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Alessandra Macinghi Strozzi
Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo xv ai figliuoli esuli
Frontmatter and Commentary
Edited by Cesare Guasti
Firenze: G. C. Sansoni, 1877

PROEMIO

La storia stessa generale, se non discenda al municipio,
anzi se non penetri nella famiglia e nell'intima vita
delle anime singole, massimamente delle più degne
che sian conosciute, è fredda, sterile, falsa.
TOMMASEO Dizionario estetico, 1221.

Raccogliendo molti anni fa queste Lettore con amore, copiandole di mia propria mano per meglio indovinare illustrandole via via per altri documenti, e in fine curandone adagio la stampa (quasi ozio erudito fra le mie quotidiane occupazioni); pensai già di premettere ad esse Lettere un discorso non breve, sulla vita familiare in Firenze, dalla giovinetta che inspirò l'austera anima di Dante alla moglie che il Machiavelli dipinse nel suo Belfagor; cercando qual fosse la donna che allattò le generazioni forti del più civile medioevo, e quella che educò rimi cortigiani Medicei: nè avrei temuto di sobarcarmi a questo lavoro d'erudizione, nè disperato di suscitare dal gelo dell'erudizione qualche calore d'affetto. questo intendimento mi posi a leggere le ricordanze domestiche, dove in poche linee sono ritratte le spose e le figliuole degli antichi mercanti, narrate le liete feste funerali, descritti i conviti nuziali e le donora: poi
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ricercai gli statuti suntuari; svolsi curiosamente i novellieri che sono i veri pittori del costume, attentamente la vite e i trattati morali (scritture custoditrici del pensiero), dove troppo sparsi ma tanto preziosi sono gli accenni di quella che oggi ha nome di scienza educativa, ed è cosa arida e sbiadita qual fiore di stufa, com'era arte pratica allora, ed aveva la vivezza e 'l profumo del fiore che nasce spontaneo ne'campi; nè dimenticai le lettere di oscuri uomini e di donne ignote, dove nessuno istorico si sognò mai che stesse con la vita del popolo il più vero segreto dei pubblici fatti. Ma dinanzi a questa lieta preparazione sorgeva in, me un pensiero mestissimo. - Per chi lavori tu? La donna che tu credi di ravvivare, è morta per sempre! Alla famiglia è sottentrata la pedagogia: la legge disconosce ciò che fa santo bello immortale l'amore: ogni giorno più la donna si emancipa, e scioglie quei legami, che le erano sostegno alla debolezza, velo al pudore. E tu vuoi rappresentare la donna del medioevo? che sa appena leggere l'uffiziolo della Vergine; che dinanzi a un'ancona di Giotto o dell'Angelico prega per i figliuoli andati sulle galee cariche dei drappi di Calimala; che seduta sulla cassa dipinta, dov'è il suo corredo, fila e favoleggia? - Questi pensieri mi fecero uscire ogni voglia di scrivere; e mettendo le carte da un lato, pensai che bastasse dar fuori per ora questo volume, e offrire così nuovi documenti a coloro che, « eredi di prosperevoli anni » (per dirlo con la frase di Dino Compagni), potranno ragionare delle cose antiche con minor nausea della gente moderna. E lo do in serbo alle Donne italiane che hanno intelletto d' amore; a quelle, dico, che al pari della ignoranza sdegnano la dottrina saccente, e le gioie della famiglia e i dolori amano più di quella pubblicità, per cui la donna (salvo rare eccezioni) o si
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spoglia troppo o si maschera. Esse, dunque, custodiscano con reverenza amorosa la parola di questa Gentildonna fiorentina, vedova e madre di esuli; a cui Filippo Strozzi, mercante, mi par che avrebbe dedicata una statua per segno di filiale pietà nel suo principesco palagio, se come ne pose con solenne rito le fondamenta nel 1489, così ne avesse potuto festeggiare il compimento (1). Dalle prime Lettere sino al ricordo ch'ei fece della morte di lei, appare quanto egli venerasse questa cara madre che, restando in Firenze, e riscaldando le speranze de' figliuoli lontani, e congiungendoli a giovinette fiorentine, mantenne in. essi il desiderio della patria, e fu cagione (io fermamente lo credo) che il più storico ramo degli Strozzi non si trapiantasse nel Regno, come fece il ramo di messer Palla di Nofri nelle terre de' Veneziani.

II

Questi due rami degli Strozzi, che avevano le case congiunte sull'area stessa dove oggi sorge il palagio magnifico, s'erano staccati fino dai primi del secolo XIV da un Lapo di Strozza d'Ubertino. Lapo fu comune stipite della famiglia storicamente accertato : chè da un Palla di Lapo nacque Onofrio, e di lui il celebre messer Palla; da Loso di Lapo, un Leonardo da cui venne Filippo, e da questi un Simone che fu padre di Matteo, nato dall'Andreina di Neri Rondinelli il 22 di settembre del 1397. Matteo, matricolato all'arte della lana nel 1415, diede opera alle lettere latine, e udì filosofia da Giannozzo Manetti: nè alle lettere dettesi solo (secondo scrive Vespasiano
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nel brevissimo Commentario che ci lasciò di lui (2); perchè sì ha memoria di più ragioni d'arte di lana che aveva nel 21, e si conosce il segno da lui usato a marinare. Ma è tanto bello leggere di questo lanaiuolo il carteggio latino con uomini dotti, e il politico con i principali cittadini! perchè di qui soltanto ci viene compiuta l'imagine de' tempi, di qui s'intende la grandezza delle famiglie e la influenza della Repubblica. Nè i soli ozi letterarii nè i soli traffici avrebbero fatto Firenze la prima città d'Italia; ma essa fu grande e singolare per la unione d'ingegni colti e operosi. Fu Matteo adoperato dalla Repubblica in vari uffici: provveditore de' Dieci di Balia nel 23, nel 24 e nel 26; conservatore del Monte della Vernia nel 32 (3) compagno degli oratori a Venezia nel 25; ambasciatore nel 34 al Signore di Faenza e a quello di Piombino. Nel 33 lo troviamo oratore al conte Francesco Sforza per persuaderlo d'esser contento che i crediti suoi verso il Comune fossero pagati d'inchiostro, cioè scritti su' libri del Monte: ch' era buono espediente ,economico e politico, perchè non correva denaro, e si obbligava il Capitano a stare in fede della Repubblica; la quale presentiva vicina la potenza dei discendenti dal villano di Cotignola. Abbiamo la lettera del Conte, che a' 3 d'ottobre lo invita a Reggioo, dov'egli allora si trovava; e resta anche la nota delle spese fatte dall'oratore in quella commissione. I biografi ci dicono Matteo non legato
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a una parte piuttosto che a un'altra, anzi alieno dal setteggiare, mentre l'Albizzi e il Medici si disputavano la patria; e dicono, per prova della sua imparzialità, che al tornar di Cosimo dall'esilio cercò d'essere gonfaloniere di giustizia, con animo di mettere nella città pace: ma era invidiata l'autorità e la reputazione ch'egli godeva fra' cittadini, i quali (come attesta Vespasiano) lo tenevano de' primi del suo quartiere. E mentre alcuni lusingavalo che avrebbe il supremo ufficio della Repubblica, trovò uno schietto amico che gli disse, come i medesimi lusingatori avessero nella Pratica trattato invece di- confinarlo. Egli non era concorso al Parlamento del 1433, trovandosi in ambasceria dal 28 di settembre agli 11 d' ottobre: ma non caldeggiò il ritorno del Medici; anzi (se dobbiamo più fede alla sentenza del bando che ai biografi) e' si oppose al Parlamento del 34. Nella sua propria casa si sarebbero adunati i cittadini che fermarono di fare spalla all'Albizzi scegliendo uno per quartiere che disponessero il tutto (4). Chi fa parlamento (diceva Niccolò da Uzzano) si scava la fossa: e Rinaldo degli Albizzi lo seppe. Il popolo convocato nel 34 disdisse il popolo del 33, perchè la nuova Balia disfece il fatto dell'altra, e si scambiarono gli esilii. La parte dell'Albizzi fu cacciata, la Medicea tornò; riportando dall'esilio com'è naturale, acerbi rancori. A messer Palla non bastò l'essersi guardato da ogni eccesso; non bastò l'avere rifiutato di venire in piazza con armi nel 33, e l'essere stato nel 34 della Balia che richiamò Cosimo. Quando meno
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se I' aspettavano, la sentenza del bando colse Palla e Matteo; e la ragione si diceva senza riguardo: «per non se gli vedere dinanzi» (5). Oh Firenze, Atene anche in questo! Aveva messer Palla oltre sessant'anni; ed ebbe allora confino per anni dieci a Padova. N'ebbe per cinque Matteo a Pesaro. Ma nè questi che mori subito e giovane, nè quegli che passò i novant'anni, rividero più il Palagio del loro Comune e le amate case!

III

Fra le miserie di quegli esilii si fanno innanzi due donne, che portano lo stesso nome: Alessandra. L'una, nata de' Bardi, era andata sposa nel 32 a Lorenzo figliuolo maggiore di Palla; l'altra, nata de' Macinghi, si era sposata a Matteo Strozzi fino del 22. Ambedue credo avesse in mente Vespasiano cartolaio quando scrisse: «Mostrerò delle donne dì tanti maravigliosi costumi, nate in Firenze, che sì vedrà che le non furono punto inferiori all'antiche di tutte le degne parte si richieggono a una degnissima.donna». Ma della prima soltanto compose la Vita, dandola alle fiorentine «come uno specchio»: non ricordò neppur l'altra nel breve Commentario che fece di Matteo Strozzi. Dette forse alla Bardi reputazione maggiore l'essere nuora di messer Palla, l'aver perduto il marito (confinato a Gubbio dopo il padre) in fresca età per mano di un fiorentino traditore, e il trovarsi celebrata di bellezza non meno che di virtù. Di lei,

Alma gentil nelle più belle membra,

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cantava il Tinucci (6), mettendo in rima affetti non suoi:

Sopra sue chiome d'or dico c' un velo
   Ride pulito bel crespo e sottile,
   El qual si scorge ben che par che copra;
   E talvolta un diadema alto su al cielo
   Porta leggiadro altero e signorile,
   Da far Giove fra noi venir di sopra;
   E '1 bel candido fronte, che quell'opra
   Addorna e regge, mai si vede offeso
   Da nullo incarco, nè si muta o varia,
   Ma sta , qual fusse in aria,
   Per miracol divin da sè sospeso.
   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Al mirar sotto gli archeggiati cigli,
   Ove splende il bel lume di due stelle
   Che alli raggi dei sole invidia fanno,
   Abaglio si, e' alcun non mi ripigli
   Se non posso ridir le cose belle
   Che dentro a quelle immagino che stanno:
   Ma pure, o veri amanti, il degno scanno
   D'Amor quivi vid'io, e sua saetta
   Quindi mi trasse fabricata d'oro.
   Quand'ella volge loro,
   Ne' cor gentili un dolze par che metta.
   Che spegne ogni disio d'altro tesoro.
   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Neve, foco, rubini e latte e sangue,
   Composte insieme dal Fattor superno,
   Son quelle guance, in ch'io mi specchio e veggio.
   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
   Quando le degne guance, ove talora
   Erbe, fior, fronde, rose e violette
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   Di sue proprie man mette;
   E '1 dritto naso e bel, che quelle odora;
   E l'angelica bocca, onde son dette
   Grate oneste e perfette
   Parole, di che il ciel so che innamora.
   Di perle i denti ancora
   Miro e '1 pulito mento, e dico: questa
   Data ci ha il ciel per nostra iddea terresta.
D'un cristallin color la gola svelta,
   Alta pulita splendida colonna,
   Esce dell'ampie spalle e largo petto.
   E oltre a le bellezze, pare scelta
   Da Dio a esempio a ciascun uomo o donna
   Che cerchi onesto vivere e perfetto.
   Le ben composte braccia con diletto
   Mirabil guardo, e le man dilicate
   Qual di vivorio bianche e ben distese.
   Lo star, l'andar palese
   Ci afferma e mostra, che la Deitate
   Con ogni estrema possa farla attese
   Reverente e cortese.
   Lieta e modesta sta con gravitate,
   Con tanta umanitate
   E con tale onestà tutta procede,
   Che credere non puossi, e pur si vede!
Rassembra iddea, s'ell'è con veste scinta,
   O 'n giubba o 'n cotta o da cintura stretta.
   . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
   E fo qui fine, Amore, a questo canto.

Di fronte a questa vaga pittura, a cui non mancano i colori ma il pennello del Petrarca, ecco come ce la rappresenta dopo il 1450 il cartolaio biografo: « La cioppa accollata, come vedova; il mantello in capo senza crespe; una benda in su gli occhi; il mantello le copriva in modo il viso, che non si poteva vedere ». E paragonandola alla venerabile Caterina degli Alberti, vedova di Piero Corsini, compie la lode morale di questa Alessandra;
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la quale visse fino al 1465, tra Firenze, Bologna e Ferrara: e in quell'anno morì (7), credo, alla Badia del Polesine dov'era col cognato Giovanfrancesco e co'figliuoli.

L'Alessandra Macinghi non ebbe biografi, non poeti: ma io la credo più fortunata dell'Alessandra de' Bardi; perchè a Vespasiano, che in quella sua Vita volle fuor del consueto rettoricare, può altri negar fede; nessuno vorrà negarla a queste Lettere, che l'Alessandra vergò tutte di sua mano, scrivendo inconsapevolmente per i posteri la storia de' suoi pensieri alti mesti sereni, e de' fatti domestici, ch' erano sovente un riflesso delle cose, pubbliche. Cominciano le Lettere di madonna Alessandra. dall'agosto del 1447: bisogna dunque ricercare prima di quest'anno in altri documenti la vita di Matteo Strozzi, della sua donna e de' figliuoli; storia di poche gioie e di lunghi dolori.

IV

Matteo Strozzi era letterato, e con i figliuoli di messer Palla, a lui quasi coetanei, Lorenzo e Nofri, aveva comuni gli studi. Leonardo Dati, che fu poi vescovo di Massa, e visse sempre in Corte di Roma, visitava ex Urbe i giovani Strozzi con lettere latine, scritte a penna corrente, ma forse più gustose di quelle che il Mehus pubblicò nel secolo scorso. E' raccoglievano codici; ne facevano scrivere; ne prestavano ai Ietterati con liberalità. «Perch'i' ho presentito il torto è stato fatto al Philelpho, ti ricordo innanzi si parta, ti faccia rendere le Filippiche, accíò non si perdano ». Così scriveva a Matteo il 21 di marzo del 1431 (8) un Benedetto di Piero Strozzi,
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che si trovava potestà in Empoli. E Luca di Guido Siciliano, che professava medicina a Bologna, mandavagli come una rarità la Fenice di Lattanzio. « Cum in comentationem tui nominis his ante diebus cum Dominico Martello conteranneo tuo, genere et sapientia insigni, venissem, et te virum in primis nobilissimum ac non mediocriter doctum comperissemus, hos Firmiani Lactantii, eloquentissimi viri, De Phoenice elegantes versus et luculenter scriptos ad te deferendos dedimus. Existimavimus quidem illos dignos esse claro et excellenti ingenio tuo, teque illis dignissimum; compertos, ut intelligo, in Argentina ultra montes oppido, et cum his Pauli Emilii iurisconsulti pervetusti elegantissima De jure Responsa, quae nondum ad Latium pervenerunt ». Ma il giovane Strozzi, sentito per avventura il Niccoli o uno di quegli altri dotti che stavano sul raccogliere libri, scriveva al dottore Siciliano: Belli i versi, ma non sono di Lattanzio (soggetto poi lungo di dispute, nè oggi, credo, questione definita); e gli chiedeva premurosamente i Responsi di Paolo Emilio, che non erano forse ancora ne' librai di Firenze. Il Siciliano riscrive, che i Responsi non erano per anche arrivati; e in quanto alla Fenice soggiunge: « Scribis illos quos recepisti versus non fuisse Lactantii Firmiani, sed illos luculenter fabricatos et ab optìmo ingenio constructos; cuius rationes lubenti animo audirem: quom otii quidpíani dabitur tibi, adduces illas, ut ne ego in errore perstem ». In altre lettere si parla di qualche opera di Leonardo Bruni: di una bella Carta d'Italia., posseduta da Matteo, stimata
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parecchi fiorini d'oro, e degna d'esse reregalata a un Re, ci ha lasciato ricordo l'Alessandra; (9) la quale, del resto, non parla mai del padre ai figliuoli come letterata; par serbando a loro i manoscrittí dov'egli tale appariva, e che a noi pervennero pochi e malconci. Anche nello scrivere Aveva Matteo una mano da uomo letterato, non da mercante, i paleografi sanno come i due caratteri differiscano, e i mercantili siano-di lettera aspra. Scriveva egli minuto e rotondo; e so è vero che nella forma delle scritture sia qualcosa dell'uomo, come molto è nello stile, -direi che la sua calligrafia rivela ingegno composto elegante. Gli era morto un fratello per nome Lorenzo (il Litta l'ha dimenticato nel suo imperfetto lavoro genealogico degli Strozzi); ed ecco parte di una lettera in cui sfoga l'animo addolorato. « Matheus Stroza Bernardo suo salutem. Si vales, bene est: ego vero, ubi me ad philosophos vitae magistros retuli legendos, paulo melius valeo quam solebam. Scis, enim tu, mi suavissime Bernarde, quam incredibili se prope intolerabili dolore angebar ob mortem Laurentii, dulcissimi mei fratris. Amabam enim ipsum et diligebam arctius quam ipsius naturae vinculum exigebat, propter egregiam quam in eo inspiciebam indolem. Cunctis namque mansuete vivebat, obsequebaturque benivole quibus poterat. Maiores natu diligentia multa venerabatur: quo in adolescentulis amore dignius reperiri quid potest? Non nil temporis quoque studiis literarum tribuebat, ut scis, qui una mecum nonnunquam de eo ipso suo studio colloquebare. Quam dulcissimo verbo illam omnem antiquitatem collaudabat! qua nil est quod in litteris aeque mihi placeat: recteque monentis verba placido animo
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perferebat. Parentum voluntatibus obtemperare se totis viribus nitebatur: quod qui minus faciunt, hominis. nomine indigni meo quidem iudicio sunt; nullius enim filii videntur. Sed quorsum haec? cum. habeas tu omnia, qui semper nostram domum frequentasti, cumque totum cognovisti; et ipse etiam tuo adventu tuoque nomine, ingenti corporis dolore conflictus recreabatur, positusque in ultima huius vitae die; et nobis reliquis ea in tempestate unica eras consolatio. Quae cum liberalis ingenii mansuetique animi officia essent, ipsorum amore admodum ducebar; et cum tali orbatione illa omnia prorsus amisisse arbitrabar; me calamitosum, me miserrimum profecto dicebam, atque sic omnino esse putabam. Sed simul ac me, nescio quo pacto, ad philosophiam revocavi, primum didici, veluti pharmaco, ustione, secatione et ceteris generis illius medici corpora. reficiunt curantque, eodem itidem modo philosophos constantia, fortitudine, temperantia, reliquisque virtutibus hominum animis mederi, eosque sanare omni turbulentissimo motu atque aegritudine ». E qui, come portava il gusto letterario di quell'età, scende agli esempi di alcuni che sostennero con sicuro animo la morte, e pone da buon filosofo le ragioni perchè tutte le cose debbano morire; conchiudendo: « Quid enim stultius quam velle vel naturae vel ordini rerum insistere? aut mortem malam esse putare? aut non sic valere utque bona potius aequo animo ferre possimus? » Ma non meno che delle cose letterarie trattano delle politiche i carteggi de'principali cittadini con Matteo Strozzi: e quantunquepoche diecine di lettore ne avanzino, e in brevi anni si racchiudano; io credo che non scarse notizie darebbero per quella guerra contro Lucca, della quale potè ripetere Firenze col virgiliano Sinone, Hinc mihi prima
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mali labes; e qualche luce recherebbero su' fatti che prepararono la cacciata e il ritorno di Cosimo de' Medici; e nuovissimi documenti ne appresterebbero per la vita di Ramondo Mannelli, che delle cose del mare ebbe tanta perizia, e. della famosa vittoria de' Veneziani su' Genovesi a Rapallo fa autore.

V

Chi scorra i carteggi di Matteo Strozzi avrà forse da maravigliarsi come l'uomo implicato nelle pubbliche faccende, il letterato, come oggi dicono, della Rinascenza, pensasse a murare per sè e per pochi amici un romitorio sul poggio, di Fiesole, dove passare la vita nello studio delle sacre carte e nella contemplazione delle cose celesti. Ma conoscendo i tempi, par cosa naturalissima: nella città divisa, in quel parteggiare accanito, dovevano gli animi provare un grande sconforto; e più gli animi alti, ne' quali era più puro l'amor della patria: e nella rinnovata letteratura, che colle opere antiche dissotterrava anche le idee, doveva 1' anima cristiana trovarsi assalita dal dubbio; il quale so nelle scienze umano è buon cammino alla cognizione del vero, nelle cose sovrumane è strada faticosa alla negazione della verità. I giovani specialmente provavano allora, come sempre, bisogno di amare e di credere; e trovando in Palagio le ire partigiane, nelle Scuole la critica arida, pensavano che il vivere solitario conferirebbe a quietar le passioni e a ridestare la fede. « Veramente io credo » (scriveva a Matteo, il primo di febbraio del 1419, un certo -Antonio di Cristoforo ) « io credo che il vostro sia pensiero di, fare questo per. potervi alcuna volta dilettare del parlare spirituale, o veramente per essere più idonei e atti
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alla meditazione delle Scritture: le quali cose il luogo e l'aria altro non grida ». E offriva a' buoni giovani stanze e orto in bella postura sul colle Fiesolano; seguitando a confortarli con queste parole: « Quanto so e posso vi priego, che abbi effetto il vostro desiderio, perchè credo per nessuno altro modo potrete mai quietare et riposare i vostri animi, se non seguitando le virtù. E certamente non credo che altrove si riposi gentilezza, se non nel petto dell'uomo virtuoso ». Che avrà detto quest'Antonio di Cristoforo quando seppe che Matteo Strozzi sposava l'Alessandra Macinghi? Se uomo buono, come pare ch' e' fosse, avrà considerato che nel cuore de' giovani molte aridezze rinfresca e ogni gran vuoto riempie un alto pensiero d'amore; e che il desiderio della solitudine, la tendenza a cose più elette, sono spesso in loro preparamento a quella unione che noi crediamo fornata da Dio (10).

La sposa aveva appena sedici anni; e che nel 1422 non fosse solamente giurata o promessa (oggi diremmo fidanzata) lo farebbe credere il vedere che a' 4 di giugno i Macinghi pagavano a Matteo Strozzi la dote in millesecento fiorini, per carta di ser Stefano di ser Naddo. Ebbe ella cento fiorini più della Bardi; cioè dote grande per quel tempo, in cui (come osserva Scipione Ammirato (11)) non si soleva passare i millequattrocento fiorini di suggello: e tanto più grande rispetto allo Strozzi, che aveva fortune discretissime, e paragonate a quelle di messer Palla, meschine. Solamente dopo quattro anni nacque loro una bambina, che si chiamò Andreuola, poi nome dell'ava
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paterna (12); nel 27 Simone, nel 28 Filippo (e in questi nomi si rifecero il padre e l'avo, com' era costume caro delle famiglie), nel 29 Piero, nel 30 Lorenzo (così chiamato pel fratello di Matteo), nel 32 la Caterina, nel 34 l'Alessandra, e finalmente nel 36 Matteino. Non senza esempio, ma singolare, che alla figliuola si ponesse il nome della madre viva; comune, e pietoso, che nel figliuolo nato postumo si rinnovasse il nome paterno. Matteo dunque si trovava sette figliuoli, e tutti in tenerissima età (la Sandrina forse l'aveva al petto la stessa madre), quando ebbe il confino. A'12 di novembre del 1434 lasciava Firenze, e a' 18 si rappresentava a Pesaro; essendo obbligo dei confinati il mandare alla Signoria carta per mano di notaro, per segno d'avere ubbidito: e nol facendo, come rompitori del confino, erano aggravati con sentenza di ribello e confiscazione de' beni. A Pesaro, trovo quel Signore tanto cortese, che gli dette una ma per suo abitare senza spesa; trovò gentilezza di studi, e bontà ne' cittadini come se avesse avuto con loro comune la patria. Ma l'occhio cercava invano i palagi e i templi della bella Firenze, cercava l'animo i volti noti e le amato parole. « Ex qua re » (sentiamolo nel suo qualsiasi latino) « adeo premor, ut vix valeam respirare. Quisnam adeo ferreus aut adamantinus esset, quem non sua fortunae bona, honeste sìbi aut relicta aut acquisita, una cum patria amissa; quem non propinquorum affiniumque iocundissimus numerus, qui una cum patria derelinquitur; quem non amicorum ab ineunte aetate sibi vendicatorum suavissima conservatio, quae una cum amissione
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patriae ruit; quem non clientelae vetustissimae moverent? Certe moveor bis rebus omnibus exilio isto meo orbatus. Sed reficit animum Pesauri civitas, quae mihi est accomodatissima; in qua absque reprehensione rem familiarem gubernare arbitramur, et idonee satis. Reficit quoque civium omnium comitas atque affabilitas, qua me ita acceperunt uti apud illos semper vixerim. Sed demum me recreat et Dominorum administratio et magnificentia. Quibus rebus adiungitur quod etiam hic nonnullos adinveni qui litteris delectantur; in quìbus hac in tempestate omne meum solatium posui: unde illa ipsa magnarum rerum divina, ut ita dixerim, studia, per amicorum propinquorumque atque patriae negotiis longo intervallo intermissa, revocavi ». E in prova de'gravi o, com' egli dice, divini studi, a cui attendeva, entra qui a disputare de libertate arbitrii et divina praescientia, combattendo l'opinione di un certo dottore, che gli aveva messo davanti questo quesito: « Si Deus Platonis animam cognoscit salvandam fore, impossibile est quod illa non sempiterno aevo fruatur: quod si res se aliter haberet, non vera, in Deo esset scientia ». Lo Strozzi teneva rettamente: « Cognoscit Deus quae sunt futura apud nos, sed haud apud ìllum, et certa sunt et mutari non possunt »; e a mantener la sua dottrina si apparecchiava sillogizzando: ma la lettera rimane in tronco. Troncò forse la morte con la vita di Matteo la scrittura del cristiano filosofo? Può essere; perchè appena un anno visse lo Strozzi in esilio, e con rapidissima fine fu rubato alla moglie e ai figliuoli.

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VI

Non par credibile che Lorenzo Strozzi, facendo nella Vita di Filippo Suo padre (13) qualche memoria dell' avo, così vicino ai tempi com' egli ora, e certamente non sfornito delle carte domestiche, scrivesse tante cose inesatte. Giova qui notarne, e correggerne alcune. Fa nato Filippo nel 1426, mentre è certo che nacque nel 28 a' 4 di luglio. Tra' figliuoli di Matteo non ricorda l'ultimo, Matteino. Scrive che Matteo, trasferitosi a Pesaro, « la sua vita dopo cinque anni finì»; e aggiunge che « sì per non potersi dietro condurre soverchi carichi rispetto alle spese, sì per aver bisogno di chi alle sue possessioni attendesse, fu costretto, benchè male agevolmente il facesse, lasciare in Firenze la sconsolata moglie e i piccoli figliuoli suoi ». Ora i documenti, e queste Lettere dell'Alessandra, danno a noi il modo di saperne più e meglìo di Lorenzo Strozzi, quantunque nato da un figliuolo di Matteo e dell'Alessandra. Essa nella Lettera XI fissa ,con certezza le nascite dei figliuoli e delle figliuole; e nella III, « Penso » (dice scrivendo a Filippo) « come io rimasi giovane allevare cinque figliuoli, e di poca « età come savate. E questo Matteo mi rimase in corpo ». E nella 1V aggiunge, che somigliava « tutto il padre ». Che poi questo fanciullo nascesse il primo di marzo del 1436 (st. c.) è provato da quello che dice nella Lettera XI, scritta il 27 di febbraio 1452: «Matteo arà il primo dì di marzo anni diciassette». Dunque il padre suo morì innanzi finissero i nove mesi ch' egli stette nell' alvo materno, cioè fra il 35 e il 36; ed essendo cominciato il
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confino nel novembre del 34, i cinque anni del bisnipote biografo si riducono a uno e forse qualche mese. Che poi morisse di pestilenza Matteo Strozzi in Pesaro, mi fo a crederlo per due ragioni. La prima è, che madonna Alessandra nella Lettera XXXI ricorda a' figliuoli come tutti i loro passati se n'andassero di quel male (14): l'altra, chein que' pochi mesi le morirono anche tre figliuoli, cioè Simone, l'Andreuola, e Piero; trovandosi scritto, che la povera madre pensò di ricondurre a Firenze le ossa del marito e di questi tre figliuoletti, e riporle nei sepolcridella famiglia in Santa Maria Novella (15). In Firenze tornò, essa co' cinque superstiti; e perchè le fortune erano poche, molte le gravezze del Comune, appigionò per allora la casa grande, (16) e si pose a pigione in una casetta di Francesco di Piero degli Strozzi. La sostanza di Matteo, si residuava alla casa d'abitazione, posta nel popolo di Santa Maria degli Ughi, luogo detto il Corso degli Strozzi. (volgarmente poi piazza delle Cipolle) e una casetta allato della grande; più un' altra casa nel popolo di San Lorenzo in via San Gallo, appigionata a Ciliano trombetto della Signoria. Poche terre e case aveva a Quaracchi, a Campi, a San Cresci a Maciuoli e a Pozzolatico; ed era compagno a una bottega d'arte di lana
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in San Martino, che diceva in Lionardo degli Strozzi e compagni. Il valsente di tutto passava appena i quattromila fiorini. Nel giugno del 37 vendè la vedova il, poderuzzo di San Cresci; nell' aprile del 46, la casa di via San Gallo: e nel Catasto del 1451, alla portata di Filippo degli Strozzi e fratelli, si legge che tutti i beni immobili, « che furono di Matteo di Simone Strozzi loro padre, prese mona Allesandra loro madre per sua dote »; (17) de' quali era la rendita netta, nel 54, lire 703 e soldi 3, cioè fiorini 165. 1. 18. 0; più ventun fioriní della pigione che ritiravano dalla casa grande, avendone trentasei, e spendendone solamente quindici nella casa che abitavano (18). Ma quando stava in queste strettezze, rese più gravi dai catasti e dal balzelli, le fanciulle erano maritate, e i giovani già si avviavano a una grande fortuna. Del maggiore, ch' era Filippo, scrive Lorenzo
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Strozzi, che apprese benissimo l'abbaco, e fu poi dalla madre consegnato a Matteo di Giorgio Brandolini, amicissimo del marito, che in Palermo attendeva alle fàccende mercantili: e quantunque non ne abbia documento, lo crederò; ma non crederò al biografo quando scrive che «non era Filippo ancora in Palermo il secondo anno dimorato, che Matteo suo padre finì con la vita l'esilio». Ho testimone la madre, che il suo Filippo si partì da casa il dì 7 di marzo del 1441 (st. c.): nel febbraio del 46 (st. c.) s'allontanò Lorenzo; e finalmente Matteo, a' 7 di febbraio del 1450 (st. c.); ond'ella potè dire con verità: «Non ho altro bene in questo mondo che voi tre miei figliuoli; e per la salute vostra mi v'ho levati a uno a uno dinanzi, non guardando alla mia consolazione» (19).

VII

Chi apre il volume di queste Lettere si trova subito come invitato allo sposalizio della prima figliuola. La Caterina ci si presenta giovine di sedici anni, bella (a giudizio della madre) sopra ogni altra fiorentina, vestita d'una cotta e di una roba di zetani vellutato color chermisi; con una ghirlanda in capo di code di pavone fornita di perle e d'argento, e un'acconciatura di due trecce di perle; con un fermaglio d'oro in spalla, dentrovi due zaffiri e tre perle; e con una cintola di chermisi mischiata d'oro e fornita d'argento a trafori. E ove ne piacesse visitarla nella casa dello sposo in via del Cocomero, la troveremmo seduta nella sua camera, dov'è uno specchio, com'è di costume , che costa cinquanta fiorini
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d'oro, e vi sono due forzieri messi a oro e dipinti da maestro Domenico Veneziano, che tengono in mezzo un gran tabernacolo intagliato da Giuliano da Maiano all'antica e dipinto dal fratello di Masaccio, in cui sta una Vergíne di rilievo, colorita da Stefano di Francesco Magnolini, pittore che in ottant'anni deve aver fatto molte cose, ma che oggi appena si ricorda fra quelli che esercitarono l'arte. Fu Marco Parenti lo sposo di questa bella Caterina, che ebbe anche « costumi ornatissimi et onestissimi»; la quale dal 1481 dorme in Santa Maria del Fiore, dopo aver vissuto appena cinquant'anni, ma dando al marito ragione di scrivere, che passò con lei una vita « giocundissima e felicissima» (20). La minore sorella, Alessandra, non ebbe un marito come la Caterina, ricco, colto (21), costumato, senza fratelli, e di soli nove anni maggiore alla sposa: la differenza proprio, che assegnava Michelangiolo all' età de' coniugi (22). Giovanni Bonsi aveva una ventina d'anni più della fanciulla; e io credo alla nostra Alessandra, che fosse «giovane dabbene e virtuoso e dassai»; ma anche penso che aveva sei fratelli, certo ragazzo di oscura provenienza, che in per casa una portata al Catasto e' chiama «scioccherone e poco savio ». Nè di sostanze v' era (come allora dicevano) grascia: e queste Lettere parlano da ultimo di strettezze. L'Alessandra Bonsi sopravvisse a tutti i fratelli: Marco Parenti, morto nel 1497, vide la fortuna di quella famiglia
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(alla quale si era imparentato con reverenza, « considerato quali uomini e' sieno» (23) salire a una nuova grandezza, che sventuratamente si sarebbe poggiata sulle rovine della civile libertà. Ma meglio fu testimone di questo il figliuolo della Caterina e di Marco, Pietro Parenti, scrittore di una Cronica dalla morte di Galeazzo Maria Sforza al 1518, con stile degno di storico, come chi scorre questo volume può sincerarsí nella breve pagina dov' è ritratto Piero Capponi (24).

VIII

Le prime Lettere ci fanno trovare Filippo a Napoli, Lorenzo ad Avignone, dopo essere stato a Valenza e Barcellona, per andarsene poi a Bruggia: chè tre fratelli, amorevoli cugini di Matteo, gli avevano presi ne' Ioro banchi a educare nelle faccende mercantili; Niccolò teneva il maggiore, Filippo e Iacopo l'altro: anche il più giovine Matteo si avviò poi a quel cammino. Noi sentiamo molto ragionare la madre di quest' ultimo distacco. Pur vinse il desiderio « di tirarlo innanzi e farlo da qualche cosa» (25) ed eccolo già in punto per partire, vestito d'un gonnellino paonazzo e col mantello nuovo. Parti con Niccolò; e presso al fratello in Napoli cominciò a far la pratica così bene, che la povera Alessandra n'era tutta consolata. Già sin da fanciullo scriveva lettere, che sarebbe bastato a un uomo; e perchè si conosca se la madre s'ingannava a giudicarle tali, io ne ho qui raccolte alcune e pubblicate per saggio. Aveva buono intendimento, ma gentile complessione: ond' ella temeva che l'applicarsi troppo
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gli nocesse, nè si fidava di Filippo, che pare fosse di natura risentito e manesco. « Ti ricordo » (scriveva Alessandra a Filippo) «che quando Matteo sarà costà, che tu no gli faccia come ho sentito facevi a Lorenzo. Sieti raccomandato, chè non ce ne riman più ». E un'altra volta: « Fa' che tu non gli dia busse: fa che abbia discrezione di lui: quando errassi, riprendilo dolcemente; e' farai più frutto per questa via, che colle busse» (26). E di questo non s'ebbe ella a dolere. Le lettere di Filippo nella morte di questo giovinetto non hanno certo la soavità delle materne, ma l'affetto fraterno si sente bene in tre sole parole: «Sono in passione grandissima!» Quando sarà sazia la fortuna di perseguitarci? sono eglino i peccati nostri, o quelli de' nostri maggiori, che noi scontiamo? domandava Filippo, ma conchiudendo: Rimettiamoci in Dio! E l'Alessandra, dopo averci comosso fino alle lacrime con tante parole pietosissime, conchiude anche meglio: « Lodo e ringrazio nostro Signore di tutto quello ch' è sua volontà»! E questa rassegnazione spiega com' ella potesse, tra un periodo e l'altro, passare dal triste tema al discorso degli interessi. Nei romanzieri non si trovano siffatte dissonanze; le quali ben sonano armonia nel concetto cristiano, che vuole non pur sottomesso il senso alla ragione, ma alle disposizioni della Provvidenza il piacere dell'uomo. « David profeta » (così consolava Antonino arcivescovo una madre coetanea alla nostra Alessandra) « il fanciullino suo nato e infermato, lo pianse, pregando Iddio che lo sanasse: quando sentì, che era morto, si lavò la faccia, e andò a mangiare: e domandato della cagione, perchè si suole fare il contrario, cioè di piangere il morto, non il vivo;
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rispose saviamente: che, poichè era piaciuto a Dio di chiamarlo a sè, il suo pianto non lo risusciterebbe, nè a lui gioverebbe; ma esso l'aveva a seguitare per la morte» (27). Ma perduto Matteino, il pensiero di ravvicinare Lorenzo a Filippo si fece allora più dominante nel cuore della madre; la quale non era contenta di averlo tanto lontano, e meno poi tranquilla della sua condotta. Queste Lettere parlano assai; e son belle le pagine dove, senza metter da parte l'amore, anzi ispirata dall' amore, lo sgrida. Leggendole, vien fatto di pensare quanto danoso al costume fosse quell'andare i giovani fuori dagli occhi de' genitori, in case che parevano (come dice l'Alessandra) locande, col contatto di schiave che si vendicavano del loro servaggio colla potenza de' vezzi e il fascino di una rozza beltà. Ma considerando i tempi che vennero appresso, la nuova corruzione cortigiana, e l'ozio patrizio, e l'ignorante orgoglio, vien fatto di desiderare che le galee avessero durato ancora a condurre in levante e in ponente la gioventù fiorentina. D'un viaggio in galea fa Lorenzo alla madre una pittura viva e trista; e l'esservi il giovine trattato « come uno cane » (28), ci farebbe domandare a che Santi intendessero di raccomandarsi quando i naviganti cantavano quelle « Sante Parole » che ci ha serbate un codice del quattrocento (29), e comincian così:
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    Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
    Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
    Dienai' e 'l Santo Sepolcro;
    Dienai' e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra;     Dienai' e l'Agniol san Michele;     Dienai' e l'Agniol san Gabriello;     Dienai' e l'Agniol san Raffaello;     Dienai' e san Giovanni Batista e '1 Vangelista;     Dienai' e san Piero e san Paolo;     Dienai' e l'Appostol san lacomo;

con quello che segue. Ma chi facesse un po' di storia della marina toscana, (e quanto storie non ci sono ancora da comporre?) troverebbe tute disgrazie accadute per mare nostri mercanti, da domandare con la buona Alessandra, se le galee avevano addosso la scomunicai! (30)

IX

A Napoli finalmente si riunirono i due figliuoli dell'Alessandra; ed essendosi Niccolò Strozzi ritirato al banco di Roma (31), rimase loro tutto il campo di fare a proprio
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vantaggio. Filippo, fermo nel proposito di « rifare la Casa » (32), era entrato così nelle grazie del Re, che gli ambasciatori della Repubblica dovevano far capo al banco degli Strozzi per trovare facile accesso nella Corte: e gli Strozzi rendevano alla Patria questi ed altri servigi, mentre i cittadini governanti si mostravano ingratissimi. 1 figliuoli di Matteo sentivano poco il rigore del bando paterno; e difatti qualche volta si fecero vedere a Firenze, nè la madre, potendo ogni tanto riabbracciarli, risolvè mai di tornare con essi. Ma nel novembre del 1458 venne una legge che confinava i figliuoli e i discendenti de' confinati dal 34 in poi, per venticinque anni; obbligandoli a star lontano cento miglia, che per una provvisione del gennaio vennero ridotte a cinquanta, con facoltà di carteggiare per cose meramente private (33). Vender tutto, ed esular co' figliuoli, fu il primo pensiero dell'Alessandra; alla quale Filippo scriveva questa lettera
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stupendissima, dove il contrasto degli affetti è tanto più bello, quanto più il lamento dell'esule vien raffrenato dal rispetto alla Patria.

      « Amatissima e sfortunata Madre.

Per l'ultime mie vi dissi avere inteso del caso seguitosi costi contro e confinati nel 34, e come stavo con gran sospetto noi, non vi fussimo interchiusi; non per mancamento che mi paia avere fatto, ma solo per essere nella generalità delli altri. Dipoi, per lettere sutomi scritte da cotesti nostri parenti, per vostra parte, ne resto chiaro. E che mi sia doluto, vi dico di si: e ancora mi duole più per la passione che stimo n'avete voi, che per altro rispetto. Chè io prima, il secondo dì che lo sentì', ne presi partito; poi che rimedio non vi vedevo. Queste non sono altro che delle frutte di questo mondo; e chi è uso averne spesso, come noi, che cominciamo nella nostra età fanciullesca, non ne fa tanto caso, come quelli a cui giungono sori: sì che di tale parte abbiamo molto a ringraziare Iddio. Io resto pazientissimo, .poi ch' è suto di consentimento di chi governa; perchè sono certo l'hanno solo fatto per bene e riposo di tutta la città. E per questo non ho a diminuire la benivolenza che ho a' principali cittadini, nè eziandio l'amore che ho a la Patria mia. E pertanto vi priego e conforto che, toccando questo caso a' vostri figliuoli e non a voi, vogliate accordarvi con 1a volontà nostra; sì come noi faremo, di qualunche cosa che a voi toccassi, con la vostra. E sentendo questo, non mi fia forse minore consolazione che si fussi il dispiacere del caso; e' ogni cosa si vuole riputare che sia per lo meglio. Voi sete stata oramai sanza nessuno di noi dieci anni., e eravate atta a stare ancora
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parecchi; e leggiera cosa sarebbe suta che voi o noi fussimo mancati sanza più vederci. E questo caso sarà forse cagione di farvi ristrignere di fuori co' vostri figliuoli, e dì vivere e morire con loro insieme: che a voi e a noi ne risulterebbe non piccolo contentamento. Io soprastarò quì fino abbia da voi, se ci hanno risalvato qualche di di tempo per potere venire costà ad assettare e fatti nostri. In caso lo faccino, m'ingegnerò d'abboccarmi con voi. Quanto che no, me ne. ritornerò nel Reame, e adatteremo che voi vegniate sino qui in questa quaresima, e io farò di trovarmici; e piglierèno sopra ogni nostro fatto quello appuntamento che meglio vi parrà. Altro non v'ho a dire perora, se non confortarvi stiate di buono animo; e quando, v'increscierà lo stare costi sola, a voi starà l'andare a stare di fuori co' vostri figliuoli. Scritta in Roma, a. dì XVIII novembre 1458.

        « Vostro FILIPPO, in Roma ».

L'Alessandra ripensò più d'una volta se le convenisse. abbandonare Firenze, e ridursi a vivere co' figliuoli: ma, salvo a disporre le cose in modo che, morendo, il suo patrimonio non andasse confiscato; dell' andare altrove, « a far patria » non ne fece mai niente. Che sperava ella dunque ? Dirò francamente, che sperava nel ritorno de' figliuoli. Era suo detto: « Col tempo si vede delle cose! » (34) Nè a lei, memore anzi testimone e vittima. del 33 e del 34, faceva bisogno di risapere da Dante,. che i provvedimenti della Repubblica non giungevano da ottobre a novembre. Qual mutamento di fortuna non fu quello! e quanti non ne vide ella da poi! Conosceva le
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ambizioni, e pesava gli ambiziosi: capiva bene che il Medici seguiva la politica più sicura, perchè fidando negli errori dei suoi contrari, non aveva bisogno di far altro che aspettar le occasioni; chè mentre ambiva di avere in mano tutto, voleva che tutto sembrasse dato e non Preso. In quanto ai suoi contrari, dice finamente il Capponi, « lasciavagli frollare, sino a che non fossero costretti gettarsegli in grembo » (35). Era dunque medicea la nostra Alessandra? stava ella, in quelle gare civili, con la parte del Piano piuttosto che con quella del Poggio? (36) A chi gliene avesse domandato, la risposta per lei era semplice: Io sono donna, e non m'intendo di certe cose; chi mi renderà i miei figliuoli, a lui vorrò più bene. Ma in cuore pensava, che se Cosimo, e poi Piero, avessero voluto rendere ai suoi figliuoli la patria, e a lei i figliuoli, potevano: (37) mentre nelle promesse di Luca Pitti non confidava; uomo vanamente ambizioso, e però « voltante » e, « male inservigiato »: (38) a Dietisalvi Neroni e a messer Angelo degli Acciaiuoli era grata per l'affetto che mostravano ai suoi figliuoli, ma conosceva bene che la loro autorità non aveva fondamento nel popolo: e di Niccolò Soderini sapeva aperto il mal animo verso i giovani Strozzi, che pur gli erano nipoti. Imparzialmente però giudica del suo gonfalonierato; nè è meno severa al fratello di lui, Tommaso, che già marito d'una sorella della
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Lucrezia Tornabuoni, era tutto di Piero de' Medici. Al quale, e così alla Lucrezia, avea caro che Filippo si mostrasse cortese; e di certo lino, che lo Strozzi mandò da Napoli in regalo alla Poetessa, l'Alessandra scherzava scrivendo: « Mi pare che il detto lino nascessi in buon terreno » (39). Ma quando ebbe ottenuto il ritorno de' figliuoli, quantunque per favore di Piero, non adorò la fortuna di lui: e a onorar le nozze di Lorenzo de' Medici con la Clarice degli Orsini non mandò la nuora, sebbene da madonna Lucrezia invitata più e più volte. (40) Meglio che negli uomini, confidava in Dio; e pregandolo sempre pe' figliuoli con quella fede di che queste Lettere sono testimonio, vide finalmente quel giorno che era stato il pensiero di tutta la vita. Ma quel giorno (tale era il destino di Firenze) altre case restavano vuote, altre madri e spose piangevano! La congiura del 1466, che prese nome da Luca Pitti, e dovea toglier di vita Piero de' Medici, servì a confermarne la potenza; ed egli, sentendosi più sicuro, rese agli Strozzi la patria. Il Re di Napoli aveva chiesto tal grazia più volte, e anche a Piero; ma i cittadini non si messero mai d'accordo a concederla. Fuvvi chi disse: Io mi trovai a confinarli; non darò mai il voto perché ritornino! (41) Piero poi diceva, che aspettassero: e sapea ben egli ciò che diceva. Andato il figliuolo suo Lorenzo al re Ferdinando, se la senti nuovamente domandare; e allora annuì. Erano arti di una fine politica: legarsi co' benefizi i cittadini, e le grazie pubbliche dispensare come cosa privata. Di questo tempo mancano le Lettere dell'Alessandra; le quali ci avrebbero raccontato due fatti molto lieti per lei, che furono il confine levato ai
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figliuoli, e il loro matrimonio con due fanciulle fiorentine. Ma nelle Lettere che rimangono, è un gran ragionare dell' una cosa e dell'altra forse più della seconda, perché ella aveva sempre in bocca, che il tirare a far roba e non aver famiglia a cui lasciarla, era un corto pensare: e rappresentandosi la morte vicina, avrebbe voluto la consolazione di veder prima i figliuoli accompagnati. Lorenzo, come vissuto a briglia più sciolta, attendeva meno al consiglio materno: Filippo ascoltava il consiglio ma i grandi: affari del banco gli erano continua distrazione; poi credo che con la donna rivolesse la patria. E difatti, quando sente rinascere la speranza del tornare, anche ripiglia, il discorso della moglie; ma quando vede languire la speranza, chiede tempo a pensarvi. I due cognati Parenti e Bonsi consigliavano della scelta l' Alessandra; e Marco specialmente, che aveva bella parola, e pratica degli uomini. Si posero prima gli occhi sopra una de' Soldani, e una Bardi do' Signori di Vernio; ma questa parve rozza fanciulla: poi si fermarono molto a una figliuola di Francesco Tanagli, che andava tanto all' Alessandra (la vide in Santa Maria del Fiore, dentro un raggio dell'alba, che passando dalle nuove vetrate della Cupola di Brunellesco, ricigneva come iride la graziosa persona); e insieme sur una Adimari: sempre pensando per Filippo. Per Lorenzo, ora una or un' altra: parlavano d'una de' Borghini; pensavano anche alla Marietta, figliuola di Lorenzo e dell' Alessandra de' Bardi, alla Marietta corteggiata da un Benci, che per lei fece nel 64 una solenne Armeggeria, di cui è la descrizione alle stampe. L'Alessandra non ne parla mai con calore: solo mòrtale la madre fallito lo zio Gianfrancesco, le parve forse pietà rivolgere all' orfana un pensiero amoroso. Tutte queste ragazze, dipinte dall' Alessandra con que' colori che dà la
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bella lingua del popolo, ci paiono di quelle che il Ghirlandaio e il Botticelli hanno ritratte in pareti ed in tavole col pennello elegante. Firenze non ne aveva molte che avessero tutte le « parti », come allora dicevano, (oggi diremmo qualità): dov' era bellezza e poco cervello, do ve bontà con miseria, dove parenti da non desiderar per parenti. E l'Alessandra cita esempi di matrimoni infelici, (42) o vituperosi; (43) e dice come vuol essere la moglie buona; e fra' tanti ammonimenti ch' ella dà ai figliuoli, ve n'ha pure agli sposi. Questi due soli riferirò: « Un uomo, quando è uomo, fa la donna donna; l'avere buuona compagnia fa istar l' uomo consolato l' anima e '1 corpo ». Piacque finalmente la Fiammetta Adimari; e Filippo diè alla madre l'ultima consolazione da lei desiderata, d'avere per casa una bella nuora, e i figliuoli del suo figliuolo. Era la Fiammetta su' sedici anni, « bel viso e bella persona », come dice la nostra Alessandra. N'ebbe Filippo due figliuoli, vivente la madre; e nel primo, che fu maschio, avrebb' essa rifatto volentieri il nome di Matteo, nome doppiamente a lei cm: ma per rispetto al compare, che fu il Duca di Calabría, portò quello di Alfonso. La femmina si chiamò Lucrezia; e anche questo non le piacque. Soltanto in una figliuola avuta dalla seconda moglie (che fu la Selvaggia de' Gianfigliazzi) Filippo rinnovò l' Alessandra. (44) Vide, ma negli
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estremi suoi giorni, ammogliato Lorenzo con la Antonia Baroncelli; e non l' ebbe vicino: chè restò egli a Napoli, e quivi mori nel 1479 a una masseria (per dirlo alla napoletana) di certi fratelli da Sasso, fuori della porta che mena a Pozzuoli. (45) Matteo poi, suo figliuolo, rimpatriò. Ma l'armonia che fu tra' genitori (merito tutto della madre) non passò nei cugini. Alfonso di Filippo, dopo una gioventù scapestrata (fu de' Compagnacci, avversi a Fra Girolamo), almeno finì bandito per la parte che prese di Firenze; e le parole che disse nell'estreme Consulte ristorano la sua memoria: laddove Matteo di Lorenzo, seguendo la parte de' Medici, rimane nella storia sinistramente ricordato fra i consiglieri del duca Alessandro e del suo successore. Finì la linea di Lorenzo, a questi giorni, in Palla del Conto Filippo, che io conobbì giovane di buona indole e vivo ingegno nelle scuole del Collegio di Prato, e che dopo pochi anni morì per sempre alla vita dell'intelletto: ma nel Principe Ferdinando è ancora vivace la discendenza di Filippo, mantenutasi in quel Lorenzo che de' suoi antichi scrisse con amore le Vite, e all' ava sua, la nostra Alessandra, fece migliore elogio che una madre possa desiderare. «Da lei » (egli dice) i piccoli figliuoli di Matteo «con tanta onestà, reverenza e virtù erano allevati, che a «chi li vedea appena fu credibile». Sul sepolcro dell' Alessandra
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in Santa Maria Novella, neppure il nome! Ma Filippo, preso il Libro (46) in cui ella segnava il dare e l'avere, e i suoi testamenti e i ricordi, vi scrisse a carte LXXXXVIIII queste amorose e cristiane parole:

« + a dì II di marzo 1470.

Questo dì da mattina tralle 10 e 11 hore passò m.a Allex.a di questa vita chon tutti e Sagramenti e chon dolcisima morte. Fu sepellita honoratissimamente alla nostra sepultura in Santa Maria Novella. (47) Visse anni LXIII (48). Requeschant in paciem ».

Nel secondo giorno di marzo del 1471 (st. e.) cadeva il primo sabato di quella quaresima in cui parve scandaloso a Niccolò Machiavelli (49), che Firenze vedesse per la prima volta non rispettato il digiuno comandato dalla Chiesa, per compiacere allo sciolto vivere della Corte di Galeazzo Maria Sforza, venuto a visitare Lorenzo de' Medici con un seguito da gran re: e in quei giorni ardeva la bella chiesa di Santo Spirito, la quale da quarant' anni si andava riedificando sul disegno del Brunellesco; ardeva
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a causa di una. rappresentazione che, col nome di sacra, dovea divertire i cortigiani del Duca. Non siamo così semplici da voler trovare relazioni tra una privata donna e i fatti che coincidono alla sua morte. Ma non vogliamo disconoscere, che una generazione lasciava alI', altra Firenze più corrotta e meno libera. Il nome della Libertà, nell' anno 1466 se lo presero. i Priori, già chiamati delle Arti, per avere l' occasione di rammentarsene: ma nelle pagine di questa donna sentiamo come ventarci in viso l'ale della Dea fuggente. E la corruzione andò montando così alto, che il secolo finiva col mandare sul rogo il grande. Frate Girolamo!

X

Settantadue Lettere dell' Alessandra Macinghi negli Strozzi vengono ad accrescere l' epistolario italiano, e fors' anche i testi di lingua. Se non degne di tanto, se troppe, altri le giudichi, io mi prenderò volentieri la colpa: chè io le ho considerate prima, e sopra tutto, qual documento di storia; essendo cosa poi naturale che le siano scritto in quella lingua che l'Alessandra ebbe da' genitori nati nel trecento, e usò scrivendo come parlando con nativa proprietà, con popolare eleganza. Notai come della letteratura del marito non fiati neppure una volta co' figliuoli l'Alessandra, nè di sue carte o codici: e quando cita il libro di Albertano (corrompendolo in Lambertano al modo del volgo), mostra di conoscerlo solamente come sinonimo di gran favellatore (50): e chi ci dice che allora non fosso modo proverbiale! Non è dunque da cercare in queste Lettere la donna dotta. Ma oggi,
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che di tutto s'investigano le fonti, avrei dovuto anch' io perdermi dietro a indagare quanto dai libri derivasse in questo sue Lettere la buona vedova, e da questa indagine trarre non so quali induzioni sulla coltura della donna nel secolo che chiamano della Rinascenza. E poniamo che la memoria di qualche lettura le avesse suggerito un pensiero o una frase, ma chi non vede che qui tutto viene dal cuore? Qual pedante assetato vorrebbe, per bramosia di fonti, dire che quando l'Alessandra scriveva (51) « Prego Iddio che gli dia tal virtù e grazia, ch' io ne sia consolata »; qual pedante, ripeto, vorrebbe dire che ella avesse in mente il verso dantesco:

L'aiuta sì, ch' i' ne sia consolata?

Più gioverebbe studiare quanto gli scrittori, e Dante il primo, ricevessero di vergini forme dal labbro della madre, e come salvassero il caro tesoro passando tra i flutti e gli scogli della rettorica e della dialettica. Nei quali non ruppero nè affogarono le donne antiche, che se avevano qualche romanzo di cavalleria, non giornali avevano da leggere; ma soprattutto libri di religione, di morale, di storia. « Imparino » (così il buon Vespasiano esortava le madri, conchiudendo la Vita dell' Alessandra de' Bardi) « imparino a non far loro leggere nè il Cento Novelle, nè i libri del Boccaccio, nè i Sonetti del Petrarca, che, benchè e' siano costumati, non è bene che le pure menti delle fanciulle imparino ad amare altro che Iddio e i loro propri mariti. Fare loro leggere cose sacre, vite de' Santi Padri, o istorie, o simili cose; acciò che imparino a temperare la loro vita e i loro costumi, e voltinsì a cose gravi e non leggieri. Essendo loro di
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loro natura volte alla leggierezza, come sono, conoscano che questa dota che daranno loro delle virtù, sarà assai maggiore che non siano quelle de' danari, che si possono perdere; e quelle, per, ferma possessione, non saranno mai loro tolta insino alla fine ». A queste norme la madre degli Strozzi si tenne, educando sè e i figliuoli; e le sue Lettere sono come lo specchio della sua vita. Qui il pensiero non soffoca l'affetto; l'arte, se pur ve n'è, non costringe la natura. Ha sul labbro ciò che ha nel cuore; ma conosce la sapienza del tacere: nelle cose civili consiglia spesso più timida (quantunque i suoi giudizi a noi si presentino più sicuri), nelle morali va franca; perchè l' esperienza è in lei guidata dall'amore, e le osservazioni sue non dai libri sono attinte, ma (lo dirò con un concetto del Tommaséo) « dal suo sangue materno, dal latte del suo proprio seno, dalle lagrime de' propri occhi suoi » (52). E però ho volauo che le parole di lei restassero nelle carte quali uscirono dalla penna; non tanto per uso della filologia, che nelle forme antiquate o corrotte studia le origini e le trasformazioni dell' idioma, quanto perchè chi legge potesse sentire il suono di una voce, che dopo quattro secoli parla ancora di Famiglia, di Patria, di Dio (53). Lievi licenze mi sono prese, per agevolare la lettura; e il punteggiare
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è mio tutto. Le noterelle, che a piè di pagina stanno a dichiarare qualche volta il senso che a me era riuscito non facile a intendere, se a colto lettore, in certi casi, parranno inutili; altri forse, e specialmente i non toscani, potranno in certi casi giovarsene. Le Annotazioni racchiudono documenti di qualche importanza: vi sono lettere di altre donne, lettere, o brani di lettere, de' figliuoli; lettere di Marco Parenti, che non si crederebbero scritte dal banco di un setaiuolo di Por Santa Maria, chi non pensasse che su que' medesimi banchi furono un cencinquant' anni innanzi, da un. altro setaiuolo, scritte con eloquenza di storico le memorie de' tempi di Dante! E il carteggio di Marco con i cognati è cosa, pare a me, da studiare, e forse da pubblicare: il saggio lo dica. Che poi le lettere familiari sono la prima fonte storica, è cosa nota; ma che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo, vorrei averlo mostrato io con questo volume.
          Firenze, il 4 di settembre 1877.

C. GUASTI.



NOTES

1. Ved. il ricordo di Filippo de'16 d'agosto 1489, pubblicato dagli editori della Vita di Filippo Strozzi il vecchio scritta da Lorenzo suo figlio, con documenti e illustrazioni ec. (Firenze, 1851), fra i Documenti aggiunti, a pag. 70.

2. Vite di uomini illustri del secolo XV scritte da Vespasiano da Bisticci ec. Firenze, 1859. Il Commentario di Matteo Strozzi e a pag. 289-90.

3. Fu uno de' primi quattro Conservatori deputati dall'Arte della lana, a cui con una bolla di Eugenio IV veniva affidato il santuario del Monte dove Francesco d'Assisi «prese da Cristo l'ultimo sigillo».

4. Ved. le sentenze di bando dell'Albizzi e di alcuni suoi complici, riferite nel terzo volume delle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze (Firenze, 1867-73), e segnatamente a pag. 658. Matteo Strozzi fu anche obbligato a dar mallevadore per duemila fiorini.

5. Vespasiano da Bisticci, nella Vita di Palla di Noferi Strozzi, § XII.

6. Dopo d'aver citata questa Canzone di Niccolò Tinucci notaio a pag. 518 dei volume, come esistente in un codice Magliabachiano, mi sono accorto che si trova stampata fra le Prose e Rime de' due Bonaccorsi da Montemagno ec. ed alcuno Rime di Niocolò Tinucci. Firenze, 1718.

7. Lettera LIX.

8. Noterò una volta per sempre, che le Lettere dell'Alessandra, come tutti i documenti fiorentini, seguono nelle date lo stile di Firenze, che mutava l'anno il dì 25 del marzo susseguyente. Questo stile seguo qui ancor io; e se talvolta riduco la data allo stile comune (che Firenze cominciò a adoperare per legge soltanto nel 1750), ne fo avvertito i lettori ponendovi le sigle st. c.

9. Nota (C) alla Lettera V.

10. Questo cristiano pensiero vedilo espresso, alla sua bella maniera, da Marco Parenti alla pagina 478 del presente volume.

11. Storie florentine; III, 333.

12. Nella portata al Catasto dei 1427 l'Andreuola ha quattordici mesi, e Simone n'ha due. Ma questa prima Andreuola morì, e tra Simone e Filippo troviamo nelle portate del 30 e del 33 una seconda Andreuola.

13. È la Vita citata nella nota (1).

14. Ved. a pag. 295 (Lettera XXXI) e 421 (Lettera XLVII).

15. In un testamento che l'Alessandra fece il 25 d'ottobre 1437 a' rogiti di ser Niccolò di Francesco Galeotti, dispone di voler essere seppellita in Santa Maria Novella, in sepulcro dicti sui viri, dummodo tempore suae mortis dictus Matteus olim eius vir et Simon et Pierus et Andreuola eorum comune filii, qui omnes decesserunt in civitate Pesauri, fuerint in dicto eorum sepulcro eorum ossa recondita.

16. La prese a pigione Antonio degli Strozzi; e alla morte di lui (ved. a pag. 122) l'Alessandra vi tornò ad abitare nel novembre del 1454.

17. Portate al Catasto dei Quartiere Santa Maria Novella, gonfalone Lion Rosso, per gli anni 1427 (n.o 183, c. 237), 1430 (n.o 188, c. 246), 1433 (n.o 191, c. 231), 1451 (n.o 196, c. 782). E a questa ultima portata dei 51 s'accordano quelle già fatte da ma.donna Alessandra nel Quartiere di Santo Spirito, gonfalone Drago nel 1442 (Primo, a c. 92), e nel 1446 (n.o 73, c. 174); dove dà come suoi i pochi beni rimasti invenduti degli Strozzi, e conchiude: «I sopra detti figliuoli mantiene in sulla dota sua, perchè non anno nulla, e anno debito coi Catasto e coi Comune buona somma di danari; e a le fanciulle da marito, come vedete. E la detta rachomandasi a voi per l' amore di Dio ». Fra le cartapecore strozziane n'è una dei primo d'ottobre 1440, rogata da ser Lionardo dal Bucino, che contiene la restituzione della dote di fiorini 1600 all'Alessandra Macinghi in tanti beni stabili, fra' quali anche la casa d'abitazione nel Corso degli Strozzi, popolo di Santa Maria Ughi.

18. Queste notizie si hanno da certi Ricordi che Filippo scrisse, quasi volendo rammentare a sè stesso, ormai ricco, le poche fortune avanzate agli esilii e alle sventure de' suoi genitori.

19. Lettera IV.

20. Ved. le Annotazioni alla Lettera I.

21. Quando non lo mostrassero colto le tante sue lettere, varrebbe sempre l'autorità di Vespasiano da Bisticci, che nella Vita di Franco Sacchetti chiamò Marco Parenti « litterato e con buona notizia di filosofia naturale».

22. Le Lettere di Michelangiolo Buonarroti coi Ricordi ec. (Firenze, 1875). Lettera 182.

23. Pag. 12.

24. Pag. 75.

25. Lettera III, pag. 45.

26. Lettera VII, pag. 86.

27. Ved. la VII fra le Lettere di sant'Antonino arcivescovo di Firenze, raccolte dal ch. padre Tommaso Corsetto de' Predicatori. Firenze, 1859.

28. Pag. 29.

29. Le sante Parole che si dicono in galea o in nave doppo d'essere stato qualche giorno senza veder terra. Codice già Strozziano 511 (Rime di vari), ora Magliabechiano, VII, 1145, a c. 25 e seguenti. - Dienai' intendo Die n'aiti (Dio n'aiuti, ci aiuti); come Dienguardi, che è nei Vocabolari.

30. Lettera LX1, pag. 526. Di una galea perduta, ved. alla pagina 282 (Lettera XXIX).

31. Molto si parla di questo Niccolò nelle Lettere dell'Alessandra e de' figliuoli; e nelle prima specialmente se ne esalta la pietà verso gli orfani di Matteo Strozzi. Per quanto più tardi le relazioni fossero meno intime, Niccolò fu memore di Filippo e di Lorenzo nel testamento, sostituendoli a Leonardo, suo nipote per parte di fratello, nel caso che egli premorisse o entrasse in qualche religione: sostituendoli, dico, per una metà; e chiamando erede un Bettino d'Antonio di Galeotto da Ricasoli che nasceva d'una sua sorella e stava seco nel banco di Roma. Filippo Strozzi poi e nominato anche fra gli esecutori, e gli viene sostituito Lorenzo. Il testamento di Niccolò Strozzi fu fatto in Siena l' 8 di settembre 1468, nel convento degl'Ingesuati: ed è singolare questa disposizione, che nessun testamento o codicillo suo dovesse aver valore, se non vi si trovasse ripetuta la formula Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. E difatti, tal formula è solennemente ripetuta nel codicillo che fece il 21 novembre 1469 in Roma, dove morì quello stesso anno e fu sepolto nella chiesa della Minerva, con quest' epigrafe:

NICOLAO STROZZIO LEONARDI FILIO.
ROMA MIHI TRIBVIT TVMVLVM
FLORENTIA VITAM.
NEMO ALIO VELLET NASCI
ET OBIRE LOCO.
MCCCCLXVIIII.

32. Pag. 26.

33. Lettera XIII, con l'annotazione (A).

34. Lettera LVII, pag. 500.

35. Storia della Repubblica di Firenze; II, 64.

36. È noto che per quelli del Poggio s'intendevano i partigiani di Luca Pitti, che murava sul Poggio Baroncelli il poi granducale palagio: e per l'opposto, i Medicei si dicevano del Piano.

37. Ved. alla pagina 256, in un quasi presentimento della Congiura, che ebbe nome dai Pazzi, quelle parole notevoli circa allo star co' Medici.

38. Lettera LXVIII. Importante è ciò che dei Pitti scrive il Parenti.

39. Lettera XLVI, pag. 405.

40. Lettera LXXI.

41. Lettera XLII, pag. 366.

42. Lettera LII.

43. Lettera XLIV, con l'annotazione (A), e altre Lettere in cui torna a parlare del matrimonio Ardinghelli, sino alla LXVIII.

44. La prima moglie di Filippo, la Fiammetta Adimari, fu riposta (come dice il Libro de' becchini) in Santa Maria Novella il 24 d' agosto 1476. La Gianfigliazzi visse fino all' aprile 1525, essendosi celebrate a' dì 14 le messe per lei nella detta chiesa. Aggiungerò che la piccola Lucrezia fu riposta nelle sepolture gentilizie il 25 febbraio 1473.

45. Trovo che il suo corpo fu messo in deposito nella chiesa dell'Ascensione e che il fratello Filippo gli pose una memoria in Santa Maria di Portanuova. -- E solo dopo la morte di Lorenzo, fermò anche Filippo stabilmente in Firenze la sua dimora. « Avendo » (così scriveva di Napoli, il 13 novembre del 1479, a don Alfonso d'Aragona) « ormai presso che rassettato le cose mie di qua, sono in ordine a partire ». E gli chiedeva un salvacondotto per la sua persona con dieci cavalli, due muli di carriaggio, e quattro o sei persone a piedi.

46. Di questo Libro segnato A si parla nel volume a pag. 62; e me ne sono talora giovato nelle Annotazioni. Appartiene all'Archivio del Principe Strozzi, che fu cortese di prestarmelo.

47. Dal Libro de' becchini si rileva che vi fu riposta il dì 4.

48. Noi dobbiamo tener per vera l' età che assegna Filippo alla madre. Pur diremo, che la portata al Catasto del 1427 le darebbe ventun anno e due mesi: ma la portata non ha nè giorno nè mese.

49. Ecco le parole dello Storico, nel libro VII: « Si vide cosa in quel tempo nella nostra città ancora non veduta, che scudo il tempo quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che senza mangiar carne si digiuni, quella sua Corte, senza rispetto della Chiesa o di Dio, tutta di carne si cibava ».

50. Lettera LXIII, pag. 537.

51. Lettera V, pag. 72.

52. La Donna, scritti vari editi ed inediti (Milano, 1868), pag. 313.

53. Questo pensiero sta, come gemma in anello, racchiuso in quel Sonetto che il mio amico e collega prof. Isidoro Del Lungo pose nel novembre del 1874 per accompagnare alla nobile giovinetta fiorentina Laura de' Conti Guicciardinì, che andava sposa ne' Forteguerri di Pistoia, la quinta di queste Lettere (ved. la nota a pag. 67 del presente volume); ond' è oggi meno vero quello che detto a pagine xv, che l'Alessandra Macinghi non avesse un poeta. E qui, perchè degno di essere meglio conosciuto, perchè quasi fiore tra i rovi di questo Proemio erudito, lo ristampo:

Candido, riverente, amor di figlia
    E di sorella; e in cor schiva e digiuna
   D'ogni basso pensier, trepida, ad una
   Segreta speme alzar dubbie le ciglia;
Poi, come amor nell' anima consiglia,
   Lungo vegliare a studio della cuna;
   E nella lieta e nella ria fortuna
   Operare e pregar per la famiglia;
E carità di patria; e fede in Dio:
   Per tai costumi la tua glorïosa
   Cittade, o Laura, un dì stette e fiorio
Tel rammenta la voce affettuosa
   D' un' antica gentil, ch' oggi t'invio,
   Nelle tue case a salutarti sposa.


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