dio». Ed a Geronzio, che a queste parole scoppia in lagrime: «Non piangere, padre— dice—ma abbi animo grande; non siamo quaggiù per rimanervi sempre».

Sorge infine la domenica, giorno dèl trionfo del Signore nella Rissurrezione, giorno che era stato sempre particolarmente caro al suo cuore, sesto giorno di sua malattia, giorno ultimo di sua vita, giorno del trionfo anche per lei. È appena l'aurora ed ella prega Geronzio che celebri la Santa Messa nell' oratorio accanto alla sua cella, e, poichè l'angoscia da cui era oppresso, affievolisce al povero sacerdote la voce, lo invita a pronunciare in modo più chiaro, affinchè ella possa unirsi alle sue preghiere; alla fine del san'o Sacrificio si comunica.

Era il giorno che precedeva quello dell' eterno riposo, ma neppur esso fu di riposo per Melania. A quella misera cella, ove moriva colei, che avrebbe potuto vivere nel più splendido palazzo di Roma, accorrevano da ogni parte uomini di Dio, vergini, monaci, avidi d'assistere al trapasso dell'anima angelica. Vedevano una donna affranta dagli spasimi dell' ultima malattia, quasi agonizzante, eppure ancora tutta intenta a consolare, ad ammonire, a consigliare altrui. Al Vescovo di Gerusalemme, Giovenale, venuto pure a lei, ella raccomanda i monasteri che «Iddio, dice colla sua solita umiltà, «si degnò concedere alle vostre preghiere, o santo Vescovo, e per mio mezzo volle fondare». Dalle mani di lui ella riceve una seconda volta la santa Comunione. Anche dai monaci del monastero d' uomini ella prende commiato, raccomandando loro che aiutino Geronzio, il quale, per amore di Dio, si prenderà cura di loro, e da tutti i presenti si congeda come chi sta per mettersi in viaggio, chiedendo a tutti preghiere. Ancora una volta ella benedice alla sua diletta Paola, e consola quell' inconsolabile dolore della sua figliuola spirituale; ancora una volta istruisce le sue vergini, ed a ciascuna dà il bacio di pace; poi, volta a Geronzio, fa a lui il suo testamento, affidandogli i suoi monasteri: «Anche mentre io ero in vita tu ne portavi il peso maggiore» dice ella «tanta più cura abbine ora; Iddio nostro te ne renderà Egli la mercede». Infine, detto addio a tutti, col volto illuminato di letizia, chiede che facciano orazione e, questa terminata, congeda tutti per riposare alquanto.

Era circa l'ora nona, quando a Geronzio, rimasto con alcuni uomini pii a pregare attorno a quel letto, parve che la Santa venisse meno, per cui egli credette venuto il momento di stenderle le gambe per l' immobilità del sepolcro: «Non è ancora tempo»—gli disse ella con un filo di voce.—«E quando sia tempo ce lo dirai?»—domandò egli. «Sì»—fu la risposta.

Lo splendido tramonto d'Oriente coloriva già il cielo e faceva ricordare la preghiera di Cleofa al Signore: «Domine, mane nobiscum, quoniam advesperascit». La ricordavano quella preghiera coloro, che assistevano piangenti allo spegnersi di quella vita, che era stata una splendida giornata davanti a Dio; per loro erano tutte le tristezze ed i timori del tramonto, non per colei che se ne andava, la quale salutava già col sorriso l'alba del giorno eterno. Era tornato a lei il Vescovo Giovenale con alcuni anacoreti dei dintorni di Eleuteropoli, i quali non poterono trattenere uno sfogo ai loro sentimenti: «Tu, che sulla terra hai combattuto il buon combattimento, lieta te ne vai al Signore—esclamarono essi—e gli angeli tutti ne esultano; ma noi gran cordoglio proviamo per la separazione dal tuo conversare di tanto giovamento alle anime». Ed ella: «E' stato quello che è piaciuto al Signore». Furono le estreme parole di quell' umile ancella di Dio, fu la sua estrema risposta alle lodi degli uomini, fu il suo ultimo inno di ringraziamento e di laude all' Altissimo per quanto aveva operato in lei.

Dalle mani del Vescovo ella ricevette per la terza volta la Comunione; poi, fedele fino all'ultimo respiro, all' osservanza esatta dei riti, baciò al Vescovo la mano rispondendo: «Amen». Dall' umile: Così sia della terra, l'anima sua, stretta nell'amplesso col suo Salvatore, passava subito all'alleluia del cielo; la sua voce angelica s' era appena spenta alle preghiere di quaggiù, che già cominciava per lei il glorioso cantico dei beati.

Il suo biografo, che con tanta cura amorosa descrive i minuti particolari di queste ultime glorie della Santa, spinge lo sguardo estasiato fino alla sua entrata trionfale in cielo; ci parla degli angeli, della cui bellezza gli pare cogliere un riflesso nel sorriso della beata, fattisi compagni nell'ultimo suo passaggio a lei, che aveva sulla terra imitato il loro conversare, contempla i Profeti muoverle incontro esultanti, perchè non una delle loro parole ella aveva trascurato e gli Apostoli associarla al loro coro, perchè aveva colle opere attuate le loro dottrine, e i Martiri festeggiarla, perchè aveva glorificate le loro memorie, e in mezzo a tutti Gesù Cristo, che dalla giovinezza ella aveva tanto amato, invitarla ad entrare nel gaudio del suo Signore, quel gaudio, del quale è detto che «non occhio vide, nè orecchio udì, nè entrò mai in cuor dell' uomo ciò che Iddio prepara a coloro, che lo amano».

Intanto la spoglia mortale, obbediente fino all' ultimo all'anima, che aveva così ben servito, si componeva in pace da sè; i piedi erano distesi, le mani conserte al sene, le palpebre chiuse in modo naturale; così la Santa aveva mantenuto la promessa fatta all'ingenua domanda di Geronzio.

Intorno a quella spoglia benedetta, monaci di vari luoghi si radunarono e tutta notte salmodiarono, poi essa fu rivestita delle insegne gloriose della penitenza, che aveva in vita prediletta; una povera tunica, il maforte, il levitongo, la cintura, tutti doni avuti un giorno da santi eremiti; non veste di lino, nulla di prezioso, nulla di fino attorno a quelle membra, che per amore di Dio avevano respinto ogni delicatezza; per guanciale sotto il capo venerato un cappuccio di peli appartenuto pure a certo santo uomo; l' amante della povertà non doveva aver nulla di proprio nemmeno nella tomba; l' umilissima donna doveva anche là rivestirsi per così dire della santità altrui, quasi nessuna santità avesse ella posseduto.

In questo modo credettero meglio onorarla coloro, che intimamente l'avevano conosciuta; così vestita e ravvolta poi in un piccolo lenzuolo, unica stoffa di lino intorno a lei, la posero a dormire il sonno dei secoli fino al giorno, che sarà l'estremo epilogo della storia dell' umanità, il giorno in cui brilleranno di maggior luce i corpi segnati dalle stigmate del patimento, in cui le insegne dell' umiltà e della penitenza diverranno i vessilli della gloria, quel giorno in cui i nostri occhi contempleranno il compimento di quella verità, che tanta generosa forza di distacco aveva inspirata alla piccola patrizia romana: non esservi cioè proporzione tra i patimenti, le privazioni, le rinuncie di quaggiù e le gioie, che ne saranno mercede.

La gloria sulla terra.

Valerio Publicola aveva sognato la perpetuità gloriosa di quel suo nome, che era stato ripetutamente consacrato nei fasti della Roma repubblicana ed imperiale. Il suo sogno doveva avverarsi al di là delle sue speranze; il suo nome circonfuso di gloria era destinato ad avere una vita di celebrità non solo a Roma, ma in tutto l'Occidente e nell'Oriente; vita che si sarebbe perpetuata attraverso ai secoli. Ma la gloria doveva venire da quella parte, dalla quale l'ambizioso patrizio s'era aspettato l'obbrobrio, e la perpetuità fiorire su quelle zolle, ch'egli aveva creduto avrebbero per sempre seppellito nell'oblìo il nome dei Valeri. L'ultima erede di esso esulatasi da Roma, dopo aver per amor di Dio rinunciato ad ogni speranza di figliuoli, cui legare nome e censo, pareva aver trovato gusto a sperperare ai quattro venti le ingenti ricchezze radunate dai suoi antenati, e chiudeva la vita nel lontano Oriente in una povera cella, felice, davanti al Cielo aperto, di arrivarvi senza più possedere un soldo di suo. Invece degli schiavi e dei grandi, che avrebbero dovuto raccogliere l'ultimo anelito della doviziosa patrizia, erano intorno a lei dei poveri monaci, ed uno di questi credeva contemplare schiere d'Angeli e di Santi scendere dal Cielo incontro a quella, che sarebbe presto stata loro compagna, e prestava l'orecchio a concenti celesti, che celebravano il suo trionfo. Ma il trionfo non doveva essere solo oltre le soglie dell'eternità; al trionfo celeste doveva corrisponderne uno pure sulla terra; il nome dell'ultima discendente della gente Valeria, fregiato già dagli uomini e da tali come un Agostino, dell'appellativo di «santa» mentre ella era ancora in vita, doveva con tale appellativo, consacratogli presto dalla Chiesa, raggiungere il culmine della gloria e della popolarità: essere oggetto di culto. Melania seniore, l'avola della nostra Santa, aveva pur ella conculcato il fasto del secolo, ma travolta nelle controversie origeniane, aveva in quelle oscurata la propria gloria; la figura di Melania giuniore, fedele sempre alla più perfetta ortodossia di dottrina come alla più rigorosa povertà, si elevava fulgida sopra quella dell'omonima parente. Il culto di lei, cominciato probabilmente nei monasteri edificati un giorno dalle sue virtù e nella Chiesa di Gerusalemme, si propagò presto a tutto Oriente. Eusebio Alessandrino nel secolo V parlava già di lei in un sermone; Teodoro Studita in principio del IX secolo la celebrava in un'ode dedicata a sante Donne; la Chiesa greca, invocandola Santa nostra madre Melania, romana, fissava la sua festa il 31 Dicembre, giorno di sua morte, e questa festa diventava presto così popolare in Oriente, che la troviamo comune a tutte le Chiese di rito greco: Greci puri, Melchiti, Russi, Serbi, Bulgari, Ruteni, Rumeni festeggiano tutti col medesimo culto la nobile matrona romana. Bellissime preghiere sono rivolte a lei nei libri liturgici greci.

«Tu, che ai danzanti cori di angeli ti associasti, quando l'amor divino ti accese, e per il dispogliamento di affetto alle cose visibili e la purezza ti indusse a spiegare alto il volo; allora con parole a Dio devote cattivasti il tuo consorte, aborrente l'instabile tumulto fluttuoso della vita. Ond' è che con ciò la vita perenne ed il gaudio ritrovasti, o Melania, che supplichevole volgi lo sguardo affinchè siano salve le anime nostre.

«Tu, che ardentemente amasti la vita degli angeli, quando la voluttuosa mollezza calpestasti dandoti alla continenza, alla veglia, al dormir sulla nuda terra, alla umiltà, allora vaso tersissimo divenisti, dei manifesti carismi del divino Spirito inoltre abbellita, o ripiena di sapienza. Laonde col tuo zelo da Dio ispirato io trarrò i popoli e tu, Melania, conducili al Signore e Salvatore delle anime nostre.

«Tu, che fosti adornata delle bellezze delle virtù quando adempisti la salutare parola e dispergendo largisti le miriadi del tuo oro ai poveri e ai bisognosi; allora ricevesti la celeste beatitudine, facendoti ricca di giustizia e di immortalità e di rendenzione, o degna in tutto di essere venerata. Ond'è che onoriamo la tua dormizione, e ti supplichiamo istantemente di pregare il Creatore acciocchè faccia salve le anime nostre».

La sua generosità verso i poveri di Cristo è in particolar modo celebrata.

«Le tue molte miriadi di oro distribuisti a coloro che erano veramente bisognosi; queste deponesti nei tesori che giammai si consumano, ma in eterno conservano copiosamente fornita la tua stabile mansione.

«La ricchezza della tua compassione, o degna di essere celebrata, fu come fiume che irriga ogni indigenza di bisogno, lava ogni sordidezza di povertà, a te procaccia la inviolabile beatitudine che non viene meno nei Cieli».

Altrove è cantata la sua aspirazione alle cose celesti.

«Rifuggendo dall'abbassarti alle cose di quaggiù, ogni inclinazione piissimamente consacrasti, o gloriosa per la elezione, alle sole cose che restano e sono eterne».

In altro luogo è dato alla sua penitenza il titolo di martirio.

«Della bellezza dell'anima tua, il tuo Fattore innamorato, te, martire, si toglieva a sposa veramente bella ed immacolata.

«Amando la mortificazione della passione di Colui che, impassibile, fu ucciso per noi, martire veneranda, muori della morte di martire.

«Qual sacrificio spirituale, qual pura vittima consumata, a te, Dio, si offrì colei che amò la tua croce».

Forse queste preghiere, od altre simili a queste, recitate a date ore del giorno o della notte nelle chiese dalla Santa matrona stesse edificate, erano conforto ai rimasti. Le sue vergini vivevano col pensiero a lei, e spesso si raccontavano, ch'ella aveva mantenuto la promessa lor fatta in morte, ed era apparsa ora a questa ora a quella, riprendendo ora l'alterigia dell'una, ora la pigrizia dell'altra.

Una volta l'imperatrice inviò a prendere alcune delle vergini per averle a Costantinopoli; v'era tra queste una, che la Santa stessa aveva ricevuto davanti all'altare. Costei una notte si leva tutta atterrita e dichiara che non partirà mai, che ne diede parola alla Beata, la quale le era apparsa sgridandola per il suo proposito di allontanarsi da quell'altare presso il quale ella l'aveva ricevuta in olocausto dalle mani della madre. Ed ecco che presto le sue parole sono confermate dal ritorno di altre sorelle, che già s'erano messe in cammino, le quali avevano avuta la stessa visione, e da una lettera dell'imperatrice stessa, che pure era stata in visione ammonita. «La cosa ha dell'incredibile» dice ingenuamente il biografo Geronzio «ma è pur vera e nota a molti».

Forse gli infocati accenti alla Santa romana consolarono un giorno le lagrime di Eudocia cacciata sotto accuse molto probabilmente false, dalla corte imperiale e dal fianco dello sposo, vanamente cercante pace in quei Luoghi santi, ove tante dolci emozioni aveva avute un tempo. Ahimè! Ella e Geronzio dovevano essere vittime di triste inganno; queste due anime così care a Melania, pochi anni dopo la morte di lei abbindolate dal monaco Teodosio, che, reduce dal concilio di Calcedonia ne recava false relazioni, si lasciavano attirare dalla eresia monofisita, trascinandosi dietro i monasteri della Palestina, che Geronzio in gran parte dirigeva ed Eudocia proteggeva, nè valevano a trarli dalla falsa strada le lettere che il Pontefice San Leone Magno, a conoscenza del loro inganno e fiducioso nella loro buona fede, dirigeva loro in modo paternamente benigno. Solo più tardi, nel 456, da nuove terribili sventure piombate sulla sua famiglia, Eudocia era condotta ad aprire gli occhi, e, confortata da Sant'Eutimio, unico in Palestina, che avesse salvato sè e il proprio monastero dall'eresia, ritornava alla ortodossia cattolica. In questo ritorno non la seguiva il povero Geronzio, che persistette nel suo errore fino al 483, quando venne definitivamente allontanato dai monasteri che dirigeva. Triste fine senza dubbio per chi aveva cominciato la vita sotto gli auspicî di una Santa ed era stato onorato da tanta fiducia di lei!

L'opera umana è per se stessa caduca e soggetta a distruzione, nè l'opera dei Santi in quello che ha di umano e di terreno va immune dalla legge generale. I monasteri di Melania, che, poco tempo dopo la morte della loro Fondatrice, avevano attraversato la terribile bufera morale dell'eresia monofisitica, due secoli circa più tardi dovevano venir travolti e andar distrutti nella bufera materiale dell'invasione persiana. Nel Maggio e Giugno 614 i Persiani, aizzati e aiutati dagli Ebrei, assalirono, presero, devastarono Gerusalemme, e il monte degli Ulivi durante l'assedio di venti giorni, rimasto alla balìa degli assalitori, vide la distruzione dei suoi fiorenti monasteri e l'eccidio dei suoi monaci e delle sue vergini; penetrati i Persiani poi in un monastero di quattrocento vergini, queste fecero uscire a forza per darle in preda all'infedele e licenziosa soldatesca; ma quelle donzelle, piuttosto di subire l'oltraggio del loro pudore, preferirono morire da martiri. Erano forse le figlie di Melania, che terminavano con un trionfo l'era di vita dell'istituzione della loro madre; nella bufera religiosa i monaci erano stati vittima di tale caduta, che avrebbe fatto piangere l'apostola dell'ortodossia cattolica, se ancora si fosse trovata sulla terra; di quest'ultima traversia uscivano invece vittoriose quattrocento fanciulle, che, lasciando la vita incontaminate, dovettero far esultare in Cielo di giubilo nuovo l'apostola della purezza verginale.

I monasteri della Santa nel secolo VII erano dunque ormai un mucchio di rovine, ma il culto di lei sopravviveva anche alla sua opera; dall'Oriente colla conoscenza della sua biografia esso era passato in Occidente. Nel secolo IX, Usuardo, erudito monaco benedettino francese, iscriveva il nome di lei nel martirologio compilato per incarico di Carlo il Calvo, e da esso il nostro Baronio lo portava poi nel martirologio romano. Il 31 Dicembre, giorno della morte della Santa, il martirologio romano così ne annunciava l'elogio: «è il giorno di santa Melania giuniore, la quale col suo marito Piniano lasciata Roma e andata a Gerusalemme, quivi rimase colle donne a Dio consacrate ed il marito cogli uomini e, condotta santa vita, ambedue santamente morirono».

Alla commemorazione della Santa, la Chiesa pose la corona dedicandole a partire dalla fine del 1907 il suo annuo pubblico culto. Così la figura angelica dell'ultima discendente della gente Valeria torna a rifulgere sulla sua patria, che la nobile romana un giorno abbandonava tra lo scherno dei grandi suoi pari. Sui ruderi, che nell'alma città parlano dell'antico fastigio della sua gente, ella s'eleva gloriosa di una gloria nuova più grande dell'antica; su quegli avanzi morti, che dicono grandezze sparite e sepolte sotto il cumulo dei secoli, ella appare fresca di fiorente giovinezza; al nome di sua gente, ricoperto ormai dall'oblìo, ella dà un lustro nuovo e lo risuscita fra i popoli italiani, che non si rammentano della potente e doviziosa famiglia, se non per invocare quella che ne disprezzò la grandezza terrena e la rifiutò; ella è fulgida gemma, che nel diadema, del quale compiacevasi ornarsi la gente Valeria, unica sopravvisse e resistette alle invasioni barbariche ed agli insulti del tempo; le ricerche pazienti dell'archeologo, scoprendoci dal sottosuolo di Roma le meraviglie delle dovizie ch'ella calpestò e dal sottosuolo del sacro monte degli Olivi quelle ch'ella ideò e compì per l'amore di Dio, non faranno che aggiungere al suo fulgore.

Così la dolce figura, che s'elevò radiosa ed ammaestratrice sulle pazze avidità, le turbolenze, le catastrofi dei secoli IV e V, appare anche al secolo nostro in tutta la sua maestà di maestra, additandoci ove s'acquetino le convulsioni di società che s'abbandonarono alle vertigini di un caos senza base e senza bussola. In modo speciale alle donne che in questo caos s'aggirano ormai confuse e trepidanti, cercando sempre nè mai trovando la propria via, essa dice la parola che è per loro luce, sostegno, norma di cammino sicuro tra le tenebre circostanti. Alle eredi di un gran nome e di vistose ricchezze dice che valgano queste umane grandezze e come s'illustrino; a quelle, che dei sacri affetti famigliari vogliono farsi scala per arrivare al Cielo, insegna come si ami santamente, ed alle anime, che con uno slancio solo si buttano nelle braccia di Dio, e Lui solo cercano e Lui solo vogliono, rivela le caste ebbrezze del celeste amore, e come da esse si debba scendere all'amore e al servizio dei fratelli. Alle donne studiose è inspiratrice di accesa brama della verità, che le farà seguaci e sostenitrici di sapienza vera e di dottrine infallibili; alle amanti dell'azione segna i confini e propone i modi di una larga e santa azione femminile; alle infelici narra le gioie del patire per un fine superiore; alle cadute insegna le lagrime redentrici versate ai piedi di Gesù. A tutte ripete la lezione che troppo spesso vien dimenticata dalla donna d'oggi, pur nei suoi sogni più ideali: che, cioè, il segreto vero della elevazione della donna sta in una parola: sacrificio; che il modo migliore per la donna di procurare la salvezza della società sta ancora nella medesima parola sacrificio; che tanti sforzi e conferenze e progressi ed istituzioni nuove sono per la donna tutta roba inutile quando a tutto illuminare manchino i raggi di quella celeste parola sacrificio! Con questa parola è caro a me il chiudere come in una sintesi suprema questa storia di una vita, che fu sotto ogni riguardo una meraviglia perchè fu tutta un'immolazione; con essa mi è dolce accomiatarmi dalle mie sorelle italiane, per le quali questa storia scrissi; alle quali auguro che, sapendo penetrare al di là dell'esteriore severo, rintraccino e gustino tutta l'intima dolcezza, tutte le arcane gioie, tutta la forza possente contenute in questo talismano, che la donna raccolse un giorno sul Calvario quale estremo legato del suo Redentore spirante sotto gli occhi della più pura delle Vergini e della più addolorata delle Madri; che da quel giorno ella custodì sempre gelosa nelle pieghe della propria veste come tesoro più specialmente suo, come promessa di una vita nuova, come pegno di una dignità non mai sognata prima, come arra di sicure vittorie e di trionfo: il sacrificio di sè per amore di Dio!

Visto nulla osta.
Torino, 8 Gennaio 1909.

Teol. P. Corgiatti
Revis. Deleg.

Visto: si stampi.
Torino, 28 Gennaio 1909.

C. Ezio Gastaldi Santi, p. Vic. gen. +

PAG.

Capitolo I. (382-383)—Un matrimonio patrizio.—La gente Valeria.—Il cristianesimo ed il paganesimo di fronte nel secolo IV.—Il sacrifizio di Melania seniore. —Valerio Pubblicola.—Albina Ceionia.—Nascita di Melania juniore 1

Capitolo II. (383-397).—L'erede dei Valeri.—Sua educazione. —La coltura delle dame romane al secolo IV. —La verginità nella Chiesa.—La promotrice della vita monastica a Roma.—Lo sviluppo spirituale di Melania 14

Capitolo III. (397-400).—Velerio Piniano.—La sposa e la madre.—La promessa sul sepolcro di S. Lorenzo 33

Capitolo IV. (400-402).—Il primo discepolo di Melania. —Un nuovo angioletto in cielo.—Una nuova vergine sulla terra 47

Capitolo V. (402-404).—Uno strano corteo.—Un asilo di pace e un solitario poeta.—Il trionfo d'Onorio a Roma.—L'intervento della mano di Dio 56

Capitolo VI. (404-406).—I solitari della villa suburbana. —Il mutamento di vesti.—I digiuni.—Le opere di misericordia.—La madre degli schiavi 67

Capitolo VII.—L'ospitalità nella villa della Via Appia.— Una causa illustre.—La dottrina di Melania.—Il patrimonio dei Valeri 86

(404-408).—Nuovi ostacoli esterni.—La visita a Serena.—Tentazioni 98

(409-410).—Visita a San Paolino di Nola.—La morte di Stilicone e di Serena.—Fuga in Sicilia.— Il complotto di Pompeiano.—Assedio e caduta di Roma.—Incendio di Reggio.—Morte di Rufino 116

Capitolo VIII. (410-417).—Una burrasca provvidenziale. —L'approdo in Africa e le accoglienze di un illustre amico.—Tagaste.—Il dono più prezioso alla casa di Dio 129

Capitolo IX. (410-417).—L'istitutrice di vergini.—La studiosa, la contemplativa, la penitente.—L'apostola 139

Capitolo X. (410-417).—Un uso strano del'secolo IV.— Pelagio.—I resti di santo Stefano 151

Capitolo XI (417-419).—Viaggio a Gerusalemme.—Due incontri ad Alessandria.—Amicizie di Melania in Terra Santa.—L'eresia pelagiana.—Geronzio.— Malattia di Melania 162

Capitolo XII. (419-420)—Vendita dei beni di Spagna.— Viaggio in Egitto 177

Capitolo XIII. (420-431).—La solitaria dell'Oliveto.— Mortedi Albina.—Un nuovo monastero 187

Capitolo XIV. (431-432).—Disciplina della Chiesa e liturgia nel secolo IV.—La liturgia nel monastero di Melania. —Perle raccolte dal fango 199

Capitolo XV. (432-436).—Morte di Piniano.—Fondazione di un monastero d'uomini 209

Capitolo XVI. (436-437).—Una lettera di Volusiano.— Viaggio a Costantinopoli.—La corte d'Oriente 220

Capitolo XVII. (436-437).—Le vie di Dio.—L'ultimo colpo a Nestorio.—Gli assalti del nemico 234

Capitolo XVIII. (437-438).—Ritorno a Gerusalemme.— L'amore non è mai soddisfatto.—La visita di Eudocia 242

Capitolo XIX. (438-439).—Le meraviglie delle carezze divine.—La dolcezza, l'umiltà, il desiderio del Cielo. —Comunione quotidiana.—Dall'esilio alla patria. 253

Capitolo XX.—La gloria sulla terra 268

pag.lineainvece disi legga:
6011natoresenatore
6719secolo Vsecolo I
8626sessantasettanta
8928NisibemoNisibeno
8929MosopotamiaMesopotamia
9411la stessa imperatrice Serenala stessa Serena
1129aviriziaavarizia
12122odio dei ministri orientaliodio dei ministri
13823trecento dieciduccento dieci
1391trecento dieciduccento dieci
16129estrinsicazioneestrinsecazione
1675AnastasiaAnastasi
16816AnastasiaAnastasi